Sul Romanzo, Anno 2 n. 5, nov. 2012

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Illustrazione di Mr. Mess, aka Mattia Caracciolo.

Novembre 2012

Webzine - Anno 2, n°5

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Tra creatività, conservazione e desiderio di eternità.


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Editoriale di Morgan Palmas

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Alloro poetico e alloro trionfale di Regolo Adicandi

pag. 8

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Machiavelli was my tutor di Alberto Carollo

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Shakespeare, il potere e The Tempest di Monica Raffaele Addamo

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Voltaire l'illuminista e Federico il sovrano di Vito Manfreda

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Ibsen: un nemico del popolo? di Lorena Martinelli

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La ribellione di Étienne di Maria Antonietta Pinna

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Fernando Pessoa: un sognatore nostalgico fra Salazar e Mussolini. Intervista a José Barreto di Marcello Sacco

pag. 18

pag. 28

pag. 34 pag. 43

pag. 48

pag. 68

pag. 74 Sul Romanzo

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Da Tucholsky a Canetti: fenomenologia di un gioco spietatamente banale di Daniele Duso

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Intellettuali e Fascismo: da Croce e Gentile a D'Annunzio, Marinetti, Pirandello e Ungaretti di Elena Spadiliero

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Iconografia del potere: le immagini come strumento di propaganda di Annamaria Trevale

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Gli intellettuali nelle società postmoderne: una voce ancora possibile di Emiliano Zappalà

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Poteri senza intelletti, poteri morti di Leonardo Palmisano

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Vonnegut e la fantascienza militante di Carlotta Susca

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L'intellettualità che manca: Aldo Busi, ovvero l'illuminista che osa di Michele Rainone

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Direttore: Morgan Palmas Caporedattore: Gerardo Perrotta Redattori: Dario Dal Cengio Daniele Duso Davide Ecatti Marta Malengo Lorena Martinelli Leonardo Palmisano Stefano Verziaggi Art Director: Daniele Vignato Hanno collaborato a questo numero: Monica Raffaele Addamo, Regolo Adicandi, Alberto Carollo, Daniele Duso, Vito Manfreda, Lorena Martinelli, Morgan Palmas, Leonardo Palmisano, Maria Antonietta Pinna, Michele Rainone, Marcello Sacco, Elena Spadiliero, Carlotta Susca, Annamaria Trevale, Emiliano Zappalà. Si ringraziano: Carlo Scortegagna, Web master; Mr. Mess aka Mattia Caracciolo, per l’illustrazione di copertina; Pasquale Mastrogiacomo, per la rappresentazione fotografica del quadro Convention; Antonio Salerno, per la rappresentazione fotografica del quadro La dama bianca; bass_nroll, Ken Douglas, Kieran Guckian e Mirko Isaia, per le foto fornite in licenza Creative Commons. Per informazioni, contatti con redattori e/o autori, proposte di collaborazione o pubblicità: webzine@sulromanzo.it

In alto: Dentro e fuori, George Grosz, 1926. Nella pagina a fianco: Convention, Pasquale Mastrogiacomo.

Note legali: “Sul Romanzo - Rivista elettronica di informazione e cultura” è in fase sperimentale, pertanto non rappresenta una testata giornalistica e l’aggiornamento dei contenuti avviene senza nessuna periodicità. Non può dunque essere considerato un prodotto editoriale ai sensi della legge n. 62 del 2001. Gli autori sono responsabili per i contenuti dei loro articoli. Tutti i contenuti della rivista sono rilasciati con licenza Creative Commons, Attribuzione - Non commerciale - Condividi allo stesso modo 2.5 Italia. Per le rappresentazioni fotografiche, si invita a contattare la Redazione (webzine@sulromanzo.it) che fornirà tutte le informazioni necessarie per il Copyright. Sul Romanzo dichiara la propria disponibilità ad adempiere agli obblighi di legge verso gli eventuali aventi diritto delle immagini pubblicate per le quali non è stato possibile reperire il credito. Sul Romanzo

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Editoriale

di Morgan Palmas

Il potere è l’unica forma di creatività votata alla conservazione. La sua essenza è l’ecumenismo paternalistico come forma di affermazione che nega l’altro. Il suo fulcro carismatico è la trasversalità Destra-Sinistra, categorie ormai superate in quest’epoca che, postmoderna senza mai essere stata moderna, è finita avviluppata in una rete di egemonia tendente a nascondere la vera sede del potere, il quale, come dimostra la crisi che da finanziaria è stata virata in economica solo per trovare un capro espiatorio finale nell’ultima ruota del carro, risiede altrove rispetto ai luoghi che ne simulano ancora l’esercizio con i soliti rituali di un’inconsistente democrazia che qualcuno, mosso a pietà, ha definito democratura solo perché incapace di rispondere alla fatidica domanda su chi detenga davvero il potere oggi. La lettura contemporanea della democrazia scorre attraverso la padronanza di una consapevolezza attiva: dovremmo essere animali politici che sminuzzano i legami pericolosi fra potenti. In questo, il ruolo dell’intellettuale possiede ancora oggi un significato vero: invadere le zone d’ombra per illuminarle e palesarne le contraddizioni. Gli intellettuali dovrebbero rinnovarsi come portatori di senso, orientando non le risposte, ma le domande dei cittadini: un’operazione radicale di pulizia interiore, un processo di induzione e deduzione, una rivelazione delle connivenze che il potere alimenta, facendole sembrare semplici incoerenze. Il nuovo numero della Webzine tenta di addentrarsi nelle pieghe letterarie del rapporto fra intellettuali e potere, campo di battaglie acerrime e opportunistiche, dolorose e appassionate: la partecipazione alla vita sociale d’un Paese non è l’unica possibilità di confronto con i poteri forti; i fili che legano la brama di giustizia o anche semplicemenSul Romanzo

te la curiosità responsabile e le sorti dei propri simili raccolgono sfide segrete o pubbliche. La lucidità concettuale che dovrebbe essere propria degli intellettuali alterna nella storia incontri e conflitti con il potere, producendo (in)giustizie che trattano i diritti come merce di scambio per l’appartenenza a un’identità politica e culturale. La letteratura, benché immune da una necessaria militanza, colpisce l’eventuale disponibilità psicologica e ideologica a tollerare sistemi di potere legittimati dalla sovranità popolare, che è specchio dei tempi. La sindrome dell’attaccamento al potere di certi intellettuali condiziona l’immaginario collettivo più di quanto potrebbe sembrare a una prima interpretazione, perché gli interessi personali, ampliati da ambizione e narcisismo, sfuggono anche agli occhi smaliziati. Il risveglio dei popoli è un’azione ricorsiva di vigilanza, una generazione continua di codici che ponga sotto la lente del microscopio il confine fra potere e intellettuali. Nella speranza di rischiarare la strada, di frequente afflitta nelle cortine di fumo, grazie alle lungimiranti visioni di alcuni intellettuali, condividiamo con voi lettori testimonianze e azioni di diversi exemplum, i quali, slittando dall’utilità ai diritti e viceversa, con (s)vantaggio dei popoli, fondano e rifondano di continuo codici d’interpretazione a distanza di anni o secoli. Il letto del Rubicone del conflitto d’interesse fra intellettuali e potere è gravido d’acqua non soltanto per scelta del singolo o pura casualità, ma per il recidivismo ostinato di cittadini che, con il rischio di una pena più alta, accettano di informarsi, domandarsi e rispondersi senza demordere, senza abbattersi, senza delegare ai poteri la propria identità. Buona lettura. Morgan Palmas webzine@sulromanzo.it n° 5 • Novembre 2012

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Dialoghi a distanza

Mo Yan, Premio Nobel per la Letteratura 2012.

Per tutta la mattina, lo zio Liu si ammazzò a trasportare pietre, come un uomo senz’anima.

– Signore! – urlò lo zio Liu. Il signore gli diede un’altra frustrata. – Signore, perché mi picchi? – chiese lo zio. L’uomo fece oscillare il frustino che aveva in mano e disse, ridendo: – Giusto per fartelo assaggiare, figlio di cagna.

(Mo Yan, Sorgo rosso, 1988)

(Mo Yan, Sorgo rosso, 1988)

Se mi frusti vuol dire che non mi scacci! Frustami! Se mi frusti mi lasci la tua impronta... (Fëdor Dostoevskij, L’idiota, 1868)

Franz von Stuck, Sisifo che trasporta il masso, 1920.

La notizia della scomparsa del suo cadavere si diffuse nel villaggio, passando di bocca in bocca, di generazione in generazione, trasformandosi in una bella leggenda.

Atmosfere consonanti Dopo che lo zio fu ridotto a un nucleo di carne, si videro i suoi intestini che si muovevano e si contorcevano; nugoli di mosche verdi riempivano l’aria.

(Mo Yan, Sorgo rosso, 1988)

(Mo Yan, Sorgo rosso, 1988)

Stettero in ascolto, e l’unico rumore che si sentiva era il ronzio delle mosche sulle budella accumulate in disparte. […] Il mucchio delle budella era un grumo nero di mosche che ronzavano come una sega. (William Golding, Il Signore delle mosche, 1954)

Resurrezione di Cristo, Raffaello Sanzio, 1501-1502. Museu de Arte de São Paulo (BR).

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Sul mento di Qian Ding, il nuovo magistrato del distretto di Gaomi, cresceva una barba splendida, simile a una cascata. Alla sua prima apparizione nella sala delle udienze, fu proprio questa a mettere in soggezione i vari funzionari, infidi come demoni, e i diversi ranghi delle guardie, feroci al pari di lupi e tigri. (Mo Yan, Il supplizio del legno di sandalo, 2001)

Io, una debole donna, certo non avrei mai immaginato di impugnare il coltello che avrebbe ucciso mio suocero. Scuola veneta, Figura di magistrato con veste bordata di ermellino, post 1600 - ante 1610.

(Mo Yan, Il supplizio del legno di sandalo, 2001)

Lucas Cranach il Vecchio, Giuditta con la testa di Oloferne, terzo decennio del XVI secolo.

Quando cadde la testa di Shanzi, il sole bianco si tinse di rosso. (Mo Yan, Sorgo rosso, 1988)

Ma Gesù, dando un forte grido, spirò. Il velo del tempo si squarciò in due, dall’alto in basso. (Vangelo di Marco, 15, 37-38)

Nello spazio liscio e immacolato innumerevoli corpi celesti si muovevano avanti e indietro come le spolette di un telaio. (Mo Yan, Grande seno, fianchi larghi, 1996)

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Alloro poetico e alloro trionfale di Regolo Adicandi

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Il fatto che la pianta d’alloro orni le tempie dei generali vittoriosi come dei poeti è già un segnale del legame che unisce l’intellettuale all’uomo di potere. Fin da epoche remote, tale rapporto è sempre stato stretto: a volte conflittuale, a volte molto proficuo, sempre e comunque utilitaristico per entrambe le parti in campo. Moltissime opere letterarie hanno visto la luce perché finanziate direttamente da un signore o perché tale signore provvedeva al sostentamento dell’autore. C’è da chiedersi: l’Eneide e le Georgiche sarebbero state scritte anche senza Augusto? Seneca si sarebbe occupato di filosofia morale se non avesse dovuto sovrintendere all’educazione del giovane Nerone? E se il cardinale Ippolito d’Este non avesse avuto al suo servizio Ariosto, questi avrebbe avuto i mezzi per scrivere l’Orlando Furioso? E, in tempi più recenti, Jacopo Ortis avrebbe avuto una fine meno drammatica, se Napoleone non avesse tradito le speranze degl’Italiani col Trattato di Campoformio?

1 - Napoleone, in un ritratto del 1805, e Dante Alighieri, nel celebre profilo di Botticelli. 2 - Virgilio legge l'Eneide ad Augusto e Ottavia, Angelica Kauffmann, 1788. Olio su tela, Hermitage, San Pietroburgo, (RUS). 3 - Nerone e Seneca, Eduardo Barrón, 1904. Museo del Prado, Madrid (ES).

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Se è noto e palese che carmina non dant panem, è altresì vero che il potente di turno ha bisogno dell’intellettuale per legittimare il proprio governo e per tramandare ai posteri le proprie glorie. A quanto pare, un umile scrittore, con i soli mezzi del proprio intelletto, può fare in modo che le conquiste dei generali e l’operato degli statisti non vengano divorati dall’azione del tempo, ma possano far sentire la loro eco nelle epoche successive: la poesia, scrive per l’appunto Orazio, è monumentum aere perennius, un monumento più duraturo del bronzo che non farà mai morire del tutto. Il governatore accorto è conscio di tale possibilità e sa che un’opera letteraria che condanni il suo operato o la legittimità del suo potere è pericolosa quanto un esercito nemico: di quanti Papi e nobili ci si ricorda il nome non per le loro azioni, ma perché Dante li ha collocati come dannati all’Inferno, come purganti nel Secondo Regno o come beati in Paradiso? Ora, poiché è impresa ardua eliminare tutti gli scritti di un autore, tanto vale assoldarlo e farne un poeta cortigiano, un araldo ufficiale, un poeta nazionale. Il primo poema ideato per tale scopo può essere considerato l’Eneide: benché la propaganda e l’ideologia augustee fossero già ravvisabili nelle Bucoliche e nelle Georgiche, è nel poema epico che la Pax Augusta rappresenta la conclusione delle sanguinose guerre civili e il vantaggio per tutti che Ottaviano diventi Augusto. Nel VI canto, Virgilio descrive

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Ottaviano come un nuovo Romolo: mentre il figlio di Marte ha fondato Roma, Augusto la salverà e darà inizio a una nuova Età dell’oro. Sarà proprio il princeps, in seguito, a non ottemperare alla volontà del poeta mantovano che, in punto di morte, avrebbe voluto dare alle fiamme il suo capolavoro: Ottaviano affiderà a Tucca e Vario la revisione e la pubblicazione del poema. Il desiderio platonico di porre i filosofi alla guida dello Stato sembrava essere stato realizzato dalla reggenza di Seneca durante il “qunquiennio felice” del 54-59 d.C., in cui l’autore di Cordova guidò l’Impero occupandosi dell’educazione del giovane Nerone, prima che questi ascendesse al trono. Il filosofo, nel De beneficiis, cercò di trasmettere al futuro imperatore quale fosse il corretto comportamento di un principe, sostenendo la tesi secondo cui, adottando un atteggiamento di benevolenza e filantropia verso i sudditi, il governante avrebbe ottenuto da loro consenso e dedizione. Sfortunatamente, gli intenti di Seneca non hanno avuto buon esito, ma la sua riflessione d’impianto stoico del rapporto tra potere e intellettuale e se il sapiente debba o meno partecipare all’attività politica è attuale ancora oggi. Medesima sorte colpì un altro grande politico filosofo: Severino Boezio, l’ultimo autore antico e il primo autore medievale. Appartenente all’alta

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Letteratura al servizio del governo, regnanti letterati, ma anche letteratura come interpretazione e strumento d’indagine del potere. Il primo poetafilosofo della letteratura italiana, come si sa, fu Dante; egli scrisse il De monarchia, un vero e proprio trattato in cui esponeva la sua utopia politica di una monarchia universale come garanzia di pace per il mondo e l’autonomia dei due poteri, entrambi con legittimazione divina, all’epoca in contrasto tra loro: il papato e l’impero. Il Fiorentino trattò questo tema pure all’interno della Commedia anche perché, non lo si dimentichi, Dante subì l’esilio a causa della sua partecipazione politica e continuò a confrontarsi col potere dei vari Signori nelle corti d’Italia per il resto della sua vita da esule.

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Anche il poeta di Laura, nonostante sia stato combattuto tutta la vita tra otium e negotium e, seppure con intenti e con una prospettiva diplomatica diversi da quelli dell’illustre Esule, fa del potere e della politica temi delle sue produzioni poetiche: una su tutte, la celebre canzone Italia mia (RVF CXXVIII) in cui Petrarca si rivolge ai Signori d’Italia, esortandoli a rinsaldare il loro sentimento di fratellanza per dare così pace alla patria comune. Ecco, quindi, un caso di intellettuale che, dall’alto della sua autorità internazionale, funge da coscienza etica a chi deve prendere decisioni politiche.

aristocrazia romana, console nel 510, consigliere e ministro plenipotenziario di Teodorico, fu accusato di tradimento contro i Goti, incarcerato a Pavia e condannato a morte nel 526. Dante, nel X del Paradiso, lo ricorda tra gli spiriti sapienti: il patrizio scrisse, in prigionia, il De consolatione philosophiae, trattato di grande importanza e diffusione lungo tutto il medioevo e fondamentale, appunto, per Dante stesso (che, per primo, riprenderà la struttura del prosimetro del De consolatione nella Vita Nuova). Nel corso della storia del nostro Occidente europeo, è anche accaduto che un potente non si circondasse di poeti e letterati solo a fini propagandistici e memoriali, ma che percepisse come un vero e proprio prestigio avere a corte artisti, letterati e filosofi. È questo il caso, per esempio, di Federico II di Svevia, stupor mundi, che promosse e coltivò egli stesso la letteratura (scrisse un trattato sulla caccia col falcone, il De arte venandi cum avibus) e presso la cui reggia sbocciò il fiore della lirica che dalla Provenza attecchirà in Toscana col nome di Stilnovo. Secoli dopo, anche Lorenzo il Magnifico, pure lui poeta (famoso il poemetto della Nencia da Barberino e la celebre Canzona di Bacco), accoglierà attorno a sé importanti intellettuali e promuoverà la Raccolta Aragonese, antologia della lirica italiana.

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digma dello scontro tra la tradizione aristotelica dell’ipse dixit e il nuovo metodo scientifico-sperimentale che starà alla base della scienza moderna. La costrizione all’abiura e la relegazione a vita dello scienziato sono l’ennesimo esempio di come, nonostante il potente di turno faccia il possibile per bloccare la diffusione delle idee che lo possano minacciare, l’intellettuale riesca quasi sempre a far filtrare il proprio messaggio.

6 4 - Ritratto di Federico II con il falco (dal De arte venandi cum avibus). 5 - Ritratto di Lorenzo il Magnifico, Giorgio Vasari, 1533-1534. Galleria degli Uffizi, Firenze. 6 - Marsilio da Padova. 7 - Ritratto di Vittorio Alfieri, François-Xavier Fabre, 1793. Galleria degli Uffizi, Firenze.

Uno tra i primi trattati di teoria politica redatti con una prospettiva laica fu il Defensor pacis di Marsilio da Padova: professore e rettore dell’Università di Parigi, terminò la sua opera nel 1324 e la dedicò all’imperatore, nonché suo protettore, Ludovico il Bavaro. Le teorie proposte dal maestro italiano sono un segnale della definitiva crisi dell’istituzione imperiale universalistica e preannunciano la nuova sensibilità culturale dell’Umanesimo e del Rinascimento, in cui verrà elaborato il moderno concetto di Stato. Nel trattato, viene rivendicata l’origine laica dell’organizzazione politica, intesa come conseguenza della naturale tendenza dell’uomo ad associarsi: la sovranità, quindi, risiede nel popolo, nell’insieme dei cittadini, senza la necessità di alcuna investitura ecclesiastica; ne consegue che anche l’autorità ecclesiastica dovrebbe fondarsi non sul Papa, ma sul Concilio dei vescovi, diretta espressione della totalità dei fedeli da cui trae legittimazione.

Con l’avvicinarsi della fine dell’Ancien Régime e la diffusione delle idee libertarie ed egalitarie dell’Illuminismo s’inizia a sentire nell’aria un vento nuovo, che prelude all'imminente stagione romantica: Vittorio Alfieri, da aristocratico “rinnegato” (per non essere legato a un monarca da obblighi di sudditanza cede i propri beni alla sorella in cambio di un vitalizio), darà alle stampe, nel 1786, il trattato Del principe e delle lettere, in cui sosterrà la necessità del poeta di essere libero da vincoli per poter assolvere al suo compito di banditore della verità; nello stesso anno, uscirà anche un altro trattato, Della tirannide, in cui l’autore arriverà a giustificare il tirannicidio. Passione politica e patriottica che, con il periodo romantico, pervaderà gli animi di poeti e scrittori. Ugo Foscolo può ben rappresentare questo coinvolgimento sia con la sua vita sia con le sue opere artistiche che, soprattutto all’inizio, sono molto intrise di autobiografismo. Il tema della patria e

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La difficile convivenza tra governante e studioso, come ben s’immagina, continua nei secoli. Nell’età moderna, uno dei casi più noti e salienti del conflitto tra intellettuale e potere è costituito dai processi a Galileo intentati dal Sant’Uffizio: para-

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i sentimenti prima filo-francesi e poi antinapoleonici dopo il “tradimento” di Campoformio emergono di sovente nei suoi scritti: Jacopo Ortis subisce il precipitare della situazione politica e Foscolo, già milite nei cacciatori a cavallo, è costretto a lasciare il territorio dell’ex Serenissima, oramai sotto il possesso degli austriaci (che continuerà a combattere come tenente della guardia nazionale). Sull’onda del patriottismo risorgimentale ritornerà in auge la figura del poeta vate che, con i suoi versi, canterà le bellezze, le gesta e la pretesa legittimità storica del nuovo potere costituito: Carducci e, successivamente, Pascoli e D’Annunzio. Nella prima metà del Novecento, efficace organizzatore culturale fu Filippo Tommaso Marinetti: sensibile ai nuovi rapporti tra pubblico e mezzi di comunicazione di massa, l’autore del Manifesto del Futurismo colse ed esaltò il sentimento individualista e antidemocratico che serpeggiava in Europa traducendolo in un’avanguardia che romperà con la tradizione artistica precedente come, sul piano politico, faranno i regimi dittatoriali: il nazionalismo e il bellicismo di Marinetti esaltarono l’impresa libica, appoggiarono l’interventismo nella Grande Guerra e l’avvento del Fascismo che, nel 1929, l’onorò col titolo di accademico d’Italia. Anche se le forme di governo e gli assetti sociali sono più volte mutati nel corso dei secoli, non si può dire lo stesso per quanto concerne il rapporto tra chi muove le leve del potere e chi gode di un’autorità intellettuale riconosciuta o che, comunque, riesce a muovere la coscienza critica dei cittadini. È altresì curioso notare anche quali forme differenti attualmente declinino questo rapporto in base all’ordinamento politico di una nazione: in un clima di cambiamenti e scelte politiche, in Italia (come anche nelle campagne elettorali che hanno preceduto le recenti elezioni statunitensi) sono numerosi i partiti che arruolano intellettuali da tutti i campi dello scibile per dare autorevolezza, validità, sostegno e, in un certo senso, legittimazione culturale al programma proposto agli elettori; in Cina, come in altri Paesi retti da un regime, gli intellettuali sono generalmente visti con diffidenza e, quando possibile, censurati e allontanati dalla scena politica.

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8 - Giosué Carducci, fotografato attorno al 1870. 9 - Ritratto di Ugo Foscolo, François-Xavier Fabre, 1813. Biblioteca Nazionale di Firenze.

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Reazioni diverse Pertanto volendo io levar dalla mente delle Eminenze V.re e d'ogni fedel Cristiano questa veemente sospizione, giustamente di me conceputa, con cuor sincero e fede non finta abiuro, maledico e detesto li sudetti errori e eresie, e generalmente ogni e qualunque altro errore, e eresia e setta contraria alla S.ta Chiesa; e giuro che per l'avvenire non dirò mai più né asserirò, in voce o in scritto, cose tali per le quali si possa aver di me simile sospizione; ma se conoscerò alcun eretico o che sia sospetto d'eresia lo denonzierò a questo S. Offizio, o vero all'Inquisitore o Ordinario del luogo, dove mi trovarò. [...] Io Galileo Galilei sodetto ho abiurato, giurato, promesso e mi sono obligato come sopra; e in fede del vero, di mia propria mano ho sottoscritta la presente cedola di mia abiurazione e recitatala di parola in parola, in Roma, nel convento della Minerva, questo dì 22 giugno 1633. Io, Galileo Galilei ho abiurato come di sopra, mano propria. Ritratto di Galileo Galilei, Justus Sustermans, 1636. Galleria degli Uffizi, Firenze.

(Abiura di Galileo Galilei, 22 giugno 1633)

Forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell'ascoltarla.

(Giordano Bruno, 8 febbraio 1600, rivolto ai cardinali inquisitori).

Giordano Bruno, in un'incisione del XVIII sec. Sul Romanzo

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Machiavelli was my tutor

La folgorante attualità de Il principe e la crisi della politica contemporanea

di Alberto Carollo Firenze era inquieta e in tumulto mentre Machiavelli andava formandosi, alla fine del Quattrocento. Arretriamo un po’ nel tempo per delineare lo scenario: nel 1424, la città subì una pesante sconfitta contro i Visconti; la Signoria varò il “catasto”, il primo tentativo di imporre quella che oggi definiremmo una “Patrimoniale”, ovvero tassare le famiglie in base alla loro ricchezza, attingendo soprattutto da mercanti e banchieri. In quel momento, Cosimo de’ Medici si rese conto che, per tutelare i propri interessi, era necessario un controllo più diretto sulla politica. Con prudenza iniziò una graduale scalata al potere, riuscendo a sbaragliare tutti i nemici e a farsi acclamare dal popolo come Pater Patriae. Da allora, i Medici dominarono la città per quasi tre secoli. Dell’età di pace e prosperità che fu quella di Lorenzo il Magnifico (1449-1492) già sappiamo. Con la cacciata di Piero il Fatuo, le istituzioni comunali entrarono in crisi; nel vuoto di potere venutosi a creare, entra in campo Girolamo Savonarola. Il frate non era certo quello che oggi chiameremmo un “professionista della politica”, ma, nella generale mancanza di riferimenti e valori, riesce a farsi strada con la fascinazione della lettura e della predicazione. Savonarola esercitò una grande influenza sulla vita spirituale della città e fu il principale promotore di un Consiglio Grande, aperto a circa 3.600 cittadini. La sua Costituzione, di ispirazione teocratica, fu, però, un fallimento, rivelatore di una fondamentale incapacità politica delle classi sociali della Repubblica e canto del cigno dell’idea comunale. Come scrive Federico Chabod, possiamo immaginare Niccolò Machiavelli che, in un angolo della piazza, ascolta, sdegnato e indifferente, le prediche del Savonarola e ne analizza le incongruenze con la sua profonda coscienza della realtà. Il prossimo anno, Il Principe di Machiavelli, scritto nel 1513, compirà 500 anni. Si tratta dell’opera italiana più letta nel mondo (con Pinocchio), di quella più discussa, amata e odiata della letteratura politica di tutti i tempi; un libro nato dalla necessità di trovare una risposta alla profonda crisi politica e militare dell’Italia del suo tempo, di conservare integro “l’organismo-Stato”, di alleviarne le pene, di trovare rimedi ai suoi mali con un piede nella «continua lezione delle cose antiche» e l’altro nell’«esperienza delle cose moderne» che derivava a Machiavelli dal servizio pubblico. La portata rivoluzionaria e innovativa del Principe è quella di indagare la politica nella sua “verità effettuale” (termine coniato dallo stesso Machiavelli) e non ideale,

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1 rivendicandone l’autonomia da qualsiasi istanza religiosa o morale. Questo assunto non vuole negare il valore della morale. La figura sinistra di un Machiavelli cinico e subdolo consigliere dei potenti, divulgata nei secoli condensando il suo pensiero nella facile quanto mistificatrice frase «Il fine giustifica i mezzi» (peraltro mai vergata in questi termini), è fuorviante. Machiavelli riteneva che l’uomo fosse per natura spinto dalla volontà di accrescere il proprio potere sul prossimo; nella politica, viene individuata una duplice natura, umana e bestiale, simboleggiata nell’immagine mitica del centauro. Dalla parte crudele e senza fede della politica consegue la necessità, se le circostanze lo richiedono, di servirsi del male: «non partirsi dal bene, potendo, ma saper intrare nel male, necessitato». Con Machiavelli siamo ben distanti dall’idea odierna di democrazia; il fine supremo, quello che in sé è un bene, è «vincere e mantenere lo stato», volgersi esclusivamente alla “ragion di Stato”: «(…) nelle azioni di tutti li uomini, e massime de’ principi, dove non è iudizio a chi reclamare, si guarda al fine» (Il Principe, XVIII). Machiavelli è un

nostro contemporaneo perché i suoi scritti, pur originati e dipendenti da un preciso contesto storico, illustrano alcune leggi che da sempre hanno retto il mondo e suscitano, anche nel nostro presente, riflessioni attorno a questioni cruciali come “chi debba avere il potere”, “governare con equità e giustizia” e “qual è il buono Stato”. Lo Stato viene antropomorfizzato nella figura del Principe (Russo ha trovato la calzante definizione di “Stato-individuo”); il fine superiore è il bene collettivo, pure se calato dall’alto. Il consenso del popolo è, però, essenziale e il Principe deve, con la sua virtù, contenere e imbrigliare l’originaria malizia degli

1 - Ritratto di Niccolò Machiavelli, Santi di Tito, Palazzo Vecchio, Firenze. 2 - Il Principe, copertina originale della I edizione, 1513. 3 - Il Principe, manoscritto originale, Niccolò Machiavelli, 1513. 4 - Ritratto di Girolamo Savonarola, Fra' Bartolomeo, 1498. Museo di San Marco, Firenze. Sul Romanzo

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uomini. Per rifarci alla Storia più recente, un Gheddafi che reprime crudelmente i suoi sudditi per mantenere i propri privilegi non ha ragion d’essere, in questa prospettiva machiavelliana (l’ambito è in questa sede puramente speculativo, limitato all’analisi politica). Così, per Hitler, l’aver come fine “il bene della Germania” non poteva essere assunto a giustificazione di un genocidio. L’odierno dibattito filosofico sulla biopolitica deve molto a Machiavelli. Per definizione, quest'ultima è un’area d’incontro tra potere e sfera della vita e, come nella teoria galenica, la salute del corpo politico non è garantita se vi è la prevalenza di un organo rispetto a un altro, di un umore rispetto a un altro, ma è data dal bilanciamento del loro contrasto e confronto. Allo stesso modo, i poteri interni dello Stato (Monarca, Presidente, gruppi sociali) devono essere adeguatamente rappresentati e potersi bilanciare per arginare le volontà prevaricatrici di oligarchie o di singoli. Questo discorso è strettamente correlato a quello sull’ordinamento militare, che Machiavelli considerava ai suoi tempi uno dei fondamenti dell’esistenza politica dello Stato. In un’Italia attraversata da numerosi eserciti stranieri, il segretario fiorentino polemizzava fortemente con le milizie mercenarie. Per garantire la sicurezza di uno Stato, l’esercito doveva essere formato da «armi proprie», da sudditi e cittadini motivati. Le “armi” (gli eserciti) chiamati a difen-

derci «(…) sono, per chi le chiama, quasi sempre dannose: perché, perdendo, rimani disfatto; vincendo, resti loro prigione» (Il Principe, XIII). Un discorso, questo, che trova addentellati nel “debito” verso gli alleati contratto con gli esiti dell’ultima guerra mondiale, in riferimento al Patto Atlantico e alla continua ingerenza, pure nella nostra politica interna, degli Stati Uniti. Le basi strategiche americane sul territorio italiano ne costituiscono un chiaro esempio. Non è un caso che i Capi di Stato del nostro mondo globalizzato, i consigli direttivi di grandi corporation, movimenti filosofici come i neocon (gli allievi di Leo Strauss che influenzano la politica estera americana), futuri manager e ancora politologi come Harvey C. Mansfield jr. subiscano l’attrazione de Il Principe. «What would Machiavelli do?» si chiedeva Robert Wright sul New York Times nel 2004, analizzando la disastrosa gestione dell’amministrazione G. W. Bush. Sorprende l’eterogeneità dei lettori di Machiavelli: Mike Tyson lo legge in carcere con impegno e passione, sostenendo che il mondo è di Machiavelli; il cantante rap Tupac Shakur in un suo brano declama: «Machiavelli was my tutor». L’accademico Giulio Ferroni, autore di Machiavelli o dell’incertezza. La politica come arte del rimedio, risponde scherzosamente in un’intervista che, se fosse nato oggi, il Segretario fiorentino sarebbe stato probabilmente un europeista convinto. C’era in lui un

5 - Robert Wright. 6 - Giulio Ferroni. 7 - Il rapper Tupac Shakur sulla copertina di Rolling Stone [United States] (31 October 1996). 8 - Il Sacco di Roma del 1527, di Johannes Lingelbach. Metà del 1600 ca.

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forte senso della realtà europea; conosceva bene la politica francese e quella dell’imperatore Massimiliano, pure se il suo obiettivo era quello della difesa della realtà municipale fiorentina. In una prospettiva più ampia, Ferroni sostiene che Machiavelli non enfatizzerebbe le origini cristiane del Vecchio continente; più che esportare democrazia nel mondo sentirebbe il bisogno di mantenerla là dove già c’è. Del resto, la riflessione machiavelliana si è sempre fondata sulla precarietà della condizione umana e politica: «Non vi è al mondo nessuna cosa eterna», scrive nei Discorsi sopra la prima deca di Tito Livio, ribadendo la sua consapevolezza della caducità dei corpi politici, destinati alla corruzione né più né meno dei corpi naturali. Sempre nei Discorsi, Machiavelli scrive che «la repubblica ha maggior vita del principato»; questa sua convinzione è supportata dall’evidenza che alcuni regimi politici presentano margini di “libertà” e “liberalità” tali da permettergli una maggiore stabilità e durata nel tempo, in quanto si ricollegano più saldamente alle nostre radici antropologiche, consentendo una soddisfazione più intensa dei bisogni e dei desideri di cui è fatta la vita. Teniamo nel dovuto conto la lezione di Machiavelli nell’accingerci a ricostruire l’edificio politico e sociale del nostro futuro in questa Italia «sanza capo, sanza ordine, battuta, spogliata, lacera, corsa» (Il Principe, XXVI). Affinché la Storia non continui a permanere lettera morta.

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Bibliografia: Niccolò Machiavelli, Il Principe, Einaudi, Torino 1995 (Nuova edizione a cura di Giorgio Inglese, con un’appendice di Federico Chabod). Harvey C. Mansfield jr., Taming the Prince, The Free Press, Collier MacMillan Canada, 1989. Giulio Ferroni, Machiavelli o dell’incertezza. La politica come arte del rimedio (Donzelli, Roma, 2003). Robert Wright, What Would Machiavelli Do?, “The New York Times” (New York), 2 agosto 2004. Roberto Esposito, Un mondo machiavellico, (La Repubblica, 06/08/2012).

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When the sea is. Hence! What cares these roarers for the name of king? To cabin: silence! Exit. rouble us not. Gonzalo Enter Mariners. Good, yet remember whom thou hast aboard. Boatswain Boatswain Heigh, my hearts! cheerly, cheerly, my hearts! None that I more love than myself. You are a yare, yare! Take in the topsail. Tend to the counsellor; if you can command these elements to master's whist le. Blow, till thou burst thy wind, silence, and work the peace of the present, we will if room enough! di Monica Raffaele Addamo not hand a rope more; use your authority: if you cannot, give thanks you have lived so long, and make Enter Alonso,Boatswain: Sebastian, Antonio, in your cabin forfor the mischance of When the sea is. Hence! Whatyourself caresready these roarers the name Ferdinand, Gonzalo, and others. the hour, if it so hap. Cheerly, good hearts! Out of king? To cabin! silence! Troubleof our usway, not.I say. Alonso Exit. Good boatswain, have Good, care. Where's master? Play whom thou hast aboard. Gonzalo: yettheremember the men. Gonzalo Boatswain I have You great comfort this fellow: methinks he Boatswain: None that I more love than myself. are from counsellor; — if you I pray now, keep below. hath no drowning mark upon him; his complexion is can command these elements to silence, andStand workfast,the Antonio perfect gallows. goodpeace Fate, to of his the Where is the master, boatswain? hanging: make the rope of his destiny our cable, present, we wih not hand a rope youradvantage. authority; you formore. our ownUse doth little If he beif not Boatswain hanged, our case is miserable. Do you not hear him? cannot, You mar our keep your givelabor:thanks you have liv'dbornsoto belong, and make yourself ready cabins: you do assist the storm. Exeunt. in your cabin for the mischance of the hour, if it so hap. Gonzalo Nay, good, be patient. Enter Boatswan. or we run ourselves aground: bestir, bestir.

Shakespeare, il potere e The Tempest

Lo Shakespeare attore era famoso tra i contemporanei per la gravitas con cui interpretava i ruoli di re. Recitare nei propri drammi, nei panni di Riccardo II o del padre di Amleto, pare gli fosse particolarmente congeniale. Di certo, non solo nelle history (i drammi sui re d’Inghilterra) e nelle tragedie, ma perfino nelle commedie, la figura di chi governa è sempre tra le più importanti. Ai re sono quasi sempre riservate le ultime battute, l’ultima parola sul dramma rappresentato. Nella sua imponente biografia di Shakespeare, lo scrittore Peter Ackroyd lo descrive come «posseduto, o ossessionato, dall’interiorità di chi governava»1. Da attore, Shakespeare doveva cogliere bene certe corrispondenze tra chi recita e chi regna: a entrambi è comune il travestimento, l’interpretare una parte. L’identificazione tra le due figure, che oggi appare tanto naturale – e che è perfetta nel personaggio di Riccardo II, il re deposto per inettitudine – fu, osserva ancora Ackroyd, invenzione originale del drammaturgo.

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1 - Ritratto Cobbe di William Shakespeare. Collezione privata. 2 - Queen Elizabeth I ("The Ditchley portrait"), Marcus Gheeraerts the Younger, 1592. National Portrait Gallery, Londra. 3 - Ritratto di Giacomo I d'Inghilterra, Paul van Somer, 1620 ca. Royal Collection, UK. n° 5 • Novembre 2012


Per tutta la sua carriera, del resto, Shakespeare gravitò attorno alla corte inglese e ne godette i favori. Scrisse e recitò con i Lord Chamberlain’s Men, poi diventati i King’s Men, la compagnia di attori che più spesso veniva chiamata a esibirsi al cospetto dei sovrani Elisabetta I e, alla morte di questa, Giacomo I Stuart. Nel 1603, l’ascesa al trono di Giacomo segnò anche la definitiva ascesa sociale dell’attore, drammaturgo e ormai anche impresario William Shakespeare. Uno dei primi decreti emanati da Giacomo fu in favore dei King’s Men, cui il re concedeva di recitare «sia per lo svago dei nostri amati sudditi, sia per il nostro divertimento e piacere»2. Di lì a poco, i King’s Men sarebbero stati nominati «valletti della camera reale», servitori del re.

nobile Macbeth è un atto talmente contro natura da richiedere il concorso di forze infernali. In entrambi i casi, tuttavia, non si tratta certo di allegorie politiche in difesa della monarchia per diritto divino, ma di opere ricche e complesse che mettono in scena il potere in un’età altrettanto complessa, illuminandone le contraddizioni. Siamo nell'età della Riforma e della rivoluzione scientifica, che raccolse l'eredità dell'Umanesimo. Tra tali fermenti, l’immagine del mondo ereditata dal Medioevo non può che essere scossa. Se l’uomo, distorto e contaminato dal peccato, è ormai lontano da Dio, che gli è inconoscibile, allora la corrispondenza tra macrocosmo e microcosmo non regge più, l’analogia tra sovrano in terra e sovrano dei cieli non è più salda. Il diritto divino può essere messo in discussione dalla virtù machiavellica. Macbeth è in combutta con le streghe, eppure ha un’energia inesauribile. Riccardo è il sovrano legittimo, ma, deposto dal più capace Bolingbroke, sembra perdere il suo status sacrale. Sudditi e consiglieri si ritrovano sconcertati, incapaci di seguire il corso degli eventi. Chi è il re? A chi è dovuta lealtà? Shakespeare porta a teatro le incertezze del tempo, e, mentre afferma l’ordine e la gerarchia, mette in scena «the reality of disorder»3.

Chi è il re? A chi è dovuta lealtà?

La lealtà dovuta al sovrano dal «valletto della camera reale» è stata rintracciata dalla critica anche nella sua opera, in particolare nei drammi di materia britannica, le history e il Macbeth. In questa luce, nel Richard II, la deposizione del re, pur se irresponsabile e incapace, è un sacrilegio che innesca una lunga teoria di sventure per l’Inghilterra, cui soltanto l’ascesa dei Tudor potrà porre fine. Nel Macbeth, poi, il dramma che celebra la stirpe degli Stuart, l’omicidio del re di Scozia a opera del

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4 - Ritratto di Riccardo II d'Inghilterra, anonimo,1390 ca. Abbazia di Westminster, Londra. 5 - Macbeth Consulting the Vision of the Armed Head, Johann Heinrich Füssli, 1793–94. Folger Shakespeare Library, Washington DC, USA. 6 - Incisione da The Tempest, Atto I, Scena 1. George Romney, 1797. 7 - Prospero and Ariel (from Shakespeare's The Tempest), William Hamilton, 1787. Alte Nationalgalerie, Berlin (D).

Particolarmente “disordinata” è The Tempest, «an temi delle tragedie: l’usurpazione e la vendetta. Il intricate blend of magic, music, humour, intridramma s'incentra sulla figura di Prospero, mago gue and tenderness»4 che, dal 1611, data della e re di un’isola sperduta nel Mediterraneo. Quansua prima rappresentazione, non ha mai smesso do una tempesta li spinge per caso sulla sua isola, di affascinare gli spettatori. Grazie al suo caratteProspero, un tempo duca di Milano, ha l’occare elusivo – vaga è l’ambientazione, sfuggente la sione di vendicarsi del fratello Antonio e del re di natura dei personaggi, ambiguo il finale – ha solNapoli Alonso, che lo hanno spodestato e bandito lecitato messe in scena sempre nuove, riscritture dalla sua città. Nel romance, tuttavia, non c’è poper cinema e teatro, appropriazioni da parte del sto per vendette e congiure. Prospero si limita a pensiero filosofico e sociologico. In particolare, nel indurre il pentimento nei traditori, spaventandoli tardo Novecento, l’opera è stata interpretata come con una magica visione, per poi perdonarli. Anche un discorso sull’espansione coloniala congiura, che minaccia di ripetersi le dell’impero britannico nel Nuovo sull’isola, viene magicamente vaniThe Tempest Mondo. È diventata, allora, il dramficata e perfino messa in parodia nel è interessante ma “americano” di Shakespeare e la controcanto comico dell’opera, che sua ambientazione è stata spostata dal per protagonisti lo schiavo Caliban perché mostra ha Mediterraneo alle Bermuda o ai Cae i due buffoni napoletani Stephano e raibi. I personaggi di Ariel e Caliban Trinculo. Nessuna vendetta, dunque: rapporti di sono diventati figure dei selvaggi indios saranno le nozze di Miranda e Ferdipotere a diversi nand a riportare pace e armonia tra i o africani che l’impero si è assunto il fardello di civilizzare. Di certo, l’opeloro genitori, Prospero e Alonso. livelli, da una ra riflette la fascinazione del Nuovo girandola di Mondo palpabile nell’Inghilterra del Una prima lotta per il potere viene tardo Rinascimento, come pure le rimostrata già nella scena della tempepunti di vista. flessioni sollecitate dai primi contatti sta, sulla nave di re Alonso. Mentre il con società e modi di vita diversi, sia nostromo tenta a fatica di mantenere pure conosciuti soltanto attraverso i diari di viagil controllo della nave, Alonso e i suoi sono convinti gio, tanto popolari in quegli anni. di poter domare il mare in burrasca impartendo ordini ai marinai. In questo modo, suscitano solo The Tempest è interessante perché mostra rapporti la rabbia e l’ironia degli uomini impegnati a salvadi potere a diversi livelli, da una girandola di punre le vite di tutti: «If you can command these eleti di vista. I luoghi del dramma – definito romance ments to silence and work the peace of the present, perché armonizza elementi comici e tragici – sono we will not hand a rope more. Use your authorila nave e l’isola, luoghi circoscritti che ben si prety!» 5, li sfida il nostromo. Sulla nave, come nello stano a rappresentare diversi rapporti di potere. Stato, l’autorità è solo di chi sa esercitarla. NessuAccanto alla storia d’amore tra Miranda e Ferno, tuttavia, può nulla contro la tempesta, che, poi, dinand, che è secondaria, tornano nell’opera i è soltanto un’illusione orchestrata da Prospero.

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6 Sulla minuscola società dell’isola è Prospero che esercita il potere assoluto. Assistito da Ariel, uno spirito che sa rendersi invisibile come l’aria e veloce come il vento, fa muovere i naufraghi come marionette. Pur essendo l’occhio e il braccio del mago, Ariel gli è soggetto come lo è il selvaggio Caliban. Lo spodestato Prospero li ha spodestati entrambi dall’isola, che i due abitavano prima di lui, e li ha posti al proprio servizio come schiavi, spacciandosene per benefattore.

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Benché obbligati a servire il mago, Ariel e Caliban restano a modo loro padroni dell’isola. Ariel può attraversarla in volo in un baleno, cantando spensierato, mentre il sensuale Caliban (sempre chiamato «mostro» dal padrone) la vive e la conosce meglio del mago: ne sente i rumori, ne conosce le trappole come le fonti di delizia, i frutti di bosco e le polle d’acqua fresca. Caliban sa che Prospero, invece, che pure gli ha insegnato a parlare, senza i suoi libri non è nulla. Proprio a causa dei libri Prospero aveva perso il potere a Milano: rapito dai suoi studi, aveva trascurato la politica. L’isola, poi, gli era parsa il rifugio ideale in cui conciliare studio e governo, trasmettendo ai sudditi la propria sapienza. Sudditi, però, sull’isola non ce ne sono, se si escludono la Sul Romanzo

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«marmaglia» di spiriti e Caliban, refrattario a ogni educazione. È solo quando vi arrivano Antonio e i napoletani che Prospero può finalmente tornare a esercitare il suo potere e a educare. Prospero, comunque, è un re invisibile. Si mostra solo attraverso la sua magia, che, pur efficace, gli appare come un vuoto spettacolo. Alla fine del dramma, capisce che deve tornare a confrontarsi con la politica in Italia. Si sbarazza, allora, di bacchetta e mantello, insegne di re-mago, e butta i libri a mare. Per garantirsi il ritorno a Milano, però, è importante che sappia anche mantenere il controllo di un’altra piccola società in seno all’isola: la propria famiglia. La figlia Miranda, pur sapiente e decisa, è anche lei del tutto sottomessa al volere del padre. È Prospero, difatti, a regolare i modi e i tempi del rapporto del-

la ragazza con Ferdinand, il principe napoletano che fa naufragio sull’isola assieme al padre Alonso. Prospero riesce, così, ad assicurare alla figlia il trono di Napoli e a sé la successione. Anche tra Alonso e i suoi cambiano i rapporti di forza. Se il malvagio Antonio non perde l’attitudine all’intrigo, tramando stavolta contro il re di Napoli, Alonso e il suo consigliere Gonzalo vengono invece trasformati dall’esperienza del naufragio. Alonso si

8 - Scene with Miranda and Ferdinand, Angelika Kauffmann, 1782. Österreichische Galerie Belvedere, Vienna, (A).

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pente del male fatto in passato e il buon Gonzalo, abbagliato dalla bellezza dell’isola, si lascia andare al sogno di una società utopica, opposta a quella delle corti italiane. In versi che riecheggiano il saggio di Montaigne Des Cannibales, Gonzalo s'immagina re di un’isola senza sudditi né sovrano. È proprio il paradosso dell’isola di Prospero, re invisibile di un’isola senza sudditi. L’isola in cui ci si è miracolosamente salvati dal naufragio sembra il luogo dove tutto è possibile. I buffoni Stephano e Trinculo pensano di poterne diventare re a loro volta: «Thought is free»6, dice Stephano. Se Prospero regna con la magia, Stephano potrà regnare grazie al vino: entrambi addormentano e fanno sognare. Il vino rende anche giocondi e allora la scena in

cui lo schiavo Caliban incontra i due buffoni – che sceglie come nuovi padroni – è la più allegra del romance, piena di musica e canzoni. Per Stephano, il potere è un sogno, e lui vuole sognare e stare allegro, bere il suo vino fino all’ultima goccia. In un dramma che rappresenta diversi rapporti di potere, il potere più grande è quello del drammaturgo che ordisce e svela la propria trama: evoca danze di ninfe e banchetti volanti, mette in scena tempeste sul suo mantello di mago per poi svelare che si tratta solo di «such stuff as dreams are made on»7. Come un masque, come un pageant, afferma Prospero amaro, anche i palazzi dei re e il mondo intero e chi lo abita si dissolveranno nell’aria. Nell’ultima delle sue opere, mentre afferma la propria supremazia di regista e creatore, Shakespeare mostra che il potere degli uomini si può mettere in scena e guardare da mille angolature.

NOTE: 1 Peter Ackroyd, Shakespeare. Una biografia. Traduzione di Chiara Gambuti. Collana I Colibrì, Neri Pozza 2011, pp. 455-57. 2 Id, p. 501 3 W.R. Elton, “Shakespeare and the thought of his age”, in: Wells. S. (ed.): The Cambridge Companion to Shakespeare Studies, Cambridge University Press, 1986, p.17. 4 William Shakespeare, The Tempest. Ed. by V. Mason Vaughan e A.T. Vaughan, The Arden Shakespeare, Third Series, Bloomsbury Publishing Plc, 2011, p. 1. 5 Id, p. 167 (Atto I, scena II. vv. 21-24). 6 Id, p. 253 (Atto III, scena II, v. 123). 7 Id, p. 276 (Atto IV, scena I, vv. 155-56).

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Webzine Sul Romanzo Invito _ a __________ presentare ________ articoli ______ 1 Numero 1/20 3 La Redazione della Webzine Sul Romanzo lancia il presente Invito a presentare articoli per il numero 1/2013. Gli articoli potranno sviluppare un tema liberamente scelto dall'autore.

Per partecipare, è sufficiente attenersi alle seguenti indicazioni: Prima Fase Entro il 20/12/2012, gli interessati dovranno inviare una Proposta di Argomento, indicando il tema che intendono trattare. La Proposta dovrà: –– essere redatta in formato word (.doc), in lingua italiana e usando come Font Times New Romans 12; –– riportare in alto a destra: nome e cognome dell’autore, luogo e data di nascita, codice fiscale e indirizzo e-mail; –– presentare in modo chiaro ed esauriente l’argomento che si intende affrontare (lunghezza massima 10 righi); –– essere inviata a mezzo e-mail al seguente indirizzo: gerardoperrotta@ sulromanzo.it. Non saranno ammessi alla valutazione interviste, racconti, poesie, estratti di romanzo, opere teatrali, semplici recensioni e tutto quanto sia anche solo indirettamente riconducibile ad essi. Seconda Fase Entro il 30/12/2012, l’autore riceverà un’e-mail, con la quale la Redazione comunicherà la sua decisione. In caso di accettazione della Proposta di Argomento, l’autore dovrà presentare un articolo completo entro il 20/01/2013. L’articolo dovrà essere: –– redatto utilizzando il modello di documento che sarà inviato dalla Redazione; –– in lingua italiana e di una lunghezza compresa tra un minimo di 8.000 caratteri (spazi inclusi) e un massimo di 11.000 caratteri (spazi inclusi); –– inedito; –– inviato all’indirizzo e-mail che sarà comunicato dalla Redazione all’atto dell’accettazione dell’abstract. Valutazione degli articoli La valutazione sarà condotta internamente alla Redazione di Sul Romanzo e in modalità blind review. Gli autori degli articoli ritenuti idonei per la pubblicazione saranno informati a mezzo e-mail.

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Per mancanza di spazio nel numero, potrebbe non essere possibile pubblicare tutti gli articoli ritenuti idonei; tuttavia, col consenso degli autori, saranno pubblicati in un numero successivo o nel sito internet del Blog www. sulromanzo.it. Criteri di inammissibilità Indipendentemente dalla qualità dell’argomento proposto, saranno considerate inammissibili: –– proposte presentate dagli attuali collaboratori di Sul Romanzo, per i quali esistono già linee di collaborazione interne alla Redazione; –– proposte e/o articoli che ledono il diritto alla privacy di terze persone e/o che presentano elementi riconducibili a calunnia e/o diffamazione; –– proposte e/o articoli che presentano un possibile conflitto di interessi; –– articoli che ledono il diritto d’autore di terze parti; –– articoli già editi, indipendentemente dal canale di pubblicazione. Note finali L’invio dell’articolo non dà diritto alla pubblicazione. Gli autori sono i soli responsabili per i contenuti dei loro articoli e per la loro originalità e, in caso di pubblicazione sulla Webzine e/o sul blog, manterranno i diritti sul loro articolo e cedono alla rivista il diritto di prima pubblicazione dello stesso in formato cartaceo e in formato elettronico sotto una Licenza Creative Commons – Attribuzione che permette ad altri di condividere l’opera indicando la paternità intellettuale e la prima pubblicazione sulla Webzine Sul Romanzo. Resta intatto il diritto dell’autore a distribuire la versione dell’articolo pubblicato, successivamente alla sua pubblicazione nella Webzine o sul Blog, indicando, però, Sul Romanzo come mezzo della prima pubblicazione. I nomi degli autori e tutti i dati eventualmente rilasciati in fase di presentazione e pubblicazione degli articoli saranno utilizzati esclusivamente per gli scopi dichiarati e/o per tenere gli autori informati su eventuali iniziative indette da Sul Romanzo. In nessun caso, verranno resi disponibili a terzi. La Redazione – Webzine Sul Romanzo www.sulromanzo.it – webzine@sulromanzo.it

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Voltaire l’illuminista e Federico il sovrano di Vito Manfreda

L’etimologia della parola “potere” deriva dal latino, dall’unione di potis (signore) ed esse (essere). Potere, quindi, rimanda all’essere in grado di, all’avere la capacità di e l’autorità per compiere un gesto, un’azione. Qualsiasi gesto, però, ha bisogno del pensiero e del sapere per giungere a compimento. Non può esistere movimento senza pensiero, senza cultura. La storia dell’incontro-scontro tra cultura e potere rappresenta uno degli elementi più interessanti dell’umanità. Il XVIII secolo è sicuramente l’emblema di questo rapporto, in quanto vi confluiscono tutte le tradizioni dell’ancien régime contrapposte a una nuova corrente di pensiero: l’Illuminismo. La Francia del ‘700 è il Paese che più vede acuirsi tale scontro: da una parte, la monarchia assoluta e “divina” plasmata dal Re Sole; dall’altra, la nascita di giornali, club, salotti e caffè, che sosterranno il consolidamento del concetto di opinione pubblica, poiché sempre più vasto diventerà il pubblico in grado di discutere e misurarsi con gli avvenimenti del proprio tempo. Puntando a modificare le tradizioni e i costumi di un’intera società, l’Illuminismo non ha potuto esimersi dal misurarsi con le monarchie assolute europee. La discussione eticopolitica intorno al rapporto potere-cultura diventa fondamentale e forgia, attraverso il fuoco della ragione, il concetto di assolutismo illuminato: la cultura, sposandosi con il potere, genera un mondo

razionale, in cui ogni cittadino è libero di realizzare il proprio bene attraverso la piena espressione del proprio pensiero. Figura di spicco è sicuramente François Marie Arouet, detto Voltaire. Tragediografo, storico, poeta, filosofo e strenuo sostenitore della ragione umana, Voltaire incarna la figura dell’intellettuale eclettico. Ancora giovane scolaro inizierà a frequentare il circolo dei Liberi Pensatori, soprannominati libertins, dove imparerà presto il valore della critica e della libertà di pensiero. Da qui nascerà il suo disprezzo per la nobiltà e i suoi privilegi, espresso in alcuni epigrammi giovanili e nelle prime opere teatrali, che costituiranno, per il giovane pensatore francese, il biglietto d’ingresso nelle segrete della Bastiglia e, più tardi, lo porteranno all’esilio verso le coste inglesi. Sarà proprio l’Inghilterra che formerà definitivamente il pensiero di Voltaire. Qui si dedicherà allo studio di Newton e Locke, che diventeranno i padri dell’Illuminismo francese, e assisterà alla formazione della monarchia costituzionale inglese, che accenderà il suo sentimento di ribellione nei confronti della monarchia assoluta francese e contribuirà alla definizione chiara e precisa del suo pensiero politico. Dal soggiorno inglese prenderanno vita le Lettres philosophiques, che rappresentano il primo attacco all’ancien régime, oltre che il primo vento rivoluzio1 - Ritratto

di Voltaire, Nicolas de Largillière, 1724-1725.

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nario. Il pensatore francese è assolutamente lontano dalla concezione di uno Stato inteso come forma costituzionale, prediligendo un sistema di tipo monarchico, nel quale a guidare le scelte del sovrano siano i filosofi e gli intellettuali. Emerge chiara dalle Lettres philosophiques l’avversione di Voltaire a qualsiasi corpo politico o burocratico intermedio; la sua concezione politica mira al rafforzamento del potere monarchico, in modo che questo possa porsi in funzione antifeudale e anticlericale. L’assolutismo monarchico non viene invalidato: la libertà da egli auspicata non è di tipo politico, ma intellettuale o culturale e, quindi, volta alla salvaguardia del pensiero, piuttosto che alla liberazione delle masse del popolo dal giogo del potere.

mento può essere attuato solo dall’alto. Sebbene la sua opera abbia condotto più volte il filosofo a scontrarsi sia con la nobiltà che con la corona, allo stesso tempo egli ricerca l’appoggio del potere al fine di trasformare in azione concreta le sue fatiche intellettuali. Nell’agosto del 1736, vi è il primo contatto tra Voltaire e Federico II di Prussia, quest’ultimo grande sostenitore del filosofo francese e, in generale, dell’Illuminismo e della sua opera di riforma. Sarà l’inizio di una fitta corrispondenza e di un rapporto complesso, che vedrà misurarsi, da una parte, il sapere, incarnato da Voltaire, e dall’altra il potere, nelle vesti del re. Benché entrambi i personaggi si stimino a vicenda, non sempre il loro rapporto sarà idilliaco, ma, al contrario, sarà percorso da profonde fratture e aspre discussioni.

All’indomani del ritorno dall’Inghilterra, il pensiero politico di Voltaire e i suoi scritti rappresenteranno la prima scalfittura nel “drappo” dell’ancien régime che tutto copre, facendo intravedere i primi spiragli della formazione di una nuova società laica e intellettualmente libera, che vedrà il prevalere della ragione sulla tradizione: una società in grado di sviluppare una nuova concezione dell’essere umano, conscio dei propri limiti, ma anche delle proprie capacità, educato alla ragione e ai valori della tolleranza, della legge, della giustizia. Voltaire, oltre a essere un abile teorico, è anche uomo pratico e consapevole del fatto che un vero cambia-

Nel 1750, lusingato dalle lettere del re-filosofo, Voltaire decide di accettare l’invito di trasferirsi alla corte di Prussia, con l’intento di realizzare in concreto il suo pensiero politico. Voltaire, a differenza di altri pensatori, come, ad esempio, Rousseau, non nutre alcuna concezione utopistica e vede nel sovrano prussiano il “mezzo” per realizzare i propri progetti e smuovere le coscienze attraverso un esempio concreto di cambiamento. La realtà, tuttavia, sarà ben diversa da quella immaginata da Voltaire e Federico si dimostrerà un sovrano cinico e calcolatore che cercherà di sfruttare a suo pieno vantaggio l’intellettuale Voltaire.

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2 - Ritratto di Voltaire, Maurice Quentin de La Tour, 1737 ca. Château Voltaire, Ferney-Voltaire (F). 3 - Ritratto giovanile di Federico II di Prussia, Antoine Pesne, 1736. Castello Hohenzollern, Burg Hohenzollern (D). 4 - Stampa raffigurante Voltaire e Federico II di Prussia. 5 - Voltaire con il re Federico II a Château de Sans-Souci (part.), Adolph von Menzel, XIX sec. Nationalgalerie, Berlino, bruciato nel 1945. 6 - Presa della Bastiglia (part.), Jean-Pierre Houël, 1789. Bibliotheque Nationale de France, Parigi (F). n° 5 • Novembre 2012


5 La relazione che intercorre tra sovrano e filosofo è di non facile lettura, fatta com’è di repulsione e attrazione. Federico sfrutterà il pensiero di Voltaire per alleggerire il suo Stato dalle tare dell’ancien régime, mettendo in chiaro, allo stesso tempo, che nessuna opinione, contraria a quella del sovrano, potesse essere accettata. Nonostante queste evidenti divergenze, l’influenza di Voltaire determinerà alcune riforme fondamentali all’interno della struttura portante dello Stato prussiano: la riforma dell’Accademia delle scienze, l’obbligatorietà dell’istruzione primaria e la creazione di un corpo docenti valido e laico, l’istituzione di un’Accademia per gli aristocratici tesa alla formazione di una classe diplomatica e militare ben preparata. Naturalmente, tutti gli interventi di Federico, oltre a rendere lo Stato più efficiente, furono essenziali per consolidare ulteriormente il suo potere. Voltaire contribuì in maniera significativa anche alla produzione letteraria di Federico, che si dilettava di filosofia e letteratura: la maggior parte dei versi contenuti nelle opere del re-filosofo vengono dalla penna del pensatore francese. Alle riforme operate da Federico II sotto la spinta di Voltaire non corrisponderà un vero e proprio cambiamento della società tedesca e non ci sarà nessuna eco in grado di raggiungere e modificare le altre monarchie assolute europee.

Nel 1753, dopo numerosi dissidi intercorsi tra sovrano e filosofo, Voltaire, stanco di vivere assoggettato ai capricci intellettuali di Federico, deciderà di lasciare Potsdam e fare ritorno verso la terra natia. Federico non accetterà la sua partenza e darà ordine di fermare Voltaire, perquisirlo e arrestarlo. Nel ventennio successivo, dal suo soggiorno ginevrino, Voltaire continuerà a perseguire la sua idea di un’unione tra philosophes e potere monarchico, nonostante l'esperienza negativa alla corte di Potsdam. Cercherà, con ogni mezzo, di migliorare la sua posizione nei confronti della monarchia e della classe dirigente francese e, attraverso una rinnovata corrispondenza epistolare, di riallacciare i rapporti con quel Federico che lo aveva fatto arrestare. Oramai, però, l’assolutismo illuminato, tanto caro al filosofo e pensatore francese, aveva esaurito la sua carica e l’idea di un potere unico retto dalla cultura andò pian piano scemando. Allo stesso tempo, la portata rivoluzionaria del pensiero volterriano farà da scintilla per quel grande incendio che lambirà tutta la cultura e rappresenterà la base dello Stato moderno: Voltaire, infatti, sarà il padre spirituale della Rivoluzione Francese, ma non vivrà abbastanza da vederla.

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Ibsen: un nemico del popolo? di Lorena Martinelli

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1 - Henrik Ibsen. 2 - Théâtre Ibsen de Vienne, litografia di Frank Wedekind. Stampata a Vienna, Austria, giugno 1898. 3 - Industriens Mænd (The Men of Industry), Peder Severin Krøyer, 1903-04. The Museum of National History, Frederiksborg Castle, Hillerod (DK). 4 - Frontespizio del manoscritto originale di En folkefiende (Un nemico del popolo).

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Lo dobbiamo alle sfortune in campo commerciale del padre e alla freddezza con la quale la Norvegia accolse le sue prime opere, se Ibsen venne successivamente considerato come il più profondo interprete dei conflitti morali e sociali della coscienza moderna. Henrik Ibsen nacque nel 1828 in una famiglia di commercianti che conobbe ben presto la miseria. Il ragazzo, quindicenne, fu costretto a lavorare come aiutante in una farmacia di Grimstad, accantonando i sogni di diventare pittore. Furono, questi, anni d’una solitudine riottosa, meditativa, interrotti soltanto da riunioni con coetanei, tra cui Henrik si distingueva per il suo sarcastico anticonformismo. Nonostante gli inizi difficili e dopo una breve parentesi giornalistica, Ibsen venne prima nominato direttore artistico al National Theater di Bergen e successivamente, dal 1857 al 1864, direttore artistico al Norske Theater di Cristiania. Quest’ultima si rivelò un’esperienza fondamentale nella sua formazione intellettuale, perché maturò in lui la decisione di fornire una drammaturgia nazionale alla Norvegia, priva a quel tempo di autonome tradizioni culturali. Ibsen avvertì fin dall’inizio il suo impegno di scrittore come missione pedagogica e sociale e ne visse tutte le conseguenze, sino alla disillusione finale. Grazie a una pensione di Stato, si trasferì in Italia, dove scrisse i suoi primi capolavori: Brand (1865) e Peer Gynt (1867). L’incomprensione con cui fu accolto in Norvegia quest’ultimo dramma condusse l’autore a una crisi da cui nasceranno le grandi opere della maturità. Preso dalla rabbia e dallo sconforto, scrisse all’amico Bjornson: «Il mio disegno è questo, darmi alla fotografia. Farò posare i miei contemporanei, uno per uno, davanti al mio obiettivo. Ogni volta che mi incontrerò in un’amica degna d’essere riprodotta non risparmierò né n° 5 • Novembre 2012


un pensiero né una fuggevole intuizione appena mascherata dalla parola. Non risparmierò nemmeno il piccolo nascosto nel seno della madre»1. Nasce qui la grande drammaturgia borghese, destinata a concludersi nell’opera di Cechov e di Pirandello. Ibsen attacca la società contemporanea in forme esplicitamente satiriche, ma più spesso la indaga nel segreto della psicologia individuale, dove si nasconde il compromesso tra l’autenticità della vita e la menzogna di regole di comportamento passivamente subite. Lasciata l’Italia nel 1868, fino al 1874 si stabilì a Dresda; dopo un breve ritorno in patria, dal 1875 al 1891 visse tra Roma e Monaco, periodo caratterizzato da una fecondissima produzione: Le colonne della società (1877), Casa di bambola (1879), Spettri (1881), L’anitra selvatica (1884), Villa Rosmer (1886). Nel 1891, Ibsen ritornò in patria dove, prima della paralisi che lo lascerà vegetare per sei anni, scrisse i suoi ultimi drammi: Il costruttore Solness (1892) e Quando noi morti ci destiamo (1899), dramma di un vecchio artista che si scopre non solo inutile, ma colpevole, quando si accorge di aver tradito la vita e le sue leggi in nome di un tirannico impegno intellettuale, a cui tutto era stato sottomesso. Nella sua vasta produzione fu soprattutto con Un nemico del popolo (1882) che Ibsen mise in pratica gli intenti che, anni prima, aveva confidato all’amico Bjornson. 1 Henrik Ibsen, Vita dalle lettere, trad. di Franco Perelli, Iperborea, Milano 1995.

4 Questo dramma venne visto come l’aspro ritratto di una società perfettamente omogenea nel suo spregevole meccanismo; unitaria nel suo tessuto sostanziale al di là delle seppur appariscenti tensioni ideologiche; pronta a difendersi globalmente nei suoi reali interessi. In Un nemico del popolo, Ibsen punta il dito contro il carattere borghese della massa, spersonalizzata dalla persuasione collettiva e talmente compatta da inclu-

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5 - Ritratto della famiglia Hirschsprung, Peder Severin Kroyer, 1899. Nella pagina accanto Henrik Ibsen.

5 dere tutte le forze che la compongono, tale da farla divenire un sistema totale e chiuso. Questo dramma ha il compito di smascherare l’involuzione borghese che inganna e corrompe gli elementi progressisti così come la tirannide delle maggioranza. A sfidare vanamente ma eroicamente questa dittatura massificata è il Dott. Stockmann, l’uomo solo, il ribelle. Il dramma ruota attorno alla scoperta, da parte dell’onesto dottore di provincia, dell’inquinamento delle acque termali pubbliche – fiore all’occhiello della cittadina – a causa degli scarichi della fabbrica di conciatura di pelli, situata accanto alla fonte. Il Dott. Stockmann si decide, dopo accurate analisi scientifiche, a scrivere un articolo sulla rivista Voce del popolo, in modo tale da denunciare la situazione, contrapponendosi agli interessi di istituzioni, associazioni e quanti dalle terme traggono benefici economici. Da un lato, Stockmann si scontra con il fratello Peter, borgomastro della città e rappresentante dei potenti azionisti di maggioranza delle terme, dall’altro, con Hovstad, redattore della Voce del popolo, e Billing, collaboratore del medesimo giornale, che, se inizialmente paiono appoggiare l’idea di diffondere la notizia poiché da sempre schierati “contro le cricche”, successivamente si vedranno costretti a rifiutare la pubblicazione dell’articolo per non vedere lesi anche i loro interessi. L’unione tra i potenti e chi dovrebbe ostacolarli fa sì che il Dott. Stockmann si trovi costretto a indire un’assemblea davanti a tutti i cittadini, per informarli su quali siano le sue reali intenzioni: smascherare il tentativo, da parte di più persone, di mettere a tacere la notizia dell’inquinamento delle terme.

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Il popolo si troverà presto compatto attorno all’idea che il vero nemico da combattere sia lo stesso dottore. Sia vinti che vincitori sono, agli occhi del protagonista, una schiera di opportunisti interessati solo alla reputazione e al denaro. Stockmann, però, non è un rivoluzionario bensì la caricatura di un rivoluzionario, e, forse, anche la caricatura dello stesso Ibsen; si scaglia, infatti, contro la maggioranza solo quando l’ha perduta, mentre prima si vantava d’averla tutta alle sue spalle; s’infervora in nome della giustizia sociale, ma sbuffa d’impazienza quando deve visitare un malato qualsiasi; vagheggia una rivoluzione, ma non si degna di precisarne forme e contenuti; sceglie la sconfitta e la solitudine, ma se ne gloria come d’un segno di elezione e nobiltà. Tra le battute iniziali e quelle finali del dramma non c’è un contrasto, bensì una logica evoluzione: si passa dalla compiacenza per il manzo arrosto – o l’invidioso pettegolezzo sui guadagni altrui – alla pomposa sicurezza di parlare per i poveri e in nome dei poveri, che non possono pagare e che dovranno, per forza di cose, pendere dalle sue labbra. Ibsen mette impietosamente a nudo la presunzione borghese, la minoranza contestatrice, l’ignobile e sempre attuale dogmatismo dell’intellettuale che degrada gli oppressi a oggetto di polemica snobistica, che li recluta come leve di sottosviluppati, che si arroga – oggi come ieri – di parlare per essi e di essere dalla parte giusta, dalla parte del progresso e della rivoluzione. Con Un Nemico del popolo Ibsen ha scritto una parabola comica della grande ed equivoca rivolta antiborghese che serpeggia nella culn° 5 • Novembre 2012


tura europea e che si protrae ancora oggi. Il Dottor Stockmann è realmente, e non soltanto ironicamente, un nemico del popolo, come i grandi nemici del popolo dell’Ottocento: Carlyle, Kierkegaard, Nietzsche, dei quali condivide, su scala ridotta e in chiave umoristica, la nobiltà, l’acutezza e la sterilità. Anch’egli, infatti, è veritiero nella sua denuncia, ma fuorviante e fuorviato nelle conseguenze che ne trae e nel tono che le imprime. È un personaggio tragicomico: soggettivamente si ribella a fonSul Romanzo

do contro la realizzazione dell’universo borghese, ma oggettivamente non riesce a uscirne e v’inciampa goffamente. Stockmann viene trascinato da Ibsen su posizioni che, di fatto, contraddicono le sue stesse premesse: la sua condanna della falsa eguaglianza, che dovrebbe essere la negazione di ogni disuguaglianza, di diritti e possibilità, finisce per diventarne l’enfatica apoteosi. In polemica contro la falsa cultura che integra i proletari nelle file dei nuovi subalterni, Stockmann finisce par augurare a questi ultimi una condizione di bestiale “incultura”; dopo aver capito il carattere plebeo della maggioranza, riduce sprezzantemente la comunità intera a plebaglia. Egli appare, così, una versione comica dell’onesto, impavido e infecondo intellettuale di destra. La sua ribellione nasce dall’impotenza e dall’enorme divario tra volere e potere. Stockmann è comico perché è trascinato dagli eventi proprio quando s’illude di dominarli e perché si vanta della sua solitaria libertà mentre è completamente incastrato all’interno dell’ingranaggio sociale. È un superuomo in miniatura, eccitato e vulnerabile, gonfio delle sue stesse parole e infatuato delle virgolette dei suoi articoli, secondo il prototipo del letterato decadente e, al contempo, del lagnoso intellettuale pseudoprogressista. Questa sorta di superuomo in papalina e con l’ombrello è anche un critico autoritratto di Ibsen: intellettuale solitario, avverso alla politica ponendosi al di fuori di essa e scrittore che chiama il mondo a giudizio. Ibsen sa che il suo distacco è, allo stesso tempo, grandioso e sterile, perché abbraccia imparzialmente la globalità del cancro sociale senza indicare alcuna soluzione e si compiace di tale gelida neutralità. Attorno a Stockmann ruotano, nel dramma, tutte le possibilità del compromesso e della corruzione: la cinica avidità dei capitalisti, il trasformismo dell’opposizione popolare, il servile egoismo dei moderati, il rancore delle vecchie classi dominanti spodestate, i meschini interessi familiari. Ecco perché quest’opera, ancorché scritta nel 1882, richiama in modo disarmante alla situazione contemporanea. n° 5 • Novembre 2012

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Eventi Renoir. La vie en peinture L'esposizione, a cura di Philippe Cros, ripercorre la carriera del grande Maestro francese, mettendo in evidenza il ruolo dell’artista nella storia dell’arte moderna. Il pubblico ha la possibilità di ammirare importanti lavori, alcuni dei quali esposti per la prima volta in Italia. Pavia - Fino al 16 dicembre 2012 I Martedì Letterari I Martedì Letterari diventano volano della cultura sanremese; sono divisi in quattro cicli: Incontri con l’autore, Il giorno delle nazioni, Convegni scientifici, I protagonisti. San Remo - Fino al 18 dicembre 2012 Cipro, isola di Afrodite In occasione della Presidenza di Cipro del Consiglio dell’Unione Europea, nelle Sale delle Bandiere saranno esposte 56 opere d’arte risalenti alle varie fasi della storia di Cipro, dai tempi lontani del Neolitico fino all’età della conquista romana. Roma - Fino al 5 gennaio 2013 Francesco Guardi nella terra degli avi La ricorrenza del terzo centenario della nascita di Francesco Guardi costituisce l’occasione per offrire al pubblico l’opportunità di ammirare una serie di capolavori del maestro che sono stati oggetto di interventi di restauro e di una campagna di indagini tecnico-scientifiche appositamente impostata e coordinata dalla Soprintendenza per i Beni Storico-artistici. Trento - Fino al 6 gennaio 2013 Firenze negli occhi dell’artista. Da Signorini a Rosai Esposizione di 49 dipinti, dedicati a vedute o rappresentazioni della città da varie prospettive dal ‘700 al ‘900. L’occasione della mostra è sorta con il ritorno alla Galleria d’arte moderna, dopo un deposito di lungo termine presso l’ex Museo di Firenze com’era, di 16 dipinti che documentano luoghi di una Firenze scomparsa o fatalmente cambiata, ai quali sono state affiancate altre 33 opere dedicate alla città, selezionate attingendo alle collezioni custodite nei depositi del museo. Firenze - Fino al 6 gennaio 2013 Picasso. Capolavori dal Museo Nazionale Picasso di Parigi Oltre 200 opere, molte delle quali mai uscite dal Museo Picasso di Parigi, affollano le sale di Palazzo Reale a Milano, in occasione della grande antologica dedicata all’ineguagliabile artista spagnolo. Milano - Fino al 6 gennaio 2013 Da Mantova al Württemberg: Barbara Gonzaga e la sua corte La mostra delinea, lungo il cammino della vita di Barbara Gonzaga da Mantova al Württemberg, l’ambiente culturale

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e politico delle diverse corti principesche e fa conoscere Barbara come personalità sorprendente del suo tempo. Mantova - Fino al 6 gennaio 2013 Lynn Davis. Modern View of Ancient Treasures Lynn Davis è considerata una delle più raffinate fotografe della scena americana: vuole presentarsi a Venezia con una tra le sue più suggestive raccolte di fotografie, tutte centrate sull’epifania di luoghi sacri, nella sua costante ricerca di un luogo “senza tempo”, che trasmetta all’essere umano il senso dell’assoluto. Venezia - Fino al 13 gennaio 2013 Boldini, Previati e De Pisis. Due secoli di grande arte a Ferrara Un’ampia selezione di opere di Boldini, Previati, Mentessi, Minerbi, Melli, Funi e De Pisis, ovvero dei più importanti artisti ferraresi dell’Ottocento e del Novecento, verrà presentata assieme a un nucleo di opere di altri grandi maestri italiani come Gemito, Boccioni e Sironi, patrimonio delle Gallerie d’Arte Moderna e Contemporanea di Ferrara. Ferrara - Fino al 13 gennaio 2013 Henri Cartier-Bresson. Immagini e Parole Quarantaquattro fotografie in bianco e nero, tra le più suggestive del grande maestro della fotografia, accompagnate dal commento – tra gli altri – di Aulenti, Balthus, Baricco, Cioran, Gombrich, Jarmusch, Kundera, Miller, Scianna, Sciascia, Steinberg e Varda. Caserta - Fino al 14 gennaio 2013 Trieste Film Festival Il Trieste Film Festival, giunto alla sua ventiquattresima edizione, ha deciso di istituire una selezione di film italiani in collaborazione con il forum di coproduzioni WHEN EAST MEETS WEST organizzato dal Fondo Audiovisivo Friuli Venezia Giulia. Trieste - Dal 17 al 23 gennaio 2013 Raffaello verso Picasso. Storie di sguardi, volti e figure La mostra inaugura la innovata Basilica Palladiana. Curata da Marco Goldin, direttore generale di Linea d'ombra, raccoglie una novantina di quadri provenienti dai musei dei vari continenti e da alcune collezioni private sia europee che americane. Vicenza - Fino al 20 gennaio 2013 La galleria del diletto. Alla corte del duca di Urbino. Mostra bibliografica e documentaria Ricca selezione di volumi appartenenti alla sezione Artes variae del fondo urbinate. Si tratta del fondo costitutivo della Biblioteca Alessandrina, una delle raccolte più illustri e ricche del Rinascimento. Roma - Fino al 31 gennaio 2013

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a p o r u E ' l l a d e Parigi vista da Hollywood Parigi è un luogo dell’immaginario americano e la mostra permette di capire come quest’immagine si sia venuta a creare e sia rimasta inalterata nel tempo. La mostra si avvale di un blob su schermo gigante dove sono stati montati insieme film, foto e affiche che riassumono un secolo di corrispondenze tra Hollywood e Parigi. Parigi (Francia) - Fino al 15 dicembre 2012 FotoTriennale.dk La manifestazione, giunta alla sua quinta edizione, avrà come titolo The Good Life, tema sempre più attuale proprio mentre la crisi finanziaria minaccia tutti i Paesi europei. Verranno organizzate mostre, conferenze, workshop, proiezioni di film, in 12 sedi espositive dislocate nella città di Odense, dove 30 artisti, provenienti dalla Danimarca e dall’estero, esprimeranno pareri e commenti sull’attuale qualità della vita. Odense (Danimarca) - Fino al 31 dicembre 2012 George Grosz: da Berlino a New York Mostra dedicata a George Grosz che testimonia il percorso artistico e umano del pittore tedesco, con l’intento d’illustrare i tratti fondamentali e i legami esistenti tra le opere che hanno valore di denuncia, tese alla satira e alla critica sociale, con quelle in cui si riflettono i drammi della vita mondana. Tutto questo partendo dalla produzione giovanile berlinese sino alle opere del periodo americano. Tarragona (Spagna) - Fino al 6 gennaio 2013 Lothar Baumgarten. Los Aristocratas de la Selva y la Reina de Castilla Evento che induce alla riflessione sulla situazione europea al momento della scoperta del nuovo mondo e sullo scontro di civiltà che porta alla scomparsa della grande varietà di lingue native americane. Il percorso allestito raggiunge il culmine nell’esposizione di quattro modelli di navi in scala 1:20 tra cui le due caravelle, Niña e Pinta, mostrando l’abilità sia tecnologica che d’ingegneria nautica al momento della scoperta delle Americhe. Santander (Spagna) - Fino al 6 gennaio 2013 Paul Graham 1981 & 2011 Mostra dedicata a Paul Graham, uno dei fotografi più influenti della sua generazione e uno dei primi ad aver combinato la fotografia a colori con il genere documentario. Le opere rappresentate sono quelle relative agli anni dal 1981 al 2011, periodo in cui l’artista rinnova il genere della fotografia di strada. Göteborg (Svezia) - Fino al 6 gennaio 2013

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Critical Botox Il progetto è animato grazie a una rete di relazioni personali tra gli artisti, il cui lavoro è collegato da diversi assi tematici che riconducono a un tema comune, quello della politica. Critical Box rivendica il valore politico del contatto umano in questi tempi di virtualizzazione e di disumanizzazione. Bucarest (Romania) - Fino al 6 gennaio 2013 Collective Observations: Folklore and Photography – from Benjamin Stone to Flickr La mostra vuole rappresentare il rapporto tra la fotografia e le tradizioni popolari, accostando le opere di fotografi contemporanei, quali Faye Claridge, Matthew Cowan, Doc Rowe, a immagini d’archivio di Benjamin Stone oltre che a moderni social network, come Flickr e altri. Viene dimostrato, così, come gli eventi folkloristici si adeguino ai cambiamenti, continuando a interessare i vari campi dell’arte. Eastbourne (Gran Bretagna) - Fino al 13 gennaio 2013 Diane Arbus: mostra fotografica La mostra è composta da 200 immagini, alcune delle quelle mai esposte nei Paesi Bassi. Si tratta di ritratti di coppie, bambini, nudisti, famiglie della classe media, travestiti, fanatici, eccentrici e celebrità. L’evento si pone come un’allegoria dell’esperienza umana, un’esplorazione del rapporto tra apparenza e identità, illusione e credenza, teatro e realtà. Amsterdam (Olanda) - Fino al 13 gennaio 2013 TS Eliot Prize Readings Nel cuore del Southbank Centre, avrà luogo uno degli eventi letterari più amati del calendario britannico. Un’opportunità unica, quella di poter ascoltare i migliori poeti contemporanei leggere le proprie opere. Questo prima che i giudici decretino il vincitore del premio TS Eliot per l’anno 2012. I poeti selezionati sono Simon Armitage, Sean Bordale, Gillian Clarke, Julia Copus, Paul Farley, Jorie Graham, Kathleen Jamie, Sharon Olds, Jacob Polley e Deryn Rees-Jones. Londra (Gran Bretagna) - 13 gennaio 2013 Raphaël, les dernières années Questa mostra, organizzata dal Louvre in collaborazione con il Museo del Prado, raccoglie le opere prodotte da Raffaello a Roma, durante i suoi ultimi anni di vita. Accanto alle opere del Maestro, per la prima volta, sono esposte quelle dei suoi allievi. Parigi (Francia) - Fino al 14 gennaio 2013

Eventi dall'Italia è a cura di Dario Dal Cengio. Eventi dall'Europa è a cura di Lorena Martinelli.

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La ribellione di Étienne di Maria Antonietta Pinna

«Signor Étienne, vostro padre sta molto male… Mettetevi i pantaloni, venite, presto, il prete è già arrivato». La morte del genitore segna l’ingresso del giovanissimo Mayran in un mondo nuovo, duro, che rappresenterà l’inizio di una vita da adulto, in un collegio di formazione. Regole precise da osservare, uno scontro inevitabile e crudele con un super-ego allucinatorio. Il ricordo dell’educazione impartita dal genitore senza imposizioni, per il solo piacere d’apprendere, si scontra con i metodi coercitivi del collegio. Il padre di Étienne ricorda, per certi versi, i filosofi del giardino, per i quali la cultura era gradevole immersione in un mondo di sapienza, curiosità, passione senza frusta che coincide con l’infanzia di Étienne. La morte del padre crea una frattura, la dolorosa cesura tra passione e imposizione, tra infanzia e maturità. L’Étienne Mayran1 di Hippolyte Taine esce postumo per la prima volta sulla Revue des Deux Mondes, in due parti, il 15 marzo e il 1° aprile 1909. Un romanzo incompiuto sulla crescita di un intellettuale, un’opera il cui nucleo fondamentale invita alla riflessione sul rapporto tra cultura e potere. L’utilità dell’attività teoretica si carica di valenze destrutturanti: una ribellione sottile, meditata come sfida all’ingiusto potere costituito, all’aberrante concezione della gabbia. Giovedì, giorno di libera uscita, il signor Sprengel, ripetitore di storia, chiama Étienne. Si muove come un ragno che invita a casa sua la preda e la blandisce prima di avvilupparla nella ragnatela. La descrizione fisica del pedante aracnide rimanda a sensazioni appiccicaticce, di pesantezza e leggerezza insieme, in un nauseante gioco di efficaci contrasti: il ventre gonfio che va e viene sotto l’impeto di una risata, la fronte madida, il viso in fiamme. Salta con l’agilità di un giovanotto con gli occhi accesi, dando paternamente pacche sulle spalle, propinando spiegazioni degne di

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un imbonitore di piazza. Affiora la parola ciarlatano, con movimento anticipatorio. Il ripetitore invita lo studente a pranzo al Palais-Royal. A fine anno, segnerà l’importo speso sulla lista della spesa di Étienne. Il pranzo, a parte mangiare a sbafo, ha per Sprengel un’utilità strategica: mostrare a uno degli allievi più promettenti la sottomissione al potere. «Mayran, da oggi in poi non uscirete prima delle undici, per via dei compiti di storia… Amico mio, è per il vostro bene, vogliamo farvi studiare». Inutile spiegare al ragno che la tela si può tessere anche senza punizioni, che esiste una parola di nome passione: «Vi ringrazio, signore, ma studierei molto meglio di mia volontà». «Ragazzo mio, noi sappiamo meglio di voi qual è il vostro bene». L’azione coercitiva giustifica se stessa in nome di un’assurda teoria del bene. Il micro-potere scolastico e repressivo esercitato dal ripetitore ha la stessa dinamica del potere politico che asservisce l’intellettuale in nome di un fine più alto, di un auspicabile risultato finale. Un atto machiavellico, che attraversa civiltà ed epoche storiche, creando icone, miti intoccabili perfettamente allineati, conformismo ideologico. Una catena di sottomissioni al più forte in cui la cultura si corrompe perdendo il suo valore intrinseco, la forza libera che dovrebbe animarla. Il potere chiude la porta della stia, «mette in gabbia le oche, le ingrassa e ne fa dei pâté che sono il vanto della ditta». Il premio di Storia deve essere assegnato all’oca Mayran. Così è deciso. Si dà il caso, però, che la bestiola non ci stia. È come scossa da un moto convulso e istintivo di ribellione. Non avendo altro mezzo per sfuggire alle tenaglie dell’ingiustizia, nel gran giorno del Concorso, compila il suo compito e, anziché consegnarlo, lo strappa in quattro e se lo mette in tasca, rinunciando al premio in nome della propria dignità di uomo n° 5 • Novembre 2012


1 - Ritratto di Hyppolite Taine. 2 - La Dama Bianca, Antonio Salerno.

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libero. La libertà implica la rinuncia a un benessere conquistato con l’asservimento. Oltre la contingenza immediata dell’episodio relativo alla ribellione di Étienne, lo sguardo polemico di Taine si appunta contro il meccanismo istituzionale dei concorsi, vuoto teatrino della selezione, rito circolare, ipnotico trita coscienze, frutto di una mentalità burocratica e omologante. Il genio individuale non viene esaltato, ma depresso dalla macchina dello Stato. L’antico sogno della neutralità e naturalità dell’arte, incarnata dalla figura del padre di Étienne, si scontra con la dura realtà, viene triturata nell’ingranaggio devastante dei gruppi politici. Mayran non rifiuta totalmente il valore delle istituzioni. La sua è una ribellione pacata, modesta, senza esplosioni di collera, frutto di meditazione. A freddo e con civiltà, rinuncia al premio per non essere schiacciato in un disumanizzante meccanismo di alienazione e capire «il sodo singhiozzo delle esequie interiori». Taine sottolinea sapientemente il percorso di mutazione del suo personaggio, l’acquisizione di consapevolezza. Nei lunghi silenzi della vita solitaria, Étienne ha la possibilità di pensare; attratto dalla catena meravigliosa dei dialoghi platonici e socratici, si imbeveva del ragionamento, come in una dimostrazione geometrica, creando connessioni, ordinando idee originali, vivendo a tu per tu con pensieri vivi. Naturalmente la nuova visione della cultura muterà i rapporti con gli altri. Così, se Étienne Mayran è lo stesso Taine, la storia della sua personale formazione culturale, esistono due Taine: il solipsista che pensa in autonomia e quello istituzionale. Il secondo viene discusso e criticato anche in Graindorge2: «il concorso è il passaggio obbligato per intraprendere qualunque carriera, nell’esercito, nella marina, nell’insegnamento, nell’amministrazione demaniale, nell’università, nei ministeri, nei diversi settori dell’industria privata e pubblica; è uno sbarramento non doppio, triplo, quadruplo, anzi ripetuto all’infinito, continuo, che si perpetua nel sistema delle classifiche, dei punteggi e delle promozioni, in tutte le grandi scuole di Stato, nell’amministrazione pubblica, come pure nell’eserSul Romanzo

cito». Burocrazia corruttibile, imperfetta, “macchina vuota”, talvolta perfino “nociva”. Il Concorso Generale descritto nell’Étienne è un mostro, un loop rituale e alienante. I vincitori dei concorsi si adagiano all’ombra della loro stessa vittoria e non sono stimolati a produrre, a creare, preferendo a ulteriori approfondimenti la vita comoda del posto fisso. Taine è un liberale che invide la burocrazia. Come dargli torto? Il sistema concorsuale attuale è addirittura degenerato nel marciume, con risultati non sempre limpidi. Il risultato si riflette inevitabilmente a livello sociale con incompetenze diffuse in tutti i settori, con persone catapultate in posti di lavoro per i quali spesso non possiedono la preparazione sufficiente, creando danni incalcolabili a breve e lungo termine. Il sistema dei partiti, poi, alimenta fermenti parassitari sparpagliati ovunque, nelle banche, nelle università,

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3, 4 - File per l'acquisto di iPhone. Sullo sfondo - Revolt, foto di bass_nroll..

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nelle scuole, nelle aziende, nei ministeri. Parassiti dal ventre gonfio che mangiano senza produrre ricchezza o cultura, piaga della società contemporanea in un intrico di politica e raccomandazioni. Chi piega il capo alle logiche di potere spesso occupa posti di rilievo immeritatamente: una società ferita, piagata dalla corruzione burocratica, mondo in cui l’intelligenza e la creatività non sempre vengono premiate; un universo delirante in cui il creativo autentico, che si ostina a non soggiacere al peso del potere costituito, volendo mantenere la sua integrità di libero pensatore, di indagatore, di poeta e scrittore, si trova isolato, in una dinamica che non di rado lo conduce sull’orlo della povertà. La logica concorsuale dei test a crocette depaupera il moto creativo, disumanizza in rigidi schemi cristallizzati in cui non tutte le intelligenze riescono ad inserirsi; test che appiattiscono la personalità, la riducono all’ovvietà di sapere o non sapere, senza possibilità di replica, di argomentazione, di dialogo o analisi; un non-sense che, forse, può conciliarsi con

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l’aridità di certi contenuti matematici, ma non con la pienezza della cultura filosofica, letteraria e poetica oggi enormemente sottovalutata in nome del tecnicismo. La poesia è libertà, capacità di superare schemi, di andare oltre il conosciuto alla ricerca di un mistero che non potrà mai essere racchiuso dentro l’angusta casella barrabile di un test a crocette, valido per una società di alienati, per pecore belanti che si mettono in fila per acquistare l’iPhone 5, trascurando oceani di ricchezza poetica. Oche da batteria.

NOTE: 1 Hippolyte Taine, Étienne Mayran, a cura di Patrizia Lombardo, Adelphi, Milano, 1988. 2 Id, Appunti su Parigi: vita ed opinioni di Federico Tommaso Graindorge, Editoriale Domus, 1945. n° 5 • Novembre 2012


Racconti contro la precarietà

La dimensione lavorativa è mutata radicalmente negli ultimi dieci anni. Parole come precarietà, disoccupazione, inoccupazione, contratti a progetto, lavoro interinale, somministrazione, telelavoro, lavoro ripartito, apprendistato, contratto di solidarietà, formazione e lavoro, part-time, inserimento professionale, lavoro intermittente sono, ormai, entrate nel linguaggio comune quotidiano. Se è vero, per dirla con Hannah Arendt, che esiste un nesso imprescindibile tra l’attività lavorativa e la vita activa, al punto che la prima è la conditio sine qua non della seconda, risulta evidente che uno stravolgimento così radicale del mondo del lavoro non può che avere conseguenze ben peggiori della semplice precarizzazione. Togliere all’uomo e alla donna l’attività lavorativa (o renderla sempre meno certa) significa minare alla base le fondamenta che rendono possibile l’affermazione di una dimensione immaginifica e sociale della vita umana, laddove la prima dovrebbe consentire il superamento dei limiti dell’ambiente naturale attraverso l’operare e la seconda permette la concretizzazione dell’esistenza nell’azione, che ha sempre una valenza politica. La letteratura può e deve offrire spunti di riflessione in grado di raccontare tale cambiamento, riuscendo ad anticiparne le conseguenze nel medio e lungo termine.

È con questo spirito che la Webzine Sul Romanzo ha deciso di dare spazio a racconti che sappiano mettere in luce quanto è accaduto, sta accadendo e, soprattutto, potrebbe ancora accadere nella vita umana, a seguito della precarizzazione del mondo del lavoro.

Per partecipare, è sufficiente inviare un Racconto che dovrà essere: –– inedito e in lingua italiana; –– redatto in formato Word (.doc) e con font Times New Roman 12; –– di una lunghezza compresa tra un minimo di 8.000 caratteri (spazi inclusi) e un massimo di 11.000 caratteri (spazi inclusi); –– corredato delle seguenti informazioni, riportate in alto a destra nel file: nome e cognome dell’autore, data e luogo di nascita, codice fiscale e indirizzo email; riferimento esplicito a “Rubrica Racconti contro la precarietà – Webzine Sul Romanzo”; –– essere inviato a mezzo e-mail al seguente indirizzo: gerardoperrotta@sulromanzo.it indicando nell’oggetto Racconti contro la precarietà. Non saranno ammessi alla valutazione interviste, articoli, poesie, estratti di romanzo, opere teatrali, semplici recensioni e tutto quanto sia anche solo indirettamente riconducibile ad essi. Valutazione dei racconti La valutazione sarà condotta dalla Redazione di Sul Romanzo e in modalità blind review. Gli autori dei racconti ritenuti idonei per la pubblicazione saranno informati a mezzo e-mail. Per mancanza di spazio nel numero, potrebbe non essere possibile pubblicare tutti i racconti ritenuti idonei; tuttavia, col consenso degli autori, saranno pubblicati nel primo numero successivo utile o nel sito internet del blog www.sulromanzo.it. Criteri di inammissibilità Indipendentemente dalla qualità di quanto proposto, saranno considerati inammissibili i racconti: –– presentati dagli attuali collaboratori di Sul Romanzo, per i quali esistono già linee di collaborazione interne alla Redazione; –– che ledono il diritto alla privacy di terze persone e/o che presentano elementi riconducibili a calunnia e/o diffamazione; –– che presentano un possibile conflitto di interessi; –– che ledono il diritto d’autore di terze parti; –– già editi. Note finali L’invio del racconto non dà diritto alla pubblicazione. Gli autori sono i soli responsabili per i contenuti dei loro racconti e per la loro originalità e, in caso di pubblicazione sulla Webzine e/o sul blog, manterranno i diritti sul loro racconto e cedono a Sul Romanzo il diritto di prima pubblicazione dello stesso in formato cartaceo e in formato elettronico sotto una Licenza Creative Commons — Attribuzione che permette ad altri di condividere l’opera indicando la paternità intellettuale e la prima pubblicazione sulla Webzine Sul Romanzo. Resta intatto il diritto dell’autore a distribuire la versione del racconto pubblicato, dopo la sua pubblicazione nella Webzine o sul Blog, indicando, però, Sul Romanzo, come mezzo della prima pubblicazione. I nomi degli autori e tutti i dati rilasciati in fase di presentazione e pubblicazione dei racconti saranno utilizzati solo per gli scopi dichiarati e/o per tenere gli autori informati su eventuali iniziative indette da Sul Romanzo. In nessun caso, verranno resi disponibili a terzi.

I racconti potranno essere incentrati su un tema scelto dall’autore, purché in linea con l’orientamento generale della Rubrica. Sul Romanzo

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Fernando Pessoa: un sognatore nostalgico fra Salazar e Mussolini. Intervista a José Barreto di Marcello Sacco

Esperto del pensiero politico del sec. XX, il sociologo José Barreto si è accostato negli ultimi anni al pensiero politico di Fernando Pessoa, scoprendo, nel baule del poeta, diversi inediti dedicati al fascismo italiano e a Mussolini. Tanti da farne un volume di imminente uscita in Portogallo presso l’editore Ática con il titolo Sobre o Fascismo, di cui abbiamo dato già notizia nell’articolo Su Fernando Pessoa e Benito Mussolini, pubblicato il 07/10/2012 sul blog Sul Romanzo. Diamo ora la parola direttamente al curatore.

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Fernando Pessoa e il fascismo italiano. Vogliamo parlarne? Pessoa non ha mai analizzato in modo ampio e approfondito il fascismo. Tuttavia, ha lasciato una quantità di brevi testi sul fascismo e vari altri in cui affronta en passant temi come il fascismo e Mussolini. Ho riunito in un volume tutti questi testi sparsi, scritti fra il 1923 e il 1935. L’ho fatto soprattutto perché Pessoa è stato considerato, da vari storici portoghesi e stranieri, un pensatore reazionario, un “prefascista”, un “ammiratore di Mussolini”... Ebbene, tali valutazioni del suo pensiero politico mi sono sempre sembrate totalmente abusive e false. Queste opinioni provengono generalmente da autori che ignoravano le migliaia di pagine inedite dell’archivio Pessoa. Ma neanche la parte della sua opera già nota li autorizzava a esprimere tali giudizi. Pessoa non ha mai scritto un’unica parola di elogio al fascismo, dinanzi al quale è sempre stato molto critico, sdegnoso e perfino sarcastico. Mi riferisco al fascismo in generale e, in particolare, a quello italiano, non al “fascismo portoghese”, se così vogliamo chiamare il regime di Salazar. Pessoa morì nel 1935, nella fase iniziale dello Estado Novo (fase della dittatura che inizia con la Costituzione del 1933, ndr), epoca in cui, a eccezione della stampa clandestina comunista, erano molto pochi coloro che consideravano fascista la dittatura di Salazar. Inoltre, nel Portogallo di allora, erano rari quelli che si dichiaravano espressamente fascisti, sebbene ci fossero parecchi ammiratori di Mussolini e

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del suo Regime. Per quanto il dittatore portoghese ammirasse Mussolini, e persino Hitler, il suo conservatorismo tradizionalista e il suo cattolicesimo segnavano un’evidente distanza dal fascismo italiano e dal nazismo. Il cattolicesimo del dittatore portoghese era, del resto, uno degli aspetti che Pessoa più detestava: «Purtroppo, lui è sopra ogni altra cosa cattolico». Da un lato, il fondo liberale della sua formazione britannica, il suo individualismo radicale, la sua apologia del capitalismo e il suo concetto di uno Stato ad azione limitata l’hanno sempre tenuto lontano e molto critico rispetto al fascismo, che era anti-individualista, statalista e corporativista. D’altro canto, un decisivo antidoto contro le idee autoritarie e fasciste è stato, in Pessoa, il suo assoluto rispetto per la dignità della persona umana e per la libertà di spirito, la sua costante apologia della libertà d’espressione e di creazione artistica individuale, così come la sua posizione sul ruolo indipendente degli intellettuali nella società e di fronte allo Stato. Queste sue caratteristiche lo portavano a fare di bolscevismo, fascismo e hitlerismo un solo fascio dal sapore apocalittico: erano «la tripla prole dell’Anti-Cristo». Oppure, in un altro scritto degli anni Trenta: «Soviet, comunismo, fascismo, nazional-socialismo non sono che lo stesso fatto, il predominio della specie, ossia dei bassi istinti, che sono di tutti, contro l’intelligenza, che è solo dell’individuo». n° 5 • Novembre 2012


1 - José Barreto. 2 - Retrato de Fernando Pessoa, José de Almada Negreiros, 1964. (Foto di Nuno Castro).

Episodi come quello dell’intervista a G. B. Angioletti sembrano rivelare un Pessoa politicamente più attivo e “inquieto”, in contatto addirittura con settori della resistenza repubblicana. È d’accordo? Quando, nel novembre 1926, accade questo episodio della falsa intervista al giornale Sol con un immaginario esule antifascista di nome Giovanni B. Angioletti (nome rubato a un intellettuale italiano realmente esistito, ma che nulla ebbe a che fare con il caso), la dittatura militare che precedette lo Estado Novo esisteva da sei mesi ed era ancora lontana da una definizione chiara dal punto di vista politico. Alcuni dei principali capi militari simpatizzavano con la nozione di “regime autoritario” e, di conseguenza, con il modello offerto dal fascismo italiano, all’epoca già totalmente radicato. Il direttore dell’effimero quotidiano Sol, Celestino Soares, giovane e brillante amico di Pessoa, invitato da costui a prestare la sua multiforme collaborazione al giornale (articoli, poesie, la citata intervista e perfino la traduzione di un romanzo giallo a puntate), era un repubblicano del Partito Democratico (al potere quando avvenne il golpe militare), nonché acerrimo critico del fascismo. Sol pubblicò vari articoli in cui si denunciavano la violenza fascista in Italia e le movimentazioni di elementi fascistoidi portoghesi. Ebbene, proprio quando si trova a Lisbona un gerarca fascista, il deputato e colonnello Sul Romanzo

delle camicie nere Ezio Maria Gray, venuto nel novembre 1926 per fondare il Fascio degli Italiani nella capitale portoghese, Pessoa scrive la sua immaginaria intervista, cosa che gli permette di esprimere alcune opinioni personali sul fascismo e su Mussolini. L’episodio fu una reazione diretta alla creazione del Fascio di Lisbona e alla presenza di Gray. Ma anche una reazione indiretta alla crescente influenza ideologica del fascismo italiano in Portogallo, in seguito al golpe militare del maggio 1926. Ciò non significa assolutamente che Pessoa si sia avvicinato alla resistenza repubblicana portoghese – che ancora non si era nemmeno organizzata – o che Pessoa si opponesse alla dittatura. Significa soltanto che accettò la sfida dell’amico e prese al volo l’opportunità di scrivere su un quotidiano e guadagnarci un po’ di soldi. L’idea della falsa intervista col supposto Angioletti, interamente redatta da Pessoa, potrebbe essere nata da una conversazione con Soares, visto il successivo progetto di Pessoa di includerla in una collettanea di testi scritti su “sollecitazione esterna”. Ciò implica, però, che le opinioni di Pessoa sul fascismo italiano – che considerava follia collettiva, nazionalismo passatista e tradimento della missione civilizzatrice universalista dell’Italia – e su Mussolini – che considerava un genio politico, ma pazzo paranoico e intellettualmente primitivo – erano certamente note a Soares. n° 5 • Novembre 2012

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Possiamo affermare che le opinioni sul fascismo italiano riflettono, in qualche modo, le opinioni che Pessoa si era fatto sulla politica portoghese dopo il golpe del 28 maggio 1926? Come ho detto prima, nel novembre del 1926, nulla era ancora definito rispetto all’orientamento politico che la dittatura militare portoghese avrebbe scelto. Fino al 1930, data in cui Salazar consolida il suo potere all’interno del governo e dà maggior coesione politica alla dittatura, furono molte le indecisioni, le prove di forza e i regolamenti di conti fra gli stessi gruppi militari. Sappiamo che Pessoa detestava la censura da essi instaurata, sulla quale scrisse, nel 1927, una poesia satirica. Sappiamo anche che si opponeva totalmente all’adozione di modelli politici stranieri. Non disprezzava solo l’internazionalismo della sinistra, ma anche l’influenza di Charles Maurras all’origine dell’Integralismo Lusitano (movimento dell’estrema destra monarchica, cattolica e corporativista) e le ridicole imitazioni del fascismo italiano e dell’hitlerismo che erano apparse nel panorama portoghese. Nel 1932, in un testo sul provincialismo portoghese, Pessoa rinnovava la sua critica a questi plagi: «Sono apparsi dei frusti miscugli di teorie straniere, in gran parte, se non nella totalità, sospetti all’intelligenza e ripugnanti all’istinto. E i miscugli sono il male minore. Il peggio sono i plagi diretti, senza confusioni né mescolanze. Si è plagiato tutto quello che c’era da plagiare all’estero; cose che hanno vinto, almeno per ora, come il fascismo; cose che stanno per vincere, o forse no, come l’hitlerismo».

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Quelli che difendono la tesi della maggiore vicinanza del poeta al regime portoghese sono soliti citare Interregno. Difesa e giustificazione della dittatura militare in Portogallo, opera che Pessoa in seguito rinnegò e che lei, prof. Barreto, considera «mai compresa né adeguatamente studiata». Ripeto che non c’era un “regime portoghese” nel 1927-1928, quando Pessoa scrisse e pubbicò O Interregno. Non c’era un regime, ma solo una dittatura che non si sapeva esattamente che strada avrebbe preso. C’era una continua prova di forza tra le varie fazioni che la componevano, le quali erano d’accordo solo su un punto: il Portogallo non poteva tornare alla vecchia Repubblica, dove il potere era stato monopolizzato dal Partito Democratico e da cui non era mai emersa una consistente alternativa di governo a questo partito. Ma un settore militare voleva il ritorno alla normalità costituzionale repubblicana; altri, i cosiddetti nazionalisti, volevano fare tabula rasa del passato e imboccare la strada del regime autoritario; altri ancora avevano la restaurazione della monarchia come obiettivo primario, con o senza governo autoritario. Si viveva una fase di transizione verso qualcosa di ignoto. È questa evidente realtà che Pessoa ribattezzò “interregno”. Ma che cosa proponeva, alla fine, col suo Interregno, in cui il discorso critico e razionale del sociologo dà la mano al discorso mistico del profeta e del poeta? Non lo sapremo mai, perché non l’ha mai spiegato. O Interregno fu solo il primo n° 5 • Novembre 2012


3 - Antonio Salazar (in alto a destra) e Benito Mussolini (in basso a sinistra). 4 - Un articolo di Pessoa per il Sol, e la sua intervista fittizia, pubblicati nel novembre del 1926.

Più tardi, Salazar avrebbe ottenuto l’adesione di molti intellettuali di quella generazione. Come possiamo dire che fu, in generale, la vita di Pessoa sotto il salazarismo?

4 di una serie di cinque manifesti che Pessoa pensava di pubblicare, ma che non scrisse. Possiamo solo essere sicuri che, in Interregno, non vagheggiava né il ritorno al costituzionalismo (repubblicano o monarchico che fosse), né un regime d’autorità all’italiana, né la restaurazione della monarchia – ossia le tre ipotesi principali poste sul tavolo della dittatura militare. Secondo l’autore, il regime che lo Stato di transizione (o interregno) avrebbe dovuto creare non poteva essere a lungo termine un governo «tipicamente di forza», che esisterebbe soltanto in società barbare o semibarbare. A questo governo, necessario in una rivoluzione o in una guerra civile, doveva succedere, tramite un processo di consolidamento e stabilizzazione, un «governo d’autorità». Ma anche questo, secondo Pessoa, non poteva durare per sempre, perché l’autorità sarebbe stata un «prestigio illogico», soggetto a degenerare e scomparire. Quando O Interregno fu pubblicato, nella primavera del 1928, il governo d’autorità della dittatura militare durava già da quasi due anni. Ciò che Pessoa spiega nel suo opuscolo è che quel governo d’autorità non poteva durare molto di più ed era necessario trasformarlo in un «sistema di governo fondato sull’opinione», poiché, oltre alla forza e all’autorità, non restava altro fondamento per l’esistenza di un governo all’infuori dell’opinione. La soluzione consisteva, dunque, nell’estrarre dall’opinione pubblica un sistema di governo. Pessoa, si noti, non spiegò mai come si sarebbe realizzato tutto ciò. Sul Romanzo

Il caso Pessoa illustra bene il crescente scontento di un settore degli intellettuali portoghesi rispetto al salazarismo. Vari scritti rimasti inediti (e che non sarebbero mai passati al vaglio della censura) espongono in maniera chiara tale processo. In uno di questi, redatto in inglese, traccia un parallelo fra la situazione italiana e quella portoghese e vale la pena citarlo: «In Italy the intellectuals were against the fascist system from the outset. It was clearly a tyranny from the outset. In Portugal, the intellectuals which at first were either politically indifferent or even favourably disposed to the Dictatorship, have gradually been pushed and pressed into the opposition. No intellectual of any real standing, that is to say, of any standing which is both moral and intellectual, lives now in the shade of the drowsy fascism of Salazar». Pessoa fu uno di questi indifferenti, o addirittura disposti favorevolmente alla dittatura, il quale, non avendo mai aderito veramente al salazarismo ed essendo diventato sempre più scettico e disilluso, fu gradualmente spinto verso l’opposizione. Nei circoli letterari e artistici in cui Pessoa si muoveva, questo scetticismo e questa delusione, quando non l’aperta opposizione, erano dominanti. È noto che, agli inizi del 1935, Pessoa ruppe pubblicamente col regime, malgrado il recente premio che il governo di Salazar aveva riconosciuto alla sua opera poetica nazionalista Messaggio – premio letterario che mirava apertamente ad allettarlo nella posizione di poeta-profeta del regime. L’ultima goccia, in questa rottura totale, fu proprio il discorso di Salazar alla cerimonia di consegna dei premi letterari, a cui il premiato Pessoa non partecipò, perché aveva già rotto con il regime in un celebre articolo di giornale. Nel suo discorso, Salazar si era permesso di fare non solo l’elogio della censura, ma anche dell’imposizione di “direttive” politiche agli scrittori e agli artisti, apostrofando gli intellettuali renitenti come «sognatori nostalgici dell’abbattimento e della decadenza» – una frase che sembrava tagliata per colpire personalmente il poeta. La furia con cui Pessoa reagì alla lettura del discorso sui giornali è testimoniata da vari dei suoi scritti e persino in poesie satiriche che prendevano in giro il dittatore. Una di queste poesie, di cui circolarono copie nei caffè, era firmata appunto «un sognatore nostalgico dell’abbattimento e della decadenza».

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«Anche qui bisogna disfare un equivoco: Pessoa non ha mai aderito a nessun tipo di dittatura, anzi, come lei saprà, ci sono delle poesie fortemente satiriche su Salazar. [...] Se qualche nostro Papini (perché come idee e come direzione culturale siamo lì, siamo un po’ con i vociani) avesse fatto una poesia sul Mussolini-bussolini, non so come sarebbe stata presa. Non era poi così facile. Comunque, per correggere un po’ il concetto di “adesione al fascismo”, direi che certamente Pessoa ha una visione molto conservatrice e anche reazionaria della società. Una cosa di questo genere però, oltre a non inquietarmi affatto perché non ho mai pensato che per fare della buona letteratura si debba necessariamente essere di una certa idea politica – come lei sa, di buone intenzioni è cosparsa la via dell’inferno – una cosa di questo genere andrebbe anche letta all’interno del sistema poetico creato dall’autore, perché le idee “politiche” e culturali espresse da Pessoa o dai suoi personaggi sono talmente contrastanti fra loro che isolarne solo una non sarebbe un’operazione filologicamente corretta […] C’è una grande, ottima letteratura del Novecento europeo con delle visioni perfettamente conservatrici – prendiamo Céline, ma potrei nominare molti altri autori. Eppure, tanto per fare le debite distinzioni, Pessoa non ha mai compiuto scelte così radicali, non si sarebbe mai sognato di esprimere un antisemitismo come quello di Céline. […] Io non vedrei delle influenze nefaste di Pessoa sulle scelte politiche che il Portogallo ha fatto dal ’30 fino a quando è durato Salazar. Non attribuirei a Pessoa nessun tipo di responsabilità, né del colpo di Stato del Maresciallo Carmona, né delle manovre politiche che hanno portato al potere Salazar, né della polizia politica, né della guerra coloniale. Intendiamoci bene, quando si parla di responsabilità dell’intellettuale si parla di questo. E di questo, Pessoa non è responsabile. Céline invece può essere responsabile della pulizia e della persecuzione ebraica che il governo di Vichy ha fatto. Non dimentichiamo che Bagatelles pour un massacre è stato un libello assolutamente pestifero che ha circolato in una Francia in cui si prendevano gli ebrei e li si metteva sui vagoni piombati per spedirli ad Auschwitz.»

(Tratto da: “Piccoli equivoci molto importanti. Colloquio con Antonio Tabucchi”, in Marcello Sacco, Sete Sóis Sete Luas 1993-1999, Pisa, ETS 2000).

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Da Tucholsky a Canetti: fenomenologia di un gioco spietatamente banale di Daniele Duso

lsky. 1 - Kurt Tucho

Per un intellettuale esistono tanti modi di relazionarsi al potere. Esistono modi semplici, solitamente scelti dai più, che equivalgono a un adattarsi supino a certe imposizioni, ma anche alternative più coraggiose, che consistono nel provare a opporglisi e a mettere in guardia il mondo dalle trappole che il potere crea, necessariamente, per autoalimentarsi. Per appartenere al secondo gruppo bisogna essere coraggiosi, come già detto, ma non basta: serve soprattutto la capacità di guardare il mondo con lucidità, accompagnata da una forza di volontà intrecciata a un qualcosa che qualcuno chiamerebbe ottimismo, ma che, in realtà, è solo incapacità di concepire la resa, anche di fronte all’orrore. Una capacità che sicuramente aveva Kurt Tucholsky. Nato nel 1890 a Berlino, Tucholsky è stato uno scrittore, un poeta e un giornalista graffiante, corrosivo, apprezzato, seppur da pochi, per i suoi brillanti scritti, nei quali sosteneva l’esigenza di «spazzare via dalla Germania, con una granata di ferro, tutto questo marciume». Oggetto dei suoi attacchi era, e ciò non sorprenda, la Germania del primo dopoguerra, una società uscita con le ossa rotte da un conflitto nel quale la “missione civilizzatrice” del popolo tedesco aveva dovuto soccombere sotto i colpi di antagonisti malvagi. Convinzione, questa, sempre più diffusa, assieme alla leggenda della “pugnalata alla schiena”, quella che, secondo molti, era stata inflitta da un nemico interno al SeconSul Romanzo

do Reich quando la guerra stava ormai per essere vinta. Mentre il nuovo governo guidato dai socialdemocratici tentava timidamente di rimettere in piedi il Paese, nessuno pareva accorgersi che «lo spirito tedesco era intossicato quasi senza speranza di recupero»: se n’era accorto Tucholsky. Nel periodo che va dal 1919 al 1933, quello che coincide con la Repubblica di Weimar, Kurt Tucholsky continuò la sua attività collaborando con varie testate giornalistiche, alle quali proponeva articoli (firmati con curiosi pseudonimi come Theobald Tiger Worte, Ignaz Wrobel, Peter Panter e molti altri), coi quali sbeffeggiava non tanto il potere di allora, quanto coloro che, di lì a poco, ne avrebbero preso possesso con la violenza più disumana e il sostegno della maggioranza dei tedeschi. Deridendo sistematicamente ogni forma di patriottismo, arrivando a dire che tutto ciò che era tedesco era stupido a priori, Tucholsky provava insistentemente a denunciare le violenze crescenti della Destra, la brutalità della guerra, la pochezza umana di coloro che volevano salire alla guida del Paese. «Non esiste interesse statale o economico o di un popolo che possa giustificare tali bestiali mostruosità come quelle perpetrate in guerra da tutte le parti. Nessun singolo è un tale mostro – scrisse in un articolo la vigilia di Natale del 1925, due anni dopo il colpo di Stato tentato da Hitler, non immaginando nemmeno quanto le sue parole anticipassero un futuro che sarebbe diventato realtà – da poter comn° 5 • Novembre 2012

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come Il Nuovo Melangolo e Studio Tesi; il resto, con molta fortuna, sulle bancarelle dei mercatini dell’usato) che comprendono anche romanzi d’una intelligenza sottile, caratterizzati da rapidi scambi di battute che strappano sorrisi agrodolci in panorami nei quali si intravvedono appena accennate malinconie e poesie di un umanista fuori tempo. «Scrivo e scrivo – annotò Tucholsky nel 1931 – ma qual è l’effetto sulla gestione del Paese?», quasi una constatazione di sconfitta di fronte a un crescente odio nei suoi confronti e di tanti intellettuali come lui, da parte di una Destra che raccoglieva sempre più facilmente consensi, rafforzando nella gente l’idea che gli intellettuali di sinistra fossero tutti traditori. Tucholsky morì suicida nel 1935, un anno dopo che Hitler aveva assunto il titolo di Führer, giusto in tempo per risparmiarsi il peggio che il regime fascista seppe partorire.

mettere da solo ciò che ogni reparto gerarchico ha commesso. Nessun uomo è mai stato un criminale così diabolico da aver elaborato da solo un piano omicida per poi eseguirlo da solo nei minimi dettagli e beneficiare da solo dei frutti della vittoria». Ostinatamente convinto che ci fosse ancora tempo, che la Germania potesse ancora salvarsi, si rivolgeva soprattutto ai più giovani: «Ci rivolgiamo a voi – scriveva sempre nello stesso articolo del 1925, intitolato Das Andere Deutschland e firmato Ignaz Wrobel –, perché voi sarete la Germania del 1940. E non come portavoce dei milioni di caduti, tra cui c’erano pacifisti, indifferenti ed entusiasti della guerra, ma come portavoce delle donne in lutto e dei bambini, di quella forza popolare ferita nel più profondo dal gas tossico delle granate e dalla sifilide contratta sul campo, scongiurandovi di condurre con noi – contro la pusillanimità piccolo borghese e noncuranti di tutti i concistori dalle idee oscurantiste – la battaglia più morale che mai sia stata combattuta: quella contro la guerra», una convinzione di poter contrastare la deriva che durò tuttavia ancora pochi anni, e si spense, volontariamente, ad appena quarantacinque anni, lasciando un’eredità vastissima di scritti (dei quali poco si trova in italiano, e molto di quel poco grazie a case editrici

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privata. 44. Collezione 19 , sz ro G e rg o, Geo 2 - Il sopravvissut . rge Grosz, 1944 er all’infer no, Geo itl H o , no ai C 3 ucholsky. afico di Kurt T gr to fo to at itr 4-R ti.

5 - Elias Canet

5 Diversamente da Tucholsky, Elias Canetti conobbe il fascismo, lo sperimentò, lo scrutò da vicino analizzandolo in tutto e per tutto. Nato nel 1905 a Rustchuk, nell’attuale Bulgaria, Canetti cresce viaggiando (dall’età di sei anni è a Manchester, due anni dopo a Vienna, con una lunga tappa a Ginevra, in Svizzera, dove tornerà, ma, a partire dagli undici anni, è a Zurigo) e sviluppando, anche grazie alla madre, uno speciale rapporto con le lingue (in una famiglia di origine ebrea sefardita, nella quale si parlava spagnolo, fin da piccolo venne a contatto anche con il bulgaro, l’inglese e il tedesco, lingua che la madre lo obbliga a imparare e che rimarrà quella maggiormente usata da Canetti per tutto il resto della sua vita: vicende magistralmente narrate nel primo volume della sua autobiografia, La lingua salvata). Tutta la vita di Canetti viaggia in parallelo alla composizione di un’opera monumentale, un approfondito intreccio di discipline diverse che appare quasi impensabile quale prodotto di una sola mente. Sicuramente un unicum nel panorama culturale del Novecento, Massa e potere è un’opera difficile da definire. La sua origine, ricorderà lo stesso autore, è in un’esperienza diretta, vissuta sul finire degli anni Venti a Vienna. Da lì parte un flusso di coscienza e conoscenza rielaborate continuamente, fino alla pubblicazione, avvenuta nel 1959: trent’anni durante i quali Canetti accumula letture, viaggi, pensieri, testimonianze, rielaborate poi in 600 pagine (in Italia pubblicate da Adelphi, come tutte le altre opere di Canetti) dense di psicologia, antropologia, sociologia, mitologia; pagine che illustrano il fenomeno del potere da più punti di vista assieme a quello che è uno dei suoi elementi vitali, la massa che lo sostiene. In undici sezioni, più un epilogo, si sviscerano gli “organi del potere”, gli “elementi del potere”, gli “aspetti del potere” in uno studio che si basa sull’osservazione minuziosissima Sul Romanzo

dell’uomo i cui gesti, linguaggi, atteggiamenti, anche i più intimi e naturali, vengono messi in relazione tra loro e con un imponente numero di concetti accumulati in anni e anni di studi e letture. Canetti individua lo stretto legame che esiste tra il potere e la morte. La morte degli altri, ovviamente, di fronte alla quale il sopravvissuto si sente dapprima impaurito, spaesato, prima di rendersi conto di essere vivo, ancora in grado di stare in piedi. È questa condizione dello “stare in piedi” del sopravvissuto (osservata da Canetti anche in un’altra raccolta di brevi saggi, Potere e sopravvivenza, uscita nel 1972) che, reiterandosi nel tempo, dà l’illusione dell’invulnerabilità, il nucleo primordiale del potere. Un nucleo che l’autore ricerca, insegue, nel tempo e nello spazio, fin nei luoghi più impudichi, come quando, alle pagine 252-253 scrive che «anche prescindendo dal potente che sa concentrare tanto nelle sue mani, il rapporto di ogni uomo con i suoi escrementi rientra nella sfera del potere. Nulla è appartenuto a un uomo più di ciò che si è trasformato in escremento. [...] Ci si libera dei propri in locali particolari, che servono solo a ciò; l’istante più privato è quello della deiezione; l’uomo è veramente solo soltanto con i suoi escrementi»1. Elementi concreti, presi da ri1 Elias Canetti, Massa e potere, trad. di F. Jesi, Adelphi, Milano 1981.

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flessioni emergenti dal banale vissuto quotidiano, come in questo caso, che quasi ridicolizzano il concetto di potere, si mescolano a elementi altrettanto concreti, presi da una costellazione di letture vastissima, che sconcertano nel dimostrare quanto in realtà l’umanità sia prossima all’animalità. «Se le gazzelle avessero una fede e se il leone fosse il loro dio – riflette Canetti a pag. 374 –, potrebbero spontaneamente concedergli una di loro per placare la sua avidità. È proprio quello che accade fra gli uomini: dalla loro angoscia di massa trae origine il sacrificio religioso, che per un certo periodo di tempo frena il corso e la fame del potere pericoloso». In questo sta il fascino di un’opera che nel suo mettere ordine a immagini solitamente associate al caos, presenta con semplicità che non scade mai nel semplicismo, tutta la reale banalità del male. E se Massa e potere, proprio per la sua atipicità, è stato spesso guardato con diffidenza dalla critica, così non è stato per altre opere di Elias Canetti, in particolare la straordinaria trilogia bibliografica, riconosciuta come uno dei documenti più intensi del Novecento, che gli valse il premio Nobel per la letteratura nel 1981. Canetti si spense a Zurigo, all’età di 89 anni, nel 1994.

Credo che non si possa rileggere, oggi, il pensiero di questi due straordinari autori senza provare un senso di turbamento. Da un lato, Tucholsky, che, vent’anni prima della presa del potere da parte di Hitler, tentava di mettere in guardia, con i suoi articoli, la società in cui viveva. Chiaramente, senza tanti giri di parole, indicava quali erano le buche sul terreno e quali erano, tra queste, le più pericolose. Indicazioni che ebbero ben poco successo, come tutta la storia successiva ci conferma, parlando di un popolo che proprio in quelle buche, e proprio in quelle peggiori, è finito per impantanarsi, in un epilogo che mette a dura prova la tenacia e l’entusiasmo di ogni intellettuale, di ogni umanista convinto che sia giusto, e che sia necessario, vigilare sulla realtà e, nel caso, mettere in guardia i propri contemporanei. Dall’altro lato, diverso è il turbamento che crea Canetti. Egli dimostra, nella sua dissezione del potere e delle sue strutture, come sia tutto basato su concetti semplici, primordiali, per nulla sovrannaturali o super-umani. Uno studio lungo una vita, quello di Canetti, che, prendendo «il secolo alla gola», come proprio l’autore scrisse in un appunto subito dopo aver spedito all’editore Massa e potere, giunge a individuare delle costanti, delle naturalissime “regole” immutate e forse immutabili nel tempo, che sanciscono un’equazione già nota e che, non appena la ragione s’assopisce, sono pronte a generare mostri. Se Tucholsky prova a prevenire, Canetti non ha certo la presunzione di creare, a posteriori, un vaccino. Noi uomini siamo fatti così, sembra affermare Canetti, e non è detto che certi fenomeni non possano ripetersi. «Il sistema del comando è universalmente ammesso – spiega nelle ultime righe del suo studio –. Lo si trova sommamente accentuato nell’esercito. Ma anche molti altri ambiti della vita civile sono dominati e caratterizzati dal comando». Tuttavia, dice Canetti, anche il potere ha dei punti deboli, e si può sovvertire. «Chi vuole riuscire ad aggredire il potere deve guardare negli occhi senza timore il comando e trovare i mezzi per sottrargli la sua spina». Proprio quei mezzi che Tucholsky indicava, ma che nessuno ebbe la voglia, la capacità o il coraggio di vedere.

ti. 6 - Elias Canet

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Il Fascismo è un movimento recente ed antico dello spirito italiano, intimamente connesso alla storia della Nazione italiana, ma non privo di significato e interesse per tutte le altre.

(Giovanni Gentile, Manifesto degli intellettuali fascisti, 21 aprile 1925).

E forse un giorno, guardando serenamente al passato, si giudicherà che la prova che ora sosteniamo, aspra e dolorosa a noi, era uno stadio che l'Italia doveva percorrere per ringiovanire la sua vita nazionale, per compiere la sua educazione politica, per sentire in modo più severo i suoi doveri di popolo civile. (Benedetto Croce, Manifesto degli intellettuali antifascisti, 1° maggio 1925).

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Intellettuali e Fascismo: da Croce e Gentile a D’Annunzio, Marinetti, Pirandello e Ungaretti di Elena Spadiliero

1 - Gabriele D'Annunzio. 2 - D'Annunzio con Benito Mussolini. 3 - Filippo Tommaso Marinetti.

1 2 Con l’ascesa del Fascismo, si verificò all’interno del contesto culturale italiano una scissione tra chi, sebbene con modalità e tempi diversi, aderì al Regime e chi, invece, ne rimase sempre distante. È possibile, però, anche un’ulteriore distinzione, fra coloro che sostenevano l’esigenza di una presa di posizione da parte dell’artista e chi, invece, rivendicava l’assoluta necessità di un’autonomia delle arti, allontanandole da qualsiasi forma di coinvolgimento ideologico. Benedetto Croce e Giovanni Gentile furono senz’altro i due nomi più noti e importanti legati alla cultura letteraria nostrana del primo Novecento: insieme fondarono, nel 1903, la rivista La Critica, a cui Gentile collaborò fino al 1923. Il sodalizio tra i due si ruppe, infatti, quando Gentile aderì al Fascismo, accettando, nel 1922, la nomina a Ministro della Pubblica Istruzione; adesione che fu confermata quando, ispirandosi alla sua conferenza Libertà e liberalismo, durante il Convegno per la cultura fascista, tenutosi nel marzo 1925 a Bologna, fu redatto il Manifesto degli intellettuali fascisti agli intellettuali di tutte le Nazioni, un tentativo di definire con chiarezza e precisione le basi politiche e ideologiche della nascente dittatura. Qualche mese dopo, le voci di dissenso si riunirono attorno al Manifesto degli intellettuali antifascisti stilato da Croce, il quale, a differenza di molti altri colleghi, beneficiò sempre di una certa immunità, per la generale considerazione e la stima di cui godeva nel microcosmo intellettuale italiano.

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Già all’inizio del XX secolo, molti studiosi propendevano per i movimenti di Destra che, con l’avvento del Fascismo, finirono per essere inglobati e identificati nel suo programma. Da parte sua, Mussolini comprese l’enorme potenziale dei mezzi di comunicazione e della scuola come strumenti di propaganda e creazione del consenso: l’ideologia fascista si diffuse soprattutto grazie a Enti, come l’Istituto Fascista di Cultura, l’Istituto dell’Enciclopedia Italiana (denominato, fino al 1933, Enciclopedia italiana di scienze, lettere ed arti), la Reale Accademia d’Italia e l’Istituto Luce, solo per citarne alcuni. Per quanto riguarda i letterati inseriti in questo preciso momento storico, è interessante notare come le motivazioni alla base dell’adesione al partito da parte dei suoi sostenitori fossero piuttosto eterogenee fra loro. A tal proposito, è utile soffermarci su quattro casi distinti: Gabriele D’Annunzio, Filippo Tommaso Marinetti, Luigi Pirandello e Giuseppe Ungaretti. «Avere fede intiera nella mia lealtà e nella mia carità di patria. Il mio silenzio e il mio lavoro sono oggi esempio a tutti gl'italiani. Non l'uno sarà interrotto e non l'altro» (Lettera di Gabriele D'Annunzio a Benito Mussolini, 8 luglio 1924, un mese dopo l'assassinio di Giacomo Matteotti). n° 5 • Novembre 2012


Dopo Gentile, D’Annunzio è forse il primo nome automaticamente associato al Fascismo. La sua partecipazione politica seguì percorsi simili a quelli del collega Marinetti e fu contraddistinta, all’inizio, da un notevole entusiasmo e coinvolgimento, salvo poi rimanere delusa. I primi significativi contatti di D’Annunzio con Mussolini risalivano ai tempi dell’impresa di Fiume: in seguito alla “vittoria mutilata”, il Vate guidò una spedizione di tremila nazionalisti, prendendo possesso della città di Fiume nel settembre 1919. La reazione di Badoglio all’occupazione fu piuttosto debole, essendosi limitato a bloccare gli approvvigionamenti ai legionari; la situazione fu risolta grazie a una raccolta fondi promossa dallo stesso Mussolini, allora Direttore de Il popolo d’Italia. Un anno dopo tali fatti, D’Annunzio istituì la Reggenza Italiana del Carnaro (dotata di una costituzione propria, la Carta del Carnaro), con a capo il Vate stesso, che si autodefinì Duce. La Carta del Carnaro fu una sorta di manifesto della dottrina dannunziana, un documento che prevedeva le libertà d’opinione, di religione e di orientamento sessuale (depenalizzando l’omosessualità), il diritto di voto sia per gli uomini che per le donne e molti altri principi oggi alla base dei moderni Stati democratici. Tale visione era destinata a collidere ben presto con i piani autoritari di Mussolini: il rapporto con il Vate risultò sempre ambiguo, poiché, se, da un lato, il leader fascista ammirava lo stile di vita e le idee di D’Annunzio, dall’altro, temeva il suo temperamento e carisma. La collettiva e radicata fama di cui

godeva lo scrittore ai tempi dell’ascesa fascista spinse il Duce a una celebrazione della sua opera, senza contare che l’immagine del superuomo dannunziano (una sorta di esteta animato da uno spirito vitale, sensuale e una dionisiaca “volontà di potenza”) si sposava con l’impulso all’azione tipico del Fascismo. Tuttavia, nel tentativo di arginare una così esuberante personalità non sempre in linea con la sua politica (D’Annunzio si oppose con fermezza all’alleanza con Hitler), Mussolini ricoprì il poeta di pubblici onori, dalla presidenza dell’Accademia d’Italia nel 1937, a quella onoraria della SIAE per circa un ventennio, dal 1920 al 1938. Alle cariche si aggiunse la dorata “prigionia” al Vittoriale che permise a D’Annunzio di trascorrere una vecchiaia, invano esorcizzata, fra costosi vizi. Fu il partito stesso a finanziare la permanenza e l’ampliamento della residenza, testimonianza della “vita inimitabile” del Vate: in effetti, la casa e il complesso di piazze, vie e giardini sono lo specchio della personalità del loro proprietario, che lì trascorse gli ultimi anni di vita. I movimenti di D’Annunzio potevano essere monitorati con maggiore facilità grazie al confino nella magione, evitando che la sua innata capacità di infiammare gli animi potesse condurlo ad azioni contrarie a quanto asserito dal Fascismo, dal quale il Vate volle sempre e comunque mantenere una certa indipendenza (nonostante l’adesione ai Fasci di combattimento, egli non conseguì mai la tessera del Partito Nazionale Fascista), spinto dalla necessità di conservare la sua autonomia di pensiero.

Dell’Accademia d’Italia faceva parte anche Marinetti, uno dei primi sostenitori del Fascismo, oltre che uno dei primi firmatari del Manifesto di Gentile. Il suo appoggio al Regime fu tuttavia discontinuo: nel 1918, aveva fondato il Partito Futurista Italiano i cui rappresentanti, il 23 marzo 1919, furono invitati dallo stesso Mussolini all’adunata in Piazza San Sepolcro a Milano. Fu di fatto in quell’occasione che il Partito Futurista confluì nei Fasci di combattimento. Il sostegno di Marinetti era, comunque, destinato a sfumare: sebbene credente, egli era un convinto e acceso anticlericale; nutriva, inoltre, una profonda avversione per la monarchia. La sua concezione idealistica lo spinse a una visione utopica dello Stato, concepito come libero dal potere del clero e del re. Al contrario, il Duce era un uomo pratico, che puntava a una rivoluzione più moderata, che lo portò a smorzare i toni e a cercare un compromesso, rassicurando l’opinione pubblica circa le sue posizioni, soprattutto nei confronti della Chiesa. Nel 1920, Marinetti abbandonò l’impegno politico, deluso e intenzionato a dedicarsi solo alla diffusione del Movimento Futurista: rimarrà, comunque, un buon amico di Mussolini e, dopo un lustro, si verificherà anche un riavvicinamento al partito. In realtà, al di là degli alti e bassi, l’estetica futurista è fortemente in linea con le concezioni fasciste: lo stesso Croce sostenne che «per chi abbia il senso delle connessioni storiche, l’origine ideale del

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«Non può non essere benedetto Mussolini, da uno che ha sempre sentito questa immanente tragedia della vita, la quale per consistere in qualche modo ha bisogno d'una forma; ma subito, nella forma in cui consiste, sente la morte; perché dovendo e volendo di continuo muoversi e mutare, in ogni forma si vede come imprigionata, e vi urge dentro e vi tempesta e la logora e alla fine ne evade: Mussolini che così chiaramente mostra di sentire questa doppia e tragica necessità della forma e del movimento, e che con tanta potenza vuole che il movimento trovi in una forma ordinata il suo freno, e che la forma non sia mai vuota, idolo vano, ma dentro accolga pulsante e fremente la vita, per modo che essa ne sia di momento in momento ricreata e pronta sempre all'atto che la affermi a se stessa e la imponga agli altri. Il moto rivoluzionario da Lui iniziato con la marcia su Roma e ora tutti i modi del suo nuovo governo mi sembrano, in politica, l'attuazione propria e necessaria di questa concezione della vita».

(Dichiarazione di Luigi Pirandello a L'Idea Nazionale, 28 ottobre 1923).

Fascismo si ritrova nel Futurismo»1. Furono proprio il dinamismo e la posizione anti-borghese futurista a determinare le basi culturali della dittatura. Se l’opera di D’Annunzio e Marinetti li accosta con facilità al Fascismo, molto più complesso e articolato è il rapporto di quest’ultimo con Pirandello e Ungaretti. Luigi Pirandello fu educato in un clima famigliare votato all’impegno politico, ma anche amareggiato dall’esito negativo del Risorgimento sul piano morale ed economico. Pirandello si iscrisse al Partito Fascista nel 1924, all’indomani del delitto Matteotti, suscitando per questo un certo scalpore e le polemiche di colleghi e amici. Più che una lealtà al Fascismo in senso stretto, quello di Pirandello fu un feroce j’accuse alla classe politica italiana post-risorgimentale, che si era dimostrata incapace di capire e risolvere i problemi del Paese, trascinandolo in una Grande Guerra che causò migliaia di morti e feriti, oltre a un ulteriore peggioramento delle finanze statali, che, già alla fine dell’Ottocento (e soprattutto nel Meridione), versavano in condizioni alquanto gravi. Al contrario, il Fascismo rappresentava un elemento di rottura col passato, una prima e concreta proposta utile per ricostruire in Italia uno spirito nazionale, in grado di inserirsi in un più ampio ambito europeo. I rapporti col Regime furono, tuttavia, piuttosto difficili, soprattutto perché le opere di Pirandello non sempre vennero

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apprezzate, in quanto aliene a qualsiasi tipo di dittatura: del Fascismo lo scrittore approvava la novità istituzionale, la sua rottura con gli obsoleti ideali politici di inizio secolo, ma di certo non il governo autoritario in seguito instaurato dal Duce. C’è anche da dire che a spingere Pirandello verso il Fascismo fu, innanzitutto, il desiderio di relazionarsi con un governo capace di appoggiare senza indugi il progetto di un grande teatro italiano: Mussolini, infatti, finanziò il Teatro d’Arte (con sede al Teatro Odescalchi ristrutturato), inaugurato il 2 aprile 1925. Se la partecipazione di Pirandello al Fascismo fu alquanto controversa, quella di Ungaretti può essere definita quasi surreale. Il poeta proclamò la sua adesione ai Fasci di combattimento nel novembre 1919 su Il popolo d’Italia e, grazie al legame diretto con Mussolini, nel 1942, ottenne la cattedra di Letteratura italiana moderna e contemporanea all’Università La Sapienza di Roma. Eppure, esisteva uno stridente contrasto tra la nota integrità morale di Ungaretti, che traspare dalle sue stesse opere, e i principi alla base della dittatura: ancora oggi non sono del tutto chiare alla critica le ragioni di questo paradossale assenso, considerando che lo stesso Ungaretti si dichiarò sempre apolitico e contro la guerra. Ne L’Allegria, pubblicata negli anni Trenta, il poeta espresse i suoi sentimenti rispetto alla Prima Guerra Mondiale, alla quale partecipò in prima persona: egli sottolin° 5 • Novembre 2012


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neò come al conflitto fossero connessi il dolore, la sofferenza e la privazione, ma anche la riscoperta di valori quali la solidarietà e la fratellanza. Questo punto di vista, una costante nelle sue composizioni, strideva senza dubbio con l’etica fascista, basata sulla persecuzione politica e razziale.

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4 - Luigi Pirandello. 5 - Giuseppe Ungaretti in trincea durante la Grande Guerra. 6 - Giuseppe Ungaretti in età matura.

I quattro casi appena presentati possono considerarsi emblematici e rappresentativi di una mentalità piuttosto diffusa in Italia negli anni Venti del Novecento: l’elemento “novità” alla genesi del Fascismo affascinò una folta schiera di intellettuali, che finirono per appoggiarlo, animati dalla necessità di un rinnovamento del panorama politico e ideologico nazionale, senza comprendere fin da subito le implicazioni negative di queste adesioni, forse intimamente convinti di poter scindere il consenso a tale pulsione innovativa dagli altri nefasti aspetti (degenerazione nelle leggi razziali, soppressione delle libertà di stampa e pensiero) impressi nella Storia e di cui ancora oggi siamo testimoni.

NOTE: 1 Benedetto Croce, Fatti politici e interpretazioni storiche, in La Critica, III, 20 maggio 1924, pag. 191. Sul Romanzo

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Wilhelm Brasse, il fotografo di Auschwitz (3 Dicembre 1917 – 23 Ottobre 2012)

Già, ci risiamo: che resta di tutto il dolore che abbiamo creduto di soffrire da giovani? a noi che siamo variamente e ugualmente invecchiati? mi chiedo guardandola, finalmente vedendola per la prima volta.

(Aldo Busi, Casanova di se stessi, 2000)

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Il potere logora chi non ce l'ha. (Giulio Andreotti)

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Iconografia del potere: le immagini come strumento di propaganda di Annamaria Trevale

Fin dall’antichità, i detentori del potere hanno fatto largo uso dei mezzi visivi a disposizione per mostrare la propria forza ai popoli sottomessi: i bassorilievi greci e romani raccontavano le gesta di condottieri e imperatori, mentre gli affreschi medievali avevano il compito di spiegare la religione a fedeli in gran parte analfabeti e, al contempo, di celebrare la potenza della Chiesa e dei principi regnanti.

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Nel XIX secolo, il potere politico si appropria dell’indubbia forza comunicativa insita nella tecnica fotografica, non solo per trasmettere messaggi efficaci anche ai molti che continuavano a non saper leggere, ma anche come strumento di schedatura e di controllo. Si può far risalire al Secondo Impero francese di Napoleone III (1852-1870) il primo utilizzo sistematico di fotografie per documentare successi politici, mentre, al crollo della Comune di Parigi (1871), il Governo della Terza Repubblica usa immagini scattate dai giornalisti nei giorni delle barricate per identificare e arrestare i capi dell’insurrezione. Il venticinquesimo Presidente degli Stati Uniti, William McKinley (1843-1901), è il primo a condurre le aggressive campagne elettorali del 1896 e del 1900 stampando migliaia di volantini illustrati e diventando un esempio per rivali e successori. Già pochi anni dopo, allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, i Paesi coinvolti sviluppano una massiccia propaganda iconografica: si va dai manifesti che invitano ad arruolarsi, o a sottoscrivere prestiti per finanziare il costo del conflitto, ad altri che fomentano l’odio verso il nemico, mentre, con le fotografie, i giornali avvicinano i lettori alla realtà del fronte. Il Governo degli Stati Uniti è favorevole all’entrata in guerra accanto alla Triplice Intesa, ma l’opinione pubblica si mostra contraria a un conflitto ritenuto solo “europeo”, per cui nel 1916 il presidente Thomas Woodrow Wilson istituisce una Commissione Governativa per la Propaganda, nota anche come Commissione Creel: nel giro di pochi mesi, l’uso sapiente di messaggi di vario tipo trasforma un popolo sostanzialmente indifferente in una massa di potenziali combattenti, pronti a salvare il mondo da un’incombente minaccia tedesca.

1 - Volantino elettorale di William McKinley. (sullo sfondo) - Taglio con coltello da cucina attraverso la birra Belly della Repubblica di Weimar, Hannah Höch, 1919. 2 - Un piccolo uomo chiede un grosso capitale, Helmut Herzfeld, 1928. 3 - Realizziamo il piano dei grandi progetti, Gustav Klutsis, 1930. 4 - Lenin, durante un comizio a Mosca nel 1920, insieme a Trotsky e Kamenev, e la stessa foto senza Trotsky e Kamenev.

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In Italia, Gabriele D’Annunzio, dopo aver guidato la campagna interventista, contribuisce alla guerra soprattutto con due imprese: il volo su Vienna, durante il quale scarica sulla città volantini composti personalmente, e la Beffa di Buccari, un raid di incursori della marina italiana nella baia di Buccari, controllata dagli austriaci. Entrambe le imprese sono rimaste famose proprio per il forte significato propagandistico, più che per il valore strategico, assai scarso: gran promotore di se stesso, diventerà, pochi anni dopo, il Vate ufficiale del Fascismo. n° 5 • Novembre 2012


Nell’immediato dopoguerra, fioriscono ovunque le avanguardie artistiche, che iniziano a fare largo uso della fotografia e del suo potenziale comunicativo, ma i cui rapporti con i poteri dominanti sono spesso difficili. Nella Germania repubblicana, si sviluppa la tecnica del fotomontaggio, già usato in pubblicità: Hannah Höch (1889-1978), esponente di punta del Dadaismo berlinese, nel 1919 presenta Taglio con coltello da cucina attraverso la birra Belly della Repubblica di Weimar, un collage in cui i ritratti di personaggi politici, incluso il Presidente della Repubblica, sono mescolati – senza alcun criterio logico – con quelli di artisti e scienziati, con vedute della città e delle fabbriche e con frammenti di testo privi di significato, in puro stile Dada. Helmut Herzfeld (1891-1968), militante nel Partito Comunista di Germania (KDP), è uno dei pochi a comprendere il pericolo nazista ben prima dell’avvento al potere di Hitler, da lui effigiato come un “piccolo” uomo in cerca dei soldi del “grande capitale”, in un celebre fotomontaggio del 1928. Negli stessi anni, nella nuova Unione Sovietica, Gustav Klutsis (1895-1938) – considerato tra gli inventori del fotomontaggio artistico – mette la propria inventiva al servizio della propaganda politica e crea manifesti che esaltano la modernizzazione del Paese: in Realizziamo il piano dei grandi progetti (1930), una serie di mani di dimensioni crescenti simboleggia l’entusiastica adesione popolare alle nuove idee. Klutsis e molti altri fotografi attivi in URSS negli anni Venti e Trenta considerano la propaganda come un possibile modello artistico, ma la dittatura di Stalin li obbliga presto a dimenticare l’entusiasmo post-rivoluzionario, per obbedire al piatto rigore del realismo socialista: chi non si adegua paga con anni di detenzione, o sparisce per sempre nei gulag, come accade allo stesso Klutsis. Il regime stalinista è maestro nell’uso spregiudicato di fotoritocchi e fotomontaggi per adattare immagini a fini propagandistici, come faranno per decenni tutti i Paesi della galassia comunista: è celebre una foto di Lenin che, nel 1920, parla alla folla in una piazza di Mosca, con accanto a sé Trotsky e Kamenev che, caduti in disgrazia, dopo il 1927 vengono brutalmente cancellati.

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Circolano anche fotomontaggi di affettuosi incontri mai avvenuti fra Lenin e Stalin, per legittimare il potere del secondo, mentre da un ritratto di Majakovskij (1918), pubblicato anche sui manuali scolastici, scompare Lilya Brik, colpevole di essere compagna del poeta, ma moglie fedifraga di un altro. Negli stessi anni, in Italia, sale al potere Mussolini, che intuisce subito l’importanza dei mass media come strumenti per pilotare il consenso: nel 1924, fonda l’Istituto Luce, con cui si propone di educare e informare attraverso le immagini – di cui si riserva la supervisione – una popolazione che ha ancora un tasso di analfabetismo attorno al 30%. Due anni dopo, nascono i cinegiornali, proiettati obbligatoriamente prima di ogni spettacolo cinematografico, e il Servizio Fotografico, che ha il duplice compito di creare un Archivio Fotografico Nazionale e di “costruire” e diffondere l’immagine del Duce, soprattutto attraverso le riprese guidate di avvenimenti ufficiali. Mentre gli architetti allineati lavorano per lasciare segni duraturi del regime fascista in ogni città, l’Istituto Luce costruisce l’immaginario popolare della Nazione, riempiendo la memoria collettiva di veri e propri “monumenti visivi”. Il corpo idealizzato del Duce deve lanciare sempre messaggi di forza, energia e dinamismo: ma c’è anche chi, come Adolfo Porry Pastorel (1888-1960), padre del fotogiornalismo italiano e precursore dei successivi paparazzi, riesce a immortalare il Capo del Governo in atteggiamenti non troppo imbalsamati, mentre Luciano Morpurgo (1886-1971) e Silvio Ottolenghi (1886-1953) realizzano, accanto alle immagini ufficiali, ottimi reportage della vita italiana tra le due guerre. Se, da un lato, il Ministero della Cultura Popolare stabilisce cosa archiviare e, spesso, scarta gli eventi sgradevoli, di cui si nega l’esistenza cancellandone le testimonianze visive, dall’altro, segnala i temi su cui si devono realizzare i servizi fotografici e i cinegiornali da diffondere. Nel 1932, la Mostra della Rivoluzione Fascista, ricostruzione del periodo 1914-1922 secondo l’ideologia del Regime, segna il trionfo dei molteplici impieghi della fotografia come mezzo di comunicazione popolare: accanto alle opere pittoriche e ai cimeli d’ogni tipo (lettere, giornali, manifesti, oggetti offerti dai cittadini), spiccano fotomontaggi, gigantografie, sagome stilizzate, in una colossale celebrazione del Fascismo, come momento glorioso della storia italiana, e di Mussolini, come guida del popolo. L’anno successivo, Hitler assume il potere in Germania, esercitando da subito un controllo fortissimo dell’opinione pubblica attraverso un ufficio di propaganda affidato a Joseph Goebbels: non ci si fa scrupolo di diffondere notizie palesemente false pur di costruire il mito della Germania nazista, e si ricorre in modo spregiudicato a fotomontaggi e fotoritocchi. Come in URSS o in Italia, i fotogiornalisti devono riprendere solo gli avvenimenti graditi al potere, mentre sono incoraggiate le mostre di foto amatoriali, i cui soggetti “innocui” – famiglie in festa, bambini, animali – devono testimoniare la piacevolezza della vita tedesca.

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6 5 - Mussolini e il cinema. 6 - Un fotogramma da Il trionfo della volontà, 1934, di Leni Riefenstahl. 7 - L’uomo all’incrocio, Diego Maria Rivera. 8 - Un'immagine dei funerali di Kim Jong-il.

L’apice dell’iconografia nazista è toccato dalla regista Leni Riefenstahl (1902-2003), con i suoi film Il trionfo della volontà (1934) e Olympia (1936-1938). Il primo, girato al congresso del Partito Nazista a Norimberga, alterna le immagini di reggimenti in marcia a quelle dei discorsi ufficiali al ritmo di una travolgente colonna sonora wagneriana, mentre il secondo, pur esaltando la corporeità degli sportivi, e la bellezza di gesti atletici colti in tutto il loro dinamismo, diventa inevitabilmente un tributo alla grandiosa propaganda dispiegata dal Regime in occasione delle Olimpiadi di Berlino del 1936. All’incirca negli stessi anni, dall’altra parte dell’Atlantico, fiorisce un curioso esempio di arte propagandistica, finanziata dal Governo messicano salito al potere dopo la rivoluzione agraria del 1910-1920: sono i murales, dipinti eseguiti soprattutto da Diego Maria Rivera (1886-1957), David Alfaro Siqueiros (1896-1974) e José Clemente Orozco (1883-1949). A loro il Presidente della Repubblica e il Ministro dell’Educazione chiedono di realizzare in luoghi pubblici grandi affreschi che celebrino la storia del n° 5 • Novembre 2012


Paese, nel tentativo di creare una nuova identità culturale che colleghi il passato pre-ispanico alle speranze per il futuro. La fama dei muralisti si diffonde presto anche negli Stati Uniti: nel 1934, viene chiesto a Rivera di eseguire un grande affresco nel Rockfeller Center of Arts. Il malizioso inserimento di una testa di Lenin tra i personaggi di L’uomo che guarda con speranza e lungimiranza alla scelta di un futuro migliore, però, scandalizza gli americani e l’affresco viene distrutto. Con il secondo conflitto mondiale, nasce un’iconografia propagandistica ancora più ampia che ai tempi del primo. Fotografi accreditati e soggetti a censura scattano immagini per la stampa illustrata, incaricata di diffondere ottimismo, che diventano poi modelli per i manifesti dei disegnatori. Col tempo, si è scoperto che alcune testimonianze di momenti cruciali del conflitto non sono del tutto spontanee, ma frutto di ricostruzioni. Esempi classici sono la fotografia della conquista dell’isola di Iwo Jima (1945) da parte degli americani e quella della conquista sovietica del Reichstag a Berlino: entrambe furono “ricostruite” davanti all’obiettivo. In anni più recenti, la propaganda è stata vista come un fenomeno tipico dei Paesi comunisti, come l’ex URSS e la Cina: campagne martellanti, a base di coloratissimi manifesti, filmati e fotografie hanno lo scopo d’indurre i cittadini all’obbedienza totale, ma anche quello di glorificare i progressi ottenuti e d’intimorire il mondo esterno, mostrando un mondo di famiglie felici, popolazioni festanti e fieri condottieri accanto ad armi potentissime. Le gigantografie dei leader, sempre ritoccate per conferire loro un aspetto eternamente giovane, hanno riempito per decenni le piazze, come numi benevoli intenti a vegliare sulle sorti delle nazioni, e le riempiono ancora dove resistono al potere le dittature: nella Corea del Nord, l’esaltazione della dinastia familiare al potere da decenni raggiunge livelli paradossali nel 2011, in occasione della morte di Kim Jong-il, quando vengono diffusi filmati di animali dall’aspetto triste, proclamando una loro partecipazione al lutto nazionale.

8 Nemmeno in democrazia si evita, però, di ricorrere alla propaganda, sia pure in modo più sottile: un uso sapiente delle immagini si nota, ad esempio, nelle “pubblicità progresso”, che intendono influenzare il pubblico su temi scottanti. Le campagne elettorali avvengono, ormai, senza esclusione di colpi: circolano ancora in rete le fotografie modificate con Photoshop e diffuse durante la campagna presidenziale statunitense del 2008, che mettono platealmente alla berlina Sarah Palin, candidata repubblicana alla vicepresidenza, sebbene allora fosse pressoché sconosciuta agli elettori. In Italia, del resto, è noto a tutti l’uso spregiudicato dei media da parte di Silvio Berlusconi, sia nel corso delle campagne elettorali, quando fa recapitare ai potenziali elettori una propria biografia per immagini, che come Capo del Governo. Esiste, quindi, una costante attenzione del potere politico, in qualunque forma esso si manifesti, verso la propria rappresentazione, come forma di propaganda e auto-affermazione. Un tempo, erano i ritratti eseguiti dai pittori presso le corti, poi è stata la volta delle fotografie e degli strumenti audiovisivi. Resta da chiedersi in che modo gli strumenti più recenti del web potranno continuare ad alimentare lo stretto rapporto tra potere e auto-rappresentazione immaginifica.

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Gli intellettuali nelle società postmoderne: una voce ancora possibile di Emiliano Zappalà «La cosa più urgente non mi sembra tanto essere quella di difendere una cultura, la cui esistenza non ha mai salvato un uomo dalla preoccupazione di avere fame e vivere meglio, quanto quella di estrarre, da ciò che chiamiamo cultura, idee con una forza identica a quella della fame».

1 Aprire con questa potentissima citazione di Antonin Artaud (Il teatro e il suo doppio1) è un enorme rischio. Perché nelle poche parole del commediografo francese potrebbe essere già condensato il complesso dramma che intendevamo portare in scena qui di seguito. Ci sono già la rinuncia apparente, il riscatto, la speranza. Ci sono la cultura e la fame, due elementi apparentemente distanti tra loro e proprio per questo vicinissimi; le idee che nascono con la forza della fame acquisiscono una forza metaforica magnifica e dirompente, una rilevanza furiosa e ribaltano quello che appare come uno degli assunti caratteristici della nostra epoca – non abbiamo ancora dimenticato i proclami ministeriali che ci ricordano che la cultura non dà pane –, per rivendicare, non senza una certa dose di disperazione, il valore sociale – e quindi politico – della cultura. Artaud apre e chiude un cerchio, all’interno del quale rimangono da risolvere interrogativi importanti, come il ruolo che la cultura può giocare, le strade che può percorrere, le vie per una resistenza convinta e ancora convincente nella nostra società dispersiva e post-moderna, le strategie per stimolare una fame non fisiologica, ma intellettuale; una fame che destabilizzi e, allo stesso tempo, riordini. Gli importanti cambiamenti degli ultimi decenni hanno stravolto il mondo sotto tutti i punti di vista, sociale, comunicativo, politico e culturale e hanno richiesto, da parte degli intellettuali, e quindi da parte di chi questi stravolgimenti avrebbe dovuto interpretarli e affron-

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1 - Ritratto fotografico di Antonin Artaud. 2 - Romano Luperini. A lato - Le chateau des Pyrénées, René Magritte, 1961. Israel Museum, Gerusalemme (IL).

2 tarli, una riconfigurazione dei ruoli e dei metodi, i cui esiti rimangono ancora incerti e dibattuti. Per capire se è ancora possibile l’urgenza di cui parla Artaud bisogna ripercorrere, anche se brevemente, alcuni passaggi salienti di queste trasformazioni, prima di tentare di rispondere a qualcuno dei nostri interrogativi, prima di capire quale ruolo la cultura, con i suoi eroi e interpreti, può ricoprire nella nostra epoca. E soprattutto, quale prezzo essa è costretta a pagare. Romano Luperini, in un articolo dal titolo Otto tesi sulla condizione attuale degli intellettuali pubblicato sul numero LXIV della rivista Allegoria, individua, nel ventennio che va dalla fine degli anni Settanta all’inizio degli anni Novanta, un punto di frattura sostanziale, che stravolge in profondità «un’idea di rapporto col mondo e una figura d’intellettuale che hanno rappresentato il lusso e il privilegio dell’Occidente». La crisi del logocentrismo e del realismo, la rivoluzione informatica, la deriva verso modelli di produzione di beni sempre più immateriali e la trasformazione dei sistemi di comunicazione hanno mutato radicalmente l’immagine degli intellettuali, limando e rimodellando l’impatto che questi avevano sul tessuto sociale e politico. La figura che Luperini definisce dell’intellettuale-legislatore, e cioè dell’intellettuale che, in virtù del peso e della considerazione di cui godeva, era in grado di spostare gli equilibri sociali, si trova a essere ridimensionata nella sua funzione pubblica, circoscritta Sul Romanzo

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in ambiti sempre più angusti e di nicchia. Questo spostamento è la conseguenza di una doppia serie di trasformazioni tra loro consequenziali: i mutamenti avvenuti nel contesto storico-economico, da una parte, hanno rivoluzionato i rapporti di forza che giocavano all’interno del sostrato sociale e, dall’altra, hanno indotto alla riconfigurazione dei modelli e delle strategie narrative attraverso cui la società genera e interpreta l’immagine di se stessa. Fino alla seconda metà degli anni Sessanta, era possibile distinguere all’interno delle società occidentali sistemi ideologici precisi, in netto contrasto tra loro, che procedevano lungo percorsi lineari, allo stesso tempo sintetici e oppositivi; sintetici, perché tendevano a riassumere principi e problematiche dentro ampi bacini teorici, coerenti il più possibile, piuttosto che a cedere terreno alla frammentazione e alla divisione; oppositivi, perché tutto ciò che non trovava spazio al loro interno provocava un immediato sforzo di reazione e rifiuto. L’idea di partito come struttura aggregativa indispensabile, l’idea di distinzione e lotta di classe, l’idea precisa della produzione, della fabbrica, della Nazione, l’idea di sistemi etico-economici differenti, l’idea stessa di bene e male, per esempio, si risolvevano in uno scenario politico che viveva ancora di opposizioni dicotomiche, di separazioni abissali, in una ricerca di purezza e perfezione. In questo contesto, gli intellettuali svolgevano ancora una funzione legislativa, creando e dettando le regole attraverso cui indirizzare i rapporti sociali. Avevano ancora la capacità e la possibilità di suscitare riflessioni collettive, di produrre consenso e indignazione, di generare dibattiti veri, senza mai rinunciare alla loro funzione, senza mai rinnegare la posizione di osservatori in un certo senso privilegiati. A partire dagli anni Settanta il quadro cambia. L’Occidente, e quindi il mondo intero, entrano nella loro fase post-industriale, post-democratica e, infine, post-ideologica. La smaterializzazione dei processi di produzione, l’esplosione del settore dei servizi, la finanziarizzazione dei mercati, la globalizzazione culturale, la simultaneità delle informazioni e l’invasione dei nuovi media hanno spinto le società contemporanee verso la frantumazione e la sovrapposizione di ideali e teorie. Tutto è compresente e onnipresente, non esiste più alcun tipo di narrazione privilegiata, non c’è nessuna linearità nei processi di interpretazione della realtà. Tutto procede lungo traiettorie labirintiche e rizomatiche, che prediligono la dispersività all’ordine.

3 - Daniel Bell. 4 - Immagine da internet. 5 - Colin Crouch. 6 - Jean-François Lyotard.

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Nella società post-industriale descritta da Daniel Bell, la produzione di beni immateriali favorisce i processi di delocalizzazione delle imprese e di commercializzazione di marchi e brand piuttosto che di beni e prodotti tangibili, disintegrando l’idea di fabbrica, la distinzione tra classe operaia e borghesia. La teoria della post-democrazia di Colin Crouch2 mostra, invece, come il potere politico globale sia passato nelle mani delle grosse lobby

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e dei grandi monopoli, che, all’interno di sistemi ancora democratici, sono capaci di indirizzare e manipolare le dinamiche politiche, bypassando le procedure democratiche stesse; le redini politiche globali sono sotto il controllo di corporazioni e individui che nessuno ha la possibilità di scegliere e votare. Il filosofo francese Jean-François Lyotard, ne La condizione Postmoderna3, parla di fine delle metanarrazioni; non esistono più strutture di pensiero totali e totalizzanti. Tutto è troppo confuso e sfumato. Le idee di Nazione, di marxismo, di religione stessa vanno parcellizzate e adattate al contesto specifico. Giusto e sbagliato cedono il posto a utile e meno utile. Negli anni Novanta, infine, dopo la caduta del muro di Berlino e quindi, simbolicamente, dell’ultima grande barriera occidentale, Francis Fukuyama e Slavoj Žižek parleranno rispettivamente di «fine della storia» e «fine delle ideologie»; non esiste nessun discorso privilegiato, nessuna distinzione fondante e pregnante: tutto è posto sullo stesso piano; tutto è merce e ha lo stesso valore, compresa la cultura. È chiaro come la figura dell’intellettuale si sia dovuta rimodellare e, per adattarsi al nuovo contesto, abbia perso visibilmente forza e autorità. Artisti, romanzieri, professori, filosofi, cineasti e persino i cantautori non hanno più la forza di orientare i processi sociali e politici, non sono più in grado di guidare scelte collettive. In una società in cui ogni scelta è possibile e uguale alle altre, non c’è più alcuna possibilità di scelta. Nessuna opposizione costruttiva può ancora esistere; da qualunque parte essi si schiereranno, il nemico non avrà più volto, il nemico sarà ovunque. Luperini descrive due nuove figure che hanno preso il posto dell’intellettuale-legislatore: quella oracolare, che presuppone «una cultura sapienziale, dedita alla riflessione sul linguaggio, ai miti fondativi dell’umanità e alle mediazioni non degli uomini fra loro, ma fra gli uomini e il verbo» e quella critico-ironica «coltivata da pasticheur di linguaggi e ri-scritture, da brillanti intrattenitori professanti un ilare nichilismo teorico». Travisando e banalizzando volutamente la distinzione del professore di Siena ne proponiamo un’altra, vicina ma non analoga. La distinzione tra l’intellettuale che ha abbandonato la sua funzione sociale, rinchiudendosi nel suo cantuccio, cedendo a discorsi di corto respiro, spesso autoreferenziali o rivolti a pochi epigoni e sostenitori e gli intellettuali che, invece, hanno sfruttato le nuove possibilità mediatiche per rilanciare proposte originali e messaggi spendibili e accattivanti. Viene in mente quanto dice Naomi Klein su Barack Obama che, secondo la giornalista canadese, sarebbe riuscito a proporre se stesso più come marchio che come prodotto. Obama e i suoi strateghi della comunicazione hanno venduto al mondo non l’uomo politico ma l’immagine del politico, un’immagine creata ad hoc. Eppure proprio in questo modo di fare è ancora possibile trovare una forma di riscatto.

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Di recente ormai, anche in Italia, si stanno moltiplicando i discorsi apocalittici sullo stato della cultura, sulla fine dei grandi romanzi, delle grandi opere, sulla scomparsa dei grandi poeti e dei grandi intellettuali, dei grandi pensatori, dispersi in un pulviscolo dilettantesco di personaggi minimi che sbracciano per trovare spazio nel caos. Alla figura dell’intellettuale sembra essersi definitivamente sostituita quella dell’operatore culturale, impegnato a sfornare e confezionare i prodotti commerciali dell’industria culturale. Quasi sempre le riflessioni sono accompagnate da un tono dimesso e rassegnato, come se qualcosa fosse ormai irrimediabilmente perduto e compromesso. In realtà, questo tono tragico è proprio di chi le nuove trasformazioni storiche e mondiali le ha subite ma mai del tutto accettate. Perché gli intellettuali hanno ancora molto da fare e da dire nella nostra epoca, solo che in maniera diversa rispetto al passato. Carla Benedetti, nel suo brillante saggio Disumane lettere4, analizza il caso italiano più emblematico: la pubblicazione di Gomorra di Roberto Saviano. Lasciando da parte il dibattito sul ritorno a una nuova forma di realismo letterario, ci limitiamo qui a sfruttare l’esempio di Saviano per far notare come, per l’intellettuale contemporaneo, sia ancora possibile trovare una voce forte e chiara e operare una certa pressione sulle dinamiche politiche e sociali. L’analisi del dibattito successivo alla pubblicazione di Gomorra deve indurci a riflettere sulla portata e sull’importanza che un romanzo può avere nell’epoca in cui viviamo, su come e quanto quest’ultimo possa muovere e indirizzare la lente dell’opinione pubblica; ci mostra una delle vie percorribili per portare avanti delle proteste, mettere in luce elementi rilevanti, combattere lotte indispensabili. Per far questo, però, è necessario mettere da parte ogni orgoglioso distacco e farsi icona, diventare personaggi, riproduzione mediatica di se stessi. È probabile che l’intellettuale debba sapersi trasformare nel suo doppio post-moderno, duplicarsi attraverso i media e i canali di comunicazione informatica. In questo modo, forse, sarà ancora possibile giocare un ruolo fondamentale, dar vita a gesti di frattura e di ribellione di cui la nostra epoca ha incredibile bisogno. È così facendo che si potrà suscitare la fame descritta da Artaud. Di fronte alle prove che incombono sul nostro mondo, di fronte alla minaccia di estinzione globale, di fronte al global warming, alla crisi finanziaria mondiale, alla possibilità di conflitti nucleari è impossibile pensare a un’abiura della “classe intellettuale”; questa ha l’obbligo di continuare a lanciare delle sfide, proporre delle soluzioni, radunare insieme le persone dietro un’idea, una speranza, un sogno. Anche se per far questo bisogna rinunciare a una certa dose di prestigio, anche se bisogna giocare con delle regole nuove. Gli intellettuali insomma, come nella visione che Wittgenstein ha della ragione umana, devono sapersi limitare, se necessario, almeno in un primo momento, a indicare alla mosca la via per uscire dalla bottiglia. E da lì andare avanti.

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7 - Carla Benedetti. 8 - Roberto Saviano.

8 NOTE: 1 Antonino Artaud, Il teatro e il suo doppio, a cura di G.R. Morteo e G. Neri, trad. di G. Marchi, Einaudi, Torino 2000. 2 Colin Crouch, Postdemocrazia, trad. di C. Paternò, Laterza, Bari 2009. 3 Jean-François Lyotard, La condizione postmoderna. Rapporto sul sapere, trad. di C. Formenti, Feltrinelli, Milano 2002. 4 Carla Benedetti, Disumane lettere. Indagini sulla cultura della nostra epoca, Laterza, Bari 2011.

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Poteri senza intelletti, poteri morti di Leonardo Palmisano

1 - Charlie Chaplin in una scena del film Il grande dittatore, 1940.

L’indolenza parassitaria dei sessantottini e dei settantasettini Egemonia e potere sono termini distanti quanto mai prima di adesso nella storia delle democrazie occidentali. È pura utopia pensare che si possa nuovamente coniugare il Potere – quello vero, che tocca ciascuno, che incute timore nel tempo e nello spazio, come ci insegna Popitz nel suo Fenomenologia del potere1 – con un’egemonia reale. La spersonalizzazione dei consumi, la massificazione delle abitudini e la finta pluralità delle scelte sono il sintomo di una malattia che sta devastando le democrazie: la resistenza multiforme e violenta del Potere oltre le epoche delle egemonie democratiche e molto oltre l’assenteismo degli intellettuali. Massimiliano Panarari, leggendo il ventennio berlusconiano, ha parlato di Egemonia sottoculturale2, come anche Valerio Magrelli nel suo Sessantotto realizzato da Mediaset3. Due lavori usciti a poca distanza, mentre si consumava l’epilogo, la sfiammata di Berlusconi, l’ultimo potente con un po’ d’egemonia e qualche intellettuale intorno. Adesso, nel vuoto assoluto e nel pieno di demenza che vive l’Italia, non c’è più spazio per un’egemonia intellettuale, perché non c’è più una corte, perché non può esservi egemonia senza uno spazio da riempire, un teatro dove la pantomima dell’esercizio del potere viene studiata a tavolino da cortigiani e consiglieri, giullari, filosofi e poeti. Non si tratta di uno spazio qualunque – di quello ce n’è fin troppo, dove muoversi

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nell’illusione della libertà liberata dallo Stato e dalle sue regole, come in Tv – ma di uno spazio reale (di piazza!) per la costruzione di strategie culturali, di sistemi, di articolazioni, di dispositivi e, soprattutto, di apparati e paradigmi per tutti. Allora si oscilla – noi stupide cavie italiane – tra il pessimismo del presente e l’ottimismo del passato, quando, in verità, proprio nel nostro passato recente – nel ‘68 e nel ‘77 – ha origine quell’indolenza parassitaria che ha smantellato le egemonie intellettuali democratiche e ha conseguentemente moltiplicato i centri del potere politico fino a rendere il potere stesso anonimo, incompressibile, inafferrabile, frantumato, liquido (per dirla con Bauman), clientelare, prostituzionale: ergo inattaccabile a viso aperto perché già morto. Non è casuale che una nuova gemma del defunto potere politico, Matteo Renzi, usi il verbo post-industriale “rottamare” per appellarsi ai nuovi poteri finanziari, anti-industriali per definizione: per ridurre la democrazia ad ancella della finanza. E non è casuale che a difendere quel che resta del cimitero della democrazia italiana siano soprattutto sessantottini e settantasettini imbolsiti dalla ricchezza, dallo spreco, dall’arroganza e da quell’indolenza provinciale che contraddistingue quella terribile generazione di ex-potenti e nuovi impotenti. In tutto questo, quale spazio può avere ancora l’intellettuale?

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NOTE 1 Heinrich Popitz, Fenomenologia del potere. Autorità, dominio, violenza, tecnica, trad. di P. Volonté, L. Burgazzoli, Il Mulino, Bologna 2001. 2 Massimiliano Panarari, L’egemonia sottoculturale. L’italia da Gramsci al gossip, Einaudi, Torino 2010. 3 Valerio Magrelli, Il Sessantotto realizzato da Mediaset. Un dialogo agli inferi, Einaudi, Torino 2011.

Il ricatto contro gli intellettuali: democrazia senza direzione L’intellettuale contemporaneo e giovane vive il suo graduale allontanamento dalla storia e dalle storie, dalla politica di certo. E vive sotto un costante e pervicace ricatto materiale, sempre più implicito, perché il Potere – quello che offre denaro e opportunità, formali e informali – non ama alzare la voce, ma intervenire una volta per tutte. Questo iato tra Potere e Intellettuali non produce una guerra. E quegli intellettuali che parrebbero più antisistema degli altri – in Italia Saviano e Travaglio sopra tutti – sono parti della rarefatta egemonia televisiva e giocano a struggere, più che a decostruire sistemi ed apparati per edificarne di nuovi. Siamo alla fine di un morbo che ha già mortificato un intero sistema di valori; siamo dentro una masturbazione senza fine che ha ridotto l’intellettuale a orpello senz’autonomia, ad ammennicolo o cianfrusaglia. Anche in questo l’Italia è un laboratorio. Il sistema dei poteri italiani – quello politico, finanziario e culturale – si è intrecciato fino a far coincidere per un ventennio denaro, editoria, Tv e politica in un solo uomo. Non è poco, ed è per questo che risollevarsi con le proprie forze non è più possibile. La vera fine della storia sta nel crollo dei ruoli. Non c’è più spazio per gli intellettuali organici a un progetto politico, figuriamoci se ce n’è per gli oppositori. Ma anche arrivare a capire contro cosa opporsi è difficile, tanto difficile che sovente si ha l’impressione di parlare a uditori sordi o contro avversarsi già debellati. Chi ci rimette non è soltanto l’intellettuale come tipo – una specie di incrostazione indecorosa della storia del Novecento – ma la democrazia che stenta a trovare una via d’uscita da una crisi che si cronicizza nel farsi della crisi economica. Crollando, il potere finanziario si discolpa addossando le responsabilità sulla politica e sugli Stati. Gli Stati e i politici, morendo, si deresponsabilizzano incolpando la gente. Gli intellettuali dove sono? Assenti dal dibattito pubblico, resistono nelle cantine del web, forse, oppure inseguono traguardi diversi, accreditandosi presso gli stessi morenti potenti. Insomma, l’intellettuale non ha più un mestiere.

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2 - Senza titolo, di Mirko Isaia.

Il lavoro intellettuale non è più una professione

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Weber ci ha consegnato una serie di riflessioni e lavori definitivi e definitori sul mestiere intellettuale e su quello politico come professioni, esiti di vocazione e specializzazione tecnica. Oggigiorno solo qualcosa di quel pensiero può essere adoperato come strumento di analisi, e soltanto perché, adesso come allora, la democrazia è in profondissima crisi d’identità. Ma crisi della democrazia non significa più crisi dei partiti e degli altri corpi intermedi, ma crisi per autocelebrazione della leadership e della corte. Tanto è vero che non c’è più carisma nelle figure che compongono la costellazione politica italiana dopo la caduta infelice di Silvio Berlusconi, come non c’è più via per recuperare consenso senza passare attraverso le maglie strette della “tecnica” e della “scienza”. Non è un caso che proprio l’Italia – la democrazia occidentale che più di tutte le altre ha asservito gli intellettuali e i tecnici alla riproduzione del consenso politico, diventando il regno della consumistica mediocrità al potere – ha dovuto far ricorso ai cosiddetti tecnici per provare illusoriamente a rimettersi in riga. Prima di Monti, in piena epoca Berlusconi&Bossi, l’assenza di specializzazioni e tecnica, perfino di vocazioni, e l’eccesso di interessi privati e di ricchezze concentrate hanno reso le intelligenze schiave di un fragilissimo sistema politico di potere. Talmente fragile da cadere miseramente al suolo sotto la scure della magistratura – che è un potere burocratico e tecnico in senso stretto – e degli speculatori finanziari – che sono tecnici, prima che avvoltoi. E allora, il lavoro degli intellettuali presso la politica, che dovrebbe essere quello di costruire delle ipotesi e prospettive di valori, si riduce adesso alla raccolta delle briciole, alla semina di artifici retorici, alla prostituzione morale sotto il ricatto economico dei pochi sciancati padroni rimasti in piedi. Dunque, non è più una professione, semmai un’interessatissima professione di Fede (Fede, dall’indimenticabile direttore del TG4, esempio massimo di intellettuale-cortigiano). Allora non ci stupisce che nessuno, nemmeno il forcaiolo Beppe Grillo, riesca a fare egemonia. Come non ci stupisce che il potere politico non rappresenti più il Potere nell’immaginario collettivo italiano, ma una sua misera, frusta e sudicia propaggine.

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L’egemonia collettiva del dubbio Stando così le cose, qualunque scimmiottamento neo-gramsciano rischia di apparire obsoleto, grigio e perfino rugginoso. Al contrario, sembra diffondersi un’egemonia collettiva del dubbio cartesiano senza l’organicità di un partito. Lo scetticismo verso il buon senso dei governi, la bontà dei politici, l’onestà dei finanzieri e quella degli industriali o dei loro Marchionne distrugge con grande velocità qualunque nuovo apparato egemonico al servizio del consumo. Proprio così. La nuova egemonia del dubbio si fonda non sulla critica al consumo o sul consumo critico, ma sulla negazione stessa delle identità costruite dentro l’epoca del consumo. Ed è interessante scoprire che questa diffusione si irradi dagli Usa – dagli Occupy Wall Street – da dove è partita la crisi del finanzcapitalismo, come lo chiama Luciano Gallino, e non dalla molle e provinciale Italia sotto-acculturata. Al servizio della pratica del dubbio, dunque, non un apparato di star di Hollywood o di MTV impegnate nel grottesco sostegno ai moribondi Obama e Romney, ma tanti piccoli pensatori che provano a rispondere insieme a un’esigenza di cultura, di scienza e di tecnica. È utopia? A me pare che sia già egemonia e che dentro di essa si ricostruisca un senso per l’intellettuale post-moderno, per le sue narrazioni, per la ricerca di quelle storie che per forza di cose l’umanità non smetterà mai di raccontare. E la violenta risposta di quel che resta dei poteri – cariche poliziesche, scredito addosso ai knowledge worker, scarico di responsabilità su chi decide di non andare a votare, attacchi alle nuove generazioni di studenti, chiusura degli spazi pubblici della produzione culturale, smantellamento delle Università, ecc. – è la dimostrazione dell’insussistenza di quegli stessi poteri di fronte all’avanzata di questa nuova egemonia. A loro, agli zombie del Potere, non resta che far ricorso al potere delle armi.

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Vonnegut e la fantascienza militante di Carlotta Susca

Qual è il modo migliore per dire la verità e far sì che serva a qualcosa, che possa incidere sul reale1? Forse, un’esposizione puntuale delle nostre ragioni, un’analisi accurata dei fatti, l’elenco dei nostri punti fermi, magari in ordine di importanza? A mio avviso, la risposta giusta sarebbe: «Urlando», ma facciamo finta di non essere stati abituati all’indecoroso spettacolo televisivo dell’abbaiare insensatezze. Passiamo, quindi, alla risposta successiva: possiamo cercare di farci ascoltare attraverso l’ironia. Litote («Il mondo non è un bel posto in cui vivere») e antifrasi («Il mondo è proprio un bel posto in cui vivere!») sono più incisive di una frase priva di orpelli. Così, in letteratura, il rovesciamento ironico, la deformazione e lo slittamento sono armi che il narratore può utilizzare per rinvigorire la propria forza comunicativa. Anche la fantascienza, dunque, può essere un ottimo strumento per criticare ferocemente governi e politiche, per cercare di mettere sotto gli occhi del lettore lo spettacolo del mondo in cui vive e in cui è troppo immerso per guardarlo oggettivamente, per “leggerlo” senza sovratesto, per osservarlo con occhi privi di lenti interpretative e scevri da condizionamenti. In questo, Kurt Vonnegut, autore considerato di fantascienza senza che ne avesse le intenzioni, riesce egregiamente. In Un uomo senza patria2, ultimo testo prima del postumo Armageddon in Retrospect3, Vonnegut ci dice, fra le molte altre, due cose che ci fanno capire come la science fiction non sia il genere del divertissement letterario, ma l’approdo di chi voglia farsi ascoltare e di chi voglia parlare di realtà: • di aver scelto di suscitare il riso per potersi far ascoltare dai grandi di famiglia (e solo le freddure li distoglievano dai discorsi che stavano affrontando); • di aver appreso di essere diventato uno scrittore di fantascienza solo quando lo hanno definito tale, ma ritenendo che l’etichetta fosse dovuta esclusivamente all’utilizzo della tecnologia nei suoi libri (scelta che riteneva obbligata: come escludere dal quadro un elemento che esiste?).

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1 Quando Vonnegut scrive, per esempio, Ghiaccionove4 o La colazione dei campioni5, sferra accuse feroci e critica aspramente il modo in cui gli uomini hanno ridotto il mondo, ma lo fa in due scritti, di cui: • il primo tratta dell’apocalisse, di un santone e del congelamento della terra; • il secondo ha un autore che dichiara di aver creato il personaggio che sta facendo muovere, rompendo così la finzione (sospendendo l’incredulità) e trascinando Kilgore Trout in una serie di improbabili avventure. Autore e personaggio sono messi sullo stesso piano e l’atto creativo dell’autore diventa, perciò, concreto, reale.

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1 - Book Cover by Karel Thole: “Vulcano 3” by P.K.Dick, Ed. Urania 1963, di Tommaso Masettia (Tom Lee KelSo). 2 - Ritratto fotografico di Kurt Vonnegut. Sullo sfondo - Ice, di Ken Douglas.

2 Sullo sfondo di due storie “di fantascienza”, Vonnegut continua a parlare del mondo e delle sue storture («Life is no way to treat an animal»). C’è del nichilismo, in Ghiaccio-nove: «Il Quattordicesimo libro si intitola “Che speranze può nutrire un uomo ragionevole per l’umanità in questa terra, tenendo conto dell’ultimo milione di anni?”. Non ci vuole molto a leggere il Quattordicesimo libro. Consiste in una parola e in un punto. Eccoli: “Nessuna”.»6 È chiaro pure dai piccoli saggi di Un uomo senza patria che Vonnegut considera il mondo un postaccio, in definitiva. Sono le questioni ambientali a preoccu-

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parlo maggiormente, anche se alle osservazioni ecologiche è, forse, l’età a far aggiungere facili critiche alla tecnologia (che costituisce uno degli elementi fondamentali che fanno da sfondo ai suoi libri, l’abbiamo visto) e la glorificazione delle esperienze dal vivo, come l’acquisto di francobolli e la fila alla posta. Se, quindi, avvertiamo il peso degli anni, in Un uomo senza patria possiamo, comunque, rintracciare gli spunti trattati con ironia nelle opere precedenti: l’uomo ha distrutto il mondo, gli Stati Uniti sono frutto di conquista e non di scoperta, la vita è insensata. Per Bokonon (il santone di Ghiaccio-nove), non c’è speranza, nello stesso modo in cui, nella Guida galattica per gli autostoppisti7, Adams ci fa apprendere che il “senso della vita, dell’universo, di tutto” è «Quarantadue».

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Scopriamo che la questione era stata formulata male e, anche se la Terra è stata creata per rispondere alla Domanda, ora occorrerà aspettare altri milioni d’anni perché sia formulata in maniera corretta l’interrogativa la cui risposta è, appunto, «Quarantadue». Ne La colazione dei campioni, invece, viene data ancora un’altra risposta. La domanda, scritta sulle pareti di un bagno pubblico, è «Qual è il senso della vita?» e la risposta di Kilgore Trout è: «Essere / gli occhi / e la coscienza / del Creatore dell’Universo, / imbecille». Apparentemente si tratta di un nonsense, ma non lo è: in questo libro, è evidente la presenza di Vonnegut come creatore del personaggio Kilgore Trout e, quindi, di fatto lui è il Creatore dell’universo (testuale); e ne è gli occhi, gli orecchi, la coscienza perché è in ogni personaggio e in ogni azione, come ne La Fine della strada di John Barth8, in cui le maschere indossate da Jacob Horner e la sua incapacità di decidere suggeriscono il ruolo poietico dell’autore, che ha in sé tutte le opinioni dei suoi personaggi, ma nessuna in particolare. In questo romanzo, il protagonista – inetto, antieroico, inaffidabile – non è in grado di prendere posizione riguardo ad alcunché, non perché non abbia opinioni, ma perché tutte si equivalgono, tutte hanno pari dignità. Il consiglio del Dottore – un personaggio che merita l’antonomasia, cioè una maschera ben precisa – è di scegliere, di volta in volta, un ruolo per poter avere schemi interpretativi a cui fare riferimento. Pure lo scrittore, viene da pensare a chi cerca metaletteratura in ogni dove, si traveste in ciascuno dei suoi personaggi, e, quindi, adotta la tecnica mitopoietica consigliata dal Dottore: l’assegnazione di ruoli. Se l’autore è il creatore dell’universo testuale, può strutturarlo come meglio crede e dare al libro il finale – e, quindi, il messaggio – che preferisce. Allora perché la scelta di fare fantascienza parlando in maniera traslata del mondo reale? Forse perché non avrebbe senso creare un mondo avulso dalla realtà e irrelato e, soprattutto, perché sarebbe impossibile (non si può inventare se non per mimesi od opposizione) e, inoltre perché la fantascienza è il modo traslato che Vonnegut utilizza per farsi “ascoltare dai grandi”. Molta arte è metaforica e non c’è fantascienza che non lo sia, se si considerano fantascienza anche la distopia e l’ucronia. Un piccolo ulteriore esempio: Tommaso Pincio con Cinacittà ha delineato le questioni sollevate dall’immigrazione cinese in Italia molto meglio di quanto non abbia fatto Edoardo Nesi in Storia della mia gente; se in questo si parla di fabbriche pratesi e lavoratori orientali a nero, Pincio crea un’afosa Roma cinesizzata in cui è cambiata anche la moneta corrente. È una questione di prospettiva: la critica al sistema svolta in maniera puntuale e argomentata potrebbe non essere incisiva, mentre un punto di vista alieno è in grado di svelare l’assurdità di alcune situazioni che siamo abituati a dare per scontate. Prendiamo come esempio uno dei libri di Kilgore Trout riassunti ne La Colazione: in un altro pianeta, tutto il cibo è derivato dal petrolio e dal carbone, i film pornografici proiettati al cinema hanno per trama grandi abbuffate e le

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3 - Kurt Vonnegut - Author series, di Kieran Guckian (New Chemical History). 4 - Un aforisma di Vonnegut.

inquadrature contengono tavolate imbandite e bocche nell’atto di trangugiare prelibatezze. All’uscita dal cinema, le prostitute del paese invogliano i passanti mostrando frutti veri, cibi non derivati da petrolio e carbone, ma inevitabilmente, accettando l’offerta, non si otterrà nulla di diverso dai soliti prodotti adulterati e privi di sapore. Trout ci parla del mercato del sesso e della sua incapacità di mantenere le promesse di amore e soddisfacimento, ma, se avesse parlato di sesso o se non avesse alterato la lente dell’obiettivo, avrebbe attirato la nostra attenzione e inciso sulla nostra consapevolezza nello stesso modo? Non credo. E non lo credo perché le parole si logorano e perdono la loro forza comunicativa; diventano puro suono, come suggerisce Vonnegut e, quindi, serve trovare parole nuove e immagini nuove per veicolare gli stessi significati e innestare delle idee. Lo scopo della letteratura dovrebbe essere quello di dire al lettore qualcosa che non sa, o di dirgli qualcosa che già sa, ma su cui non ha riflettuto. È per questo motivo che i fili conduttori de La Colazione sono la mancanza di libero arbitrio e la presenza del messaggio, che Vonnegut veicola a Trout attraverso il libro, di essere l’unico uomo dotato di libero arbitrio. Lo scopo dei libri dovrebbe essere quello di comunicare in maniera ipodermica con il lettore, con il singolo lettore, per suggerirgli qualcosa, per consegnargli un messaggio. È quello che accade anche – in maniera meno raffinata – in Diary di Palahniuk9: l’oggetto che abbiamo in mano è il messaggio per l’unica persona a cui quel libro potrà cambiare la vita, è stato scritto perché la prossima vittima dell’isola a forma di pesce possa evitare di diventare strumento della rinascita della popolazione locale, immolandosi; ma, di fatto, l’autore sta consegnando un messaggio a tutti noi, ci dice di non lasciarci imbrigliare dalle costrizioni sociali, come accade alla protagonista del libro. In Palahniuk, però, l’operazione assume un tono virtuosistico, e l’artificio è più scoperto. Da sempre sono stati i giullari, i folli – e oggi i comici – a dirci qualcosa che non sapevamo di sapere: non dico “la verità”, ma una verità diversa da quella mainstream; un nuovo punto di vista. Così anche gli scrittori, spesso, ci riescono meglio ricorrendo a parodie e metafore. n° 5 • Novembre 2012


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NOTE: 1 Attestiamoci sull’idea di Vattimo che sia reale cioè che è considerato tale da un sufficiente numero di persone. 2 Kurt Vonnegut, Un uomo senza patria, traduzione di M. Testa, minimum fax, Roma 2006. Titolo originale: A Man Without a Country, 2005. 3 Id., Ricordando l’Apocalisse e altri scritti nuovi e inediti sulla guerra e sulla pace, traduzione di V. Mantovani, Feltrinelli, Milano 2008. Titolo originale: Armageddon in Retrospect. And Other New and Unpublished Writings on War and Peace, 2008, postumo. 4 Id., Ghiaccio-nove, traduzione di D. Vezzoli, Feltrinelli, Milano 2008. Titolo originale: Cat’s Cradle, 1963. 5 Id., La colazione dei campioni o Addio, triste lunedì!, traduzione di A. Veraldi, Feltrinelli, Milano 2005. Titolo originale: Breakfast of Champions or Goodbye Blue Monday!, 1973. 6 Id., Ghiaccio-nove, cit., p. 185. 7 Douglas Adams, Guida galattica per autostoppisti, traduzione di L. Serra, Arnoldo Mondadori Editore, Milano 1999. Titolo originale: The Hitchhiker’s Guide to the Galaxy, 1980. 8 John Barth, La fine della strada, traduzione di A. Buzzi, minimum fax, Roma 2004. Titolo originale: The End of The Road, 1958. 9 Chuck Palahniuk, Diary, traduzione di M. Colombo, Arnoldo Mondadori Editore 2004. Titolo originale: Diary, 2003.

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Dialoghi a distanza Di articoli sulla Gioventù Moderna ce n’erano sempre, ma la trucca migliore che avessero mai stampato sulla vecchia gazzetta era di un bigio papalone col collare da cane che diceva come, secondo la sua stimatissima opinione, e lui sprolava da uomo di ZIO, ERA IL DIAVOLO CHE SI TROVAVA OVUNQUE che si scavava la strada dentro la giovane carne innocente, ed era il mondo degli adulti che doveva assumersene la responsabilità per via delle loro guerre e delle bombe e tutte quelle assurdità. Ora sì che andava bene. Lui sì che sapeva di cosa parlava dato che era un uomo di Dio. E dunque noi malcichi eravamo innocenti e nessuno poteva darci la colpa. Benebenebene. (Anthony Burgess, Arancia Meccanica, 1962)

Un libro sui giovani: perché i giovani, anche se non sempre ne sono consci, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che costellano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui. Le famiglie si allarmano, la scuola non sa più cosa fare, solo il mercato si interessa di loro per condurli sulle vie del divertimento e del consumo, dove ciò che si consuma non sono tanto gli oggetti che di

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anno in anno diventano obsoleti, ma la loro stessa vita, che più non riesce a proiettarsi in un futuro capace di far intravedere una qualche promessa. Il presente diventa un assoluto da vivere con la massima intensità, non perché questa intensità procuri gioia, ma perché promette di seppellire l’angoscia che fa la sua comparsa ogni volta che il paesaggio assume i contorni del deserto di senso. (Umberto Galimberti, L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani, 2007) n° 5 • Novembre 2012


Determinare il male come una negazione e privazione di Dio ci permette poi di concludere che il male stesso è una perversione di sé. Se cioè la creatura vuol essere pari a Dio, allora, in quanto creatura, essa esiste nella condizione del pervertimento totale. Essa realizza il proprio essere alla luce di Dio e in riferimento a Lui nel modo di un essere contro Dio e senza di Lui. Per questo il male è ciò che in se stesso è contraddittorio, perverso, schizofrenico, totalmente alienante, assurdo, disorganizzato, distruttivo e caotico. (Walter Kasper, “Il problema teologico del male”, in W.Kasper-K.Lehmann (edd.), Diavolo-Demoni-Possessione. Sulla realtà del male, 1983)

L’ingiustizia, frutto del male, non ha radici esclusivamente esterne; ha origine nel cuore umano, dove si trovano i germi di una misteriosa connivenza col male. (Messaggio del Santo Padre Benedetto XVI per la Quaresima, 30 ottobre 2009)

Ma, fratelli, questo mordersi le unghie dei piedi su qual è la causa della cattiveria mi fa solo venir voglia di gufare. Non si chiedono mica qual è la causa della bontà, e allora perché il contrario?

(Anthony Burgess, Arancia Meccanica, 1962) Sul Romanzo

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L'intellettualità che manca: Aldo Busi, ovvero l'illuminista che osa di Michele Rainone

Francia, XVIII secolo. La svolta: crolla la monarchia e la repubblica prende vita; i morti saranno ancora tanti, la Rivoluzione continuerà, ma il popolo ha trionfato e il re è costretto ad arrendersi. Immensa era la figura degli intellettuali che avevano partecipato al dibattito di un’Età dei Lumi che avrebbe cambiato la storia dell’Europa; il fermento culturale dei salotti letterari era sfociato in impegno civile e l’intellettuale, non più arroccato nei suoi studi, aveva osato. Nel complesso intreccio delle relazioni con i poteri più forti – politica e clero, ma non solo –, prevalse l’organizzazione del dissenso sulla sottomissione al protettore di turno; anche nel Risorgimento italiano, comunque di importazione francese, e oltre, furono la partecipazione e la militanza il motore degli eventi, non la sterile erudizione racchiusa in pagine e pagine di libri: l’élite degli uomini di cultura, insomma, era stata più o meno in grado di impegnarsi civilmente e creare veramente un dibattito. Con l’avvento della società di massa, lo scenario è cambiato radicalmente: Pasolini fu tra i primi a denunciarlo e in modo così diretto da essere ucciso subito dopo Salò o le 120 giornate di Sodoma. L’impegno civile lo avrebbe ripagato soltanto post mortem, quando le sue analisi confermarono che la nuova generazione aveva pochi tratti in comune con le precedenti. Nonostante questo, la figura dell’intellettuale – in un Nuovo Millennio così diverso dai secoli scorsi – non può cambiare: è necessario che la matrice di fondo sia illuminista, in cui si mescolano sapere, partecipazione, rifiuto dell’autoreferenzialità e impegno per la difesa della propria indipendenza, nell’ottica di un continuo adattamento alle storie raccontate dal mondo.

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Aldo Busi

furono la partecipazione e la militanza il motore degli eventi, non la sterile erudizione racchiusa in pagine e pagine di libri

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I presunti intellettuali di oggi lo sono troppo o troppo poco? Tra il polo di chi non interviene nel dibattito, e dunque non osa, perché ostile ai nuovi mezzi di comunicazione – la televisione più di ogni altro –, e quello di chi lo fa in modo demagogico e sol perché concessogli da chi gestisce il mezzo, succubo, quindi, di qualcuno o qualcosa, esistono figure intermedie e cioè perfettamente intellettuali? Non mancano (poche) risposte positive da parte di coloro che, fedeli al modello illuminista, sono riusciti ad andare oltre, senza guardare solo in superficie una società, che, in un modo o nell’altro, torna in qualsiasi tipo di narrazione con il peso dei suoi eventi; nascondersi dietro un libro non è sufficiente per conoscere la realtà, né per giustificare qualsiasi presa di posizione; questa società va vissuta, fosse soltanto per il gusto di conoscere altre storie e apprendere il modo in cui queste possono essere raccontate – sempre che di storie (vere) si tratti. Libertà e adattamento richiamano il 2 ottobre 2012, data cui risale la notizia secondo la quale Aldo Busi ha rinunciato alla pubblicazione di El especialista de Barcelona con Giunti Editore, dopo aver rifiutato di pubblicare con Mondadori, a causa di una clausola contrattuale che avrebbe permesso alla casa editrice di modificarne i contenuti; se non fosse stato per Baldini&Castoldi Dalai, il suo ultimo romanzo non avrebbe visto la luce. Alle spalle Busi ha trentasei libri e prese di posizione di questo calibro non sono affatto nuove per i lettori, anche per chi ha letto solo – ma con attenzione – Seminario sulla gioventù, primo romanzo della sua carriera che, iniziato a 14 anni, nel 1984 catturò i critici, senza entusiasmarli troppo, e convinse non pochi lettori: il protagonista, Barbino, non è Aldo, né la storia ne rappresenta la biografia; non si può negare, però, che la sua abile penna abbia creato personaggi, situazioni e mosso intrecci che ne rappresentano un riflesso; in Seminario c’è tutto Busi, o comunque una grande parte, per quanto linguaggio e contenuti cambino di volta in volta: la voglia di libertà e indipendenza e la necessità di non farsi ingabbiare nel e dal sistema in cui si trova a vivere sono evidenti, mai opprimenti per il lettore, ma comunque rivendicate dal protagonista.

I presunti intellettuali di oggi lo sono troppo o troppo poco?

Barbino riesce a vivere bene – economicamente, s’intende – grazie a Suzanne, Geneviève e Arlette, tre donne delle quali sa poco e sulle quali, invece, tanto scoprirà nel corso della permanenza in Francia. Dietro la loro premura si nasconde proprio quel potere che cerca di incastrare la vittima e costringerla alla resa, ma Barbino – accortosi dell’inganno – fugge: torna indietro, (si) esplora continuamente, senza mai perdere la libertà; non è mai schiavo neanche del sesso, che, in un certo senso e in molte situazioni, rappresenta il potere assoluto: il ragazzo vive le sue prime (e infinite) esperienze – e il lettore riesce a immedesimarvisi grazie a descrizioni minute e realiste –, è curioso, sperimenta, osa laddove qualcuno o qualcosa gli impongono di non osare; eppure, non scende mai a compromessi: è libero nel suo modo di pensare e di agire. La storia Sul Romanzo

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di Seminario della gioventù potrebbe essere paragonata a quella di uno spirito che si auto-educa e autodetermina, in giro per l’Europa – come fece lo scrittore, improvvisandosi ora spazzino ora cameriere ora portiere, ma non solo – senza mai perdere di vista il proprio io, evitando di soccombere dinanzi alla follia distruttrice e intrappolante di micro e macrosistemi, costruiti ma non inventati dall’autore.

Cultura mista a libertà, dunque. E qualcosa di più, come il già citato adattamento. Dietro di sé, infatti, Busi ha la partecipazione al reality L’Isola dei Famosi, forse destinata a diventare vittoria, se non avesse interrotto l’avventura all’improvviso: sicuramente azzardato per un intellettuale, a tal punto che Umberto Eco si schierò apertamente contro tale comportamento, non senza ottenere una risposta immediata. «Cosa sarebbe Eco – così esordì Busi – senza la grancassa […] di Repubblica e l’Espresso da cui incassa pubblicità e pubblicistica da decenni? […] Eco fa parte di un clan, che lo protegge in cambio di protezione […]: io […] non appartengo a niente e a nessuno. […] Diciamo che il mio (bel) gesto di partecipare al reality fa piazza pulita di tanti vecchi tromboni, di fatto obsoleti e reazionari e bigotti quanto più di sinistra normativa essi siano, ai quali come massima rifusione del prestigio e della credibilità perduti daranno un Nobel della Letteratura». Posizione salda – contro il potere altrettanto forte dei “tromboni” delle accademie – che si aggiunge a una lotta imperitura contro il Vaticano, il clericalismo di una politica inadatta a governare, persino contro il suo nucleo familiare. A proposito di un recente processo intentatogli a seguito delle accuse di diffamazione da parte di Veronica Lario – il secondo, dopo quello seguito alla pubblicazione di Sodomie in corpo 11 –, nel parlare della magistratura Busi ha preso di mira, per esempio, anche la Chiesa: «Ne ho piene le storie di questa magistratura fatta per lo più di gente smaniosa di giudicarmi, come già accaduto, consultando il catechismo invece del codice penale. Già a vedere un crocefisso in un’aula giudiziaria mi viene l’orticaria e mi tocco». Già nel 2004, in E io, che le rose fiorite anche d’inverno?, l’attacco ai vertici ecclesiastici era stato portato avanti attraverso metafore quasi terrificanti: «Non c’è laicità possibile, per esempio, se tanto per cominciare non si conviene subito che Satana è un’invenzione della chiesa per distrarre l’attenzione da se stessi. Chi grida “Al lupo! Al lupo!” di mestiere che altro mestiere può fare se non il lupo?». Sempre qui si legge che: «Il papa è un divino Otelma al quale è andata da Dio». Nulla di diverso rispetto a quanto emerso su Rai Due, quando affermazioni forti nei confronti del pontefice spinsero i vertici aziendali a estromettere Busi da tutte le trasmissioni televisive (Mediaset gli riserverà lo stesso trattamento, prima affidandogli la co-conduzione del non molto fortunato Stasera che sera! assieme a Barbara D’Urso, per poi liquidarlo).

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Gli “incantesimi” del potere, queste farse che ingabbiano i più deboli, trovano ampio spazio pure in Vita standard di un venditore provvisorio di collant, il suo secondo romanzo pubblicato nel 1985; qui Busi, attraverso i personaggi di Angelo Bazarovi e Celestino Lometto – i cui figli si chiamano Ilario, Berengario e Belisario, nomi tutti terminanti in – ario, proprio perché il capofamiglia è intenzionato a dar vita a una nuova razza dominatrice –, crea «una vera e propria enciclopedia dell’ingiustizia sociale estesa a ogni latitudine, grande e piccola, dell’esistenza – spiega Marco Cavalli in Aldo Busi –. Sotto questo aspetto Vita standard è un romanzo di grande crudezza […], generata dal contrasto tra stili opposti di pensiero, uno dei quali si afferma a spese dell’altro ma vede oscurato il proprio trionfo dal riconoscimento disincantato che gli tributa lo sconfitto. Se il fascismo di Celestino Lometto ha il potere di incantare non è certo per una sua intima forza di persuasione; il merito è semmai del punto di vista ostile a quel fascismo, il solo che infine renda giustizia alle sue attrattive». Anche in Vita Standard non manca una sorta di rifiuto del potere: quando Celestino scoprirà che il figlio che aspetta sua moglie Edda è in realtà una bimba down, ordinerà ad Angelo, nel frattempo divenuto suo stretto collaboratore, di ucciderla; questi non soltanto non obbedirà, ma si separerà anche dalla famiglia Lometto, scoprendo – in un secondo momento – che la figlia è morta soffocata e che né i genitori né i fratelli accorsero in suo aiuto. Sempre in questa sede spicca un forte interesse per le minoranze, che, protagoniste sin dalla prima battuta – la domanda «Che fine ha fatto Giorgina Washington?» –, e funzionali a niente e nessuno, permettono a Busi di sottolineare che, laddove il potere afferma, l’intellettuale deve avere la forza di domandare. Lo scrittore attacca persino il popolo in Casanova di se stessi del 2000, dove l’accusa non è tanto al potere quanto a chi lo ha sostenuto – Silvio Berlusconi e i «berlusconini» nella fattispecie –: «[…] Vorrei sapere, infine, se i complici del Male sono consapevoli o no di esserlo […]. Una questione da porre, per esempio, alla Chiesa Cattolica, distruttrice universale di ogni cultura altra da sé». È di cinque anni prima, in Grazie del pensiero, la stessa accusa:

«È ora che gli italiani scendano in piazza a protestare contro se stessi. Grazie del Pensiero».

«È ora che gli italiani scendano in piazza a protestare contro se stessi. Grazie del Pensiero». In una società del genere, in cui le storie e gli intrecci sembrano sfuggire di mano, e in cui le vittime sono carnefici di se stesse, dove la fabula è addirittura imposta dal potere che prende il sopravvento, la strada dell’illuminista che osa e ha il coraggio dell’impopolarità è l’unica percorribile. E tra opera e vita, Aldo Busi non se ne è mai discostato, perfetto proprio come l’intellettuale che manca. Sul Romanzo

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I curiosi, mescolandosi alla fila, chiedevano: “Chi è il morto?”

La risposta era: “Živago.” “Ah! allora si capisce.”

Resurrezione di Lazzaro, Sebastiano Del Piombo, 1519. National Gallery, Londra (UK).

Borìs Pasternàk, Il dottor Živago, 1957.

Webzine - anno 2, n° 5 - Novembre 2012

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