editoriale
SERVIZI PRIVATI CHE COMINCIANO AD OFFRIRE QUALCHE OPPORTUNITÀ IN PIÙ Ho conosciuto la cooperativa “Piccolo Carro”. L’ho vista come un mirabile esempio che sa offrire servizi in più.. I responsabili, infatti, non dimenticano che dietro ogni attività socioeducativa c’è sempre qualche parte nascosta di “umanità” da completare. Non si vede, ma c’è. Stare insieme con gli operatori, con gli utenti dei servizi e con i genitori degli utenti ha permesso di imparare a conoscersi per scoprire nuove prospettive e varcare nuovi orizzonti. Così, le visioni del mondo si allargano, i cancelli della solidarietà si spalancano e si mettono le basi per creare un nuovo modo di percepire un’esistenza migliore di quella attuale. Il materiale psicologico, del resto, non ha alcuna pretesa di assoluto né di dimostrabilità. I concetti psicologici non aspirano a diventare statuti di verità ma sono tracce di conoscenza, chiavi di lettura che servono a rendere pensabile le condotte umane. In psicologia, non abitano i dogmi né gli atteggiamenti fideistici, ma vengono ospitati soltanto criteri di pensabilità sostenute da esperienze osservative. Ho visto fare educazione con le favole. Proprio così. Una volta alla settimana, ogni venerdi sera, alcuni genitori dei bambini che frequentano la Baby-school “L’erba voglio” di S. Maria degli Angeli in Assisi s’incontrano nelle ore serali e sollecitati da un esperto si formano nell’arte di migliorare la crescita e lo sviluppo dei propri figli. Fanno “parent training” con le favole. È forse segno di eccessiva ingenuità credere ancora nelle favole? No, quando a proporle sono psicologi dal volto umano e senza frontiere. Può uno “scoiattolo” insegnare a essere se stessi? Si, se si viene sensibilizzati alla metalettura. Vi posso garantire che ho visto miracoli di trasformazione nelle aspettative, nei pregiudizi, nei luoghi comuni…. Oggi, in verità, non è facile andare d’accordo con uno psicologo. Non è facile farsi convincere da certi modelli psicologici. Eppure, l’equipe del Piccolo Carro, spogliandosi di tutte quelle strutture culturali che rendono importanti, diventa una comunità educante: esseri umani insieme ad altri esseri umani vanno alla ricerca di tracce cognitive d’oro dentro una miniera di parole in libertà. Insieme fanno gruppo e ci riescono. Il rendersi conto che anche gli altri affrontano gli stessi problemi aiuta a sentirsi meno soli e ridimensiona le cose. In fondo, la partecipazione a questi gruppi a poco a poco determina dei piccoli cambiamenti nelle dinamiche familiari. Parlare e scambiarsi i vissuti emotivi facilita il ruolo educativo dei genitori. Gli incontri, man mano che procedono nel tempo, trasformano i partecipanti: si interrogano sempre di più e giudicano sempre di meno. L’esperienza, pertanto, aiuta gradualmente a partecipare con utilità perché non ci si sente giudicati dagli altri ma semplicemente aiutati a capire anche attraverso i filtri di nuove visioni. Insieme si impara a osservare la realtà anche da altri punti di vista. Dopo avere assistito ad alcune di queste esperienze, mi sono chiesto: “Come mai funziona l’espediente della favola?” A chi crede di essere cresciuto abbastanza, il filosofo Giambattista Vico ricorda che nei fanciulli è vigorosissima la memoria e vivida all’eccesso la fantasia che altro non è che memoria dilatata o composta. Semina bene e raccoglierai frutti buoni. Afferma un antico proverbio africano: “Le mani che piantano non muoiono mai”. Ed un proverbio persiano dice: “Altri hanno piantato ciò che noi mangiamo. Noi piantiamo ciò che gli altri mangeranno”. Noi siamo memoria delle memorie (cfr. D. Wardi – Le candele della memoria – Sansoni 1993). Presentiamo, in questo numero, la sintesi degli incontri arricchiti da ulteriori riflessioni da parte dei relatori. Piero Tordelli (psicologo psicoterapeuta - S. Ginesio di Macerata)
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TORNIAMO ALLE FAVOLE PER CAPIRE NOI E I NOSTRI FIGLI di Aristei Cristina (psicologa – Bastia) e di Salerno Pietro (psicologo – Assisi)
Il mito della felicità dell’infanzia è un poetico pregiudizio, un modo utopico e magico di leggere l’esistenza, un falso mito: ogni bambino sperimenta sia la gioia che il dolore. Soddisfazione e sofferenza appartengono all’esperienza della crescita, per tutti. Crescere comporta l’acquisizione di nuove abilità ma anche l’avere a che fare con nuovi problemi. Maturando, ognuno di noi ha appreso nuove sicurezze perdendo qualche pezzo di quelle precedenti. Durante lo sviluppo, infatti, i cambiamenti ci spiazzano, ci tolgono un po’ di equilibrio perché non è facile trovare il giusto compromesso e non sempre riusciamo a trovare il corretto adattamento tra il conosciuto e l’ignoto. Anna Freud, appunto per questo, denominò l’infanzia e l’adolescenza “un disturbo evolutivo”. Non è un’esagerazione. Senza educazione, il primo percorso esistenziale diventa un problema serio. Molte volte, i nostri figli nella vita ci camminano accanto e, distratti dalle nostre preoccupazioni, non poniamo attenzione e non abbiamo rispetto per il mondo prezioso e fragile delle loro emozioni e dei loro sentimenti. Ci accorgiamo che hanno delle difficoltà soltanto quando lanciano segnali di allarme: hanno un’aria triste, manifestano apatia, danno segni di inquietudine, si isolano dai compagni, sono assenti col pensiero, hanno comportamenti frequenti di rifiuto e di opposizione, provano difficoltà scolastiche, non danno fastidio al mondo perché immersi nei loro pensieri, emettono comportamenti provocatori, usano sempre un comportamento ablativo (troppo buono…), vivono in continua iperattività, si mordono ossessivamente le unghie… E soprattutto tengono nascoste le molte risorse vitali che posseggono: allegria, entusiasmo, generosità, sentimenti di tenerezza, creatività, vivacità intellettuale…(cfr. A. Miller – Il bambino inascoltato – Bollati 1989). In verità, dietro ad ogni sintomo di disagio e ad ogni limitazione di benessere, è possibile trovare un senso e un significato di ciò che avviene (genitore pensato dal bambino, tipo di adulto dentro i suoi pensieri...). I comportamenti a rischio sono messaggi da imparare a codificare senza cadere, però, negli imperanti psicologismi; sono messaggi inascoltati e lasciati lungo il sentiero delle stagioni della vita ma che hanno impoverito la nostra capacità di conoscere chi ci viveva accanto. Un adulto sordo e cieco, in tale situazione, non potrà garantire l’esistenza del suo cucciolo: non gli farà apprendere l’autonomia; non l’allenerà a gestire le esperienze dell’attaccamento e della separazione; non gli farà capire il senso dei vari processi di liberazione dalle schiavitù dorate; lo farà restare schiavo del sentimento di onnipotenza senza sapersi fare i conti con la realtà… Non gli insegnerà la vita. Solo chi ha un genitore, non possessivo, crescerà senza lacerazioni e senza i rimorsi fra la scelta di tradire l’adulto di riferimento per sviluppare la fiducia in sé o la scelta di tradire se stesso perdendo la sicurezza individuale. Infatti, quando attribuiamo la colpa a noi stessi o agli altri, non cresciamo. Per vivere, bisogna evitare la logica del capro espiatorio, che è una erronea certezza. Il senso di colpa aumenta l’ansia, che a sua volta aumenta la confusione e le difficoltà di comprensione, le quali richiamano un nuovo rinforzo del senso di colpa. L’ottica causale non fa bene ai protagonisti del rapporto educativo. I servizi educativi hanno il compito di aiutare tutti a stare meglio. L’apprendimento della vita è simile all’esperienza del camminare: all’inizio, ogni bambino ha un suo spazio da percorrere
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usando mani e piedi: perderà l’equilibrio, cadrà, si sbuccerà le ginocchia, si farà qualche bernoccolo… sino a quando imparerà a fare tutto all’interno della sua storia; si muoverà su due piedi e ce la farà sempre da solo. Le frustrazioni sono servite per preparare una nuova conquista. Un periodo di disagio ha avuto uno sbocco evolutivo (cfr. J. Mc Dougall – Teatri del corpo – Cortina 1990). Vivere non è involuzione ma evoluzione. Vivere è percepirsi intero, mentre si apprendono libertà. Diceva Jung: “Non siamo noi a curare la nostra nevrosi; è lei che cura noi” in quanto il sintomo fa emergere le parti sani che possediamo e che ci danno la forza di andare avanti. Ogni tipo di sintomo offre l’occasione per comprendere ed elaborare le nostre problematiche portate dietro le spalle, nascoste, non evidenti, non logiche… (cfr. Maud Mannoni – Un luogo per vivere – Seuil Parigi 1976). E uno dei tanti modi per lavorare sui sintomi è il ricorso alle favole. Le favole educano sia i bambini che gli adulti. Per i bambini, a primo impatto, le favole sono contenuti espliciti di un mondo esterno (lettura, ascolto); per gli adulti, invece, valgono per i contenuti impliciti del mondo interiore (riflessione), in quanto l’adulto si porta dentro le emozioni dell’antico bambino che fu (risonanze psicologiche delle emozioni sepolte). L’immagine dall’esterno viene sempre falsata da una seconda immagine proveniente dall’interno. Quindi, le favole sono uno strumento per entrare in contatto con la propria realtà psicologica ed assumono un significato per il singolo e per il contesto in cui vive. Educare con le favole non è portare conoscenze ma cercare di comprendere il come e il perché dei propri comportamenti per seguire le regole di vita che ne derivano (riappropriazione interiore del senso della favola), anche se poi ci sarà chi preferisce adattarsi e chi sceglie di trasgredire. Il linguaggio delle favole, comunque, porta a guardare la realtà con gli occhi psicologici e a capirla meglio. La psicoterapeuta Alba Marcoli l’ha saputo sperimentare usando i “laboratori delle favole” per educare genitori e figli in difficoltà (cfr. A. Marcoli – Il bambino nascosto – Mondadori 1993; Il bambino arrabbiato – Mondadori 1996; Il bambino perduto e ritrovato – Mondadori 1999). Voglio sottolineare l’importanza delle sue esperienze con l’augurio di non trasformarsi in un invito a semplificare troppo i problemi educativi, che non sono mai semplici. Molto spesso, dietro un comportamento difficile di un bambino c’è un messaggio di profonda sofferenza che di solito non viene riconosciuta. Con l’uso delle favole è possibile vedere ciò che non è evidente. Inoltre, occorre ribadire che l’alleanza con i genitori resta basilare per la riuscita dell’uso delle favole terapeutiche in quanto i genitori stavano già lavorando per migliorare la situazione con il figlio, vivono per molto tempo con il bambino ed hanno a cuore il superamento del disagio. Trascriviamo una delle tante favole, presenti nei tre volumi, “L’uovo di ferro e il martello d’oro”, senza commenti in quanto ogni lettore sa come evidenziarne la validità formativa:
Iniziativa dal titolo: “Un giorno con mio figlio” Simone, i suoi amici e la sua mamma
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“… Nella covata di mamma Chioccia tutte le uova si preparavano a schiudersi e c’era un gran trambusto nella famiglia, finchè poco a poco si cominciarono a vedere prima un becco, poi un altro, poi un altro ancora che uscivano dal guscio. Ed ecco che ben presto la paglia si ricoprì di batuffoli bianchi e gialli che ruzzolavano qua e là. Mamma Chioccia aveva il suo ben daffare a rincorrere tutti. Quando finalmente riuscì a riportare un po’ d’ordine, si mise pazientemente a contare i pulcini e fu così che si accorse che ne mancava uno. All’inizio pensò di essersi sbagliata e si mise a contare di nuovo con maggior cura, ma quando ebbe finito si rese davvero conto che ce n’era proprio uno in meno. Cominciò a cercare attentamente in giro per vedere che cosa fosse capitato ed ecco che, sotto un cumulo di paglia immobile, scoprì l’uovo mancante, tutto intero come prima della covata. Era proprio il più bello di tutti, quello da cui sarebbe dovuto nascere uno splendido pulcino e mamma Chioccia si mise di nuovo a covarlo pensando che avesse bisogno di un altro po’ di calore. Invece, più i giorni passavano e meno l’uovo accennava a schiudersi. “Chissà che cosa è successo!” pensava preoccupata mamma Chioccia. Si consultò con il papà e decisero insieme di portare l’uomo dal vecchio Sapiens, che conosceva il linguaggio per parlare con le uova della campagna. Ed ecco che la mattina seguente caricarono l’uovo e la paglia in un cestino di rami e andarono all’abitazione del vecchio. Anche stavolta lui era in meditazione nella radura per salutare il sole nascente e per scrivere sul suo librone e nessuno osava disturbarlo. Finalmente, quando ebbe finito tornò lentamente verso casa e incontrò papà Gallo e mamma Chioccia che gli raccontarono la storia dell’uovo. “Si vede che questo è proprio un pulcino originale e speciale!” disse il vecchio e andò a prendere un piccolo sasso che aveva raccolto tante stagioni prima sul letto del fiume durante l’estate, quando l’acqua si riposava. Si avvicinò con cura all’uovo e col sasso gli diede alcuni colpetti ritmici e leggeri, come se volesse comunicare qualcosa. Papà e mamma guardavano incuriositi. Dopo un po’, da dentro l’uovo, si sentirono alcuni colpi di risposta, anche loro ritmici e leggeri ma un po’ deboli. Il vecchio aspettò un attimo e poi riprese a battere sull’uovo e questa volta la frase doveva essere molto lunga perché i colpi furono tanti. Si sentì di nuovo il silenzio e poi da dentro all’uovo arrivò una lunga serie di piccoli colpi, leggeri, ma un po’ meno deboli. E così la conversazione tra Sapiens e il pulcino andò avanti per un po’ finchè ci fu un silenzio più lungo degli altri. Il vecchio si mise a meditare. Infine disse a papà e mamma che aspettavano in ansia: “Dunque, lui dice che sta benissimo, che è proprio sano e che gli piacerebbe tanto uscire dal guscio ma non può”. “perché?” chiesero stupefatti papà e mamma. “perché questo uovo, così bello fuori, dentro è di ferro e lui non riesce a spaccarlo per uscire. Anzi ci ha già provato tante volte, ma si è anche spuntato il becco perché il ferro è troppo duro per un pulcino che sta per nascere.” “ma come si può fare per aiutarlo? Neanche noi siamo capaci di rompere un uovo di ferro!” dissero i genitori, tristi e sconsolati. Allora soggiunse il vecchio: “Un rimedio ci sarebbe. Me l’ha detto proprio lui, da dentro l’uovo. Dice che ha sognato che nel bosco c’è un suo amico che si chiama Maurizio, che è un pulcino grande che ha scoperto sotto terra un martello d’oro. Quella è l’unica cosa che può spaccare l’uovo di ferro e allora bisogna proprio che voi lo cerchiate. Nel frattempo lasciate qui a me l’uovo e io avrò cura di lui.” E fu così che papà Gallo e mamma Chioccia cominciarono ad andare in giro per il bosco alla ricerca del pulcino Maurizio, ma per quanto lo cercassero sembrava proprio che nessuno lo conoscesse. Eppure il vecchio era stato molto preciso e sicuramente non sbagliava. Papà disse mestamente: “Può darsi che abbia sbagliato il pulcino dentro all’uovo, d’altra parte è solo in sogno che ha visto Maurizio e il martello d’oro.” Mamma Chioccia rispose convinta così mentre continuava la ricerca: “Ma se lui l’ha sognato, Maurizio deve esistere altrimenti non sarebbe neanche compar-
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so nei suoi sogni.” E così di cespuglio in cespuglio e di spiazzo in spiazzo, papà e mamma arrivarono all’altro angolo del bosco, quello verso Nord. E lì, mentre si riposavano sotto un albero, sentirono una splendida musica che arrivava da dietro una roccia. Sembravano tanti rintocchi, come se qualcuno li suonasse facendo vibrare un metallo prezioso che trasmetteva le note al vento. Fecero allora il giro della roccia ma non scoprirono proprio niente, anzi la musica cessò. Sembrava che non ci fosse nessuno da quelle parti. Si sedettero nuovamente, un po’ rattristati, quando all’improvviso la musica ricominciò.era proprio il tintinnio di un metallo prezioso, una cosa molto rara e difficile da sentirsi, ma da dove proveniva era impossibile scoprirlo. Sembrava nascere e morire nell’aria senza l’aiuto di nessuno. Papà e mamma erano sempre più perplessi e non sapevano cosa fare- mamma Chioccia ebbe lo strano presentimento che quella musica li avrebbe aiutati a trovare Maurizio e decise di continuare ad ascoltarla. Passarono ben tre giorni e tre notti sotto la roccia ad ascoltare la musica e si accorsero che c’erano sempre tre note uguali che venivano ripetute in ogni canzone e che erano il motivo conduttore. Quando, dopo tre giorni, la musica cessò, mamma Chioccia andò proprio sotto alla roccia e si mise a cantare lo stesso ritornello della canzone con le tre note uguali, poi aspettò. Dopo un po’ di tempo le rispose la musica con il ritornello e alla fine nella roccia si spalancò una caverna che prima era chiusa da un masso. La musica proveniva proprio da lì. Papà e mamma entrarono un po’ intimiditi e là, finalmente, trovarono il martello d’oro, posato su una pietra di cristalli che sembrava uno strumento musicale. Accanto c’era un pulcino grande che rideva divertito. “Ce ne avete messo del tempo per trovarmi!” disse infine. “Tu sei Maurizio?” gli chiese timidamente e trepidante mamma Chioccia. “Certo, non lo sapevi? Per tre giorni ho dovuto suonare la musica col martello d’oro, prima che voi imparaste il segreto per entrare nella caverna!” “Ma allora tu sai anche perché noi siamo qui?” gli chiese il papà stupito. “Sicuramente, me l’aveva detto in sogno il pulcino dell’uovo di ferro che è mio amico. Ora portatemi da lui perché è stanco di stare dentro al guscio e solo il mio martello lo potrà aiutare.” E fu così che papà Gallo, mamma Chioccia e pulcino Maurizio attraversarono tutto il bosco. Ci vollero parecchi giorni prima di arrivare a casa del vecchio Sapiens. Quando furono arrivati, misero l’uovo al centro dello spiazzo, in mezzo a tanta paglia e Maurizio cominciò a cantare la canzone al martello d’oro. A quel punto lo seguirono tutti e il loro canto richiamò tutti gli animali vicini e lontani e tutti impararono la canzone e la cantavano insieme. Intanto il sole saliva, saliva in alto nel cielo e quando fu proprio sopra lo spiazzo lanciò un raggio proprio sopra il martello d’oro. Era giunto il momento tanto atteso. Il canto si fermò. Maurizio impugnò il suo martello illuminato dal sole e con un colpo secco ruppe il guscio di ferro in due parti. Improvvisamente sbucò fuori un bellissimo pulcino che cominciò a ruzzolare e a fare le capriole in mezzo alla paglia. Poi si fermò e disse, respirando a pieni polmoni: “Come sono contento di essere uscito da guscio di ferro! E come è buona l’aria che entra ed esce dentro di me! Ma che cosa è quel disco grande lassù che illumina il martello d’oro? E che cosa sono tutte queste cose nuove e questi animali e questo posto? Io non pensavo che il bosco fosse così pieno! È proprio molto più divertente e più popolato dell’interno del mio guscio!” Gli abitanti del bosco guardarono incuriositi e commossi. Si ripeteva ancora una volta la scena in cui un piccolo cominciava a scoprire il mondo. Era ancora una volta ad ognuno di loro sembrava che il bosco diventasse più bello e più ricco perché riscoprivano l’incanto con cui si vedono le cose la prima volta. E fu così che il pulcino abbandonò il suo guscio di ferro e andò in giro a scoprire il mondo con il suo amico Maurizio dal martello d’oro. E ciò continua ad avvenire ogni anno, a primavera.” ( A. Marcoli – Il bambino nascosto – Mondadori 1993 - pp.183-188)
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Iniziativa dal titolo: “Un giorno con mio figlio” Melissa gioca e coinvolge la mamma
Educare significa innanzitutto capire cosa c’è dentro il “pensiero” dei nostri figli. Per cercare di capire è utile il confronto con gli altri. Chi vive lo stesso problema concorrerà ad illuminare sempre più ciò di cui si discute. Quindi, i gruppi di discussione tra educatori, genitori ed esperti sono veramente occasioni educative preziose perché insegnano a vedere cose che individualmente non vediamo, anche se ci dichiariamo colti. Le relazioni sociali ci migliorano. Ascoltare gli altri significa imparare anche da colui che consideriamo “ignorante”; ascoltare è un aggiungere qualcosa in più a quello che già sapevamo; è un’esperienza arricchente. Con il metodo delle favole, tutti scoprono che nessuno non “voleva capire” ma semplicemente che “non riusciva a capire”. Il loro ascolto in gruppo porta ad una maggiore comprensione dei comportamenti infantili. E questo migliora la qualità delle relazioni tra adulti e bambino. Permette di raccogliere i segnali di un figlio in pericolo quando c’è ancora il tempo per aiutarlo ad evolvere. Un ragazzo difficile o in crisi cambia solo se si sente capito. La sua storia ha a che fare con una situazione di crisi passata inosservata o liquidata con interventi farmacologici. Ascoltare un suo sintomo di sofferenza rassomiglia all’esperienza di chi raccoglie un uccellino tramortito dal freddo. Aiutare a risolvere una sua crisi è una gioia simile al ritrovamento di un bambino perduto (cfr. P.C. Racamier – Il lavoro incerto – Del Cerro 1986). Quindi, lavorare con i genitori diventa un efficace servizio sociale di prevenzione e di attenuazione del disagio psicologico nei bambini. Lavorare in gruppo attraverso l’ascolto di una favola e attraverso la libera discussione sui temi che ognuno fa emergere è un gesto pedagogico salutare che libera dalle solitudini in cui ci possiamo trovare, moltiplicando le nostre ansie e i nostri problemi che inevitabilmente ricadranno su tutti coloro che ci vivono accanto.
Iniziativa dal titolo: “Un giorno con mio figlio” Lorenzo e la sua mamma
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DIVENTARE GENITORI EDUCANTI di Antonino Minio (psicologo psicoterapeuta – Spoleto) e di Pietro Salerno (psicologo - Assisi)
EDUCARE AD AVERE MEMORIA DEL PADRE E DELLA MADRE Chi ama i figli fa di tutto affinché essi possano realizzare i sogni più belli. In realtà si diventa genitori efficaci se ognuno comincia a trasformarsi in educatore senza frontiere, ad uscire dal coro e ad equipaggiarsi di atteggiamenti creativi per evitare le abitudini, per superare lo scoraggiamento, per sfuggire alla rabbia della rivincita e soprattutto per non farsi rodere dai conflitti. Quando un comportamento educativo non funziona, si lascia e se ne cerca un altro. Anche le risposte del bambino ci cambiano e ci educano. Educare è un comportamento creativo. La creatività è compagna dell’entusiasmo, del coraggio e dell’umorismo. Creatività non è seguire schemi... ma è privilegiare l’avventura… è immaginare il quotidiano in maniera diversa e originale... è capacità di combinare magicamente i dati dell’esperienza comune... è sorpresa produttiva…
Iniziativa dal titolo: “Un giorno con mio figlio” Umberto fa fare un bel tuffo in palestra anche a mamma
Non ti indurire nelle tue idee! Non innamorarti delle cose che pensi. Butta anche le cose che ti piacciono se non sono funzionali nella realtà. Ciò che conta è il risultato. Non imbrigliarti nelle regole, non incatenarti con gli schemi. Sii libero a 360 gradi!
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La goccia bacia il sasso e scivola via. Tutto ciò che ci circonda non è mai come era prima. Gli occhi della mia vecchiaia non riconoscono ciò che hanno visto nell’infanzia. Il tempo cambia ogni cosa. Le regole sono fatte per essere superate. Non morire nelle ideologie. Non restare anarchico per sempre. Impara a ricevere lo scandalo ma non scandalizzarti. Ripetere l’educazione suggerita dalle comodità del momento è assai gratificante perché non impegna, mentre cambiare stile educativo è un grande sacrificio perché richiede un’operazione raffinata: quella dell’uso contemporaneo di telescopi e di microscopi per vedere l’infinitamente vicino e l’infinitamente profondo. So bene che avere a che fare con la personalità degli altri è un’arte fragile ma sono sicuro che è anche praticabile. Basta possedere alcune qualità. Essere delicati è la prima virtù. La delicatezza evita gli interventi rozzi; non fa entrare nella mente dell’altro con gli scarponi chiodati; non fa usare un linguaggio che mette paura; non s’affianca rotolando con la pesantezza di un macigno… Educare è scegliere di essere buoni mentre si interviene. Un intervento sbagliato o cattivo è più nocivo di un non intervento. In realtà, insegnare agli altri è difficile. Basta scalfire un pezzo dell’intimità per far saltare la sicurezza. Ma un genitore amorevole sa come avvicinarsi al figlio per insegnargli a scoprire gli ostacoli invisibili affinché non sbatta contro i soffitti di cristallo. Chi è stato educato in un clima di serenità e con la gioia di vivere, nonostante le possibili deviazioni e trasgressioni, saprà andare avanti senza danneggiare gli altri e senza provocare fastidi a se stesso. I guai capitano quando si cammina al buio, senza la presenza di un padre e di una madre che educano amorevolmente. Nel mondo, dove la crisi della famiglia va di pari passo con la crisi della religione, sta ritornando la grande scommessa della vita: essere genitori. Se l’abbiamo vinta o no ce lo diranno i nostri figli. Vinceremo solo se ci ricorderanno. Per non tagliare il filo di questa memoria, infatti, ovunque si moltiplicano le iniziative di formazione dei genitori (parent training): più che educare i piccoli, oggi occorre educare i grandi a rieducare, a diventare genitori che lasciano tracce significative nella nebbia dei ricordi. Per educare occorre essere posseduti di memoria, altrimenti prendono il sopravvento le sporcature dei pregiudizi. Le prime frontiere da abbattere sono quelle che abbiamo in testa. Nonostante la velocità dell’innovazione culturale, che in pochi anni raddoppia le conoscenze, dentro la testa di tanti adulti troneggiano molti pregiudizi educativi che non hanno segnali di orientamento alla vita e che non sono espressioni di un atto d’amore iniziato all’atto del concepimento. Tagore racconta di una madre che rispondeva così al piccolo figlio che le chiedeva da dove fosse venuto e dove l’avesse preso: “Amore mio, eri un desiderio nascosto nel cuore”. Ricordo la conclusione di una psicoterapia di un signore con gli occhiali dietro cui brillavano due occhi intelligenti: “Sino ad oggi tenevo una ferita nel cuore senza saperlo. Credevo che la responsabilità del mio malessere dipendesse dagli altri. Finalmente ho capito cose che non potevo capire quand’ero bambino. Ancor piccoletto, i miei genitori erano tanto poveri e per culla usavano una cassetta del pesce. Ragazzino, non potendo tirare avanti, mi affidarono ai miei nonni. Io ho interpretato tutto ciò come se mi volessero rifiutare. Ero saldamente convinto che
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non mi amassero. E con questi pesanti pensieri mi sono agitato sino a questa età. Ora, grazie alla psicoterapia, ho aperto gli occhi e scopro di avere tenuto inutilmente aperta una cicatrice che mi ha fatto penare tantissimo… Mi sento un imbecille. Ma se voglio saperne di più scopro che lo sono per contagio. Mi hanno contagiato le letture psicologiche, tanto da fare l’errore di salvare un figlio e farne soffrire un altro… Mi hanno contagiato le lamentele di individui avidi di presenza televisiva che dicevano sciocchezze su tutto… Ho frainteso le emozioni provocate da certe trasmissioni sul rapporto genitori e figli… Facevo la raccolta di frasi di certe biografie spezzate, di sentimenti saccheggiati da intimidazioni, da paure, da pensieri irrazionali, da tabù sociali… Avevo travisato l’esternazione dei sentimenti… E tutto ciò mi aveva fatto dimenticare la memoria dei miei genitori, testimoni di una vita completa…”. Noi genitori, sfiancati dalla realtà mediatica, dovremmo difenderci con coraggio e lasciare impresse significative fotografie nella mente dei nostri figli, a memoria storica di ciò che siamo stati. Ogni famiglia è terra di racconti. Il futuro generazionale si garantisce conservando i segnali forti. Dobbiamo ripetere il gesto dei nostri padri che ci hanno trasmesso i loro valori. La vita va consegnata a chi ci segue con immagini ferme. E appunto per questo va lasciata una memoria. I ricordi alimentano la speranza.
UN GENITORE EDUCA ANCHE QUANDO NON PENSA DI EDUCARE Tutto può educare o diseducare. Educa il contatto con gli altri… Educa persino il sogno, l’incubo notturno, la bellezza di un fiore, il cielo stellato… Ci piace o non ci piace, siamo costretti a vivere immersi dentro interminabili stimoli che agiscono su di noi. Ad ogni minimo stimolo reagiamo liberamente con apprendimenti personali. Ogni evento diventa una macchina per generare interpretazioni. La prima riga della prima pagina di un racconto si riferisce a qualcosa che è già iniziata e accaduta fuori dal libro. Ciò avviene perché la percezione umana è libera ed è viziata dalla relatività: chiusi dentro la stessa stanza, c’è chi apre gli occhi e guarda il soffitto bianco ma c’è anche chi guarda la tenda fiorita o altro. Tutti inciampiamo occasionalmente su cose che elaboriamo soggettivamente. Quindi, l’educazione data dall’esterno non sempre coincide con quella elaborata all’interno. La maggior parte dell’eteroeducazione si trasforma in autoeducazione. Anche se sorretti dagli altri, cresciamo e ci costruiamo da soli. Ciò che conta è come un fatto lavora dentro di noi, come una parola sconvolge i nostri pensieri, come una conoscenza nuova riorganizza la nostra concezione della realtà... Tutti strutturiamo la nostra personalità masticando gli avvenimenti che incontriamo. Viviamo provando a vestirci di nuovi comportamenti e a spogliarci dei vecchi. Di conseguenza, ogni educazione ha tempi lunghi perchè avviene a fuoco lento. Educare è come seminare: il contadino fa pochi gesti e passa molto tempo ad aspettare. Questo principio vitale, tuttavia, può essere bloccato, interrotto o alterato soltanto dal condizionamento sistematico e da un ossessivo soffocamento pedagogico. Lasciare che la libertà agisca e produca autonomia non vuol dire abbandono educativo. Mentre impara l’autonomia il bambino va sostenuto, non sostituito. Almeno una volta tutti siamo stati al circo. Sicuramente anche voi avrete assistito con il fiato sospeso agli esercizi degli acrobati quando con i loro salti sfidavano il pericolo. Secondo me, questa è la migliore immagine che rappresenta la situazione dei nostri figli in età di educazione. Essi rassomigliano agli acrobati
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che lasciano il trapezio per volare verso un altro trapezio: non essendoci la rete di protezione, hanno bisogno di trovare dall’altra parte due mani tese a cui aggrapparsi per non cadere al suolo. Nell’arena della vita si è senza reti di protezione quando mancano le presenze educative capaci di non far naufragare. Quindi, l’intervento educativo è condizione necessaria e indispensabile, specialmente oggi, poichè la potenza dei mezzi televisivi sta indebolendo sempre più gli incontri nell’ambito familiare: in tal senso, a mio parere, l’esperienza televisiva del “grande fratello” è un grande nemico dell’aggregazione sociale. L’invasione nella privacy è un atto antisociale, anche se dichiarata come violenza accettata. Si cresce attraverso i contatti reali e le relazioni vere… altrimenti piccoli e adulti resteremo bambini incompiuti con dietro ignoti suggeritori. Senza finalità educative, famiglia e scuola diventeranno parcheggi fuori della vita, contenitori vuoti che lentamente si riempiranno di disagio. Infatti, il disagio, nella maggior parte dei casi, è dovuto ai seguenti fattori: genitori disimpegnati (disorganizzazione coniugale), genitori periferici (incompetenza genitoriale), famiglie con relazioni traumatiche (lutto, separazione…), famiglie che coltivano la “devianza” (assenza di progetti di vita)… Del resto, come si fa ad educare se la famiglia sceglie la disgregazione, dove ogni membro al risveglio si ritrova solo perché i genitori sono andati al lavoro, si ritrova solo a pranzo perché bisogna sentire il telegiornale, solo a cena perché i genitori sono stanchi… Quando un figlio si percepisce solo, l’attaccamento alle figure significative cambia direzione. Su questi cambiamenti di direzione costruisce la sua identità. Iniziativa dal titolo: “Un giorno con mio figlio” Aurora in posa con la sua mamma per una foto ricordo
SENTIRSI PENSATI È UN LIEVITO EDUCATIVO CHE AIUTA A CRESCERE Don Milani scriveva che i pedagogisti conoscono soltanto i libri sui bambini ma non i bambini. Più che conoscerne la scientificità, bisogna riconoscere la loro dignità. Noi adulti dovremmo ragionare in termini non personali ma sovrapersonali e transpersonali. Ogni individuo, anche se dipende da complesse trame ambientali, prima di tutto appartiene a se stesso e al mondo. Non è proprietà di nessuno. Egli dovrà essere solo riconoscente all’ambiente educativo che ha stimolato il suo sviluppo intellettivo, che ha strutturato la sua rete affettiva e che ha compensato le sue difficoltà cognitive. In realtà, molti assurdi pregiudizi e aspettative sbagliate scomparirebbero, se gli adulti osservassero direttamente i comportamenti dei piccoli. Basterebbe saper osservare per avere sufficienti fonti per capire: i giochi, il linguaggio, il modo di comunicare, le composizioni scritte, le domande, i gesti, l’uso del corpo... e le altre occasioni per leggere la realtà infantile. L’infanzia va osservata, non spiata.
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Il più delle volte, però, continuiamo a coltivare gli stereotipi di sempre e costruiamo immagini semplificate e di comodo, che come denominatore comune hanno la sottovalutazione delle abilità del piccolo (infantilismo) e la sopravvalutazione delle sue responsabilità (adultismo). I figli, quando sono piccoli, li immaginiamo grandi e, quando sono grandi, li consideriamo piccoli. Così, molti problemi non sono nella realtà ma nell’occhio di chi guarda. Certi disordini nella cameretta dei bambini non sono disordini, ma i disordini vengono con l’intervento inadeguato dei genitori. Un bambino divenuto adulto disse al vecchio padre: “Non contava ciò che tu mi davi, ma contava solo quello che tu non mi toglievi.” In verità, le cose sui bambini le impariamo soltanto dai bambini. Il bambino non è un giocattolo rotto da ricomporre nè un selvaggio da civilizzare (cfr. Il signore delle mosche di W. Golding) né un buon selvaggio (cfr. Emilio di G. Rousseau) e neppure un’esperienza totalmente aperta e disinibita (cfr. Summerhil di A. Neill). Psicologicamente, sono i nostri occhi adulti che non riescono a vedere o sono i bambini che cambiano? A mio parere, i bambini di ieri sono come i bambini di oggi: ciò che cambia sono i criteri di adattamento. Allora, perché abbiamo visioni diverse? Ognuno di noi legge con gli occhi di trentenne… con gli occhi di cinquantenne… con gli occhi di settantenne… con la mente di avvocato… con la mente di macellaio… con la mente di impiegato di banca… In realtà, nostro figlio non “è” fragile (Mara Selvini ha sempre insistito per abolire il verbo essere), ma si è dimostrato fragile, in quella situazione, di fronte a quello stimolo… Per noi è normale un certo comportamento, ma per il bambino è normale la situazione che vive. Egli reagisce impulsivamente, non studia la reazione, non calcola i comportamenti, è spontaneo, è naturale… Quindi, per lui quello che fa è naturale. La sua logica non è la nostra logica. In realtà, noi adulti quando viviamo una difficoltà tendiamo ad attribuirla all’altro. Ma… a tutto c’è rimedio se impariamo ad avere chiara la carta d’identità del bambino: - i bambini sono naturalmente felici e nel complesso trovano la vita piacevole e soddisfacente: nascono tutti con una inesauribile carica di gioia e la conservano con tenacia e coraggio sino all’adolescenza - i bambini hanno un incredibile bisogno di movimento e l’adulto talvolta lo permette e talvolta no: la corsa copre il bambino di sudore e di felicità - i bambini notano tutto quello che gli adulti fanno e dicono anche se sembrano distratti: la somma di ogni apprendimento struttura il loro essere nel mondo - i bambini hanno sbalzi d’umore e di comportamento e facilmente passano dall’allegria alla collera: non chiedere a nessuno come gestire la loro vita, basta chiederlo a se stessi - i bambini quando sbagliano cercano di compensare: si sentono momentaneamente colpevoli e sanno imparare dall’errore commesso - i bambini hanno emozioni appropriate e forti: sono gelosi, orgogliosi, litigiosi... secondo quanto gli succede attorno - i bambini hanno continuamente delle idee: sono curiosi e sospettano che ci siano tante modalità d’azione; non sono manichei ed amano il rischio - i bambini seguono comportamenti naturali secondo l’età che hanno: a tre anni sono ostinati, a cinque hanno un senso precario della verità e della proprietà, a otto hanno poca sensibilità per l’ordine e la pulizia, a dieci sono impertinenti con gli adulti e preferiscono dire “bugie”... e tutto ciò è naturale e non possiamo farci niente - i bambini hanno comportamenti che non vanno presi seriamente fin quando diventano intol-
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lerabili o pericolosi: succhiare il pollice, mangiare le unghie o altro vanno presi come schemi momentanei di fiducia in attesa di una soddisfazione di bisogni fondamentali i bambini amano l’ambiente perché esso è un grande campo di esperienza ed insieme il più grande contenitore di apprendimenti: gli esseri umani con le relazioni si umanizzano a vicenda i bambini danno ai grandi le prime lezioni di filosofia: dietro certe loro puerilità celano verità importanti... i bambini sono un arcobaleno di sorprese, un cielo ricco di stelle l’una più interessante dell’altra, una comunità sempre piena di colori I bambini hanno una innata capacità poetica: non hanno addosso la vernice dell’educazione scolastica dell’adolescente: sono naif allo stato puro…
I nostri ragazzi sono “argento vivo”… sono vento. Genitori, amate qualcosa che si muove e non accontentatevi di chi sta fermo. I nostri figli crescono attraverso quello che noi vogliamo correggere. I piccoli maturano attraverso l’esercizio dei difetti, crescono attraverso le monellerie. Sperimentando l’egoismo scoprono e imparano il valore dell’altruismo. Sono avide mani bambine che diventeranno mani adulte accoglienti. Quello che per noi adulti è “cattiveria” in essi è un segno di crescita. Al più si arriva attraverso il meno. L’errore è la matrice dell’apprendimento. I temporali servono per far gustare la quiete. Ogni quiete “imposta” fa male. Le cliniche dei disturbi psicologici sono affollate da molti adulti che da bambini erano stati “troppo buoni” Più un bambino è ascoltato, più si otterrà da lui. Ascoltare è assorbire tutto: anche palpiti e sussurri dietro la siepe. In verità, il razionale prevale quasi sempre in educazione, ma ognuno di noi riconosce di essere stato educato intenzionalmente in famiglia e a scuola ed anche involontariamente muovendosi nel territorio, agendo, leggendo, vedendo la televisione... L’educazione è un processo di crescita che avviene giorno per giorno, dove passato e presente fanno un futuro migliore. Educarsi è aspettare ora per ora che qualcosa avvenga senza rimpianti simili a questi: “Volevo dei genitori e ho ricevuto dei giocattoli. Volevo la felicità e ho ricevuto del denaro. Volevo amore e ho ricevuto la morale. Volevo parlare e ho ricevuto un libro. Volevo imparare e ho ricevuto delle pagelle. Volevo libertà e ho ricevuto regole. Volevo un senso e ho ricevuto la prospettiva di una carriera, di un posto... Ciò che volevo non mi è stato dato: una guida autorevole nella vita concreta.”
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QUANDO SI COLTIVA TROPPO LA CULTURA DEL RISULTATO ANCHE UN BAMBINO PUÒ DIVENTARE UN TROFEO Se tuo figlio non ti piace più è perché hai dimenticato che è quello che una volta tenevi in braccio o colui al quale davi la mano per allontanare la paura davanti all’immensità del mare o abbracciavi per fugare il dolore dei primi dentini... Dunque, devi imparare a rispettarlo e non solo esigere rispetto da lui. I diritti sono reciproci, anche se l’autorevolezza resta sempre la prima fonte di sicurezza e il fondamento della maturità di chi cresce. Solo così permetterai a tuo figlio di maturare. I figli Iniziativa dal titolo: “Un giorno con mio figlio” devono maturare come le mele: esse Lorenzo dice al suo papà: “piace anche a te tuffarti!” non devono essere né troppo acerbe né diventare troppo dolci; non così mature da cadere dall’albero, né così fatte da ammaccarsi. Maturità è crescere a tempo giusto. Purtroppo, la storia di molti genitori è un clamoroso fallimento sulle aspettative e le speranze riposte nei figli. Tale affermazione è confermata dalle inchieste e non va vista come la solita provocazione dei sociologi. In realtà, nel corso della vita tutti ci imbattiamo in molteplici agenzie educative: c’è il nido, la scuola dell’infanzia, le elementari, le medie, le superiori, l’università, i luoghi di aggregazione sociale, la scuola compensativa, le scuole parallele (cultura multimediale, tempo libero...). La loro azione educativa acquista senso sociale soltanto attraverso una progettazione che garantisca tra esse continuità, unità funzionale nell’azione, integrazione e corresponsabilità. Oggi, infatti, il “diritto alla migliore educazione” è una realtà legislativa, anche se l’essere umano, crescendo, può modellarsi scegliendo il proprio mondo di valori, cioè quelle regole a cui rivolgersi per fondare il proprio agire e da cui far scaturire i propri diritti come beni inviolabili ed inalienabili, quali la libertà che permette di avere iniziative, la responsabilità che dà il senso di fiducia, l’aspirazione alla verità che offre sicurezza, la tendenza ad amare che fornisce soddisfazione, il sentirsi membro di una comunità che permette l’affermatività tramite il dialogo, lo scambio... e il “lavoro interiore” di ogni giorno. Infatti, si cresce quando si inventano nuovi concetti utili alla vita e all’umanità. È il lungo cammino del modellarsi da “persona” a “personalità”. Una volta il centro della formazione era la famiglia, oggi è diventata uno dei settori educativi. I rapporti educativi, infatti, sono forti in tutti i campi. Tutti riescono ad agire sull’io attuale (autocoscienza, riflessione...) e sull’io storico (il Sé...) perché tutti sostengono e valorizzano. A mio parere, educare all’inizio è ripetere la vita di chi ci sta attorno ma poi deve diventare gioia liberatoria. Vivere è un imparare a credere negli altri, a partire proprio dall’infanzia. Avere fede in una persona è avere fede nelle potenzialità degli esseri umani, tutti compresi. Una madre ha fede nel suo bambino appena nato: sa che vivrà, crescerà, parlerà, camminerà... Saper attendere richiede fede. Fede è sinonimo di coraggio, cioè capacità di accettare il rischio, il dolore e la delusione: il coraggio dell’amore. Ci vuole fede per fare qualsiasi cosa, persino per
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prendere sonno. Anche amare è un atto di fede. Chi, durante l’infanzia non riesce ad intrecciare un rapporto affettivo, prima o poi, entrerà in una lunga crisi e non crescerà; e se il cuore si caccia nella sfera della vulnerabilità, tutto diventerà complicato ed imprevedibile. Alla base di ogni rapporto educativo c’è sempre l’affetto. Se per una crescita armoniosa abbiamo bisogno di amore e di fiducia, il diritto primario all’educazione spetta alla famiglia come valore, che è il primo gruppo in cui circola spirito di coesione e di solidarietà, dove ognuno si sente accettato e dove esistono scopi comuni a vantaggio di tutti. Il cemento dei rapporti è sempre stato l’affetto perché è esso che crea la stima di base, che stimola la sicurezza nell’abbandonarsi alle emozioni, che addestra alla convivenza sociale che richiede subordinazione, complementarietà, reciprocità... La famiglia è, infatti, l’unico luogo in cui gli interessi di chi comanda coincidono con quelli di chi ubbidisce. Famiglia è sedersi alla stessa tavola, riscaldarsi allo stesso fuoco, fare percorsi su sentieri diversi e camminare su un’unica strada; non è incontrarsi solo per soste o fermate. Famiglia è anche ammettere che c’è un Dio per gli incoscienti.
I DIFETTI SONO INERENTI ALLA VITA. Il più delle volte i grandi pensano di avere sempre argomentazioni ragionevoli e per questo sono convinti di agire per il bene dei piccoli, mentre in realtà ciò che pensano va bene solo a se stessi: dimenticano di essere stati un tempo piccoli anche loro; scambiano la causa con l’effetto. Ed è principalmente questo il luogo più favorevole a far nascere la risposta aggressiva, appunto perché si soffocano elementi vitali. Eppure ancora continua ad esserci gente che insegna a vivere e gente che insegna a morire. L’inibizione della vita non è una virtù. Comenio diceva che il bambino non va mortificato con un’educazione esagerata perché non è un uomo in miniatura; “adultizzare” prima del tempo è come voler produrre “frutti” fuori stagione; il cosiddetto bambino fin troppo assennato è una storpiatura della natura, una caricatura che non suscita riso: a dieci anni veste già in giacca e cravatta, dice “grazie, prego e scusi”, ma ha saltato la preziosa stagione vitale piena dei “non voglio, non ci vado e non lo faccio”... Ogni età ha la sua evoluzione, la sua storia e la sua struttura (processi, principi, regole, metodi...). Nessuno può scrivere definitivamente le ricette per l’educazione. Di sicuro, però, si devono scoraggiare i bambini adultizzati e aiutare i bambini brutalizzati (specie nei campi nomadi). Diceva Klein che la maturazione di un individuo si compie nel momento in cui riesce ad esprimere gratitudine. Ricevere e dare gratitudine significa saper essere genitore in famiglia. L’atmosfera familiare è creata da come ci muoviamo. Il comportamento dell’altro dipende da come l’accogliamo. Se profondamente rispettiamo un bambino, certamente anche lui ci rispetterà. Lo stile educativo e il relativo clima educante o diseducante non sono variabili spurie, sono una cosa seria su cui bisogna essere molto attenti. Il clima che creiamo, ci assomiglia molto. Ciò che creiamo è ciò che siamo. Se siamo ansiosi, creeremo ansia. Il più delle volte i valori del bambino non coincidono con i valori dei grandi. La dinamicità e la forza per uno scolaro di sette anni è un valore per la propria affermazione sociale, mentre per un docente farlo stare fermo sul banco diventa indispensabile per poter insegnare. Che fare? Un buon educatore, se vuole educare, deve riflettere su questi valori, apparentemente contraddittori, per capire cosa serve veramente al bambino. L’adulto non può imporre i suoi valori: in educazione conta la disciplina educativa di gruppo, che è sociale, e non la disciplina autoritaria, militare. Essere bambino è un diritto e non una colpa. Il bambino si muove come il mondo: si dirige sempre verso una posizione ottimale, ma subisce continuamente l’effetto dell’ambien-
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te. Infatti, quando si muove la società, cambiano le famiglie; se cammina la famiglia mutano i figli; se si agita l’individuo, i ruoli si trasformano. L’uomo è minacciato sempre da se stesso. Ma cambiare non deve indurre paura. Innovazione e rivoluzione sono termini che appartengono all’umanità. Cambiare per i giovani è facile. Per i grandi è molto più difficile. Per non cambiare basta imbottigliarsi nelle proprie convinzioni. Passa il tempo e il mondo si rinnova. Non torna mai lo stesso mese di maggio. Se mi fermo sempre ad ascoltare il mio passato… perdo il treno del presente. Non capirò il cambiamento. Non scoprirò le cose belle che l’uomo continua ad inventare. Dice Luciano Mazzetti che di un condannato a morte non bisogna dire che “ha pagato il fio della sua pena” ma soltanto “gli hanno tagliato la testa”. In realtà, il pettegolezzo e il pregiudizio non governavano solo il medioevo ma sono un “homunculus” nascosto in ogni persona poco attenta all’umanità. Probabilmente il bambino sceglie all’interno della famiglia una figura significativa che diventa il riferimento della sua crescita perché la vede tranquilla, perché non parla male degli altri, perché non lo fa sentire un intralcio, perché non brontola continuamente, perché non affibbia la colpa a nessuno, perché evita di parlare a lungo di un problema, perché ascolta senza penalizzare e senza attribuire responsabilità, perché parla di quello che fa… Educare è un grande processo di umanizzazione. Ognuno si educa con la presenza buona di altri. Perché allora non fare in modo che questa filosofia sociale degli educatori diventi una pedagogia personale dell’educando? Ognuno si educa anche dentro i propri sogni. È sufficiente cominciare ad uscire, al momento giusto, dalla vita altrui con dignità, senza lacrime, senza preoccupazioni, senza maledizioni... Una questione di sano orgoglio educativo. Per crescere, il figlio deve imparare a trattare la vita senza l’adulto. Che fare allora?
Iniziativa dal titolo: “Un giorno con mio figlio” Stefano, i suoi amici e la sua adorata mamma
- riconoscere qualche volta di avere sbagliato (ammettere l’errore permette all’altro di valorizzarci) - non fare i compiti al posto del figlio (è lui che deve crescere ed imparare e non noi) - non criticare la persona che poi il figlio deve rispettare (è inutile dire che l’insegnante è ignorante e poi, di fronte al figlio, ascoltarlo con deferenza) - non utilizzare i piccoli nelle liti dei grandi
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(non ci hanno chiesto di essere coinvolti né ci hanno spinto loro nella battaglia coniugale) - non imporre doveri che sono solo nostri (certe visite servono solo ai nostri obiettivi) - non dare sempre ragione agli altri e mai ai figli (stiamo insegnando che stimiamo gli altri e non loro) - non usare la giustizia salomonica (è una macellazione a metà) - non comprare giocattoli sofisticati per favorire la socializzazione (è un modo di facilitare le distanze affettive dai coetanei) - non obbligare a mangiare cibi non graditi (fa bene alla salute ciò che si mangia con gioia) - usare il rimprovero a bassa voce (la parola sottovoce arriva alla coscienza prima delle urla) - prestare attenzione ogni qualvolta un figlio fa qualcosa di positivo o socialmente utile (i cambiamenti avvengono partendo dalle cose positive) - insegnare a comunicare bisogni, desideri (ogni comunicazione efficace parte dalla conoscenza di sé e dall’accettazione di sé) - Non chiedere ai piccoli più di quando essi si aspettano… (così apriamo la strada delle difficoltà e dei difetti…) La “pesantezza” è il più grande difetto degli adulti. L’autoritarismo è uno stile educativo fatto di tante norme, regole tassative, severe punizioni e poche ricompense; non dà spazio decisionale né libertà d’azione; limita l’autonomia perché si fonda sul controllo totale esterno; (giustizialismo come potere carnivoro, etnocentrismo come confronto tra culture diverse con dichiarazione della propria superiorità... massimalismo, fondamentalismo, integralismo...). Non è il metodo migliore per ottenere qualcosa. Nell’autoritarismo è la paura che porta all’obbedienza. Si impone il proprio credo agli altri, senza dialogo; ma indirettamente si insegna la ribellione, la sfida, la rabbia contro chi comanda, la comunicazione aggressiva oppure si genera la timidezza, il timore, la sottomissione, la dipendenza... Al ruolo autoritario abitualmente l’individuo risponde con un atteggiamento di opposizione o di rifiuto o di autoannullamento. In realtà, chi comanda, quando non dà spiegazioni, fa vedere la sua debolezza e si comporta come il padrone che ha paura di perdere uno schiavo: ecco perché non vuole la sua indipendenza. L’autoritario gestisce la vita degli altri con calcolate emozioni. Non dà protezione. È l’unico che può permettersi di arrabbiarsi; gli altri devono contenersi. Senza accorgersene, fabbrica violenza e rabbia, non migliora la qualità delle relazioni... Però, la rabbia è una cattiva consigliera perché non fa riconoscere le proprie responsabilità. Fa percepire gli altri come esseri incapaci, stupidi, incompetenti… Crea distanza emotiva e un clima di sfiducia. In genere si ricorre alla violenza verbale o fisica per dimostrare che si vale poco. Un genitore autoritario mette in atto pochi tentativi per aiutare i figli a comprendere le ragioni degli atti educativi. Chi fa da “padrone” sui propri ragazzi con atteggiamenti del tipo “tu lo farai perché te lo dico io” è costretto ad usare le punizioni di ogni genere. In tal modo la regolazione del comportamento diventa una questione di sottomissione all’esercizio del potere anziché di senso di responsabilità. Si scoraggia la riflessione e si esige la conformità. Si piega la
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volontà altrui e si fa apprendere una docilità ambigua che rischia di sfociare nella ribellione e nell’inclinazione alla delinquenza. Non si fa acquisire l’idea che le norme hanno un senso. Nel sistema educativo autoritario vince quasi sempre l’adulto e perde quasi sempre il piccolo. È il metodo educativo più usato, perché funziona da sempre per la sua rapidità ed efficacia, almeno apparentemente e solo in tenera età. Paradossalmente chi ha sperimentato un’educazione autoritaria, la nega ma da adulto inconsapevolmente la usa forse perché il suo cervello l’ha assorbita per lungo tempo. Ognuno tende a ripetere ciò che ha sperimentato. È vero che ogni atto di controllo ha bisogno di potere, ma il potere è un attributo dell’individuo mentre l’autorità è un attributo della posizione di ruolo e del compito da svolgere. Il potere educativo non si confonde con la minaccia che è un uso riduttivo e personale del potere, né con la manipolazione che è un potere fondato sui limiti dell’altro e non sulle proprie risorse. Se, poi, si frammenta il potere educativo in più persone, si garantirà solo la democrazia, ma non certamente l’efficacia: negli scontri polemici tra educatori, chi usa il potere non fa altro che procurarsi nemici e avversari. Chi si sente attaccato si difenderà e a sua volta attaccherà. Gli antichi, quando dichiaravano guerra ad un popolo, prima bruciavano le messi e poi si preparavano ad attaccarlo… ma nello stesso tempo senza accorgersene insegnavano ad aguzzare l’ingegno ai nemici che cominciarono a coltivare le patate per sopravvivere: erano fonti alimentari che non potevano essere distrutte dalle fiamme. L’autoritario si comporta come il nevrotico: di tutto il nostro discorso prende solo ciò che gli fa male. Per questo non sa ascoltare e non sa comprendere. La sua comunicazione è a senso unico, prescinde dal pensiero e dai sentimenti dell’interlocutore. Dietro gli ordini perentori non c’è la facilitazione del dialogo. Del resto, le morali autoritarie hanno sempre generato la necessità a giustificarsi e l’obbligo a razionalizzare per liberarsi dai sensi di colpa. Ma questa liberazione non ha alcun effetto educante. La colpa, infatti, educa se accende l’ascolto. Io ho autorità, se dò autorità, cioè se so ascoltare. Solo un monarca assoluto non tollera la disubbidienza e pretende addirittura che le stesse stelle gli obbediscano. In verità, il potere piace a tutti perchè “governare” significa non rendere conto del proprio operato a nessuno in quanto la colpa è sempre degli altri, non di chi comanda. Al contrario, una persona autorevole che vuole educare, non usa il potere senza responsabilità personale. L’esperienza insegna che, solo collaborando, si fanno le grandi e le piccole cose. La voce di un genitore deve dare coraggio e non produrre incubi. Le tentazioni non si combattono a suon di divieti: i bambini non sono come i bonsai, che più li tagli e più sono belli. L’educazione legata al principio d’autorità non ha mai funzionato. Anzi, la paura dell’autoritarismo ha fatto perdere il valore dell’autorità. La dura autorità non costruisce la solidarietà e non ha senso in sè. Porta confusione tra giustizia e vendetta. La “leggerezza” non è un comportamento utile nella formazione dei figli Buonismo, moderatismo, permissivismo non offrono una guida certa, non pongono limiti, non fanno apprendere i confini, insegnano la capricciosità, generano intrattabilità e incontrollabilità pedagogica; producono incostanza negli atteggiamenti e rischiano di scivolare nell’autoritarismo. Scegliere questo stile educativo significa far vincere il piccolo e far perdere il grande. Quando, infatti, l’offerta dell’adulto finisce e la domanda del figlio aumenta, i prezzi salgono alle stelle e i capricci, come piovre, allungano i tentacoli e strangolano ogni potere. La famiglia è vissuta come uno spazio aperto a qualsiasi intemperie e a tutti i venti, un mercato fatto di tan-
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ti richiami ma dove non c’è quello che si cerca, una vendita di oggetti scintillanti per chi ha perso la luce di interessi veri... A mio parere, l’educazione permissiva è il risultato di una psicologia mal digerita; non si può rinunciare ad agire per il timore di turbare l’altro. Un genitore lassista fa poche richieste al figlio, tende ad ignorarlo e a fargli fare ciò che vuole purchè non diventi distruttivo e fastidioso. Questo modello presuppone, però, che il ragazzo prenda decisioni su come comportarsi. E se non è stato attrezzato di principi e di concetti necessari all’esercizio dell’autonomia? Certamente lo mettiamo nelle condizioni di apprendere l’insicurezza e l’ansietà. Avremo sicuramente un ragazzo ad incompetenza sociale e irresponsabile. Certe prudenze sono in contraddizione con la realtà. Troppo zucchero in un rapporto, alla fine lo scioglie. La permissività non crea libertà; è solo un allentamento dei freni necessari che, tira tira, come un elastico, si spezzano e lacerano l’unità del rapporto. La rottura comincia dove non c’è più niente da imparare: può capitare a chiunque. La permissività è un abbandono e non una politica educativa. È un gioco di piccoli dove manca l’adulto. E se c’è, si confonde sino a perdere la sua identità: ha aggrovigliato la matassa di un ordito dove, per educare, dovrà costantemente tenere i fili. “Fai ciò che vuoi” non significa fare la prima cosa che viene in mente. È importante stabilire le priorità, una certa gerarchia delle azioni. Solo la pesca sboccia pesca e il cavallo quando viene al mondo è già cavallo. L’uomo non nasce uomo del tutto e quindi deve essere aiutato a diventarlo. Perché ? Perché l’essere umano non è soltanto una realtà biologica ma anche culturale. L’uomo non è una scimmia nuda ma ha un suo vestito culturale: non riempie la mente ma attiva processi di conoscenza. Non è istinto ma pensiero. La cultura contiene moltissima imitazione e un po’ di invenzione: se non fossimo “copioni”, cioè se non utilizzassimo le conoscenze di chi ci ha preceduto, dovremmo sempre ricominciare da zero. Un adulto spontaneista improvvisa e non sa trattare l’educando come “persona” da “acculturare” e da “inculturare”. Che significa? Educare è tentare di metterci al posto del bambino e relativizzare il nostro interesse. Fare da “guida” provando simpatia per l’altro e prestando attenzione ai suoi sentimenti e alle sue emozioni. Prendere l’altro sul serio è il più nobile atto di obiettività educativa. Il nostro interesse principale, come uomini, è quello di essere realmente umani. Essere umani non significa essere permissivi ma comprensivi. La permissività ha fatto molti danni: tra il 1970 e il 1980 negli Usa gli omicidi compiuti dagli adolescenti sono raddoppiati; in questi ultimi 30 anni i suicidi adolescenziali si sono quadruplicati; sembra che si uccidano più bambini che soldati nelle guerre; il disagio dei minori è sotto gli occhi di tutti.... (cfr. W. Damon - Più grandi speranze - Longanesi). Cosa non ha funzionato? Una sbagliata idea di libertà durante l’infanzia rende i genitori incapaci di porre limiti, regole e doveri. Se poi moltiplichiamo i diritti vengono meno i doveri. I giovani diventeranno sempre più aggressivi. I bambini non devono crescere con sentimenti di onnipotenza. I padri e le madri non devono trasformarsi in loro schiavi. Il bambino che cresce ha bisogno di essere “contenuto” prima dalle braccia della madre e poi dai confini educativi. I limiti e le regole sono estremamente necessari per un bambino che sta preparando il funzionamento mentale che lo accompagnerà nella vita. Infatti, se non li impara si troverà meno aiutato e meno protetto davanti alle piccole o grandi difficoltà che la vita gli farà incontrare. Chi resta con i conti sospesi per frustrazioni personali e con le ferite del proprio passato infantile, non imparerà a vivere e da grande farà sentire il peso delle antiche sofferenze al coniuge e ai figli. Diventare “normali” vuol dire liberare il materiale
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doloroso della repressione e della inibizione per godere della vita e operare costruttivamente (cfr. W. Winnicott – Bambini – Cortina 1997). Quindi, per diventare genitori che sanno gestire i limiti e le regole conviene curare le smagliature dovute alla nostra storia personale o familiare e rettificare il tiro per vivere e per far vivere meglio.
L’iperprotezione è un modo illusorio di proteggere Essere mamme ad oltranza, comportarsi come moderne “gattare”, restare genitori iperprotettivi sono atteggiamenti che fanno da freno alla maturità sociale del figlio: lasciano il soggetto in una situazione di impotenza e d’incertezza; trasformano l’ambiente in minaccia e il genitore in un cacciatore audace e unico accanto a cui ripararsi. Infatti, chi resta legato infantilmente agli adulti sviluppa una personalità subordinata ad essi e sarà incapace di costruire la vita da solo con le sue mani. Vivrà senza coraggio. Rimarrà vittima del complesso di Cibele. Dire “Tu sbagli, lascia fare a me” significa non vedere quello che vede l’altro, è non capire come rendere forti i propri figli. Iperproteggere coincide col vivere tutte le esperienze per l’altro, togliendo quel minimo di sicurezza che c’è quando si agisce in prima persona. L’iperprotezione è un modo ossessivo di mantenimento dell’antica unità materno-fetale. Un genitore, più che proteggere un figlio, dovrebbe avere fiducia in lui anche se la corda della sicurezza è sempre nelle mani del padre o della madre. Un monitoraggio serve a controllare il divenire di un processo ed è una guida semilibera; invece chi iperprotegge non lascia nessuno spazio e non permette che si prendano libere decisioni. L’iperprotettivo fa tutto al posto dell’altro, né lascia che l’altro se la sbrighi da solo. Si comporta in maniera contraddittoria: dice “fai tutto da solo” e poi allaccia all’altro persino i bottoni della giacca. Chi iperprotegge rappresenta l’opposizione vivente tra parole ed azioni. In natura, la chioccia cova i pulcini sino ad un certo momento, la volpe addestra la prole finché non è autonoma. Un genitore che iperprotegge vuole solo continuare un gioco infantile, dove il figlio diciottenne resta ancora il suo bambino-giocattolo. Un genitore iperprotettivo si rende soltanto ridicolo se va in giro con il cucchiaino per imboccare chi il cibo se lo sa procacciare già da solo. Lungo le pareti dei piccoli spogliatoi del Centro Montessori di Perugia le educatrici saggiamente tengono appeso un cartellone con la seguente scritta: “Aiutami a fare da solo!” Il perfezionismo non stimola la crescita Il perfezionista è un grande scoraggiatore. Scoraggia perchè costruisce un carattere meticoloso, scrupoloso, ossessivo, rigido, petulante, intollerante... Una persona perfezionista non accetta un foruncolino né sul proprio naso né su quello degli altri: lo vede con orrore come se fosse una deturpazione. Il perfezionista tende a sfruttare al meglio il proprio potenziale emotivo, mentale e fisico, abusando di se stesso e diventando esageratamente dipendente dalle aspettative, di come si dovrebbe essere. È uno dei tanti modi di cercare di falsare la propria immagine. Purtroppo, la perfezione è una meta irraggiungibile come l’asepsi totale; conviene, quindi, prendere sul serio tutto ciò che si fa, ma non prendersi troppo sul serio; talvolta è meglio lasciare fare al buonsenso e alla natura. La perfezione non è una qualità umana. Tutti tentiamo verso di essa senza mai raggiungerla. Ci mancherà sempre qualcosa. Che senso ha far crescere il proprio figlio nel doloroso letto della pretesa perfezione? Nostro figlio potrà diventare un ragazzo modello, invidiabile, ma
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ha bruciato l’argento vivo della sua stagione. Con l’insistere sul perfezionismo contribuiamo a gelare i germogli della sua primavera. I frutti saranno le sue future e sicure nevrosi. Alla base di molte nevrosi c’è quasi sempre la presenza di queste cosiddette virtù: troppa precisione, essere esageratamente buoni e gentili, essere troppo bravi a scuola, avere sempre il senso della responsabilità, mostrarsi sempre educato... E poi, che senso ha far invecchiare i bambini con i nostri pensieri? L’intransigenza non è una crociata. Il perfezionista vuole incasellare tutto e mettere ordine profondamente secondo la sua onnipotente volontà. È una persona che vive nel terrore di perdere le cose che ha. Il perfezionismo è una lenta morte: se tutto andasse come si vuole, non succederebbe niente di nuovo. La vita sarebbe una ripetizione senza fine di successi che stancano. L’errore, invece, introduce la novità, lo stupore dell’inaspettato. Facendo errori si conosce la realtà e si impara ad essere creativi. Spesso il perfezionismo ha la sua manifestazione eclatante nell’amore maniacale dell’ordine: l’ordine è tutto ed è l’unica cosa che si riesce a controllare. Per chi ha questa mania, la vita non è amabile in quanto spontanea e ricca di sorprese. Privilegiare le regole è l’unico modo per diventare mediocri e fanatici. Il fanatico è un irresponsabile che si rifiuta di dare spiegazioni di quello che impone, che predica solo la sua opinione e basta, che crede solo la sua verità e basta, che crede solo alla responsabilità della sua passione. Essere responsabili, invece, significa sapere di essere liberi di agire e di accettare le conseguenze dei nostri atti: riparando il male e godendo del bene. Responsabilità è sapere che ciascuno dei nostri comportamenti ci costruisce, ci definisce, ci inventa, ci trasforma... Tutte le ferite si cicatrizzano da sole. Nessuna regola è buona senza la bontà.
IL ROVESCIAMENTO DELLA SESSUALITÀ IN PESTE EMOZIONALE Sino al dieci settembre 1985 la parola “pedofilia” per me era un termine della psipatologia sessuale, ma quella sera quando una ragazzina di nove anni mi raccontò come uno zio la circuiva per me fu l’occasione di riempire questo contenitore di tante informazioni che non avevo. Nella storia dell’umanità c’è un grande oltraggio ai valori socialmente riconosciuti: aprire ferite nel cuore dei bambini per contagiarli di peste emozionale. “Erode fra noi” di Alfredo Moro è il primo libro che sottolinea la cattiveria del mondo degli adulti verso i minori, a cui ne sono seguiti tanti altri (cfr. Età negata, Bambini in pericolo…). La crudeltà verso i bambini è possibile ed è una realtà. Purtroppo, noi adulti stiamo dimenticando ciò che si fa in tutto il mondo contro i bambini. Non siamo più attenti e dimostriamo di non essere saggi: preferiamo occuparci di economia, di prodotto interno lordo… Anziché liberarci del losco fardello della pedofilia e dei riti satanici oltre qualsiasi immaginazione, preferiamo imprigionarci negli affari. Di fronte alla dilagante cattiveria umana rispondiamo con l’indifferenza. Di fronte alle clamorose denunce di Telefono Arcobaleno, ci comportiamo come gli struzzi. Di fronte ad un numero impressionante di duemila bambini italiani che spariscono, non facciamo nulla. Di fronte al mercato degli orrori e alla rete di copertura organizzata da criminali di alto livello che di nascosto controllano il sistema legale degli Stati e favoriscono i reati contro i minori, restiamo passivi (cfr. caso belga Dutroux, setta Anubis, cybercriminalità, siti pedofili in Internet…). Addirittura, tolleriamo che duecentocinquanta milioni di copie di videocassette vengano commercializzate in tutto il mondo per soddisfare le manie dei pedofili. La pedofilia è uno dei rinascenti termini che dovrebbe fare preoccupare seriamente la comunità umana. Ma che cosa è la pedofilia?
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Cominciamo con una breve distinzione tra due termini: pederastia e pedofilia.. La pederastia anticamente voleva indicare l’attrazione erotica sessuale dell’uomo verso un fanciullo o un adolescente; per questo era detta “amore greco”. Nell’antica Grecia la pederastia era tipica di quelle comunità che dividevano rigorosamente i sessi; ecco perché era tollerata insieme all’omosessualità; per i popoli antichi, soprattutto greci e cinesi, fu una forma normale di espressione della relazione sessuale. Nel medioevo il termine pederastia ha assunto il significato generale di “condotta omosessuale maschile” ed è diventato una varietà di essa con la realizzazione del coito anale (sodomia, immissio penis in anum). In parole semplici, la pederastia rappresenta un disturbo delle relazioni interpersonali maschili, mentre la pedofilia è l’attrazione erotica verso bambini prepuberi dell’uno e dell’altro sesso da parte di un adulto o di un adolescente. Cosa bisogna conoscere per affrontare il problema della pedofilia? Quanto più si hanno informazioni su un fenomeno, tanto più gli interventi diventano adeguati ed efficaci. Quindi, prima di agire bisogna essere ben informati almeno su alcuni punti essenziali: • • • • •
Profilo del pedofilo Modalità di come si può rubare la fiducia di un bambino Situazioni familiari che favoriscono l’esposizione al rischio del pedofilo Segnali che dovrebbero mettere all’erta genitori e insegnanti Conseguenze sulla personalità della vittima
La personalità del pedofilo presenta un profilo con svariate caratteristiche. Ne indico le principali. Innanzitutto, egli cerca un’intensa rappresentazione di piacere nei riguardi di impuberi attraverso palpazioni, masturbazioni anche senza arrivare all’eiaculazione (spesso tale perversione si associa ad altri disturbi psichici, quali ad es. sadismo, feticismo, impotenza...). In lui il rapporto preferenziale con il bambino funziona come la droga perchè è l’unica occasione per provare orgasmo. La sua personalità è alimentata dalla spinta nevrotica al dominio, dal pensiero ossessivo del serial killer… Ogni pedofilo porta sempre una doppia maschera: dalle buone maniere passa all’aggressione; con un atto d’amore cerca un atto di violenza, che talvolta sfocia nell’assassinio. Quindi, il suo comportamento va visto come una forma di violenza verso il minore, in quanto il contatto affettivo si tramuta in tradimento emotivo. Il suo cuore di uomo è un vero abisso e non riusciremo mai a capire il senso di questa sua violenza. Non è più colpa del “diavolo”, ma della sua deviazione qualitativa. In verità, distinguere tra “pedofilo gentile” e “pedofilo violento” è voler chiudere gli occhi per non vedere una catastrofe. Non c’è una manifestazione d’amore verso l’infanzia ma forme di odio erotizzato di personalità scisse (cfr. C. Foti - C. Roccia - La pedofilia tra immaginario sociale e realtà di sofferenza - Dossier monografico sulle violenze sessuali Pianeta infanzia 1/1998). Ogni abuso sessuale é un assassinio d’identità. Si abusa perchè si vuol sostituire una persona adulta con una piccola negando ogni confine generazionale, soprattutto quando la trasgressione diventa un potente regolatore dei forti conflitti relazionali e dei fallimenti di coppia. Per la psicoanalisi, il pedofilo avrebbe una personalità narcisista perché attratto inconsciamente
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verso il proprio io infantile proiettato nell’impubere che egli desidera. Per la psicologia cognitivo-comportamentale, in genere, è un individuo disturbato che non ha autocontrollo, non ha sensibilità umana e non ha rispetto nei confronti dei piccoli (atteggiamento antinfantile). Ha una personalità fragile che cerca un terreno facile per soddisfare le proprie tensioni sessuali. Lascia straripare le forze irrazionali del mondo interno e non ha nessuna educazione della volontà. Sfrutta l’attenuante “colpa della natura” esclusivamente per decolpevolizzarsi. Per la psicologia clinica, sembra che tale disturbo dipenda da impressioni sessuali avvenute nella tenera età ma favorite dalla base di una personalità costituzionalmente già disturbata. Non è incapace di intendere e di volere, ma capace di comprendere e pensare. Contiene tutti i nomi di Giuda. Le terapie possibili non sono condivise dagli esperti in quanto sostengono che tanto più grave è il delitto altrettanto più grave è la malattia: castrazione chimica temporanea per liberare dall’ossessione, ridurre l’aggressività sessuale, generare impotenza e spegnere il desiderio lipidico; psicoterapia per entrare nella mente del maniaco ed eliminare la radice del problema; pene appropriate per i recidivi cronici … A mio parere, la pedofilia resta sempre una forma di psicopatia sessuale che può coesistere con un istinto sessuale normale. Infatti, chi pratica questo peccato sessuale non sempre è portatore di psicopatologie. Il più delle volte, gli indicatori vanno trovati in modelli causali multifattoriali (animalità originaria, insoddisfazioni, frustrazioni, stress...), che hanno uno stesso denominatore comune: la sessualità ha perso il suo significato biologico e psicologico. Perché si cade nella trappola del pedofilo? Carpire la fiducia di un bambino è cosa semplice e facile. Il ragazzo della scuola dell’infanzia e delle scuole elementari non ha integrato la sessualità nella struttura del suo “io cosciente” in quanto ancora ha conoscenze incomplete e non può avere esperienze adeguate. Il più delle volte, il pedofilo sfrutta la naturale protezione affettiva che ogni bambino cerca nella figura adulta. Però, certe manifestazioni di affetto di un minore verso l’adulto non sono atti seduttivi, ma registri di tenerezza indotti dall’amore filiale. Nessun bambino sente il bisogno di appagare l’erotismo nella realtà; tutto resta nel regno fantasmatico in cui si è sviluppato. Invece, l’adulto perverso materializza la castità, fraintende la tenerezza, tradisce l’amore... La seguente poesia di una ragazza abusata conferma quanto espresso: “Orco notturno dove hai sepolto i fiori che ho raccolto per te? E tu, madre silenziosa, serva nemica, come t’addormenti ogni sera sapendo quel che sai e non dici? Che vale perdonarvi! Non c’è perdono in terra per chi umilia la luce. Padre, per te ho perso Dio. Quando tu mi hai voluto guardare non ho avuto nessuna difesa. Ora da sola vedo il mondo freddo e ostile. E il mio corpo è un peso grave da portare”.
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Altre volte, i rischi dell’incontro con la pedofilia spaziano dal “gioco commerciale” dei provini con promesse di possibili ingaggi nella pubblicità o in film o per la pubblicazione di foto in riviste... fino alla “predilezione amichevole” non di estranei ma di vicini, amici e “parenti” che hanno esagerate attenzioni ed effusioni affettive che nascondono avidità erotiche. I piccoli, inconsapevolmente, all’inizio si trovano bene, scherzano, non vedono nessuna forzatura ma, caduti nella trappola, trovano un adulto scaltro nel saper controllare la fuga e la ricerca d’aiuto. In special modo, ogni pedofilo ha un tipo di intelligenza attenta e sa usare strategicamente il ricatto per mantenere il dominio sulla vittima. È un esperto nel rapporto di avvicinamento alla fragilità dei bambini (conosce le fonti informative, frequenta le zone di “caccia”, segue regole nell’individuare le prede, offre regali adatti…). Non è un cane dal morso leggero che lascia la preda. Cosa fare per prevenire l’abuso del pedofilo? Un tempo, l’educazione faceva prevenzione usando i doppi sensi delle “favole” o le proibizioni dirette. Oggi, purtroppo non si prepara più a difendersi dal “lupo cattivo” e la pedofilia diventa una realtà, esiste e i drammi che produce sono poco conosciuti perché poco confessati. A mio parere, la vera prevenzione primaria consiste nell’educare all’amore: il bambino deve capire che volersi bene è una cosa importante... I bambini devono essere abituati al rispetto della propria intimità (pudore); devono apprendere che l’uso degli organi genitali è legato ad un “amore cresciuto”... Toccare i genitali altrui o farsi toccare i propri genitali è una scelta che si fa da adulti . Ogni bambino va educato a non “oltrepassare la sua età”, a sapersi tirare indietro, a saper gestire le minacce, i ricatti, le false promesse... Occorre smontare la sub-cultura che impone al bambino di vergognarsi nel riferire ciò che il pedofilo gli propone. Deve avere vergogna non chi subisce ma chi fa violenza. E per ottenere ciò occorre istruzione, educazione, formazione. In parole più vere, basterebbe far nascere la fiducia nel genitore. Chi ispira fiducia sa come raccogliere le verità senza drammi o tragedie, non punisce e non si strappa i capelli, non crea la fobia per il sesso... Non si scandalizza per la pedofilia né abbraccia la crociata della pedofobia. Parla soltanto con il cuore e non fa male (cfr. M. R. Parsi – Più furbi di Cappuccetto Rosso – Mondatori 2000). Certe situazioni familiari possono favorire la caduta nella trappola tesa dal pedofilo? Barbablù era un uomo molto ricco ma tanto brutto. Si era sposato più volte e le sue moglie morivano una dietro l’altra. Abitava in un castello e cercava una nuova moglie per sposarsi. Un giorno si presentò una donna con due figlie e un figlio per cercare di concludere il matrimonio. Ma la figlia più piccola, vedendo le attenzioni di Barbablù, accettò di sposarsi con lui. Consumate le nozze, Barbablù disse alla moglie che doveva allontanarsi e le diede le chiavi di tutte le porte del castello dicendole: “Apri tutte le porte che vuoi, ma stai attenta a non aprire la porticina che si apre con la chiave più piccola”. Mentre il marito era in viaggio, la curiosa moglie apre la stanza proibita e dentro vi trova tutte le moglie che aveva avuto Barbablù e che egli aveva uccise e depositate là. Le uccideva perché era un despota autoritario e voleva che tutti facessero quello che comandava lui. La donna si spaventò e fece cadere la piccola chiave che si macchiò con il sangue di una delle donne assassinate. Lei cercò di togliere la macchia ma il sangue non scompariva. Tornato il marito, si accorse della disubbidienza e stava per uccidere la moglie, ma all’improvviso arriva il fratello e così fu salvata e Barbablù finì in prigione.
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Hansel e Gretel erano due fratelli. I loro genitori erano tanto poveri e per questo li avevano abbandonati nel bosco perché non volevano prendesi cura di loro ma soprattutto perché erano indifferenti verso i figli e pensavano solo a sopravvivere loro senza preoccuparsi del legame affettivo con i figli. Vagando in mezzo alla foresta, i due fratelli trovarono una casetta di cioccolata e zucchero. Avendo tanta fame, naturalmente cominciarono a mangiare. All’improvviso venne fuori una strega terribile che li convinse ad entrare e così li imprigionò in una gabbia. Ogni giorno li ingrassava con il desiderio di mangiarli. Usando l’astuzia, un giorno Hansel riuscì ad uscire dalla gabbia. Liberò la sorellina più piccola e insieme fecero precipitare la strega nel forno facendola bruciare viva nel fuoco. Presero il tesoro della strega nascosto sotto il letto e ritornarono ricchi dai genitori, i quali li riaccettarono e tutti vissero felici e contenti. Pelle d’Asino era una bambina che, al momento del parto, aveva perso la madre. Crescendo divenne molto bella. Il padre se ne innamorò e voleva sposarla. Pelle d’Asino aveva schifo di questa decisione e si rifiutò. Allora il padre non si diede per vinto e continuò con una serie di tentazioni: cominciò a farle tanti regali, ebbe tante premure e attenzioni… senza ottenere nulla. Allora fece uccidere l’asino che lei amava tanto e che faceva oro dalla bocca. Ma la ragazza non cedeva e così una notte scappò via. Si mise addosso la pelle dell’asino ucciso e cominciò a fare la serva. Così travestita, era irriconoscibile. Ma un bel giorno un principe, incuriosito, volle conoscerla. Colpito dalla bellezza, mostrò il desiderio di sposarla. Pelle d’Asino, traumatizzata dall’esperienza fatta in casa, non si fidò, scappò via e nessuno la ritrovò più. In queste tre favole ho cercato di evidenziare alcuni atteggiamenti che favoriscono la caduta nelle lusinghe del pedofilo, che sfrutta i bisogni vitali dei figli non soddisfatti dai genitori: protezione affettiva, apprendimento dell’autonomia, ascolto partecipativo, scambio comunicativo, valorizzazione, voglia di giocare insieme… Esistono degli indizi da mettere in allarme coloro che sono responsabili dell’educazione? Ogni nostro ragazzo è come il naufrago, prima di annegare grida. È un grido che bisogna saper riconoscere. Ci vogliono soprattutto occhi e orecchi vigili perché il bambino tende a tradire le “emozioni” e a tradurre i suoi disagi. Ci vogliono genitori presenti con il cuore per notare le variazioni di umore e di comportamento. Ci vogliono docenti che sappiano leggere dentro le produzioni scritte dei loro scolari e soprattutto nelle espressioni di un certo modo di disegnare. Scrive una bambina nel suo diario: “ Il mio portiere fa la collezione di bambole e ogni volta che io e Marzia passiamo ce le fa vedere e ce le presta. Un giorno ci ha detto: “Vediamo se sapete fare la recita di Barbie!” E ci porta nella sua stanza dietro la portineria. Ci faceva spogliare le bambole e ce le faceva toccare. Poi ci diceva di fare anche noi lo stesso gioco con lui. Così ci faceva spogliare e ci toccava. Poi voleva che inventavamo frasi come queste: “Mi piace… stai attento a non farmi male… mi faccio male… “ Noi lo accontentavamo perché dopo ci faceva i regali, soprattutto se facevamo bene la parte. Alcune volte ci faceva le foto. Altre volte noi la facevamo a lui con una di noi seduta nuda sulle sue ginocchia. Due volte è successo che ci ha dato due frustrate sulle gambe e sulla schiena: non erano colpi forti ma solo per scherzo. Ma lui aveva la faccia arrabbiata che spaventava. Quando non volevamo andarci a fare quei giochi, lui aumentava i regali e ci aggiungeva anche i soldi. Spesso ci diceva che se non stavamo a giocare con lui, egli avrebbe parlato male di noi. Un giorno la mia amica Marzia ha cambiato casa e io
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sono rimasta sola. È stato solo allora che ho cercato di fare capire qualcosa a mamma. Lei è andata a parlare con il portiere che ha negato tutto dicendo che erano mie invenzioni. Mamma è tornata arrabbiata a casa e mi ha sgridato. Addirittura ha affermato che il portiere era una brava persona perché mi aveva regalato cinquantamila lire per comprarmi il regalo di compleanno. Così, quando mia madre mi lasciava sola perché andava a lavorare, io ero spinta a scendere dal portiere che mi aiutava anche a fare i compiti. Però i compiti li facevamo molto in fretta perché poi dovevamo giocare alle cose sporche. Una volta, lui era ammalato e mi ha fatto mettere sotto le lenzuola con lui e così mi sono presa la febbre anch’io… Una sera mi ha fatto mettere nuda dentro l’armadio e fare finta di essere murata viva, gridando aiuto e chiedendo pietà. Poi lui mi faceva uscire quasi fosse il mio liberatore e, come premio della liberazione, dovevo farmi toccare… Dopo un po’ questi ed altri giochi mi sembravano un po’ stupidi... Con il tempo cominciai a non poter sopportare tutti gli odori simili a quelli che c’erano in casa del portinaio. La mamma mi portò dal medico che mi ha detto che ero nervosa. Pure mio padre diceva la stessa cosa... Ed io continuavo a non dire niente a nessuno perché mi vergognavo. Neanche alla mia maestra che mi voleva tanto bene. Ho pensato di confessarmi con il prete ma provavo una sensazione di colpa. Il portinaio diventava sempre più insistente e un pomeriggio mi ha fatto male alla vagina. Ed è così che ho deciso di rivolgermi ad uno psicologo del centro ascolto della scuola...” Cosa può generare psicologicamente la violenza sessuale? Non è facile classificare i danni e i disordini che si provocano dentro la memoria corporea, dentro la testa dell’individuo e soprattutto dentro il cuore della persona violentata. Le violenze infantili intrafamiliari ed extra, gli stupri... sono difficili da dimenticare, anche se talvolta permane soltanto un ricordo confuso tra le nebbie dell’evento. Il desiderio di vendetta, le automatiche associazioni mentali tra atto sessuale e fatto traumatico, il rifiuto globale dell’altro sesso, la difficoltà a vivere il futuro... sono alcune possibili conseguenze che lasciano tracce. Recuperare il senso di autostima e di fiducia negli altri è un compito altamente delicato per gli psicoterapeuti. La mia esperienza di direttore terapeutico in una Comunità per Minori, mi porta alla conclusione che la violenza è una ferita e non una cicatrice: è un segno sul nostro corpo che non va identificato con il nostro corpo. Per non restare ostaggi dei ricordi spiacevoli, solo l’amore per la vita può far dimenticare le violenze subite. I ricordi quando riemergono, possono essere reinterpretati e superati. Tuttavia, il riaffioramento alla coscienza di ricordi opprimenti che risalgono nella coscienza possono diventare anche intrusivi tanto da trasformarsi in dolorose esperienze. Con la psicoanimazione della fiabazione (terapia con le fiabe) è possibile prevenire, individuare e curare le conseguenze da abusi sessuali. Favole, opportunamente strutturate, possono aiutare nell’elaborazione del lutto e orientare ad assumere nuovi significati di vita (cfr. C. Aristei – P. Salerno – Plenitude – CePASA-Piccolo Carro 2001). In America sono sorti due movimenti, uno per il recupero degli incesti (vittime che hanno subito abusi sessuali durante l’infanzia) ed uno per i falsi ricordi (adulti falsamente accusati di aver commesso abusi sessuali su minori). Movimenti che hanno influenzato l’orientamento giuridico e psicoterapeutico. A parte il problema della credibilità, sembra che il contatto sessuale tra adulto e bambino possa non essere esperienza sgradevole e dannosa. Carezze, fellatio, sodomia… possono non essere state vissute come aggressione, potrebbero esse-
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re state piacevoli o neutre… Quindi, non necessariamente implicano il trauma, il blocco psicologico. In certi abusi sessuali c’è addirittura uno sviluppo positivo. Al contrario, ciò che rende l’atto traumatico è l’atteggiamento sociale nei confronti di queste esperienze. Comunque, la letteratura scientifica suggerisce l’esistenza di una grande variabilità negli effetti di un abuso sessuale subito nell’infanzia. Per stabilire se l’abuso sessuale è un fattore di rischio di disagio occorre tener conto di tanti altri parametri (esistono molte controversie sulla suggestionabilità e sulla plasmabilità della memoria: essa si adatta alle regole ambientali, ma può alterare o inventare la realtà per la presenza di conflitti intrapersonali, può fingere per nascondere fantasie di appagamento del desiderio, può far uso di metafore di altre esperienze dolorose, può vendicarsi per ingiustizie subite…). Trattare i ricordi repressi senza sforzarsi di ottenere un riscontro oggettivo da parte di altre fonti informative costituisce scorrettezza professionale. La rievocazione ritardata del materiale dimenticato deve essere messa sotto il controllo scientifico; del resto, i traumi non reprimono i ricordi, quindi un professionista competente è in grado di vedere chiaro. (cfr. S. Kenneth Pope – L. S. Brown – I ricordi delle antiche violenze – Mcgraw-Hill 1999). Da non dimenticare che esiste anche un’ordinaria violenza silenziosa soprattutto quando si chiude la porta di casa; il mondo resta fuori e all’interno di una famiglia può avvenire di tutto. Incesto, stupro, maltrattamento... Paradossalmente, un familiare, anziché proteggere, fa del male. L’orrore ci sta vicino senza che ce ne accorgiamo. Anche l’amore omosessuale tra Rembaud e Verlaine finì con un colpo di pistola. La setta degli spiriti, nel bosco di Nemi, pretendeva l’atto sessuale per mettersi in contatto con le anime trapassate. Come spiegare queste psicopatologie sessuali? Scomodi pensieri. Storie di ordinario malessere. Normale psicopatologia. Zone d’ombra. Buio senza speranza. Follia generazionale. Sesso come declinazione di un intimismo che non libera ma che condiziona a modi di vivere costruiti chissà per quali finalità più o meno sporche. Ferocia innaturale di menti ammalate. Come è facile intuire, c’é qualcosa in più della violenza. Stuprare è un atto di violenza, ma uccidere sadicamente, squartare il corpo, disperdere le interiora, bruciare le membra... sono modalità di una nuova pazzia. Un risentimento nevrotico che continua nella follia psicotica. Frutto di una società visiva, dominata dalle immagini che orientano le fantasie dei cervelli meno evoluti, più deboli e più fragili. Mentre la società s’impegna nel tentativo di sconfiggere la violenza della droga, spunta fuori una “nuova droga”: abusare dei bambini, violare l’intimità, aggredire furiosamente a scopo erotico, picchiare con piacere... Siamo diventati dei minuscoli “orlandi” che la vita attuale ha reso “furiosi”. Povero mondo. La città non ha più spazio (è troppo piena), non ha più voci nel silenzio (ci sono rumori di motori), non ha più colori (è tutta grigia di fumo). Viviamo un paradiso di confusione e di frastuoni. Soli nella città che muore. Soli con spermatozoi e ovuli. Spermatozoi e ovuli sono l’unica forza che certe persone possiedono: non riescono ad ampliare il vocabolario della sessualità.
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I DIFETTI DEI BAMBIBI SONO TALI QUANDO ESSI FANNO I GRANDI POICHÉ NON SONO NÉ GRANDI NÉ BAMBINI
Tutti i difetti dei “bambini” hanno nomi familiari: disobbedienza, bugia, rivalità fraterna, collera.... ma i difetti dei genitori hanno qualcosa di più biasimevole non per l’intenzione ma per le conseguenze. I difetti li abbiamo tutti e li avremo sempre, perché tradiscono la nostra difficoltà di adattamento alla vita, che è perpetuo cambiamento. Anche se i difetti dei genitori sono all’origine dei difetti dei bambini, non c’è mai un colpevole da una parte né dall’altra. Per essere colpevole ci vuole un atto che sia punibile. Ci vuole coscienza e intenzione. I nostri sogni e le nostre ambizioni si possono riporre nel cassetto, mentre l’infanzia non deve e non può essere messa da parte e tirata fuori a nostro piacimento. Perché usare l’infanzia solo nelle manifestazioni contro la mafia, la guerra, l’Aids ecc. ecc.? Che senso ha? I bambini certe grandi problematiche non riescono ancora a capirle, anzi la loro mente le deformerebbe. I problemi si vivono in prima persona. La forza si cerca dentro di sé e non spostandola sulle emozioni che l’infanzia potrebbe suscitare. Educare è prevenire. La prevenzione è utile quando non fa rima con ossessione. Prevenire non significa partire sempre da principio ma dal punto giusto. La prevenzione è un atto di formazione e va gestita come tale. Una prevenzione seria ha una repressione efficace. Ha alla base un sano realismo e tanti programmi flessibili. Spesso anche la televisione e altri mass media si rivelano superficiali in quanto, né in pochi minuti né in poche righe, si può fare scienza dell’educazione. Ogni età ha le sue verità, come ogni persona possiede una propria e soggettiva opinione. La pluralità dei modelli comunque non è mai una perdita; non è un disperdere la propria personalità, anzi è rafforzare sé come identità unica e irrepetibile. Non è facile dire che il nostro bambino è impulsivo, attivo, curioso, disorientato… dipende dal punto di vista. Un bambino che allinea le pentole sul pavimento e le percuote con il mestolo può essere percepito come un batterista in erba (pregio) o come una piccola peste (difetto)… Ogni evento può avere almeno due o più letture. Per avere una giusta versione occorre saper ascoltare. Chi ascolta, comprende e non si allarma. In genere chi educa, sa che ciò che osserva non sempre coincide con le proprie valutazioni. Nessuno può imparare a controllare un difetto e le emozioni negative se non ha avuto la possibilità di provarle, di riconoscerle e di comprenderne le conseguenze. Solo così ne può valutare la forza e orientarle verso scopi vantaggiosi per lui e per chi gli sta davanti. La paura è la rovina della mente: provarla significa sopravvivere all’emozione e superarla. Si dice che bisogna amare gli uomini e camminare insieme con essi nel “fango” senza paura perché tutti hanno dentro la coscienza qualche idea buona. Senza vento anche l’aria sarebbe una putredine. Chi conosce la natura uma-
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na sa che la vita di ognuno è simile ad una palude, ove però è possibile dissodare il terreno e far crescere erbe e fiori per sfruttare al meglio il concime naturale. Sunt bona mixta malis, sunt mala mixta bonis. Del resto sono rare le famiglie perfette e le scuole perfette, non si fanno matrimoni perfetti né si trovano posti di lavoro perfetti... Bisogna imparare a fare buon uso della spazzatura perché ognuno è schiavo di molte debolezze umane. I difetti ci sono e sono in noi e non nella natura. Sì, sono in noi ma non tutti in noi. Nessun difetto comunque è importante se non è definitivo. Un difetto è difetto se ritorna con l’aggiunta dei frutti e se si rivolge contro sé come un boomerang. Difetto non è pretendere le stesse cose dal saggio e dal principiante. Errore, invece, è fissarsi solo su un pensiero o su un’interpretazione: è una semplice scossa alle aspettative che ci siamo creati inconsapevolmente, cioè senza attenerci ai fatti. Diceva Togliatti: “Anche nella criniera di un cavallo di razza ci può stare un pidocchio”. Notare un difetto non vuol dire insegnare a provare un sentimento di colpa. Colpa vuol dire dolo e danno. Colpa vuol dire responsabilità (cioè: so quello che devo fare, conosco le conseguenze e lo faccio). In quasi tutti i difetti dei bambini, però, non c’è responsabilità. Movente…. vittima… colpevole… è la logica dell’assassinio, non è una logica educativa. Attribuire la colpa ad un bambino è come dargli un veleno che lentamente lo uccide (psicosi) mentre manifestare continuamente la nostra insoddisfazione lo tramuta in nevrotico. I sensi di colpa sono una guida che conduce ovunque si scelga di andare... e il più delle volte portano nel deserto della massificazione. Servono a tutto tranne che a correggere la situazione. Regolarsi secondo quel che dice e vuole la gente non è vivere secondo ragione. Il conformismo è un ammassarsi di persone che cadono le une sulle altre. È un passarsi l’errore di mano in mano. Non è affatto vero che quello che piace ai più sia il meglio. Il senso di responsabilità comincia proprio con l’abbandonare il pensiero comune, con il desiderio di saperne di più. Lo sapevano bene Eva e il serpente. Purtroppo chi vive in mezzo alla massa è costretto a scendere a compromessi: non è facile vivere senza debolezze e senza contraddizioni. La persona umana ha mille maschere tutte sincere e tutte fallaci. Ruba le piume del pavone senza sapere di essere un pavone. Anche l’infanzia scompare se si avvicina troppo al mondo degli adulti.
Paura C’è un tempo in cui i bambini hanno paura. Quando si è piccoli è normalissimo avere paura del buio, immaginare che dalla tazza del gabinetto venga fuori un serpente, credere alle streghe, agli orchi… Ancora il bambino non ha strumenti cognitivi per poter fare una chiara distinzione tra realtà e immaginazione. Percepisce le polarità estreme. Tutto è piacevole o spiacevole, vero o falso, bello o brutto… Sta vivendo la stagione degli apprendimenti per esagerazione. Non ha ancora sperimentato l’esistenza delle sfumature che attenuano i contrasti. Conosce il nero e il bianco e non sa apprezzare le
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combinazioni. Non è ancora entrato nel territorio delle possibilità. Vittima del pensiero realistico e concreto, prende tutto sul serio e alla lettera. “Se fai quella smorfia e passa l’angelo custode ti farà restare la bocca in quella posizione per sempre…” è una verità e non riesce a ipotizzare che possa essere un trucco degli adulti. Purtroppo, la comunicazione adulta non ha un repertorio adatto alla loro crescita. Comprendere gli adulti da parte dei bambini non è facile. Due genitori che litigano e dicono parole “grosse”, queste vengono fraintese dal figlioletto. Così un papà che esagera negli insulti è percepito come un mostro. C’è da aggiungere che la natura umana non ci ha fatto fragili. Quindi, le paure non sempre producono traumi psicologici né bloccano i comportamenti. Anche nella paura c’è una funzione educativa: il coraggio si apprende attraverso le giuste sconfitte, le paure reali… La vita è difficile per tutti: quasi quasi avere paura è un diritto naturale. È una sensazione che hanno persino gli eroi anche se reagiscono con atti di coraggio. La stessa audacia non avrebbe senso se non ci fosse una vittoria sulla paura. Il bambino ha paura naturalmente perchè è un essere che si sta sviluppando e sta scoprendo il mondo. La paura deriva dall’insicurezza, ma il più delle volte ha la sua radice nell’ignoranza. I primitivi avevano paura dei vari fenomeni naturali (fulmini, tuono, vento) perchè non sapevano darsi una spiegazione. Paradossalmente, l’oggetto della speranza come della paura è lo stesso: l’ignoto. Il mondo infantile, infatti, è popolato da personaggi irreali e mostruosi, creati dagli adulti per domare i bambini ma indirettamente per insegnare anche il coraggio. Certe paure nel bambino si instaurano perchè sono determinate dalla severità dei genitori, dalle eccessive raccomandazioni e divieti... Chi ha paura è sempre preoccupato. Preoccuparsi è come essere col motore acceso 24 ore su 24 pur restando fermi. L’educazione limita spesso in modo eccessivo i bisogni dei bambini e addirittura attraverso la paura li deforma. I bisogni naturali entrano in conflitto con le esperienze dei genitori e della società che esigono obbedienza e subordinazione. Tutto ciò dipende dall’intensità con cui la paura viene suscitata e vissuta. Talvolta, i genitori vogliono proteggere il figlio fisicamente ma lo danneggiano psicologicamente. Paura e sicurezza non possono coesistere. Se ad un bambino si toglie il coraggio, lo si spinge alla paura: conviene affrontare a viso aperto l’oggetto della paura parlandone e discutendone; fare luce sulle paure e trasformarle in spinte ad agire; contrapporre ai timori in cui ci si sente sicuri; circondarsi di individui pieni di buonumore; convincersi che la vita è bella, nonostante la presenza delle paure; non convivere mai con la propria paura.
Bugia Omero ci ha consegnato un Ulisse che mentì per salvarsi la vita ma anche per il piacere di farlo. Platone consigliava ai governanti di mentire nell’interesse del popolo. Nel Medioevo si pensava che la bugia fosse un attacco alla Verità di Dio e i bugiardi veni-
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vano bruciati fuori dalle mura della città insieme a streghe, maghi, ladri, falsari… Improvvisamente, con Macchiavelli la bugia è diventata l’arte di stupire. Con Collodi la linea di confine che divide le menzogne di Pinocchio con le grandi illusioni si è sempre più assottigliata. Per me, i bugiardi ci sono sempre stati. I grandi bugiardi di sempre sono i giocatori, i poeti, gli artisti… La realtà virtuale non è che l’ultima grande bugia. (cfr. M. Bettetini – Breve storia della bugia – Cortina 2001). Oggi, il prof. Jellison (università americana Sud Caroline) e il prof. Wisemann (università inglese Hertfordshire) affermano che l’uomo dice 200 bugie al giorno, circa una ogni dieci minuti. Ma perché nell’essere umano c’è la tendenza ad ingannare? Le bugie si dicono perché si è esposti al contatto con gli altri e per questo i grandi bugiardi contemporanei sembrano essere soprattutto gli avvocati, i commercianti e gli psicologi. Senza bugie la rete sociale crollerebbe. Le frottole sembrano essere come le frittelle: servono a rendere la vita meno indigesta. Dice una canzone: “La vita è un paradiso di bugie, quelle tue e quelle mie, e ne fanno una calda ansietà”. Con la bugia ognuno trova un modo migliore per tradire meno se stesso. Le fantasie sono gioie mentre la verità talvolta fa paura. La paura non è una colpa da evitare né qualcosa da seguire: è solo un grosso ribollire di pensieri. In realtà, per definizione la bugia è un comportamento caratterizzato dalla tendenza a falsare la realtà, fuggendola con l’immaginazione; si racconta una bugia pensandola come verità e sapendo il rischio di spingere l’altro ad essere diffidente. Menzogna è negare la realtà volutamente, è comunicare coscientemente una falsa impressione usando parole letteralmente corrette: è usare la parte irrequieta della propria mente; si inganna l’altro dicendo delle cose che non si provano. In realtà, per dire le bugie bisogna pensare. Per questo anche noi adulti acquisiamo l’abitudine a dire bugie di convenienza o ad essere machiavellici, ma alla nostra coscienza le dichiariamo come forme di diplomazie. A tutti capita di raccontare qualche bugia e di pretendere di considerare corretta ed equa questa condotta. Una piccola bugia qualche volta risparmia tonnellate di domande e di spiegazioni. La bugia è una brutta cosa perché distrugge la fiducia nella parola data ma a volte sembra dare risultati positivi. La forza di alcuni sta proprio nel far dire bugie per la voglia di cercare “difetti” negli altri. Chi non ha mai perdonato qualcosa a se stesso, come potrà perdonarla o tollerarla negli altri? Nella lotta per il “principio” non muoiono le idee ma le persone.
Furto Il furto, quando è di turno il proprio figlio, comincia a preoccupare anche se la trasgressione è qualcosa che, almeno una volta, tutti o quasi, abbiamo conosciuto. È l’ancestrale ricordo del frutto proibito del paradiso terrestre. Quando un bambino ha commesso un furto, i dialoghi tra il colpevole e gli accusatori diventano interrogatori in piena regola e con tanta autorità da far finire il responsabile sul banco degli imputati. Sarebbe più educativo invece porsi le seguenti domande:
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- a questa età, è in grado di capire quello che ha fatto? - perché può averlo fatto e qual è il migliore intervento? Per dare un giusto indirizzo al comportamento infantile, l’adulto nelle risposte non deve applicare mai i criteri dei grandi. Certe rigide e severe risposte punitive, se attuate, respingono il dialogo educativo ed intimidiscono soltanto, colpevolizzando e deumanizzando. Rubare, qualche volta, cose di poco conto è una specie di sfida a se stessi o agli altri, come un gioco di guardie e ladri. Spesso, dietro una piccola astuzia infantile c’è soltanto semplicità e ingenuità. Chi vuol conoscere le api deve imparare a sopportare le punture.
Parolaccia La parolaccia è una manifestazione di aggressività verbale che si esprime soltanto con il linguaggio. Il bambino impara le parole brutte e dice le bestemmie per dimostrare la sua voglia di crescere e di rendersi indipendente dagli adulti. Infatti, in certi ambienti le dice, mentre in altri si guarda bene dal dirle. Superata la fase iniziale del vocabolario ossessivamente concentrato sugli aspetti escremenziali, il ragazzo si apre al vasto territorio delle parolacce, inconsapevole del significato, ma espertissimo del significante e del loro effetto trasgressivo. Si diletta a scandire e tastare, sillaba per sillaba, questo terreno minato, su cui un passo falso fa esplodere l’ira dei genitori e degli educatori. È una forma per sperimentare l’efficacia sociale e il sensazionalismo della trasgressione. Alcuni in certi momenti sentono il bisogno di usare parole forti per liberarsi dalla condizione di stress, altri ancora usano talvolta un linguaggio poeticamente osceno come Rimbaud. Le parolacce, il bambino le apprende e non nascono o fioriscono liberamente; egli ripete i suoni dell’ambiente: se esso è sano, certe parolacce le userà meno di un altro dove l’ambiente è saturo di oscenità e bestemmie. Altri dicono le parolacce costantemente, scadendo nel turpiloquio. Le parole oscene, comunque, non possono essere incoraggiate in quanto degradano il linguaggio, svalutano ciò che è delicato o raffinato e trasformano tutto in spazzatura. Chi impreca invece di dire qualcosa, diventa qualcosa. Le parole tanto sconce non si addicono ad un gentiluomo, che non trasporta veleno per più di tre passi. Nel turpiloquio si svuotano le parole del loro valore naturale per riempirle di altri significati maliziosi o volgari: il buon Dio dovrebbe toglierci la parola perché con certe parole ci facciamo del male o diciamo nefandezze. Un agnello che mangia gli arbusti mangia anche i fiori
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Rivalità Il rivaleggiare è una componente importante della vita quotidiana del bambino. Va ricollegato alla dinamica generale della vita, di cui è una manifestazione naturale: fa parte delle difficili leggi della convivenza democratica. Quando ci si ama, si bisticcia e tutto ciò che succede è innocuo; non è un difetto ma serve alla socializzazione perché stimola le nascenti forze individuali. Anche se in famiglia c’è solo il figlio unico, il bambino impara presto la rivalità con qualche altro. Se invece c’è il fratellino, tende ad incorporarlo nel suo spazio vitale, lo considera un oggetto di cui poter disporre a suo piacimento, come un giocattolo vivente. Ma il nuovo arrivato non è d’accordo e non si lascia incorporare. L’espansione vitale così viene ostacolata e ciò esalta l’aggressività. Caino continua ad uccidere Abele. Il più delle volte la rivalità fraterna esplode ma si risolve senza tragedie in quanto i bambini dimenticano presto ciò che detestano. Al contrario, l’adulto è un bambino andato a male, mal riuscito. Talvolta, l’arrivo di un fratellino può fare vacillare la fiducia nell’amore dei genitori. Quindi i genitori devono riaffermarla. Così lentamente scompare l’ostilità verso il neonato, la furia contro la madre, la ossessività, l’esigenza, la regressione… è difficile resistere da soli ad un uragano. Ognuno in famiglia ha il posto che gli spetta. La distruttività non è utile a nessuno. Anche il bambino dovrà imparare a trovare dentro di sé un posto anche per il fratellino… consapevolezza dell’esistenza della gerarchia nella famiglia e del posto che lui stesso occupa al suo interno… La rivalità può manifestarsi anche a scuola. A scuola è fatica inserirsi in un gruppo. Talvolta certe strategie di monellerie hanno lo scopo di cercare di diventare capo, fare il bullo per sopprimere la para che cova dentro, sgomitare per conquistarsi uno spazio espressivo… I ragazzi riproducono a scuola le battaglie che combattono fra le mura domestiche, e viceversa. Si destreggiano come meglio possono per annullare i favoritismi genitoriali, i privilegi… Non sanno che equità non vuol dire dare a tutti in eguale misura ma secondo la necessità. Compito di chi educa è far capire che ognuno ha ciò che gli serve e ciò che è giusto per ciascuno, impedendo i confronti e senza far rovistare anche in modo indiscreto e invadente. È educativo anche permettere le rimostranze, ma questo non vuol dire che sarà accontentato comunque. Il no di un adulto non vuol dire rifiuto della persona né disinteresse ma rifiuto del capriccio. Competitività Chi è prepotente vuole smettere di competere al più presto: la competitività è un indice inequivocabile di democrazia, dove all’inizio tutti si ritengono uguali e diversi. La rivendicazione del diritto alla differenza cessa di essere democratica quando diventa richiesta di diritti differenti. Tale forma di aggressività non ha niente di criminale. Ha come obiettivo la vittoria sul concorrente, come nel gioco. Quindi, eliminare i moti di stizza è molto difficile, come predicare la generosità ad oltranza è impresa da don
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Chisciotte: i bambini non hanno l’età giusta per scegliere di essere santi. Questi sentimenti non si contrastano, ma si aspetta che naturalmente sbollentino nel tempo. Tutto si risolve quando si troverà interesse nelle amicizie, nella scuola e nei giochi e si comincerà a sperimentare l’atteggiamento di cooperazione verso gli altri. Chi vuole tiranneggiare non fa altro che portare confusione. Ordini, abitudini e capricci spingono la condotta in una direzione o nell’altra: ordini e abitudini s’impongono dall’esterno senza chiederci il permesso mentre i capricci vengono spontaneamente dal nostro mondo interno. Si arriva al pulcino non strapazzando l’uovo ma covandolo.
Aggressività Bulli, scolari cattivi, rompiscatole, incontentabili, dispettosi, terribili, sfasciatutto, prepotenti, difficili… una volta erano i “monelli” dei miei tempi, mentre oggi sono i nuovi fantasmi minacciosi dell’attuale società. Come mai? Il tempo scolastico si è dilatato tra tempo pieno e prolungato; la presenza educativa è prevalentemente femminile (madre, maestra, professoressa…); il tempo extrascolastico è dominato dalla televisione e dal computer… Così è venuto meno la libera aggregazione tra coetanei; manca il tempo per il gioco autonomo; non c’è l’esercizio del diritto alla spontanea socializzazione. I nostri ragazzi, insoddisfatti nei bisogni naturali di crescita, li scaricano con l’aggressività a scuola e nei luoghi organizzati (cfr. A. Minio – Mediocrità pp.251-294). Che fare? Non ci resta che imparare a convivere pacificamente con la rabbia e l’aggressività (espressione fisiologica dell’eccessivo egocentrismo e delle esperienze sociali ridotte). Sicuramente, tali situazioni conflittuali non si risolvono in maniera tradizionale attraverso l’individuazione del colpevole e l’immancabile rimprovero né con il deplorevole castigo, l’irrazionale emarginazione… Tutto ciò ricarica l’aggressività. Occorre insegnare ad arrabbiarsi. Occorre imparare a litigare. Occorre sapere come scaricare la tensione. E soprattutto occorrono spazi educativi costruttivi dove i nostri figli possano imparare a conoscersi e a conoscere le regole della vita reale (cfr. R. Portmann – Anche i cattivi giocano – Meridiana 1997). Quando i genitori insegneranno il rispetto della vita, della legalità e della diversità… allora gli atti violenti suggeriti dall’aggressività cominceranno a diminuire. Altrimenti, un ragazzo ferito diventerà un uomo arrabbiato. Spesso l’aggressività è l’altra faccia della paura che bisogna stare attenti a non svegliare. Max era un bambino di tre anni. Una sera colpì il padre alla testa con un martello mentre suonava il piano perché voleva la sua attenzione: “Piccolo selvaggio, vai a dormire senza mangiare!” E quella notte nella sua stanzetta crebbe una foresta e il figlio si mise la pelliccia di lupo… e da allora cominciò a fare disastri di ogni genere.
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Ma qual è il metodo migliore per educare? Bastone o carota, lode o biasimo, ricompensa o punizione, premio o castigo, controllo o liberalità? Provo a cercare le informazioni che ho immagazzinato nella mia antica memoria, quando studiavo all’università. Il termine “disciplina” ha la radice etimologica in “disco” (imparo da un maestro); è l’insieme delle cose da apprendere in modo tale che il discepolo abbia un comportamento morale, che si adatti alle regole sociali. La disciplina, quindi, si adegua alla personalità del soggetto; varia in base al numero delle persone presenti in un luogo, in base alle ore della giornata, in base al contesto, alla situazione, al tipo di attività...; dipende dal comportamento dell’adulto; cambia con l’età; dà sicurezza perché indica ciò che si può fare o non fare; aiuta a non provare sensi di vergogna o di colpa; favorisce l’indice di accettazione o di rifiuto, di affetto o di disistima; crea un codice morale: la voce interiore della coscienza. Un metodo educativo non va mai valutato in termini di risultati immediati, ma a lungo termine cioè solo per gli effetti che può produrre sui meccanismi di formazione della personalità. In realtà, non esistono metodi sicuri da seguire ad occhi chiusi: ci vuole sempre equilibrio educativo. Quasi sempre è il modo di comunicare che rende “buono” o “cattivo” qualsiasi metodo. Ad esempio, “Vai al diavolo!”, è un’espressione facile a riceverla. È solo un consiglio. Tutto dipende se ci andiamo veramente. Che senso ha allora prenderla sul serio? (Chi volesse continuare ad approfondire le tematiche educative cfr. il volume di A. Minio – Superficialità – CePASA 2001)
Iniziativa dal titolo: “Un giorno con mio figlio” Martina si improvvisa artista sotto lo sguardo compiaciuto della mamma
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Iniziativa dal titolo: “Un giorno con mio figlio� Alessandro e la sua mamma
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Leggere è sempre un buon investimento culturale!
Cristina Aristei - Pietro Salerno
Plenitude
NELL’ISOLA CHE NON C’É la curiosità diventa terapia
C. Aristei, A. Minio, P. Salerno
Un’esperienza di Comunità per minori
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Percorsi formativi per educatori
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COMUNICAZIONE UMANA E CONDUZIONE DELLA CLASSE (276 pagine) 20 CONOSCO UNA SCUOLA DOVE TUTTI VANNO MA CHE NESSUNO FREQUENTA (580 pagine) 20 MINIMO VITALE (333 pagine) 20 CONTROCANTO (in press … maturità collaborativa, lavoro di gruppo...) MESTIZIE (in press … disordini della personalità, nevrosi, psicosi…) SAGGEZZE (in press … tutto ciò che serve alla professione docente...) TENTAZIONI (in press… valori, società, politica, denaro, tempo libero…) Antonino Minio
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Fragilità
Mediocrità
Superficialità zainetto psicologico per un minimo vitale
strumenti psicologici per il mondo degli affetti
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minimalia per la formazione Pag. 336 -
Pag. 370 -
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Cinque di questi volumi sono dati in omaggio-benvenuto, sino ad esaurimento, a chi diventa Socio CePASA