Speciale Roma 2013

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INCONTRI CON Wes Anderson Jason Schwartzman Roman Coppola Jonathan Demme Takashi Miike


TAXI DRIVERS MAGAZINE SPECIALE ROMA 2013

DIRETTORE

Vincenzo Patanè Garsia VICE DIRETTRICE

Giorgiana Sabatini CAPOREDATTRICE MAGAZINE

Lucilla Colonna CONCEPT DESIGNER

Gianna Caratelli INVIATI

Luca Biscontini, Valentina Calabrese, Maria Cera, Alessandra Cesselon, Stefano Coccia, Elisabetta Colla, Lucilla Colonna, Giovanna Ferrigno, Emiliano Longobardi, Veronica Mondelli, Anna Quaranta, Francesca Vantaggiato, Vittorio Zenardi CAPOREDATTORE SITO WEB

Luca Biscontini UFFICIO STAMPA

Valentina Calabrese EXECUTIVE EDITOR

Giulia Eleonora Zeno WEB MASTER

Daniele Imperiali

CONTATTI e mail: info@taxidrivers.it Facebook: Taxidrivers Mag II Arretrati Magazine: http://issuu.com/taxidrivers_magazine

TAXI DRIVERS è dedicata a Delian Hristev (R.I.P.)

In copertina:

Larry Clark Presidente della Giuria di CinemaXXI


EDITORIALE

Taxi Drivers Magazine sta crescendo e per il Festival Internazionale del Film di Roma ha potuto schierare in campo tredici inviati, con l'obiettivo di offrire ai lettori un centinaio di pagine di recensioni e di curiosità. In copertina, c'è un grande della fotografia e del cinema, i cui scatti sull'adolescenza americana perduta ispirarono a Martin Scorsese il film che ci sta più a cuore: Taxi driver. Vincitore della scorsa edizione del festival (il suo Marfa girl si aggiudicò il Marc'Aurelio d'Oro), quest'anno Larry Clark ha presieduto la giuria della sezione CinemaXXI, in cui hanno trionfato due lungometraggi russi (pagg. 52-55). Fra tappezzerie rosse e incontri entusiasmanti (pagg. 56-60), sono state proiettate e premiate opere che hanno focalizzato l'attenzione sui lavoratori di ogni nazionalità e sulla condizione universale della donna: accanto al vincitore Tir, ricordiamo il riconoscimento andato a tutto il cast iraniano di Acrid e il premio alla voce -essenza/assenza femminile- di Scarlett Johansson per Her. A proposito di quest'ultimo, ci auguriamo che gli spettatori non si accontentino del doppiaggio, ma affollino le sale che scelgono di proiettare i film in versione originale, facendole finalmente crescere di numero. Buona visione!

Lucilla Colonna

SCELTI DA TAXI DRIVERS

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i PROTAGONISTI del FESTIVAL

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i PREMI

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in CONCORSO per il MARC’AURELIO

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l’OPINIONE di TAXI DRIVERS

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Premio alla Carriera

È DIFFICILE ESSERE UN DIO Aleksej Jurevič Jerman

2013

: Russia

: Fantascienza

: 170’


Il ciclo eterno dell’uomo e della vita

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di Maria Cera

All’improvviso, due uccelli ‘tagliano’ l’immagine, emergendo dallo schermo e attraversando la sala Petrassi durante la proiezione stampa. Un attimo, che ha abbracciato tutti i presenti in un felice smarrimento. Un attimo. Quel momento, per Svetlana Karmalita (compagna artistica e di vita di Aleksej Jerman), è stata la testimonianza indubitabile della presenza là, dentro l’ultima (postuma) pellicola nella quale si è consumata tutta la porzione finale della sua esistenza, di Aleksej Jurevič Jerman (20 luglio 1938 – 21 febbraio 2013). Una vita posseduta dall’arte, posseduta dal cinema. È difficile essere un dio è realmente una pellicola che ha regalato l’eternità agli spettatori. Un film per tutti i secoli. Universale, perché capace di valere per ogni tipo di umanità e di essere umano che è stato, che è, che sarà. Un documento sull’uomo, come tutto il suo cinema può essere definito. Un cinema senza compromessi, portato avanti contro tutto e tutti, in primis contro la censura sovietica. La sua filosofia cinematografica, la sua scrittura registica hanno creato una nuova plastica filmica umana, un modo nuovo di mostrare il mondo, ribaltando strutture stilistiche ed etiche. Il suo sguardo sulle differenze, la predilezione per il dissenso, la carica rivoluzionaria nell’innovare i codici di decifrazione del reale, gli hanno permesso solo di realizzare 6 film (5 e mezzo, visto che il suo debutto è una coregia) in 46 anni di carriera. È difficile essere un dio nasce non intenzionale. German pensava di chiudere il proprio cerchio creativo con un’autobiografia infantile (così Svetlana Karmalita in conferenza

stampa). Ma quando le truppe russe fecero il loro ingresso in Cecoslovacchia, e la minaccia per il futuro, la minaccia per l’arte assumevano una concretezza disperata, German decise di ‘adattare’ l’omonimo romanzo di fantascienza dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij del 1964. Un lavoro che lo ha impegnato-consumato per ben 15 anni. Iniziato nel 1999, terminato nelle riprese nel 2006 e successivamente sottoposto ad un lungo lavoro di montaggio e di sincronizzazione del suono. German non ha potuto vederlo chiuso, strappato alla vita il 21 febbraio del 2013. Realizzato dal cineasta insieme ai suoi collaboratori più fedeli, coinvolti a tal punto nel processo creativo (produttori inclusi), da considerare questo film come se realmente rappresentasse per ciascuno il rispettivo ultimo lavoro della propria carriera. Un altro pianeta, Arkanar, dove l’essere umano che lo popola è in uno stadio economico-sociale ancora fermo a quello medioevale, in cui il Rinascimento è ‘bandito in seno’, combattuto. L’arte, la bellezza, contrastate come la peste. L’uomo preservato nel lordoso, putrido stato brado, tra fango, escrementi, promiscuità, dentro un eterno autunno piovoso, appiccicoso…Tutto il cupo fisico e ambientale, tutto il degrado di bestialità nel quale ci si crogiola di stare come nell’unica e sola condizione che all’essere umano spetti. Defecazioni ed orine a cielo aperto, sputi, sporcizia… La morte esposta-perpetrata con ferocia naturalezza (per ciò che è), manifesta nelle viscere squartate, nelle interiora manipolate con piacere di rivelazione …. Scrittori ed intellettuali messi al bando, eliminati.


È DIFFICILE ESSERE UN DIO

Alcuni scienziati terrestri sono lì per aiutare la popolazione a progredire, ma non senza difficoltà. Non possono usare violenza, ed è assolutamente fatto divieto di uccidere. Anton (uno di questi), Don Rumata per gli abitanti del villaggio (lo straordinario e pietra miliare attoriale russa Leonid Yarmolnik, che per tre ore è il centro a cui arrivano e da cui si dipartono tutti gli avvenimenti vorticosi che lo avvolgono) nel tentativo di salvare gli intellettuali dal massacro, non può non ‘sporcarsi le mani’, restando sempre più coinvolto nel putrido, lordo, inaffettivo, degradato, mondo umano che lo contiene. Tutto questo universo ci galleggia davanti agli occhi dentro una plasticità visiva bianca e nera, dirompente e rappresentativa. Bassorilievi umani e materiali che invadono lo spazio nel quale la macchina da presa, a fatica, prende il proprio posto. Continuamente si fa spazio ‘lottando’ contro una continuità-vitalità umana incessante. Chi ci sosta, la attraversa, la guarda (ci guarda) con fare ammiccante, canzonatorio che pare dirci: “Questo che vedi sei tu. Ora sei ripulito, psicologicamente rimosso, ma questa cosa che puzza, vomita, rutta, scorreggia, defeca, genera muco, che si rotola nel fango, quelle budella che cadono a terra, quelle interiora lunghe come serpenti, quell’ammasso di organi sei tu”. Hieronymus Bosch e Brueghel Il Vecchio le coincidenze pittoriche lampanti e inconsapevoli (Svetlana Karmalita ha negato che l’impostazione visiva degli esterni e dei claustrofobici sovrabbondanti interni sia stata direttamente mossa da simile intento riproduttivo pittorico).

Coincidenza dell’arte che richiama a sé altra arte, le inevitabili similitudini di occhio che immediatamente riproducono tale doppio, pittorico e umano. La visione richiede sforzi di attenzione ‘estremi’ per chi è abituato ad un cinema medio. Srotola-procede al più sollecitando-estremizzando dettagli fisici, di materia, di oggetti, senza filtri nel disgusto-orrore tracciato con un rigore di verità assoluto. Ci si perde, confonde nel legare i vari frammenti sbattuti davanti, nel tenere sotto controllo la labile traccia narrativa segnata, storditi soprattutto da un moto visivo perpetuo, caleidoscopio, che riproduce l’essenza dell’umanità che siamo. Ogni generazione è consapevole che è fatica sprecata cercare di lottare per creare una umanità migliore, ma allo stesso tempo non può esimersi da farlo. Questo il leitmotiv che pare sussurrarci Aleksej German… Il senso ultimo del suo lascito finale riposa con lui: “Quando al potere ci sono i grigi, prima o poi arrivano i neri”. Non verrà mai estinta la ferocia, la forza… Pur quando ad avere la meglio saranno i deboli in rivolta, emergerà tra loro sempre un forte a prevaricarli… in un ciclo senza fine. Primo premio alla carriera postumo in Europa (consegnato alla compagna di German e a suo figlio Aleksej A. German), voluto da Marco Müller nell’omaggio ad un vero creatore artistico, la cui cinematografia contrastata nella realizzazione e nella diffusione, è una luce sull’uomo che all’uomo stesso non conviene spegnere né dimenticare.


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BORDER Alessio Cremonini

2013

: Italia

: DRAMMATICO

: 95’

Verso la pace di Valentina Calabrese In anteprima mondiale al Festival di Toronto e oggi presentato al Festival Internazionale del film di Roma, Border di Alessio Cremonini è un piccolo ma grande film totalmente diverso da quelli solitamente diretti e prodotti in Italia. La stessa storia produttiva si può definire estranea al nostro cinema: un giovane produttore italiano Francesco Melzi d’Eril, dopo aver conosciuto le intenzioni del regista esordiente Cremonini, non ha esitato, buttandosi a capofitto in questo progetto, coinvolgendo un gruppo di eterogenei associati, Ilaria Bernardini, Victoria Cabello e Leopoldo Zambeletti, i quali hanno offerto le proprie risorse a favore del film. Ottime le intenzioni, ma ottimo anche il risultato. Border nonostante sia una piccola produzione riesce ad arrivare laddove altri film, ben più grandi, non arrivano. La storia s’ispira alla realtà; due sorelle, Aya e Fatima sono costrette a lasciare la loro città, Baniyas, perchè il marito di Fatima ha deciso di abbandonare l’esercito e di unirsi all’Esercito Siriano Libero. Le due donne ora devono dunque lasciare la loro abitazione e spingersi oltre il confine, in Turchia, per non rischiare l’arresto. Un uomo è pagato per accompagnarle, ma il tragitto non è privo di ostacoli. Uno dei più grandi è portato dal nuovo compagno di viaggio, Bilal, un giovane dal passato misterioso. Nel corso del viaggio, tutto sarà messo in discussione, cammineranno attraverso la guerra per raggiungere la pace e i vari confini, della religione, della vita e della libertà saranno oltrepassati. Bravo il regista, e brava la co-sceneggiatrice, la giornalista Susan Dabbous per aver raccontato questa storia, e averlo fatto con sobrietà e rispetto. Perfetti poi gli attori,

Wasim Abo Azan, Sara El Debuch e Dana Keilani, nonostante siano non professionisti. Hanno, infatti, loro stessi in prima persona vissuto – e stanno vivendo – quelle emozioni. La guerra appartiene al loro Paese, a quello in cui sono nati, e ne sono consapevoli tanto da diventare la voce dei loro fratelli in Siria. Grazie a loro parlano i rifugiati, i disertori, le donne e i bambini e sempre grazie alla loro purezza; Border è di fatto una testimonianza solida e apolitica di un conflitto ancora oggi inconcluso.


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L'ULTIMA RUOTA DEL CARRO Giovanni Veronesi

2013

: Italia

: Commedia

: 113’


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La forza dell'onestà di Vittorio Zenardi

L’ottava edizione del Festival internazionale del Film di Roma ha aperto i battenti con una commedia di Giovanni Veronesi: L’ultima ruota del carro. Il Film tratta della vera storia di Ernesto Fioretti, autista di produzione romano poco più che sessantenne, divenuto amico del regista toscano nel corso degli anni. In conferenza stampa Veronesi ha parlato della genesi del film: “Tutto è nato quando un giorno, mentre uscivamo da un Autogrill, reduci da un pranzo non esaltante, Ernesto mi ha detto: «abbiamo mangiato peggio di quando facevo il cuoco d’asilo» E io « in che senso? Raccontami….”. Da questo suo racconto personale, che attraversa quasi quarant’anni di storia italiana, dall’omicidio di Aldo Moro, passando per Tangentopoli fino alla discesa in campo di Berlusconi, il regista ha estrapolato la sceneggiatura. Nel film, Ernesto, ribattezzato Ernesto Marchetti è interpretato da Elio Germano, che ha fatto suo il personaggio, trasportandolo nello schermo con intensità e bravura. L’ultima ruota del carro è una commedia corale che parte tra la fine degli anni’60 e l’inizio dei ‘70 quando Ernesto lavora come tappezziere a Roma insieme a suo padre (Massimo Wertmuller). S’innamora di Angela (Alessandra Mastronardi) una donna che sarà sempre al suo fianco con dedizione e lealtà ammirevoli. In preda all’esaltazione per la vittoria dell’Italia al mondiale di calcio dell’82, Ernesto decide di abbandonare il posto fisso come

cuoco in un asilo, (avuto grazie ad una raccomandazione), per creare una ditta di trasporti, riappropriandosi della sua vita e coinvolgendo il suo migliore amico, Giacinto (Ricky Memphis). Questa sua nuova professione gli dà l’opportunità di conoscere gente nuova, fra cui il Maestro, un pittore di fama internazionale, (Alessandro Haber, perfetto nel ruolo dell’arista borderline), personaggio tipicamente rappresentativo degli anni’80-90, con quella sorta di maledizione addosso che portavano gli artisti della Scuola romana. Con lui nasce un rapporto “speciale”, all’insegna della fiducia reciproca: Ernesto diventa il suo trasportatore ufficiale, ed entra nelle case più belle del Paese incontrando una moltitudine di persone a cui non sarebbe mai approdato nella sua vita di quartiere. Le opere che vediamo nel film sono del grande Mimmo Paladino esponente di spicco della Transavanguardia, che si è prestato, tra l’altro senza compenso alcuno, a fornire una consulenza per rendere ancora più reale il personaggio interpretato da Haber e prestando alcune sue creazioni per la scenografia. A tal proposito Haber ha spiegato: “Paladino mi ha insegnato le regole fondamentali per tenere adeguatamente il pennello in mano e il modo in cui ci si deve porre davanti ad una tela, e mi ha trasmesso sempre molta sicurezza: tutte le volte che abbiamo girato una sequenza che rivelava l’estro creativo del personaggio mi sono sentito più che protetto, allo stesso modo di come


L'ULTIMA RUOTA DEL CARRO

il Maestro protegge Ernesto e gli diventa amico”. L’opera pittorica “Gli uomini neri” che vediamo nella sequenza del primo incontro fra Ernesto e il Maestro é stata creata appositamente per il film. Veronesi porta in scena la storia recente del nostro Paese, osservandola con gli occhi del protagonista. La usa come cornice e sfondo della vita di un uomo comune, di una persona “normale”. Ernesto anche quando si troverà immischiato, suo malgrado, in una truffa, sempre in voga, di fatture gonfiate e protagonista di un caso di malasanità, riuscirà a uscirne indenne con la forza della sua onestà e semplicità. Un tributo che il regista vuole dare alla maggior parte del popolo italiano che paga le tasse anche per chi non ci pensa proprio. “Al mi babbo che ha sempre pagato le tasse anche a costo di grossi sacrifici, avrebbero dovuto dargli una medaglia. Ecco, il film che ho fatto è la mia medaglia per Ernesto”. Dice il regista nel suo dialetto toscano. Da segnalare un esilarante Sergio Rubini nei panni del tipico politico socialista senza scrupoli dell’epoca, opportunista e cinico e la bella colonna sonora interamente curata da Elisa, che impreziosisce il film. Una buona commedia, calibrata con il giusto equilibrio, dove a scene comiche si alternano momenti di forte intensità drammatica. Un tentativo riuscito di Veronesi di uscire dalla catena di montaggio dei vari “Manuale d’amore” per battere nuove strade.


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IL CARATTERE ITALIANO Angelo Bozzolini

2013

: Italia

: Documentario

: 100’

Omaggio alla musica di Valentina Calabrese Tra le sorprese dell’ottava edizione del Festival del cinema di Roma c’è un bel documentario presentato Fuori Concorso e dedicato a una delle orchestre più blasonate d’Italia e nella top ten delle migliori orchestre al mondo: l’orchestra nazionale di Santa Cecilia. Il documentario, diretto da Angelo Bozzolini è un omaggio alla musica, alla tradizione italiana che ha determinato, e determina ancora oggi, il nostro carattere. Non a caso il titolo di quest’opera è Il Carattere Italiano. L’ispirazione è nata da un’intervista che Antonio Pappano, il direttore musicale dell’orchestra, ha rilasciato al giornale inglese The Observer. In questa occasione Pappano fa riferimento a Rossini, colui che, con la sua eleganza e il suo modo di fare musica, incarna l’ideale del carattere italiano. Da qui nasce questa straordinaria avventura che porta Bozzolini a raccontare il dietro le quinte di un concerto di orchestra. Giorno dopo giorno segue l’orchestra di Santa Cecilia in prova, dal primo incontro con il direttore all’esecuzione ufficiale. Racconta in immagini il suono e mostra l’umanità che si nasconde dietro gli strumenti, regalando agli spettatori una testimonianza di un mondo misterioso e affascinante come quello dell’orchestra. Ma non si ferma qui, attraverso le interviste, i racconti di questi membri, si riesce infatti, ad individuare una nota comune che definisce qual è il carattere italiano, mostrando l’orchestra come simbolo di unità nazionale. Dedizione, istinto e passione sono le parole chiave per definire questi splendidi individui. La passione che il musicista mette Prodotto da Alpenway Media Production nell’interpretare e nell’abbracciare la partitura nel suo insieme, è la particolarità che li GmbH, Il carattere italiano, sarà in onda su Rai3 verso dicembre. contraddistingue.


ROMEO AND JULIET Carlo Carlei

2013

: Svizzera, Gran Bretagna, Italia

: Drammatico

: 118’


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Mercuzio dove sei? di Giovanna Ferrigno

Si riconosce un grande scrittore, nell’istante in cui prendiamo una sua Opera e ci rendiamo conto, pagina dopo pagina, che sta parlando di noi in quel preciso momento storico, che sta descrivendo un’emozione che riconosciamo in maniera palpabile. Nella contemporaneità di un autore è racchiuso ogni suo singolo pregio – e caratteristica – che lo rende straordinario, unico ed immortale. Il più grande di tutti, colui che è riuscito a tramutare parole in storie e personaggi vivi e pulsanti è William Shakespeare. Niente di astratto. La sua penna, come una freccia che fa pieno centro nei più profondi sentimenti umani, ha offerto il grande privilegio all’uomo e, in seguito, all’attore di guardarsi dentro e smettere di fingere per Essere. Romeo e Giulietta rappresenta un punto altissimo nell’Opera di Shakespeare, pur essendo uno dei suoi primi lavori, e cela infiniti significati che apparentemente non saltano all’occhio data l’ampia popolarità del lato romantico della storia. Basta leggerla e studiarla anche per una sola volta, abbandonando pregiudizi e superficialità, per arrendersi alla sua bellezza e universalità. Fin dall’inizio di ciò che potrebbe presentarsi ai nostri occhi come una commedia romantica, si scorgono presagi di tragedia. E sta a noi cercare quei simboli, osservare i personaggi muoversi e ascoltarli mentre ci parlano, arrivando ad usare persino quell’approccio che si dovrebbe avere con i testi sacri. Per tutti questi motivi e oltre, questa tragedia è stata fonte di ispirazione per moltissimi altri artisti nel corso dei secoli: per Gounod ,Bellini, Zandonai nella lirica e per Prokof’ev nel balletto, per passare agli altrettanti molteplici adattamenti teatrali (ricordiamo quello del 1976 di Carmelo Bene)

e a quelli cinematografici. Tra questi ultimi, consideriamo il capolavoro di Franco Zeffirelli del 1968 e la geniale versione surreale di Baz Luhrmann del ’96. Carlo Carlei si colloca oggi, nel 2013, con il suo Romeo and Juliet in un periodo storico cruciale. La verità è che, l’intenzione di riproporre questo classico del teatro shakespeariano al pubblico “nuovo”, con la sua potenza e secolare giovinezza, è un toccasana per le menti di oggi obnubilate dal grigiore della quotidianità e dall’apatia dell’umanità stessa. Con particolare riferimento ai giovani che, se nella Verona del 1300 erano pronti a combattere per difendere un ideale e un amore con spade e baci rubati sfidando anche le stelle, adesso sono fermi di fronte a un computer e sono totalmente disillusi e maleducati verso qualsiasi forma d’arte e di rapporto umano. Giulietta e Romeo avevano/hanno rispettivamente circa 15 e 16 anni e possono insegnarci di più loro che vivono, muoiono e vivono ancora grazie a chi li ha creati da semplice inchiostro nero, che i vecchi dei nostri tempi che sono più bugiardi e incostanti della luna (come direbbe la giovane Capuleti). Affermato con vigore questo aspetto, si entra nel vivo dell’operazione e nella messa in discussione della bontà della sua realizzazione. Carlei, avvalso della collaborazione dello sceneggiatore Julian Fellowes, della maestosità delle scenografie e dei costumi (un plauso, sicuramente, a questa ricerca estetica dei particolari dell’epoca e delle location), della presenza di due attori eccellenti quali Paul Giamatti e Damien Lewis (protagonista della serie tv Homeland, qui nelle vesti di Lord Capuleti al fianco di Lady Capuleti - Laura Morante), fallisce proprio nel puro contenuto,


ROMEO AND JULIET

ovvero fallisce in pieno trascinandosi nell’abisso anche quei pochi elementi tecnici ricercati e riusciti che potevano schierarsi a suo favore. L’Opera perde completamente la sua verve e il suo significato: alcuni fondamentali passaggi, sia dal punto di vista della scrittura che da quello recitativo e registico, vengono inspiegabilmente ignorati, saltati,

negati. Potrei iniziare ad elencarli, ma la lista sarebbe troppo lunga. Il più grave di tutti è la grande assenza di uno dei personaggi più belli (se non il più…) mai scritto nella storia del teatro e della letteratura: Mercuzio. Questo ruolo risulta praticamente assente o comunque insufficiente e quasi ridotto a una comparsa. Il monologo de La Regina Mab ri-


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dotto a un paio di frasi interpretate sciattamente e la scena della morte impoverita ai limiti della sopportazione. Per capire di cosa sto parlando, oltre a prendere in mano il libro, basta ammirare la versione fedelissima di Zeffirelli piangendo e ridendo nel guardare l’immenso John McEnery recitare questo ruolo Harold mitico (non da meno Perinnau nel Romeo + Giulietta di Luhrmann). Far passare, inoltre, Romeo (Douglas Booth) per un bel ragazzino femmineo dallo sguardo inebetito non è il messaggio giusto da trasmettere. Egli è sicuramente l’opposto: vivace, focoso, coraggioso…tutte caratteristiche dell’essere giovani e innamorati. Perché essere innamorati, a maggior ragione nel contesto di una storia così potente, non significa essere smarriti e imbambolati. E non si può neanche rimproverare gli attori che, possono essere sì acerbi, ma comunque malleabili sotto la guida di un bravo regista. A sollevare il livello del film con grandi mani e grande professionalità e umanità è Paul Giamatti nel ruolo di Frate Lorenzo, che sembra essere l’unico attore del cast a onorare la memoria di Shakespeare donando al suo personaggio le giuste sfumature e trattandolo con rispetto. La performance di Giulietta, invece, con il volto candido della diciassettenne Hailee Steinfeld (vista ne Il Grinta dei Coen) convince di più, nonostante rimanga sempre un po’ freddina e, quindi, non corrispondente alla personalità originale del carattere e defraudata di alcuni importanti cambiamenti di emotivo che contraddistinguono la crescita del personaggio nell’incedere vorticoso del dramma. Visivamente suggestiva la celebre scena del balcone, ma ci si arriva troppo in fretta e non si sente quella giusta tensione dovuta al pericolo che i due ragazzi stanno correndo nel vivere quel fugace incontro segreto. Il finale ci regala un bel momento di ci-

nema (anche se infedele…originariamente, infatti, Giulietta non rivedrà mai più vivo il suo Romeo, mentre qui si scambiano addirittura qualche parola poco prima della morte di lui) incorniciando un’incantevole immagine dei due amanti che giacciono l’uno sull’altro. Altra oppressiva pecca è l’invadente colonna sonora: non si può sopperire al vuoto dei contenuti (ovviamente dei contenuti che si è voluto scarnificare…) con una sovrabbondanza di musica. È una scelta da principianti e molto fastidiosa per lo spettatore che non gode neanche di un secondo di silenzio o di autentica recitazione. E, ancora una volta, affido la responsabilità alla regia e non al compositore in questione (James Horner) che si è sempre rivelato un bravissimo musicista. È il ritmo a peccare, il senso. Non per essere ripetitivi, ma ancora una volta il fedele Zeffirelli collaborava, per le musiche del suo film, con il maestro Nino Rota…le cui note leggere e travolgenti, colme di tristezza e poesia che accompagnavano la visione perfetta di quello che la nostra immaginazione ci aveva sempre suggerito, ancora riecheggiano nella nostra mente come il suono di un bellissimo ricordo. Romeo and Juliet di Carlei, probabilmente piacerà a un pubblico meno attento e maturo, perlopiù femminile (a causa dei giovani attori bellocci del cast) che spero si appassioni più da vicino all’essenza delle vicende e approfondisca in più direzioni, cogliendone gli insegnamenti e continuando ad affrontare i sogni e le battaglie della vita a testa alta.

«Si corre verso l’amore come gli scolari scappano dai libri, ma andare via dall’amore è come tornare a scuola…».


LA SANTA Cosimo Alemà

2013

: Italia

: Thriller

: 90’


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Un tentativo di furto di Luca Biscontini

Per parlare del film in questione, La santa di Cosimo Alemà, bisogna partire da due tipi di ragionamento: il primo è squisitamente critico, nel senso che si limita a valutare la bontà dell’opera, e il secondo è politico, cioè si approccia al film da una prospettiva produttiva, all’interno della quale i parametri di riferimento cambiano. Partiamo per ordine: dal primo punto di vista, diciamo subito che il film non è riuscito. E per tanti motivi. Prima di tutto l’insufficienza della prova degli attori, tutti assolutamente mediocri, quasi dilettanteschi. Poi la sceneggiatura davvero debole, sia per i dialoghi inconsistenti, sia per la storia che non riesce mai ad appassionare davvero (molte scene, tra l’altro, sono fonte di umorismo involontario). Tutto ruota intorno al tentativo di rubare la statua di una santa all’interno di una chiesa, poiché l’oggetto pare essere di gran valore. Per tale motivo le vicende di un quartetto di ragazzi s’incrociano con quelle di due donne, anch’esse interessate a realizzare il furto. Una volta portato a termine il colpo il paese si trasforma in una fortezza dalla quale non è più possibile uscire, poiché i cittadini si sono trasformati in violenti tutori dell’ordine pronti a sparare a vista. E non mi si venga a dire – come il regista ha provato a fare in conferenza stampa – che la vicenda pone una riflessione sul ruolo della comunità, dato che nel film la deriva militare è funzionale solo a dare il via alla tipica caccia all’uomo. Certo, poi si nota lo sforzo di mettere in scena una commistione di generi rivolgen-

dosi ad un pubblico specifico, ma ciò, almeno secondo chi scrive, non è sufficiente. A questo punto, possiamo spostarci al punto di vista produttivo. Come emerso dalla conferenza stampa, c’era proprio, per questo film, la volontà di costruire un prodotto di genere per tentare di rilanciare un certo tipo di cinema spendibile non solo in patria ma anche all’estero. Da questa prospettiva è più difficile esprimere un giudizio netto perché le considerazioni da fare sono di altra natura. Pur non essendo competente dell’argomento – tanti colleghi lo sono più di me -, l’esperienza personale mi spinge a fare una piccola riflessione: spesso mi è capitato di appassionarmi a film italiani di genere degli anni settanta che, seppur non particolarmente riusciti, esercitano il fascino dell’artigianalità, e, in quest’ottica, anche le debolezze diventano, in un certo senso, dei punti di forza. Questo tipo di valutazione però nasce da un processo di storicizzazione per cui quei film diventano documento non solo della realtà che raccontano, ma soprattutto di un certo modo di fare cinema. Insomma, può darsi che nel tempo anche il film di Cosimo Alemà possa piacere….ma ragionando in questo modo tutto diviene lecito. Probabilmente l’unica spia che permette di capire in tempi ragionevoli la bontà di un’operazione politico-‘culturale’ sono gli incassi. Staremo a vedere quindi se questo film saprà conquistarsi una fetta di mercato. Rimane inalterato il giudizio critico.


METEGOL 3D Juan José Campanella

2013

: Argentina

: Animazione

: 106’


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Dall'Argentina con cuore di Francesca Vantaggiato

Con un nome come quello di Juan José Campanella nella cabina di comando è impossibile non lasciarsi tentare da una visione al cinema, sebbene questa volta si tratti di una trama leggera rispetto alle consuetudini del regista argentino e del primo esperimento d’animazione 3D. Metegol 3D – Goool! il titolo italiano, racconta in un lungo flashback l’avventura di Amedeo, un timido bambino abile nel calcio balilla impegnato a salvare la sua gente dalle angherie del bullo del paese, aiutato nell’impresa dagli straordinari mini-giocatori del suo vecchio tavolo da gioco. Il candidato all’Oscar al Miglior Film Straniero nel 2002 con Il figlio della sposa e finalmente vincitore nel 2010 con l’indimenticabile Il segreto dei suoi occhi si cimenta in una storia calcistica per dirci che la vittoria non è data dai soldi, dal successo e dal potere bensì dall’onestà, dalla passione, dall’unione. Lo sport, in questo caso il calcio ovvero lo sport più popolare al mondo, si presta perfettamente alla causa, facendosi metafora del ‘sacrificio’ alla squadra del singolo per il trionfo di bene comune. Il film si apre con un omaggio al cinema: un gruppo di ominidi gioca con un mucchio di ossa finché non scopre che il teschio può diventare una palla da gioco (un saluto rivisitato a 2001: Odissea nello spazio). Se con Kubrick gli ominidi avevano imparato ad

usare rudimentali tecniche di caccia per adattarsi al territorio e sopravvivere, con Campanella vengono iniziati al gioco, fatto di lealtà, amicizia, cuore, collaborazione e (sana) competizione. Amadeo ora è padre e sente di dover raccontare al figlio la sua storia. Da bambino, seppur timido e spaurito, era imbattibile nel campo da gioco…del calcio balilla. Un giorno infligge una sconfitta insopportabile al bulletto del paese, forte col pallone e non abituato a perdere. Star del calcio, torna anni dopo nell’odiato paese assetato di vendetta e pronto a trasformare la città nel suo parco giochi. Amadeo, con il supporto dei personalizzati giocatori che nel frattempo si sono animati, mette su un’improbabile squadra per sfidarlo in un vero incontro di calcio dove in ballo c’è la sorte della città natale. La storia è semplice e la metafora facile, eppure Metegol 3D riesce nel messaggio e non trascura neanche per un attimo la dimensione ludica, continuamente rinvigorita dall’animo goliardico, narcisistico, mistico di Capii e della sua ciurma. L’animazione non è stellare – come non lo è il budget – e il 3D non è assolutamente indispensabile, eppure Metegol 3D ha un cuore che pulsa forte, divertimento da vendere e un’avvincente storia di grande coraggio da raccontare.


Nascita, morte e miracoli del cinema di genere italiano di Anna Quaranta

Dopo la proiezione di venerdì scorso al MAXXI, con gran successo e partecipazione del pubblico, Maurizio Tedesco al Parco della Musica presenta il film-documentario co-diretto con Steve Della Casa; Tedesco ci tiene a sottolineare che I Tarantiniani è prima di tutto un atto di affetto nei confronti del cinema “di genere”, dallo Spaghetti Western al poliziesco all’horror, che portò soldi e successo al nostro cinema, tra gli anni Sessanta e Settanta. “Tarantiniani” è l’aggettivo attribuito al folto gruppo di registi attori e produttori di quel cinema, dopo la dichiarazione d’amore che il regista statunitense Quentin Tarantino ha rivolto al cinema di “serie B”, da cui ha estrapolato storie personaggi e linguaggio, per poi manipolarli e (ri)creare in tutta la sua opera: Enzo G, Castellari, Tomas Milian, Sergio Leone, Barbara Bouchet, Edwige Fenech, Mario Caiano, Ruggero Deodato, Franco Nero, Fabio Testi, Giuliano Gemma, Riccardo Freda (la lista è lunga!) sono soltanto alcuni degli artisti coinvolti inconsapevolmente in una vera e propria rivoluzione nel cinema di quegli anni; questo documentario è il racconto corale di quelle storie, reso ancora più divertente ed esilarante dalle battute di Enzo G. Castellari, e dall’accento metà romano e metà ispanofono di Tomas Milian. In principio era un film di samurai di Akira Kurosawa che Sergio Leone vide e ne trasse l’ispirazione per raccontare quel tipo di storia in patria; nacque così Per un pugno di dollari, (firmato con lo pseudonimo tutto americano di Bob Robertson); alcune immagini di repertorio di Sergio Leone ce lo ricordano mentre racconta di quanto si fosse ispirato anche ad Omero, i cui personaggi sembrano dei veri e propri archetipi del cow-boy. Al film viene riconosciuta una grandezza dovuta non soltanto al fascino di Clint Eastwood, ma anche ai tempi “rallentati” che Leone impose durante le riprese, in assoluta contraddizione con il resto del cinema di

quei tempi che iniziava a velocizzarsi. È l’inizio del genere che la critica appellò in maniera dispregiativa come “Spaghetti Western”; seguirono Per qualche dollaro in più e Il buono, il brutto e il cattivo e Le pistole non si discutono, di Mario Caiani (presente in sala) prodotto in contemporanea con “Per un pugno di dollari”; Sergio Corbucci gira cinque Western prima di dirigere Django e ne affida il ruolo da protagonista a Franco Nero, che aveva già all’attivo collaborazioni con Elio Petri e Luis Buñuel, rivelandosi un attore poliedrico e versatile. L’avvento del Western consente agli aiuto-registi più bravi di cimentarsi in prima persona dietro la macchina da presa; ma il ruolo fondamentale nel film di genere resta senza dubbio quello dell’attore: Franco Nero, Fabio Testi, Giuliano Gemma, George Hilton e Tomas Milian. Nella prima metà degli anni Settanta il genere Western iniziò a morire; ma il bisogno di violenza del pubblico, necessaria per scaricarsi dalla realtà dura e violenta che si iniziava a respirare in Italia, portò alla nascita del genere “poliziesco”, ribattezzato dalla critica “poliziottesco”: l’eroe buono non è più il cow-boy ma il poliziotto; cambiano i luoghi, le scene si girano, un po’ incoscientemente, per strada, nel traffico di città come Roma e Milano. Come era accaduto per lo Spaghetti Western, anche il “poliziottesco” è un cinema di consumo, fatto per fare soldi, come dichiara Riccardo Freda in un intervista dell’epoca; ma quello che caratterizza il cinema di “genere”, considerando anche gli horror di Mario Bava e di suo figlio Lamberto, dello stesso Freda è la grande qualità del lavoro svolto dai professionisti per la creazione degli effetti speciali, non ancora supportati dalla tecnologia digitale. (Carlo Rambaldi, che diventerà il creatore di E.T.,collaborò proprio con Freda per gli effetti speciali del film horror Estratto dagli Archivi Segreti della polizia di una capitale europea).


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I TARANTINIANI Maurizio Tedesco e Steve Della Casa

2013

Il genere horror italiano, caratterizzato da cattiveria sangue sadismo (e almeno una doccia di una delle protagoniste) è un “cinema spettacolare, dove gli effetti sono quelli della violenza ma non c’ha nell’animo la violenza”, come sostiene il regista Marcello Avallone; un grande apporto all’horror è senza dubbio quello di Dario Argento che dopo il suo primo film L’Uccello dalle piume di cristallo svilupperà uno stile personale, fonte inesauribile di ispirazione per molti cineasti internazionali, Tarantino compreso (dopo l’uscita del primo film Alfred Hitchcock dichiarò “quell’italiano inizia a preoccuparmi”).

: Italia

: Documentario

I Tarantiniani ci regala una ricca ed intensa ora di interviste,“dietro-le-quinte”, aneddoti curiosi (come “mungere” i serpenti, affinchè fossero privati del veleno e resi innocui per girare alcune scene in Cannibal Holocaust di Ruggero Deodato) e di analisi semi-serie sulla storia sociale e culturale degli anni in cui il film di genere si diffuse nel nostro Paese; e prova ad indagare sulle cause che lo hanno ammazzato. Qualcuno sostiene che è stato il cinema di “qualità”. Oppure la televisione. O i comici. O la mancanza di investimenti nella tecnologia digitale. O tutte insieme. O forse il fatto che sia stato sottovalutato per troppo tempo in Patria?

: 59’


L'ODIO È IL MIO DIO Claudio Gora

1968

: Italia/Germania Ovest

: Western

: 110’


La lezione dello Spaghetti Western

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di Anna Quaranta

La proiezione del film/documentario I Tarantiniani, di Maurizio Tedesco e Steve Della Casa, omaggio all’epopea dei B-movies italiani, è seguita da un film poco conosciuto appartenente al genere Spaghetti Western. L’odio è il mio dio, scritto a sei mani da Piero Anchisi, Claudio Gora, anche regista del film, e Vincenzo Cerami, già aiuto regista di Pier Paolo Pasolini in Uccellaci e uccellini del 1966. La storia è ambientata in una città di frontiera del Colorado, Big Springs, dove i signorotti locali fanno impiccare un giovane contadino, Stephen Kernay accusandolo ingiustamente di omicidio, per appropriarsi della sua terra. Il fratello di Stephen, Vincent, che da bambino aveva assistito con un misto di lacrime e rabbia all’impiccagione del fratello, giura vendetta. Il bambino che interpreta il piccolo Vincent è Giusva Fioravanti (che da grande iniziò la militanza politica e abbracciò la lotta armata). Dopo otto anni Vincent (interpretato da Carlo Giordana) torna a Big Springs per fare giustizia: uccide il giudice che aveva condannato il fratello a morte e il proprietario terriero che si era impossessato della terra di Stephen; con l’aiuto del Nero (Tony Kendall, pseudonimo di Luciano Stella) un personaggio misterioso, dal passato ombroso e di sofferenze. Vincent riesce a fare fuori anche il boia e il banchiere, che ha chiesto aiuto a Sweatly, un feroce pistolero che rivela di avere qualche conto in sospeso con il Nero. Il film è la lenta ricostruzione degli accadimenti che hanno riportato Vincent in paese; il racconto è affidato a più voci, un articolo del giornale dell’epoca (la cui versione dei

fatti è chiaramente dalla parte dei maggiorenti del paese), i ricordi di Vincent e i racconti di una prostituta pentita, che si redime e cerca di aiutare Vincent e il Nero a portare a termine la vendetta; l’ultima mezzora è un susseguirsi di sparatorie che rimbombano nella cittadina deserta e spaventata, dove tutti hanno sempre saputo – e nel proprio piccolo ne hanno beneficiato – delle malefatte del giudice, del banchiere e del proprietario terriero. La colonna sonora è affidata al giovane Pippo Franco, che interpreta un menestrello “armato” di chitarra e ironia con cui intona le sue ballate “L’America crede di sapere tutta la verità/ però la verità la sa solamente la mia chitarra/ Il bagno lo fa solo chi deve scrollarsi di dosso/il sudore delle infamie il puzzo dell’oro e il tanfo del potere”. Nonostante la trama sia piuttosto semplice e più o meno in linea con i canoni del western all’italiana – c’è un (anti)-eroe che vuole fare giustizia e ripulire la città, restituendo l’onore al fratello accusato di omicidio anni prima – il film abbozza, seppure timidamente, alcune storture ancora attuali: la connivenza della stampa con il potere, la parzialità della giustizia, l’avidità e l’egoismo generati dalla voglia di accumulare sempre più soldi e potere; c’è da augurarsi che prima o poi si avveri la scena finale del film. Vincent e il Nero cercano di uccidere il banchiere, l’ultimo rimasto e il più duro a morire, che resterà trafitto dalla ringhiera appuntita che circonda il palazzo dove ha sede la sua banca. Forse più che Quentin Tarantino questa scena potrebbe aver ispirato Oliver Stone.


WHO IS DAYANI CRISTAL? Marc Silver

2013

: Gran Bretagna, Messico

: Documenatario

: 84’


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L'uomo senza nome di Francesca Vantaggiato

Tra finzione e documentario Marc Silver mette in scena insieme a Gabriel Garcia Bernal la storia di un uomo partito dal Messico per inseguire il sogno americano rimanendo intrappolato per sempre nel deserto di Sonora. Ignota è la sua identità, il tatuaggio sul petto con su scritto Dayani Cristal è l’unico indizio a cui aggrapparsi per ricostruire una storia di speranza finita nella cronaca nera. Il Dayani Cristal della storia è uno dei tanti ‘invisibili’, uomini, donne e bambini in viaggio dal Messico per oltrepassare clandestinamente la frontiera con l’America del Nord nella forma del lunghissimo muro che separa il Messico dagli Usa, superato il quale vi è solo deserto. È Alice nella Città, la sezione dedicata ai piccini, ad accogliere il dramma giocato tra storia personale, tragedia collettiva e assurdità del pensiero umano nel cui nome razze, etnie, religioni si riconciliano. Sulla East Side Gallery di Berlino, qualche tempo fa, una mostra fotografica sui muri nel mondo – segno tangibile della follia umana senza confini – si estendeva lungo quel che rimane del muro berlinese a testimonianza dell’assurdità di ieri e di oggi nella convivenza. Ricordo le immagini della frontiera tra Messico e Usa, un serpente lunghissimo fatto di pali metallici attraverso cui si riesce a vedere l’altro mondo, eretto in un paesaggio desolante come desolante è la ragione protettiva che ne ha determinato l’esistenza. Silver e Bernal ripercorrono a ritroso i passi dell’uomo senza nome per arrivare a capo dell’enigma solo alla fine di un lungo viaggio. Bernal è ‘l’uomo senza nome’ nella parte finzionale della ricostruzione del viag-

gio mortifero attraverso il deserto maledetto arso dal sole, famoso per la crudeltà con cui miete le sue vittime, migliaia di pellegrini clandestini. Il documentario si apre e si chiude in un percorso circolare alla fine del quale non siamo più gli stessi, ripetendo la stessa preghiera che recita così: “Perché partire è un po’ come morire”, massima che racchiude la condizione metaforica o meno di quanti si lasciano alle spalle la propria terra per cercare una sorte migliore e nel cammino perdono una parte di sé, delle proprie radici, se non addirittura la vita, come nel caso dei migranti. Silver ricostruisce gli ultimi momenti della vita del migrante/Bernal, procedendo al di là del muro, nella contea di Pima, in Arizona, dove la burocrazia muove i suoi passi per dare all’uomo senza identità un nome e una storia. Nella risoluzione del caso, Bernal e Silver si affidano a testimonianze istituzionali e di famigliari per tratteggiare un ritratto intimo e personale ben inserito in un contesto socioeconomico e politico generale lucidamente criticato. In lacrime, i parenti della vittima non comprendono le ragioni di un investimento sempre più cospicuo nel muro, oggetto divisorio fisico e politico la cui violazione causa vittime costanti, invece di occuparsi degli esseri umani. Ed ecco che il caso singolo, piccolo, privato, diventa il mezzo per denunciare senza sensazionalismi una pratica politica di respiro più ampio. Who is Dayani Cristal? insiste nel ridare all’uomo con il tatuaggio un’identità per ricordarci che dietro ai numeri (delle vittime) si dispiegano storie e lacrime di disperazione per la perdita.


L'AMMINISTRATORE Vincenzo Marra

2013

: Italia

: Documentario

: 79’


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Viva i napoletani di Luca Biscontini

“Io sto scrivendo nei primi mesi del 1975; e, in questo periodo, benchè sia ormai un po’ di tempo che non vengo a Napoli, i napoletani rappresentano per me una categoria di persone che mi sono, appunto, in concreto, e, per di più, ideologicamente simpatici. Essi infatti in questi anni [….] non sono cambiati. Sono rimasti gli stessi napoletani di tutta la storia”. Così Pasolini in Lettere Luterane parlava dei napoletani come dell’ultimo baluardo contro la degenerazione antropologica degli italiani, che in quegli anni portava a compimento il suo corso, declamando la definitiva vittoria della civiltà dei consumi. Ora vedendo l’ultimo film di Vincenzo Marra, L’amministratore, si prova la medesima sensazione: che differenza c’è tra l’umanità mostrata, tra l’altro in un documentario, dal regista partenopeo e quella che Vittorio De Sica metteva in scena in Matrimonio all’italiana, ispirandosi alla Filumena Martorano di Eduardo? Questa è forse la inconsapevole ma gloriosa resistenza antropologica di un popolo che proprio non sembra voler rassegnarsi alla colonizzazione culturale che lo assedia. Le beghe condominiali che Umberto Montella deve in qualche modo dirimere diventano il pretesto per mostrare come i napoletani vivano all’interno di una cultura popolare ancora ‘antica’, arcaica, che li avvolge come una sacca amniotica, non lasciando infiltrare elementi inquinanti. La naturale teatralità partenopea riemerge in tutta la sua forza e le piccole diatribe forniscono personaggi e situazioni esilaranti a cui non possono non seguire le risate del pub-

blico in sala. Certo di problemi ce ne sono, e affiora anche la situazione di indigenza in cui versano alcune persone, “Ma cosa vuoi farci, preferisco la povertà dei napoletani al benessere della repubblica italiana, preferisco l’ignoranza dei napoletani alle scuole della repubblica italiana, preferisco le scenette sia pure un po’ naturalistiche alle scenette della televisione della repubblica italiana” (P.Pasolini, Lettere Luterane) Non è cambiato nulla, davvero, e per fortuna: la signora che protesta vivamente perché il proprio palazzo cade a pezzi, un’altra che è in lite furibonda con l’anziana signora dirimpettaia perché, secondo quest’ultima, paga un affitto troppo basso, una coppia non più giovane che aiuta l’amministratore riferendogli ciò che accade nel proprio condominio. Umberto Montella con il suo fare sornione ci conduce per mano in queste realtà che lungi, come molti hanno scritto, dal rappresentare la situazione del Paese, costituiscono, invece, l’ulteriore testimonianza dell’argine napoletano contro la società del benessere. E se è vero che la crisi economica che emerge dal racconto delle storie può essere estesa, per analogia, a quella che l’intero paese sta vivendo, sarebbe comunque un’operazione filologicamente scorretta accomunare, per altri versi, le due situazioni. Dunque, bravo Vincenzo Marra nella sua ricognizione umana e antropologica, ma soprattutto viva i napoletani e la loro ‘inoperosità’ resistente, quel non tradursi totalmente in atto della potenza che è l’unica maniera di contrapporsi al potere.


SONG’E NAPULE Manetti bros

2013

: Italia

: Poliziesco/Commedia

: 113’


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Umorismo e napoletanità di Luca Biscontini

Reduce dalla visione de L’amministratore di Vincenzo Marra, m’imbatto in questo Song’e Napule dei Manetti bros, e, quindi, il tema della napoletanità ritorna al centro dell’attenzione, ma, evidentemente, da una prospettiva diversa. Premetto di non conoscere il cinema precedente dei due fratelli romani, ma la sensazione è che mi troverò davanti a un’opera fresca, simpatica. E in effetti il film conferma questa aspettativa, mettendo in scena una storia malavitosa/ poliziottesca in cui s’innesta una buona dose di comicità, riproponendo quel filone anni settanta che tanto successo raccolse presso il pubblico. Bravi gli attori, soprattutto ‘il questore’ Carlo Buccirosso, esilarante nel ruolo di burocrate di stato, avvezzo ad assumere nuovo personale su segnalazione e raccomandazione di un famigerato ‘assessore’, e Paolo Sassanelli, ruvido e anch’esso comico, nel ruolo del commissario Cammarota, artefice del piano per far infiltrare il cadetto Paco Stillo/Pino Dinamite (Alessandro Roja) nella villa bunker del boss Scornaienco/Mazza di Ferro e fotografare l’uomo senza volto, detto o’ fantasma, interpretato da Peppe Servillo. Anche qui, in un certo senso, viene mo-

strata la napoletanità, ma quella ‘bastarda’, che ha fuso la cultura melodica tipica partenopea con il business discografico, e il sottoprodotto di questa operazione è il proliferare di una serie di cantanti da festa di paese e matrimoni: Lollo Love (Giampaolo Morelli) è “l’artista” con cui collabora Paco Stillo per penetrare al matrimonio della figlia del boss, e portare a termine la sua missione. Da segnalare la sequenza dell’inseguimento in auto, in cui, per l’occasione, viene tirata fuori una vera Alfa Romeo Giulia, per omaggiare il cinema di genere con un trionfale epilogo. Il successo cafone del cantante neomelodico Lollo Love mi ha ricordato un pò le atmosfere di Reality di Garrone, laddove il protagonista, Luciano, inseguiva il sogno, altrettanto cafone, di partecipare a un reality show per acquisire notorietà e ricchezza. È chiaro che nel film dei Manetti non c’è nessun tipo d’indagine, viene mostrata una realtà ormai radicata, tra l’altro con grandissima ironia, eppure anche se imbastardita la napoletanità fa sempre la differenza, e l’umorismo che si viene a creare è il sintomo di una specificità che nessuna colonizzazione può definitivamente estirpare.


THE DISCIPLE Ulrika Bengts

2013

: Finlandia

: Drammatico

: 93’


Alice nella Città premia una classica storia di formazione

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di Elisabetta Colla

La Giuria di Alice nella Città - sezione parallela ed autonoma del Festival Internazionale del Film di Roma dedicata a film per bambini ed adolescenti – composta da 25 ragazzi tra i 14 e i 18 anni, ha dimostrato grande maturità e competenza cinematografica nella scelta del vincitore della decima edizione: il premio come Miglior Film del Concorso Young/Adult è andato infatti a The Disciple, film finlandese della regista Ulrika Bengts, già selezionato dalla commissione nazionale a rappresentare la Finlandia agli Oscar, che racconta, in un’atmosfera quasi irreale, d’isolamento fisico e relazionale, la storia d’amicizia e rivalità di due teenager che vivono su una sperduta isola del Mar Baltico, nel 1939, alle prese con un uomo severissmo e violento, capitano di marina e guardiano del faro, padre di uno dei ragazzi. Sceneggiato da Jimmy Karlsson and Roland Fauser, il film colpisce per il suo stile sobrio nell’esposizione ma tagliente e sfaccettato nel tratteggiare la psicologia dei personaggi. Maniacalmente legato al suo lavoro nel faro, l’uomo costringe il figlio adolescente ed un altro ragazzino, inviato sull’isola dall’orfanotrofio come aiutante, ad obbedirlo in tutto e per tutto, pena terribili battiture con righelli e fruste. Principale motivo di attrito è lo studio ossessivo della matematica, necessaria per ottenere il diploma ed imbarcarsi su navi che solcheranno i mari, materia nella quale il figlio non brilla mentre il nuovo arrivato eccelle. Dunque il capitano, che ha perso in mare l’amatissimo figlio maggiore – in circostanze misteriose che si sveleranno nel corso della pellicola – e non si sente affatto consolato dall’attitudine ri-

belle del figlio minore, inizierà a riversare sul ragazzo orfano ogni sua attenzione, fino a regalargli la divisa del figlio morto, elevandolo a suo pupillo e naturale discepolo ed a deciderne l’adozione. Ma le cose non andranno secondo i suoi desideri, anche per l’intervento della moglie – una musicista cui è bandito l’uso del pianoforte e la possibilità di fare musica – donna rassegnata e connivente rispetto alle percosse sui figli, ma che interverrà al momento opportuno rivelando terribili ‘segreti di famiglia’. Giocato su elementi introspettivi sottili e ben delineati, lo script mostra come i due ragazzi, inizialmente amici ed uniti dalla gioia di non essere più soli, a poco a poco diventino rivali, perché entrambi aspiranti sia al diploma necessario per imbarcarsi ed iniziare la carriera in marina, sia soprattutto alla considerazione (sia pur morbosa e patologica) del padre-padrone. Un finale imprevisto segnerà la vita di tutti, per sempre, senza redenzione se non per i ragazzini. Del tutto condivisibile, quindi, la motivazione della giuria, che ha assegnato il premio: “per la sensibilità con la quale la regista ha affrontato le complesse dinamiche familiari e l’introspezione dei personaggi. Il film è capace di raccontare un ristretto lembo di terra, con pochi personaggi, una storia emozionante che non incontra barriere temporali. Interessante il capovolgimento dell’immagine del faro che, da baluardo di luce e salvezza per i viaggiatori, si trasforma in un luogo soffocante da cui fuggire. Straordinarie infine le interpretazioni dei personaggi tra cui spicca per intensità la figura del padre”.


YOUNG DETECTIVE DEE: RISE OF THE SEA DRAGON 3D Tsui Hark

2013

: Cina

: Azione, Poliziesco

: 134’


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L’antesignano orientale di Sherlock Holmes schiacciato dentro un colossal ed un 3D visivamente anonimi di Maria Cera

Il Maverick director, riconoscimento che il Festival dedica ai maestri che hanno contribuito ad innovare nel cinema, quest’anno è toccato a Tsui Hark, regista, produttore e sceneggiatore che ha guidato la rivoluzione del cinema di Hong Kong a partire dalla fine degli anni Settanta. Tsui Hark (premiato dal regista Olivier Assayas, che è stato anche critico cinematografico, e tra i primi a diffondere la conoscenza di registi come Tsui Hark curando un numero speciale dei Cahiers du Cinéma ad essi dedicato) ha presentato a Roma in anteprima internazionale Young Detective Dee: Rise of the Sea Dragon 3D, prequel di Detective Dee e il mistero della fiamma fantasma (2010). Di Renjie, primo ‘detective’ della Cina imperiale, è un personaggio ispirato in parte ad una figura storica vissuta nella Cina del VII secolo (un uomo del Rinascimento che opera al vertice della civiltà cinese nell’era della Dinastia Tang), in parte ai libri di Robert van Gulik. Con la ‘saga’ (a cui si aggiungerà un terzo tassello) di Detective Dee, l’intento di Tsui Hark e dei suoi collaboratori era di imprimere una nuova direzione al filone detective story attraverso un canovaccio narrativo che rendesse nota sia la figura storica di Di Renjie, sia il personaggio letterario, legando questi due lati di una medesima medaglia ad inserti fantastico-surreali tipici dei kolossal di cappa e spada orientali. In questo secondo lungometraggio il regista aggiunge la tecnologia del 3D nel tentativo di accentuare visivamente il riverbero immaginifico, avvicinandosi ai colossal hollywoodiani. Di Di Renjie (i cui panni attoriali sono egregiamente portati da Mark Chao, capace di

riprodurre arguzia, cultura, eleganza, ed un self control intriso di una gradevole punta umoristica), Young Detective Dee ne traccia le origini del suo impiego alle dipendenze dell’imperatrice Wu Zeitan (prima donna imperatrice nella storia cinese), dentro una vicenda che si dipana su due ostacoli: un devastante mostro marino ed un complotto ardito nei confronti della corte imperiale e dei sovrani, al centro del quale spicca il tè della serenità, misteriosa bevanda che nasconde non pochi segreti… Un’incantevole cortigiana ardita nell’obbedire ai propri istinti interiori, rifiutando uomini di potere e concedendosi alla poesia e alla sensibilità di un uomo senza titoli (Angela Yeung modella, cantante e attrice nota come Angelababy)… Un’imperatrice intransigente, sospettosa, difficile da domare-assecondare (Carina Lau). Due figure femminili che si stagliano nella costruzione dei rispettivi ruoli con personalità narrativa. Il tema portante del diritto e delle sue regole che Dee vuole salvaguardare e proteggere nel combattere la corruzione proprio nel tempio creatore e custode delle leggi, i punti fermi-saldi di un racconto che viene sfilacciato da una resa da blockbuster che lo appiattisce dentro un manierismo da colossal. Un modellino perfettamente costruito che non stupisce, con un uso del 3D eccessivo e poco immaginifico, uguale a tanti altri filmoni anche nella sovrabbondanza di ostacoli straordinari, troppi…Inutili macigni che rendono l’agonia della visione, infinita, e anche un pò ridicola.


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GODS BEHAVING BADLY Marc Turtletaub

2013

: USA

: Commedia

: 83’

Gli dei della comicità involontaria di Emiliano Longobardi Dopo aver perso quasi tutti i loro poteri, gli dei dell’Olimpo si sono rifugiati a Manhattan e vivono rinchiusi in una villetta spendendo il loro tempo in futili schermaglie. Furiosa dopo l’ennesimo tradimento, Afrodite ordina al figlio Eros di scagliare il suo dardo contro l’amato Apollo, ma il piano assume risvolti inaspettati ed Apollo si innamora di una mortale, Kate, coinvolgendo quindi due mortali, Kate ed il suo spasimante Neil, nelle faccende degli dei. Che questi siano gli anni dell’Urban fantasy è fuori discussione, la letteratura ed il cinema si stanno scatenando a caccia di nuovi frutti di questo filone, e anche questo nuovo film si inserisce nel contesto, essendo tra l’altro tratto proprio da un libro scritto da Marie Phillips. L’idea di osservare quelli che una volta erano esseri onnipotenti ed ora vivono come reclusi è intrigante, e di certo il fatto di avere a disposizione un cast incredibile ha aiutato ad incrementare le possibilità narrative. Nel film troviamo star come Sharon Stone, Oliver Platt, Christopher Walken e John Turturro calati nei ruoli delle divinità,

mentre Alicia Silverstone ed Ebon Moss-Bachrach interpretano i due umani vittime involontarie dei capricci dei primi. Eppure, nonostante le premesse interessanti, questo film delude le aspettative scatenando più di una volta risate non previste dalla sceneggiatura. Quali sono i motivi? Voci off che vanno e vengono cercando di colmare buchi evidenti nella narrazione, effetti speciali degni di un B movie di infima categoria ed una storia sviluppata in fretta e furia in poco più di un’ora. Non bastano i guizzi di caratteristi d’eccezione come Walken e Turturro, che con i loro esilaranti duetti regalano un po’ di dinamismo alla pellicola, a risollevare un’impalcatura debole costruita su basi troppo fragili. Certo, l’immagine di Zeus paranoico che vive in soffitta rimane impressa, ma più che altro ciò che resta alla fine è il senso di insoddisfazione per una commedia romantica che poteva essere originale e coinvolgente, ma ha bruciato tutto il suo potere, così come gli dei di cui parla.


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PLANES Klay Hall

2013

: USA

: Animazione

: 92’

Cars con le ali di Valentina Calabrese Atterrano all’Auditorium gli aerei di Planes, il nuovo film in 3D della Disney, diretto da Klay Hall, definito spin-off del celebre Cars. Il film, presentato in anteprima al Festival Internazionale del Film di Roma, fa parte della sezione parallela Alice nella Città (già al cinema) ed è destinato ad un pubblico questa volta più selezionato del solito, quello infantile. Diversamente da altri film più riusciti, soprattutto realizzati da Disney e Pixar insieme, Planes infatti, non convince e non coinvolge il pubblico adulto. In un mondo fatto esclusivamente di velivoli e pochi altri mezzi di trasporto, vi è Dusty, un piccolo aereo agricolo, sgangherato ma con tanta voglia di crescere che vuole diventare un aereo da competizione e affrontare la gara ad alta quota intorno al mondo. Per uno della sua categoria questo sogno rappresenta un’impresa impossibile, ma come la Disney ci ha insegnato, nulla è impossibile.

Cosi il piccolo Dusty con la sua forza di volontà, accompagnato dai suoi amici e sostenitori, si iscrive alla gara dimostrando a tutti di che pasta è fatto. Gli ultimi saranno i primi, ecco la sostanza narrativa del film. A partire dalla pochezza narrativa, i difetti di questo film sono molteplici, soprattutto perchè la storia è praticamente la stessa di Cars, cambiano solo i protagonisti. Planes non decolla mai, gli aerei volano alto e inevitabilmente il pubblico si affeziona al protagonista, ma mai con il trasporto e l’humor ai quali ci avevano abituato i predecessori. I piccoli resteranno probabilmente affascinati dai colori vivaci, dalle acrobazie e dall’animazione del film, ma per tutti gli altri, sarà la noia a contrastare il godimento del film. Nonostante tutto questo, Planes è già considerato negli States un film di grande successo, almeno sul lato economico, ed ecco allora che si pensa già a un sequel, Planes: Fire and Rescue, dal 18 luglio del 2014 in sala.


RACCONTI D'AMORE Elisabetta Sgarbi

2013

: Italia

: Storico

: 75’


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Voci liquide e mutevoli di Alessandra Cesselon

Ferrara e le sue lagune: il Po, il Basso Ferrarese, il Polesine, sono luogo delle erbe e del vento, così le racconta Elisabetta Sgarbi. Il vento e lo spazio creato dalla nebbia, nella sua astratta bidimensionalità, sembrano essere tra i principali protagonisti di queste storie d’amore dilatate nel tempo, a volta solo suggerite e inesauste. Un’opera piena di figure/paesaggi simbolo di una società che non è più, di personaggi oltre il tempo. Ma anche di un luogo che non è più e nel contempo ci sembra di aver vissuto personalmente. Il messaggio della nostalgia arriva chiaro e forte mentre si disfa e si ricrea tra le onde il senso struggente del ricordo. Non è necessario essere originari del delta del fiume per percepirne odori e tremori nello svolgersi della pellicola. La Sgarbi mette alla prova lo spettatore con il gioco della più intima inquietudine mentre la vicenda resta sospesa tra lo scorrere della barca e quello dell’acqua. Il suono o il silenzio sono gli altri elementi che dominano la scena lambendo come un’onda di risacca il messaggio narrato. Solo per ultimi arrivano gli uomini e le donne, spesso avvolti da uno spazio più grande di loro. Piccole figure dominate da sentimenti che non prevalgono sull’eterna immanenza della natura. Allo stesso modo dagli elementi naturali sgorgano segni narrativi che rendono identificabili e decodificati i sentimenti nascosti: un sorriso accennato come un alito di vento, un gesto del capo come uno stormire di fronde, la mutevolezza dell’acqua, come il tormento inascoltato dell’amore non corrisposto. Il film, illustrato anche da mirabili primi piani, è percorso da immagini globali nelle quali perdersi per poi ritrovarsi alla fine. La vicenda in realtà non sembra esistere senza il suo contenitore geografico. Tutto è sottomesso al luogo e al suono della voce narrante che a volte prevale a volte soccombe

di fronte al commento delle melodie intense e impositive. Assistiamo alla creazione di uno spazio fortemente letterario e nel contempo panicamente fisico. La regista non fa concessioni a scontati effetti ridondanti; sceglie inoltre la via, non semplice, del silenzio degli attori. Una regia minimale e rigorosa, non banalmente minimalista, raccolta intorno a una vicenda cruda: l’eccidio del Castello di Ferrara del dicembre del ’43 e la Resistenza. Ma lo spunto tragico, che aleggia sulle vicende, non prevale sulle storie narrate, che con levigata eleganza la regista romana propone. Franco Battiato cura le musiche, anch’esse protagoniste, e a volte prime attrici, del racconto. I temi musicali declinati con reiterata veemenza vivono un rapporto che sembra addirittura conflittuale con le parole dei testi letterari, in particolare con quello di Giorgio Bassani su Micol Finzi Contini. Una diafana figura che non smette di dirigersi verso la sua ultima dimora, ma senza disperazione, anzi, con quella dolce ineluttabilità di chi è conscio del suo destino segnato. Un fantasma di un’epoca altra che non consegna più donne alla storia. Un’altra chiave di lettura dell’opera è quella dell’“andare”, del dirigersi in luoghi altri da sè. Verso il futuro o verso la morte. I personaggi della Sgarbi camminano sempre come in un un loop che non smette di ripetersi. Questo è il caso di Micol, ma anche del Pescatore di Pila, l’ultima delle quattro storie, dove il protagonista, un uomo inquieto e solitario, non smette di andare in direzione opposta a quella della donna dei suoi sogni. L’opera è in concorso nella sezione CinemaXXI. Tra gli interpreti: Toni Servillo, Laura Morante, Tony Laudadio, Elena Radonicich, Rosalinda Celentano e Michela Cescon. Per le narrazioni le voci misurate e mai sopra le righe di Sergio Claudio Perroni, Fausta Garavini, Tony Laudadio.


LA LUNA SU TORINO Davide Ferrario

2013

: Italia

: Commedia

: 90’


39

Una luna che non convince di Luca Biscontini

“Dietro un paesaggio c’è sempre un altro paesaggio, lo si percepisce dalla vaghezza e dalla indefinitezza dei fatti immaginativi”: questo splendido adagio leopardiano accompagna alcune sequenze del nuovo film di Davide Ferrario, La luna su Torino, e la sensazione immediata è quella di trovarsi davanti a un’opera ambiziosa, come del resto lo è tutto il cinema del regista piemontese. La macchina da presa indugia sinuosa su una città magica, come forse non l’avevamo mai vista, una Torino crocevia di umori e sensazioni, sita sul ‘quarantacinquesimo parallelo’, dove si srotola una fetta cospicua di mondo, e la piccola realtà provinciale lascia spazio a un respiro più ampio, globale. Al precariato economico, Ferrario predilige quello esistenziale che, sganciato da qualsiasi sociologismo, e quindi anche dalla contemporaneità, attanaglia l’uomo da sempre: come fare a smarcarsi da un fallimento che pare annunciato, da una litania che scandisce il tempo con un metronomo, dalla beghe di una quotidianità ripiegata su se stessa? Difficile sarebbe stato rispondere se ci si fosse posti nell’usuale prospettiva che affronta le questioni della postmodernità direttamente, l’unica maniera di provare a confrontarsi con un tema così vasto era ‘retrocedere’ a un piano etico-estetico, che nella fattispecie assume le ‘fattezze’ di una levità salvifica. Si badi bene che la leggerezza di cui qui si

tratta richiede un enorme esercizio, cioè di riuscire a cambiarsi gli occhi, di vedere la bellezza laddove non avremmo mai creduto di trovarla. Insomma, bisogna prodursi in una torsione da circense, per librarsi in un volo – forse quello dell’angelo – e planare sulle cose, in maniera tale da ‘accarezzarle’… Se le premesse e le conclusioni di questa operazione appaiono del tutto condivisibili, meno lo è lo svolgimento del film, che, a dirla sinceramente, sembra, anche se molto più raffinata, una di quelle commediole tanto di moda nel più recente cinema italiano. Capisco le difficoltà di un uomo intelligente come Ferrario: far passare questo bisogno di leggerezza tanto faticosamente conquistata non era semplice, sebbene il regista introduca e puntelli continuamente il film con delle frasi di Giacomo Leopardi, quasi a volerci ammonire a non fraintendere il senso della storia. Eppure i punti deboli non mancano: l’umorismo cercato e sempre mancato (si ride solo una volta), le prove attoriali dei protagonisti a malapena sufficienti, l’inconsistenza di una sceneggiatura che non sostiene i buoni intenti. Nonostante ciò, proprio per la profonda comprensione delle intenzioni del regista (e delle difficoltà oggettive incontrate), chi scrive non se la sente di obliterare questo film come un’opera non riuscita, e si riserva una seconda visione per trarre delle conclusioni definitive…


LAS BRUJAS DE ZUGARRAMURDI Alex de la Iglesia

2013

: Francia, Spagna

: Comm/Dramm/Horror

: 112’


41

Un'esilarante ed eccentrica favola nera di Francesca Vantaggiato

Sale sul palco del Festival Internazionale del Cinema di Roma lo spagnolo Alex de la Iglesia per introdurre brevemente Las brujas de Zugarramurdi, un Fuori Concorso da fuoriclasse che si è aggiudicato il premio Akai, uno degli sponsor principali del festival. A consegnarlo una madrina inaspettata, la ‘rappresentante dell’azienda di famiglia’ Valeria Marini, per un cinema orgogliosamente popolare e d’intrattenimento. Tremate, tremate le streghe sono tornate!, verrebbe da dire guardando il film. Lo slogan femminista calza a pennello in questa storia di ‘incomprensioni’ secolari tra uomini e donne afflitti da problemi di incomunicabilità con i propri partner. Gli uomini protagonisti di quest’avventura che vi stupirà con effetti speciali piagnucolano mentre sciorinano i loro problemi con le donne. Tony (Mario Casas) e Jose (Hugo Silva) rubano la modica cifra di 25.000 fedi nuziali da un monte dei pegni, il tutto travestiti da Gesù Cristo con la croce versione silver e da un soldatino verde, aiutati da altri stonati complici usciti dai cartoons e con un aiutante d’eccezione, il piccolo figlio di Tony. Inutile dire che il Leone d’Argento 2010 (Ballata dell’odio e dell’amore) riesce con il suo humor grottesco, vagamente pop e incredibilmente surreale, ad agganciarci senza via di scampo alla sua storia a partire dalle prime scene e dialoghi. Il patto d’accettazione è totale, de la Iglesia chiede fiducia assoluta, o lo si ama o lo si odia, o ci si abbandona alla sua realtà esilarante o ci si annoia nella propria. Le avventure continuano e il caso si complica quando i fuggiaschi – un marito soffocato da una moglie isterica, un fidanzato attanagliato da complessi d’inferiorità verso la sua donna, un

uomo che si sente debole e incapace di decisioni coraggiose –, frignanti mentre condividono lungo il tragitto verso la frontiera racconti di maltrattamenti inflitti dalle donne, approdano a Zugarramurdi, la città delle streghe. Dal metaforico al letterale il passaggio è breve: i nostri si imbattono in un manipolo di streghe decise a impossessarsi degli anelli nuziali rubati (oggetti maledetti, simbolo di promesse infrante), del bambino – l’eletto, e delle loro anime. Mentre i preparativi per il grande ritorno alla supremazia delle streghe si compiono senza esclusione di colpi, il cinema di de la Iglesia esplode in un delirio di rituali macabri e pseudo-erotici, inseguimenti rocamboleschi, confessioni d’amore bizzarre, personaggi-caratteri disgustosamente adorabili. Carolina Bang, l’amore conteso tra gli sfigurati clown di Ballata dell’odio e dell’amore, ritorna nei panni della (non a caso) Eva, trasgressiva, sensuale, trasferitasi in Germania a studiare Teologia, inaspettatamente innamorata di Tony per il quale infrange le regole della sua famiglia, in lotta contro gli uomini dall’eternità (suo fratello è stato rinchiuso e incatenato dalla madre in una segreta-scarico di un bagno). Las brujas de Zugarramurdi è intrattenimento puro, nel senso più genuino e nella forma più originale della definizione, e le streghe di Zugarramurdi sono in fondo tutte le donne nella rappresentazione esasperata (o forse no?) di un regista eccentrico autore di favole nere. Nell’immaginario bislacco di de la Iglesia una riconciliazione tra i due mondi nel nome dell’amore vero è possibile, anche se le ‘streghe’ sono sempre in agguato aspettando che questa inaccettabile felicità finisca e piccoli mostri – i cattivelli di oggi, futuri misogini di domani – crescano.


THE GREEN INFERNO Eli Roth

2013

: USA

: Avventura, Horror, Thriller

: 103’


43

Horror-cannibal e società moderna di Francesca Vantaggiato Regista dall’amore per il cinema horror e cannibal italiano, concretizzato in un approfondimento dei B-movie di genere degli anni ’70, Eli Roth riprende e ‘aggiorna’ a distanza di 33 anni il cult violento e politico di Ruggero Deodato, Cannibal Holocaust, senza un’effettiva forza d’insieme. Il film del 1980 era una presa di posizione diretta e senza edulcoranti contro le barbarie della cultura occidentale moderna, additata nell’era della comunicazione mediatica come la vera culla dell’inciviltà a dispetto delle realtà tribali accusate di scempi crudeli e di ‘un’accettabile giustizia primitiva’. Cannibal Holocaust era diviso in due momenti intitolati The Last Road to Hell – sul professore partito per il Brasile alla ricerca di una troupe televisiva scomparsa – e The Green Inferno – ambientato a New York dove il professore visiona il materiale girato dai quattro dispersi. Eli Roth riprende il titolo della seconda parte del film del maestro italiano, la più feroce e disumana, e gira il suo Inferno ambientato ai giorni nostri. Molti i punti di critica alla nostra contemporaneità: innanzitutto la manipolazione dell’informazione aggiornata all’era dello smart phone, di you tube e dei social media, virali per definizione, incerti nella veridicità dell’informazione, l’idea (americana) di una giustezza socio-culturale tale da legittimare l’imposizione del proprio modus vivendi per ‘civilizzare i Paesi incivili’ (Gaber definì brillantemente l’America come ‘portatrice sana di democrazia’), la sottile linea di confine tra politica, organizzazioni umanitarie e mafie locali/internazionali. Insomma, The Green Inferno è un update in chiave splatter dove l’esasperazione si – e ci – allontana dal reale finendo con lo scongiurare l’eventualità di uno snuff movie e con l’ammazzare senza troppi sensi di colpa quell’illusione di verità propriamente cinematografica. L’esagerazione della crudeltà, con quel tocco di sadismo posticcio e una

violenza alleggerita della tortura psicologica decisa, finisce col rassicurarci sulla certezza della finzione, esorcizza il rischio di un’immedesimazione pericolosa, tuttavia fomenta a dismisura il disgusto. Non ci sono buoni e cattivi nella soluzione di Roth, il più fervido idealista è pronto a vendersi per un click in più e, a sua volta, la vergine vittima sacrificale punisce senza pietà il traditore della causa. A parte queste scaramucce tra matricole e una sorta di denuncia all’ossessione tipica della nostra generazione per il web visto come mezzo di comunicazione – ed esibizionismo – per eccellenza, il film manca proprio dell’elemento centrale, di quella connotazione di critica politico-sociale solida e convincente, mentre chiara è l’intenzione di Roth di aspirare proprio a questo. La tribù di cannibali sembra effettivamente basata su un ordine primordiale inaccettabile e senza morale (e non perché per essere tale debba essere necessariamente conforme al nostro), la santona-capo tribù invece di terrorizzarci con i suoi metodi ci strappa un sorriso per il look, il processo di maturazione della protagonista è inverosimile quanto il look della santona, parte dalla posizione dell’ingenua idealista per conquistare nel corso della storia lo status dell’aguzzina vendicativa. Sicuramente palpabile è la volontà di girare un horror-cannibal di denuncia politica, proprio come ai vecchi tempi, e a tal proposito comprendiamo e ci assoggettiamo allo spreco di sangue e violenza, alla perfidia umana a tutti i livelli ed età, all’intrigo e al twist. Tuttavia tutto ha un limite, se non altro estetico, pertanto la nostra volontà di credere è messa a dura prova dalla messa in scena e in gioco tra loro dei sopracitati elementi, tradotti in forma di tributo-update che si risolve in una sgradevole e formale accozzaglia dal blando contenuto oscurato dall’urgenza incontrollata di mostrare un orrido fine a se stesso.


HEART OF A LION Dome Karukoski

2013

: Finlandia

: Drammatico

: 99’


45

Il rancore degli sconfitti di Elisabetta Colla

Il male assoluto, ovvero una banda di naziskin senza controllo che impazzano nei sobborghi di una Finlandia dall’apparenza desolata, assetati di violenza ed accecati da pregiudizi atavici, senza guardarsi mai indietro. Completamente diverso dalla pellicola vincitrice (The disciple di Ulrika Bengts), il film che ha meritato la Menzione speciale nella sezione Alice nella città, intitolato Heart of a Lion e diretto da Dome Karukoski – uno dei registi finlandesi più noti in patria – è un film durissimo, vietato infatti ai minori di 14 anni, su un gruppo di neo-nazi, compatti e tatuati, con le teste rasate e piene del rancore degli sconfitti, che odiano (come da copione) gli stranieri, peggio se zingari o di pelle nera, e trascorrono gran parte del tempo a danneggiare cose e persone, inneggiando alla patria avita, ai loro nonni bianchi fondatori di una gloriosa nazione (sembra che il fenomeno dei naziskin si stia seriamente espandendo in Finlandia) di cui essi rappresentano gli unici, indiscussi eredi. Tutto sembra scorrere nei binari dell’ordinaria follia finché il capobanda s’innamora, perdutamente, di una bella ragazza bianca e bionda che ha però (gravissimo problema) un figlio di pelle nera, nato da una precedente relazione. Da qui s’imporranno scelte difficili per tutti: per la ragazza, indecisa se rimanere o no con il naziskin, per il figlio, già preso di mira a scuola, che non sa di chi fidarsi, per il protagonista, che s’impegnerà nel cercare di cambiare, e per suo fratello, uno dei più facinorosi e violenti esponenti della nazi-gang, che dovrà schierarsi suo malgrado. Interessanti le scene girate a scuola, dove il nazi-protagonista si trova costretto a difendere il ragazzino nero dai suoi compagni che lo deridono e deve lottare anche contro tutti i genitori, bianchissimi e

fuori di testa, che lo inseguono con le mazze da baseball, come a dire che non solo i nazi hanno qualche rotella fuori posto (a voler essere comprensivi). Dopo che la sofferenza avrà attraversato le vite di tutti sarà possibile ricominciare un dialogo, ed affidare alle generazioni future un barlume di speranza. Personaggi di spessore (non etico ma cinematografico) in un film che spiazza per il realismo, la violenza, la spirale di paura che s’innesca freneticamente, spingendo tutti verso il baratro, monito alla facilità con cui certi meccanismi possono tramutarsi in tragedia, anche auto-diretta. Bravissimo il bambino di colore che si affanna per farsi accettare da tutti e cercare di andare d’accordo sia con il padre vero (un ex-immigrato colto e molto più inserito socialmente dei membri della gang) sia con il nuovo bizzarro patrigno, anche quando le cose sembrano andare in tutt’altra direzione. Il ‘cuore del leone’, patriotticamente tatuato in bella vista sul petto del protagonista, subirà un duro colpo e non ci sarà ritorno. Vista la complessità del tema ed il realismo delle scene ‘forti’, forse il film poteva essere inserito anche in un’altra sezione del Festival ma è pur sempre importante, per gli adolescenti, vedere opere che smascherino i falsi miti, attraverso storie di vita quotidiana, come cartina di tornasole per soppesare sentimenti, azioni, parole. La motivazione ad assegnare la Menzione speciale, da parte della Giuria, è stata la seguente: «per la semplicità puntuale ed incisiva nel descrivere un tema importante e pericolosamente attuale, quello del neonazismo. Per la capacità del cast e la sceneggiatura efficace in grado di riportare senza filtri e con tagliente comicità una realtà crudele quanto folle».


IL PARADISO DEGLI ORCHI Nicolas Bary

2013

: Francia

: Commedia

: 92’


47

Il mondo di Malaussène di Elisabetta Colla

Pirotecnico e sfavillante, arriva sul grande schermo Benjamin Malaussène, uno dei più geniali personaggi partoriti dalla creativa penna dello scrittore francese Daniel Pennac. Au bonheur des ogres ( Il paradiso degli orchi) è infatti il primo nato di un fortunato ciclo di romanzi, il cui protagonista è Malaussène, giovane simpatico ed idealista che lavora in qualità di ‘capro espiatorio’ presso i Grandi Magazzini ‘Bonheur Parisienne’ – un immaginario paradiso parigino – e racconta con sapida ironia il dipanarsi delle sue (dis)avventure familiari (convive con numerosi fratelli e sorelle e lavora per mantenerli tutti, mentre la madre viaggia e cambia partner e paese), amorose (conosce proprio nel primo volume la giornalista ‘Zia Julia’) e professionali (il lavoro come ‘capro’ consiste nel farsi insultare dal suo capo al reparto reclami per far intenerire i clienti ed indurli a ritirare denunce e rimostranze). Il film, girato dal regista e produttore francese Nicolas Bary, già autore di noti cortometraggi e di un film commedia, riesce piuttosto bene a restituire le atmosfere concitate, ironiche e talvolta deliranti del libro, e non era impresa facile. Il ritmo serrato regge per l’intera durata del film e, nelle tante sequenze quasi fumettistiche dai colori saturi e brillanti, seguiamo con affascinata tenerezza le vertiginose vicissitudini di Malaussène, mentre corre avanti e indietro in una Parigi caotica e multietnica (quella del quartiere Belleville, nella zona est della città, dove vive il protagonista) e si lascia maltrattare dai suoi superiori e dalla sua amata famiglia non-tradizionale, con la stessa leggerezza e spirito con

i quali colpisce il cuore della bella Zia Julia (nel ruolo la Bérénice Bejo di The Artist). La critica sociale si nasconde dietro un umorismo caustico ed un’intelligente lettura della realtà cui sono avvezzi i lettori di Pennac (presente a Roma per la prima del film): il lavoro inconsistente ma funzionale all’azienda cui si dedica Malaussène in un luogo di puro consumismo, i capi reparto sempre in cerca dei favori delle ragazze che rubano in cambio della libertà, le bombe nel Grande Magazzino piazzate da qualcuno di assolutamente insospettabile, la madre egoista che non c’è mai mentre i figli se la devono cavare da soli, le persone che muoiono quasi per gioco ed il proprietario del negozio che fa finta di niente , ecc. ecc. I tanti anni passati dall’uscita del romanzo non ne alterano affatto né il messaggio né la freschezza e di certo il film ha il pregio di far conoscere, ai più, un’opera ed un personaggio sempre validi. Il titolo Au bonheur des ogres è ripreso dal romanzo Au bonheur des dames (Al paradiso delle signore) di Émile Zola, ed è lo stesso Pennac a rivelarlo in uno dei suoi romanzi. Parte della riuscita del film è affidata al cast di attori tutti bravissimi: Raphaël Personnaz (un Benjamin perfetto come seduttore distratto e patetico capro espiatorio), Bérénice Bejo, Guillame De Tonquédec, Thierry Neuvic, oltre al cameo di Émir Kusturica, nel ruolo del vecchio guardiano del Magazzino, amico di scacchi di Benjamin, ed alla straordinaria partecipazione di Isabelle Huppert, nella parte di una cinica editor.


HUNGER GAMES – LA RAGAZZA DI FUOCO Francis Lawrence

2013

: USA

: Avventura

: 146’


Jennifer Lawrence infiamma lo schermo

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di Emiliano Longobardi

Dopo lo sconvolgente finale degli ultimi Hunger Games, i due vincitori, Katniss e Peeta, si preparano al tour della vittoria che li porterà ad attraversare gloriosamente tutti i distretti. Inconsapevole di aver risvegliato un sentimento sopito nella popolazione e sotto la perenne minaccia del Presidente Snow, la ragazza intraprende il suo viaggio mentre sempre più scontri si scatenano in ogni angolo di Panem. Adirato ed anche impaurito da questa reazione, il Presidente escogita, insieme al nuovo stratega Plutarch Heavensbee, un modo per eliminare alla radice il problema: un’edizione speciale degli Hunger Games, con protagonisti i vincitori delle edizioni passate. Di nuovo nell’arena, Katniss e Peeta dovranno combattere per la loro vita. Il film fenomeno, l’evento mondiale che ha scatenato il delirio di migliaia di fan durante la presentazione al Festival, il secondo capitolo di Hunger Games non delude le aspettative e amplia il suo campo preparando il terreno per il grandioso epilogo che, come è di moda ormai, sarà diviso in due parti. A differenza di altre saghe più o meno fortunate, la serie di libri di Suzanne Collins, adattata poi per il grande schermo, ha il notevole pregio di affrontare temi di grande rilevanza rendendoli fruibili ed appassionanti anche per un pubblico di adolescenti. L’orrore della società del consumo, i richiami alle dittature passate, il macabro rito annuale di una guerra sanguinaria tra ragazzini che inchioda al televisore una nazione in-

tera: sono questi gli assi di Hunger Games, che nella sua trasposizione cinematografica ha avuto la fortuna di trovare un’attrice come Jennifer Lawrence. Se i due giovani innamorati, Josh Hutcherson e Liam Hemsworth, dimostrano una grande dimestichezza con il proprio ruolo, la Lawrence è la ragazza di fuoco che infiamma la scena con il suo carisma, ormai a suo agio nella parte ma sempre consapevole del modello che è diventata per milioni di ragazzi e ragazze. Se il primo film era forse più disturbante, proprio per lo shock con cui assistevamo al massacro senza pietà dei tributi nell’arena ipertecnologica, questo secondo capitolo affronta soprattutto il lato “politico” della vicenda, ci mostra le mosse che chi detiene il potere è disposto a fare per preservarlo e, pur tenendo come fulcro imprescindibile l’azione, non rinuncia a lanciare le sue stoccate contro un certo tipo di società. L’amore c’è, e il triangolo Katniss-Peeta-Gale ha un ruolo importante nel film, ma non è il tema protagonista della storia, e anche questo forse contribuisce al successo incredibile della saga. Senza dimenticare una new entry di altissimo profilo come Philip Seamour Hoffman che affianca gli ormai veterani Stanley Tucci, Lenny Kravitz, Donald Sutherland ed Elizabeth Banks, Hunger Games – La ragazza di fuoco ci trascina nella guerra imminente mantenendo alti gli standard impostati dal primo capitolo, facendoci appassionare ancor di più alle vicende di Katniss, eroina suo malgrado.


COME IL VENTO Marco Simon Puccioni

2013

: Italia

: Drammatico

: 110’


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Amare e dirigere un carcere di Elisabetta Colla

Liberamente ispirato alla vera storia di Armida Miserere, una delle prime donne direttrici di carcere in Italia, il film Come il Vento, presentato al Festival Internazionale del Film di Roma nella sezione Fuori Concorso e diretto dal regista Marco Simon Puccioni, ha saputo emozionare critica e pubblico, sia per la tematica forte – una donna che vive l’ambito carcerario in anni difficili, perde l’amato compagno in un attentato mafioso e dedica la sua intera vita al lavoro -, e sia per la notevole interpretazione di Valeria Golino, che col passare degli anni diventa sempre più brava ed intensa. La descrizione sobria ed asciutta della vita carceraria, gli albori della legge Gozzini ed i tragici fatti di mafia avvenuti tra la fine degli anni Ottanta e gli anni Novanta trovano il giusto spazio all’interno del film, nel racconto poeticamente malinconico della vita di Armida. Tutto inizia quando lei ed Umberto Mormile (interpretato da un misurato Filippo Timi), un educatore impegnato nelle attività riabilitative per i detenuti (in particolare i laboratori teatrali), sono già una coppia stabile e molto affiatata: si sono conosciuti nel carcere di Opera, dove lui ancora lavora, mentre lei dirige il carcere di Lodi. Il film si sofferma volutamente, nella prima parte, sulla pienezza dell’amore dei due, sul loro tentativo di avere un figlio, sui loro sogni, sul loro mondo di lavoro e di pochi amici (bravi anche Francesco Scianna e Chiara Caselli), per mettere ancora più in risalto, nella seconda parte del film, il vuoto e la solitudine

della vita di Armida quando, rimasta sola dopo l’omicidio di Umberto del 1990 (sembra per una vendetta di detenuti che speravano di corromperlo in cambio di relazioni positive per ottenere benefici di legge), accetta incarichi nelle carceri più difficili d’Italia, cerca di amare di nuovo ma, piegata poco a poco da delusioni ed intimidazioni, inizia a perdere la sua grinta. Sempre professionale fuori, con un vuoto incolmabile dentro, che la condurrà ad un gesto estremo, insieme dettato dalla rabbia e dall’amore, ma solo dopo aver conosciuto i nomi degli assassini e dei mandanti del suo unico vero amore. «Mi ha colpito molto la vicenda di questa donna – ha raccontato il regista da sempre interessato a tematiche sociali – che, catapultata in una delle istituzioni più maschiliste ed opprimenti della società, senza rinunciare alla sua femminilità, riusciva a governare gli uomini reclusi ed a stabilire rapporti camerateschi e d’amore con i suoi compagni di lavoro e m’interessava capire come e perché questa fibra, apparentemente così solida, fosse arrivata a spezzarsi. Ho cercato uno stile semplice, che desse spazio alla verità del personaggio, cercando di miscelare il film di impegno civile con la storia d’amore, gli elementi più intimi ed emotivi con l’aspetto sociale». Nel suo ultimo biglietto Armida lascerà detto: ‘vento sono stata’, da qui il titolo del film, un vento che, con le parole di un noto cantautore, oggi ‘soffia ancora’.


BIRMINGHAM ORNAMENT 2 Andrey Silvestrov e Yury Leiderman

2013

: USA

: Grottesco

: 89’

Trionfo russo a CinemaXXI, con la Giuria presieduta da Larry Clark di Stefano Coccia Già dall’anno scorso, quando in concorso finì lo splendido Spose celestiali dei mari di pianura di Aleksei Fedorchenko, il Festival di Roma ha dato prova di parlare la lingua russa con grande scioltezza, a livello cinematografico. Merito indubbiamente delle scelte portate avanti dalla nuova direzione artistica: non solo Marco Müller, le cui passioni cinematografiche sono decisamente forti a est, ma anche la sua consulente per i paesi slavi Aliona Shumakova, grazie a una conoscenza capillare dei cineasti di maggior interesse attivi in Russia, hanno fatto sì che la kermesse capitolina si espandesse molto su tale direttrice. E da questo punto di vista il 2013 ha offerto diversi altri spunti di sicuro interesse. A partire dalla presentazione fuori concorso dell’attesissimo Hard to be a God, capolavoro postumo di Aleksej J. German ispirato a un romanzo dei fratelli Boris e Arkady Strugatsky.

duta da Larry Clark e composta da Ashim Ahluwalia, Yuri Ancarani, Laila Pakalnina e Michael Wahrmann.

Partendo proprio dall’opera citata per prima, Birmingham Ornament 2 è un procedere a metà strada tra il cazzeggio autoriale, la satira politica e il fraseggio ritmico adattato alle immagini. Ci si è presi la libertà di definirlo “cazzeggio”, poiché gli stessi autori si sono espressi più o meno così, a proiezione conclusa, nel commentare il proprio lavoro. Il film è pervaso a ogni modo da un’ironia strisciante, che si manifesta tanto nei surreali dialoghi che nei testi delle parti musicali, in egual misura rappresentativi di un’attitudine libertaria; ed è un’attitudine apertamente, sfacciatamente denigratoria nei confronti dei gangli del potere e dell’oppressione sociale che ne deriva. Tale approccio, nella Russia autoritaria di Putin, assume carattere rivelatore ed emblematico, per nulla indebolito dai toni scherIl lungometraggio “monstre” di German, zosi che pervadono ogni inquadratura. labirintico e curatissimo nella messa in scena, I diversi quadretti allestiti dai due cineasti, sviluppa peraltro un tema di notevole rilevanza come il rapporto conflittuale tra i lette- sostenuti a livello produttivo da un’altra voce rati e il potere, tema tangente in qualche importante del cinema indipendente russo modo e con dosaggi diversi ad altri due film come Gleb Alejnikov, si susseguono in una russi, che hanno letteralmente sbancato la partitura che continua ad aggiungere, per acsezione CinemaXXI (frutto dello sguardo so- cumulo, sfaccettature nuove al discorso. Alfisticato e attento del selezionatore Paolo l’inizio compare un coro tradizionale Moretti). Uno di questi è Birmingham Orna- georgiano, che però non canta brani presi ment 2 (Birmingemskij ornament 2) di Andrey dal floklore, bensì una composizione origiSilvestrov e Yury Leiderman, Premio Speciale nale in cui si allude alla fine violenta di alcuni della Giuria CinemaXXI riservato ai lungome- dittatori. Qualcosa del genere fa poi un noto traggi. L’altro è invece Nepal Forever di coro finlandese, dedito usualmente a curiose Aliona Polunina, che è risultato addirittura Mi- sperimentazioni vocali. Un apologo sul poglior Film per la Giuria Internazionale presie- tere è quello immaginato a Creta, nel futuro,


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NEPAL FOREVER Aliona Polunina

2013

: Russia

: Documentario

Birmingham Ornament 2

Nepal Forever

: 90’


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Birmingham Ornament 2 con due personaggi che dialogano in riva al mare. Nel frattempo un pittore russo dislocato altrove continua a sciorinare significativi aneddoti e riflessioni sull’arte. Mentre ciò accade, vi è in Giappone un attore vestito da samurai, il magnifico Shinichi Watabe, che piega alle necessità di un testo difficile i canoni della tradizione teatrale nipponica. In uno dei siparietti più complessi a livello di stimoli culturali, ambientato in un appartamento sovietico degli anni ’30, il poeta Mandel’stam e Kyuev dissertano coi loro amici intellettuali, in un clima surreale che ricorda il cosmismo e le avanguardie russe.

dei siparietti musicali. Comunque la si veda, Birmingham Ornament 2 resta oggetto filmico di una densità e di una godibilità parimenti degne di nota. Non ci stupisce che a realizzarlo siano state due voci ancora poco note all’estero, ma autorevoli per la loro sperimentazione artistica, della scena underground post-sovietica: Yuri Leiderman è un intellettuale poliedrico nativo di Odessa, mentre il socio Andrey Silvestrov, moscovita, è stato tra i primi ad animare la programmazione dell’ormai leggendario club Cine Fantom, culla del cinema di ricerca realizzato attualmente in Russia.

Questo materiale così effervescente rischia quasi di implodere, sotto il peso delle molteplici e talvolta criptiche citazioni, ma una volta che il gioco viene a grande linee decifrato può assicurare una notevole soddisfazione, scansionabile in modi diversi: può prevalere una forma di consonanza intellettuale, in chi coglie l’arguzia di certi riferimenti, così come il divertimento puro di fronte alla surrealtà delle scene o di fronte al taglio goliardico (ma non per questo fatuo)

Dulcis in fundo, parliamo ora di Nepal Forever, documentario straniante come pochi: il lavoro della Polunina (classe ’77, ha ottenuto la laurea in Sceneggiatura e Regia a Mosca nel 2004) esplora un terreno insolito, sospeso tra la fenomenologia della militanza politica e il diario di viaggio, trovandovi di continuo sfumature paradossali. Vista la storia che è andata a pescare, le cose non potevano andare diversamente. Lo spettatore si prepari quindi a un incontro per molti versi


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Trionfo russo a CinemaXXI, con la Giuria presieduta da Larry Clark

Nepal Forever surreale tra i maoisti nepalesi e una sparuta capacità di far emergere gradualmente la pattuglia di marxisti-leninisti russi. personalità dei protagonisti rendono la visione del film molto accattivante. Grazie a Cronaca di una marginalità politica e par- una notevole sensibilità per i curiosi episodi titica che aspira donchisciottescamente a che si definiscono davanti all’obiettivo, in ben altri orizzonti, Nepal Forever racconta la virtù anche di un umorismo sotterraneo che spedizione di due comunisti attivi a San Pie- sa cogliere le piccole/grandi contraddizioni troburgo, membri di un raggruppamento del reale, la vena iperrealista che accompapolitico che rispetto al KPRF di Gennadij Zju- gna costantemente il film approda poi a seganov ha consistenza numerica e peso infi- quenze sublimi, nel loro essere grottesche: nitamente minori, i quali decidono a un certo su tutte la visita che la minuscola delegapunto di avventurarsi coi loro pochi mezzi in zione russa rende all’ambasciata nordcouna improbabile missione, tesa a salvare le reana di Katmandu, in occasione della sorti della prospettiva internazionalista: rag- scomparsa di Kim Jong-il, il “Caro Leader” di giungere il Nepal, per dirimere le diatribe cui compaiono anche lì stupefacenti gigansorte tra i Maoisti al governo e altre forma- tografie. E l’atmosfera in cui si compie il “rito” zioni marxiste! è a dir poco indescrivibile. Con uno spirito che sfiora a tratti il situazionismo puro, la Polunina ha deciso di filmare questo loro “detour” sul tetto del mondo e tutta la fase preparatoria, annotando con acume i vari spaccati antropologici, siparietti surreali e stralci di fervore ideologico che hanno caratterizzato l’intera spedizione. Lo sguardo così personale della cineasta e la


i PROTAGONISTI INCONTRO CON WES ANDERSON, JASON SCHWARTZMAN E ROMAN COPPOLA Ognuno, ad ogni livello – che si tratti di stampa, fan, cultori della materia – ha una star del cuore. Dall’amore per un attore o attrice i cui personaggi sono così indimenticabili da vivere e ri-vivere mille volte nella memoria come fossero autentici, alla passione per un regista creatore di mondi possibili di cui vorremmo essere cittadini, i festival sono il luogo dove il mito diventa accessibile in un incontro, favorendo il dialogo con i nostri eroi ed eroine. Luoghi ameni di ‘creatori’ e ‘abitanti’ di mondi altri, i festival stabiliscono un contatto ambito tra popolo sognante e idoli. Il Festival Internazionale del Film di Roma 2013 ha chiamato a raccolta, come ogni anno, grandi e amati nomi (John Hurt, Jonathan Demme, Alex de la Iglesia, Spike Jonze, Christian Bale e Casey Affleck, Checco Zalone) e l’inventore di storie e mondi di cui in moltissimi vorrebbero far parte, Wes Anderson. Accompagnato dal suo sceneggiatore di fiducia e produttore Roman Coppola (regista dell’onirico, fantasioso e ‘felliniano’ A Glimpse Inside the Mind of Charles Swan III presentato in anteprima proprio nell’edizione del festival romano 2012) e, a sorpresa, dal cugino di Coppola nonché attore feticcio di Anderson Jason Schwartzman. Il trio ha scelto il Festival Internazionale del Film di Roma per presentare il corto di 8 minuti ambientato in Italia intitolato Castello Cavalcanti, commissionato e finanziato da Prada e girato a Cinecittà. «Prada ci ha chiesto di girare un corto lasciandoci la più totale libertà creativa. Noi amiamo l’Italia e negli ultimi anni siamo stati spesso qui, a Roma e a Cinecittà. Allora abbiamo pensato di girare negli Studios romani. Essere lì regala la sen-

sazione di vivere nel mondo de La dolce vita, di cui condividiamo la sensibilità e l’amore per il cinema. Per il protagonista ho pensato subito a Jason e ho costruito un personaggio intorno a lui, era perfetto per questa parte», dice Anderson. Secondo Jason – e noi siamo d’accordo con lui – «Wes costruisce piccoli mondi meravigliosi di cui lui stesso vuole essere parte. Mentre giriamo o quando siamo tutti insieme ci divertiamo sempre». Il corto racconta di un pilota che per ironia della sorte finisce nel paesino dei suoi antenati, Castello Cavalcanti, banchettando con gli affezionati del bar del centro. «Vorrei tornare a lavorare in Italia uscendo però dall’isolamento degli studi e girando per le strade. Non immagino un seguito italiano di Castello Cavalcanti, vorrei piuttosto creare una specie di World Tour con Jason per gli studi delle città di cui amiamo il cinema. Questo automobilista americano degli anni ’50 mi piace molto, vorrei in qualche modo continuare a raccontare la sua storia». In una manciata di istanti c’è il neo-realismo di De Sica e Rossellini con il loro amore per i ritratti popolari, c’è l’atmosfera magica e onirica di Fellini, c’è la musica tratta da Signore e Signori di Pietro Germi. «Non sapevo che la musica fosse quella del film di Germi, me lo fate notare voi adesso! L’abbiamo selezionata tra le tante musiche di quegli anni, però devo dire che avevamo visto Signore e Signori a Cinecittà», continua Anderson che ci regala qualche anticipazione sulle musiche del prossimo film, The Grand Budapest Hotel, con cui si apriranno le danze della Berlinale 2014: «Alexandre Desplait è il compo-


i PROTAGONISTI

sitore, abbiamo usato un’orchestra di balalaika trovata a Mosca e portata a Parigi per la registrazione. Si tratta di un mix di sonorità dove la tradizione russa e dell’est Europa incontra il gusto francese». The Grand Budapest Hotel, le cui riprese si sono svolte a Berlino, è ambientato nella Cecoslovacchia degli anni ’20: «Si tratta di cinema americano girato in Europa, proprio come faceva Lbitsch». Alla domanda canonica sulle preferenze nel cinema italiano, Anderson risponde: «Di recente ho visto La grande bellezza di Paolo Sorrentino, regista che amo molto come anche l’attore Toni Servillo. Poi ho visto anche Gomorra, Io sono l’amore, e amo il cinema di Nanni Moretti». Anderson, regista per grandi e piccini (ricordiamo Fantastix Mr. Fox e Moonrise Kingdom), ci racconta le vicissitudini di Moonrise Kingdom, progetto rimasto in can-

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tiere per diversi anni e portato alla luce solo quando Roman Coppola gli ha rivolto una serie di domande, quelle giuste per procedere nella scrittura. «Avevo quest’idea da anni, scrivevo poco alla volta, collezionavo musiche e materiali. Poi un giorno Roman mi ha chiesto a che punto stessi e, dopo aver letto il copione, mi ha fatto delle domande essenziali per la storia. Da quel momento la stesura è stata veloce, eravamo in Italia quando nel giro di 6-8 settimane abbiamo completato il lavoro». Anderson confessa, infine, di voler fare un altro film d’animazione ma di essere al momento in una fase delicata della stesura in quanto il suo sviluppo imbocca vie cupe e violente che allontanano il progetto da un target ‘piccolo’. E non esclude, in futuro, di lavorare con il 3D.

Francesca Vantaggiato


i PROTAGONISTI INCONTRO CON JONATHAN DEMME

Il premio Oscar Jonathan Demme, autore d’indimenticabili successi fra cui Il silenzio degli innocenti e Philadelphia, incontra il pubblico del Festival del Cinema di Roma alla viglia dell’anteprima del suo ultimo film, Fear of Falling, tratto da un’opera teatrale di Henrik Ibsen. Il regista americano parte dall’incontro con Roger Corman: «L’incontro con Corman mi ha segnato per il resto della vita. Stava lavorando a Il barone rosso e mi sono presentato da lui per un lavoro di comunicazione. Avevo visto tutti i suoi film, ero un suo grande fan, e quando mi ha chiesto se fossi capace di scrivere una sceneggiatura, non ho esitato, ho scritto il mio copione e glie l’ho consegnato. Gli è piaciuto e mi ha chiesto di seguirlo a Los Angeles, era un’opportunità irresistibile». Parla della sua ultima opera con orgoglio e passione: “La prima mondiale di Fear of falling è senza dubbio l’esperienza più impegnativa e gratificante della mia vita. L’opera è tratta da Bygmester Solness di Henrik Ibsen, tradotta e adattata da Wallace Shawn, che ha reinterpretato la fantasia di redenzione di Ibsen, mostrando uno dei due architetti rivali sul letto di morte. È una compagnia teatrale straordinaria, quest’opera mi ha fatto commuovere e volevo portarla sullo schermo. Nella realizzazione di questo film mi sono reso conto che non è facile portare al cinema un’opera teatrale, che performance come queste non sono adatte al cinema, ma era mia ferma intenzione celebrare il teatro sullo schermo”. Questo film segna il suo ritorno al cinema indipendente che spiega così: “Non ho mai voltato le spalle alla grande industria. Ho lavorato a un remake di The Manchurian Candidate dopo aver lavorato come regista

indipendente, e il budget a mia disposizione per questo film era immensamente più alto dei precedenti. Quando s’investono grandi cifre per un film, bisogna necessariamente pareggiare la spesa al botteghino e io non volevo questa responsabilità. È giusto investire nel cinema ma a 60 anni, pur sapendo di poter lavorare con grandi cifre, ho deciso di spingermi verso la realtà del cinema indipendente. Parla del suo amore per la musica, che lo porta spesso a litigi con la moglie che vede lo spazio della casa sparire, occupato da vinili e cd. Dichiara, infatti: «Sono un grande appassionato di musica e credo che il cinema riceva e dia qualcosa alla musica e viceversa. La musica, o la sua assenza, può dare un nuovo significato a una scena sia che si tratti di un pezzo originale o riadattato. In Enzo Avitabile Music Life (presentato quest’anno al Festival di Venezia) ho lavorato a stretto contatto con Enzo Avitabile, uno straordinario compositore napoletano. Abbiamo passato una settimana insieme a comporre musica ed è stata un’esperienza molto importante per me. Il tema del film sono gli strumenti musicali e ciò che succede nella fusione della musica individuale di strumenti diversi mentre suonano contemporaneamente. La contaminazione e la collabo- razione delle armonie fa parte anche del cinema e il suo rapporto con la musica è imprescindibile». Non sapendo della presenza di Avitabile, quando lo nota in sala, lascia comparire tutto il suo stupore: Oh my God…Enzo! How are you? Oltre al rapporto con l’artista napoletano, Demme parla delle esperienze con Neil Young e David Byrne: Neil, che tra l’altro ha appena finito il suo nuovo album, è un perfezionista, è attirato dalla sperimentazione,


i PROTAGONISTI

ed è cinematico come Enzo. Lui ama essere ripreso e lavorare con la cinepresa. Come lui anche David Byrne, con cui ho collaborato per Stop Making Sense, il dvd del concerto dei The Talking Heads, è un incredibile perfezionista ed è cinematico anche nei suoi concerti. Gioca con le luci e con i musicisti che trasforma continuamente, rendendoli parte integrante della performance”. Al termine dell’incontro, un’ora e mezzo, letteralmente volata, si avrebbe voglia di

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continuare il discorso davanti a un buon bicchiere di vino come si fa con i vecchi amici, discorrendo ancora un po’ di musica cinema e teatro. Perché Demme si è concesso al pubblico con spontaneità e simpatia, con quell’umiltà che caratterizza sempre i migliori.

Vittorio Zenardi


i PROTAGONISTI INCONTRO CON TAKASHI MIIKE Unico regista a partecipare al concorso ufficiale di entrambe le edizioni del Festival di Roma dirette da Marco Müller, Takashi Miike è tornato in Italia, con lo stile cool e unconventional che lo contraddistingue, per presentare ciò che la sua fantasia ha partorito dopo l'emblematico Lesson of evil del 2012. Quest'anno ci ha fatto toccare con mano -distribuendo un singolare gadget di cui parleremo più avanti- che la sua straordinaria prolificità (si dice che riesca a realizzare più di quattro film all'anno!) non è solo leggenda. Infatti, accanto al film in gara per il Marc'Aurelio d'Oro, intitolato The mole song-undercover agent Reiji, il Maestro ci ha portato dal Giappone un suo ulteriore divertentissimo lavoro: Blue planet brothers. Prima che si spegnessero le luci, Miike ci ha ricordato con un sorrisetto divertito che in sala è vietato fumare... Ed ecco apparire sul grande schermo un mediometraggio dedicato ai fumatori, interpretato da un extraterrestre, un samurai e una fata, cui si aggiunge un esilarante angelo stile trio La Smorfia degli anni '70 (chissà se qualcuno ha fatto vedere a Miike lo sketch dell'Annunciazione con Nello Arena nei panni dell'arcangelo Gabriele?). Manco a dirlo, l'elemento che accomuna quattro personaggi così diversi fra loro è... la sigaretta! Al termine della proiezione, allorchè Giona Nazzaro ha chiesto al regista se era consapevole che gli Stati Uniti non avrebbero mai accolto il suo lavoro pro-tabagismo, lui ha candidamente risposto che personalmente considera l'Italia un paese meraviglioso, anzi «da sogno»... Miike dice di essere un fumatore e il suo Blue planet brothers, politicamente scorretto e sopra le righe, mira a evidenziare che «anche le sigarette hanno qualcosa di buono, se fumate con civiltà». Comunque è lui stesso ad aggiungere che il progetto è stato finanziato dall'industria giapponese del tabacco e che alcuni episodi sono stati trasmessi via web.

A chi era curioso di sapere se e quando il Maestro dormisse, vista la mole e l'alta qualità del lavoro che realizza, l'autore ha spiegato che si limita a seguire il proprio ritmo, senza confrontarlo con quello degli altri e senza curarsi della quantità di film prodotti. Miike ha poi detto di essere considerato un regista strano e misterioso in Giappone, tanto che le sue opere vengono trasmesse di notte, ma lui non sente di appartenere ad alcun genere cinematografico e di volta in volta si concentra sul tipo di storia e sui personaggi che sta raccontando. Anche per quanto riguarda la violenza nei suoi lavori, ha spiegato che non è scontata ma dipende appunto dalla storia e dai personaggi. All'uscita dalla sala, ciascun spettatore ha ricevuto il simpatico gadget nipponico del film (e molti se ne sono accaparrati più di uno, secondo l'invalso costume italico): un raccoglitore di cenere celestino che secondo il suggerimento di Takashi Miike i non fumatori potranno usare come porta-pasticche o porta-preservativi (l'interprete giapponese, sopraffatta dall'emozione, non è riuscita a tradurre l'ultima parola...)!

Lucilla Colonna


i PREMI

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PREMI ASSEGNATI AI FILM IN CONCORSO Marc’Aurelio d’Oro per il miglior film: Tir di ALBERTO FASULO Premio per la migliore regia: KIYOSHI KUROSAWA per Sebunsu kodo (Seventh Code) Premio Speciale della Giuria: Quod Erat Demonstrandum di ANDREI GRUZSNICZK Premio per la migliore interpretazione maschile: MATTHEW MCCONAUGHEY per Dallas Buyers Club Premio per la migliore interpretazione femminile: SCARLETT JOHANSSON per Her Premio a un giovane attore o attrice emergente: tutto il cast di Gass (Acrid) Premio per il migliore contributo tecnico: KOICHI TAKAHASHI per Sebunsu kodo (Seventh Code) Premio per la migliore sceneggiatura: TAYFUN PIRSELIMOğLU per Ben o değilim (I Am Not Him) Menzione speciale: CUI JIAN per Lanse gutou (Blue Sky Bones)

PREMI ASSEGNATI AI FILM DEL CONCORSO CINEMAXXI Premio CinemaXXI per il miglior film: Nepal Forever di ALIONA POLUNINA Premio Speciale della Giuria CinemaXXI: Birmingham Ornament 2 di A. SILVESTROV e Y. LEIDERMAN Premio CinemaXXI film brevi: Der Unfertige (The Incomplete) di JAN SOLDAT Menzione Speciale CinemaXXI cinema breve: The Buried Alive Videos di ROEE ROSEN

PREMIO ASSEGNATO AI FILM DEL CONCORSO PROSPETTIVE DOC ITALIA Premio Doc It – Prospettive Italia Doc per il Migliore Documentario italiano: Dal profondo di VALENTINA PEDICINI Menzione Speciale: Fuoristrada di ELISA AMORUSO

PREMIO PER LA MIGLIORE OPERA PRIMA/SECONDA Premio Taodue Camera d’Oro per la Migliore Opera Prima/Seconda: Out of the Furnace di SCOTT COOPER Premio Taodue Miglior produttore emergente: JEAN DENIS LE DINAHETE SÉBASTIEN MSIKA per Il sud è niente

PREMIO BNL DEL PUBBLICO PER IL MIGLIOR FILM Premio Taodue Camera d’Oro per la Migliore Opera Prima/Seconda: Dallas Buyers Club di JEAN-MARC VALLÉE


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La solitudine infantile del distacco nella nuova cultura degli affetti di coppia di Maria Cera Entro nel Festival di Roma edizione VIII dritta nel concorso ufficiale, con un ritratto di una lacerazione infantile ipnotico, denso, latentemente feroce e violento. Manto Acuìfero è il secondo studio intorno alla solitudine (che conterrà un prossimo ed ultimo tassello della trilogia, nella tappa dedicata alla vecchiaia) che l’australiano naturalizzato messicano Michael Rowe ha realizzato dopo Año bisiesto (opera prima e Camera D’or al Festival di Cannes 2010). In questo secondo lungometraggio – nato dalla lettura a Berlino, in aeroporto, di un racconto dell’autore australiano Tim Wils che ha scosso il regista dentro un pianto lungo 45 minuti, così in conferenza stampa – la riflessione intorno alla solitudine viene caricata interamente sulle spalle di una straordinaria bambina di 7 anni (un vero e proprio talento, la piccola Zaili Sofía Macías Galván). Caro (Carolina per gli altri, mamma a parte) assorbe completamente, emotivamente e fisicamente, un cambio esistenziale del quale è la sola ad avvertire le concrete conseguenze. Estrapolata da Città del Messico e dalla sua famiglia naturale, soggetta come ormai moltissimi figli, allo smembramento di coppia. Sua madre (la credibile, amorevole, egoista e umana Tania Arredondo), si è legata ad un altro uomo. Il divorzio (contemporaneo mezzo di non accollo delle responsabilità di una vita affettiva, a cui con sempre più troppa leggerezza si ricorre), narrato nella chiave estrema di cesura totale (dal poco che il regista ci svela e dai dialoghi, capiamo che Caro non vedrà più suo

padre), diviene man mano che la narrazione si srotola, il protagonista indiscusso dell’isolamento della piccola. È una strana ed affascinante bambina, Caro, quasi autistica nel rapporto con la realtà che la contiene. Solo il contatto con gli insetti e la natura, nell’incolto giardino della nuova abitazione nel Sud del Messico (dalla quale la macchina da presa e noi non usciamo mai, e che simbolicamente rende egregiamente anche il senso claustrofobico-alienante della civilizzazione), alimenta e ‘risolve’ psicologicamente una comunicazione (comunque tutta interiore) che il disagio della piccola ha interrotto quasi del tutto con la madre e che non ha mai iniziato con il patrigno. Inumana nel distacco con cui tratta-ricatta la mamma, fisicamente, emotivamente cercata per qualsiasi cosa, e nel rifiuto della nuova figura paterna (il po’ troppo caricato in freddezza e risentimento Arnoldo Picazzo), bannata da qualunque indiretta condivisione. Caro osserva (e noi con lei, nella distanza di sguardo che la sfocatura visiva interpone allo spazio ‘adulto’ ) tutta la sovrastruttura che madre e patrigno impongono alla propria esistenza, fingendo una normalità autoindotta: quel ‘Il tuo nuovo papà’ impostole come la cosa più naturale del mondo, il guardare un altro uomo toccare la madre, l’ascoltare i loro discorsi sul padre di Caro, e sentire dalla mamma prima di addormentarsi la lettura di favole in cui tutti ‘vissero felici e contenti’ generano in lei poco appetito, pipì a letto, avvisaglie di attacchi di panico. Caro non riesce a decifrare completamente i segni del


MANTO ACUIFERO Michael Rowe

2013

: Messico

: Drammatico

: 85’


MANTO ACUIFERO

turbamento che il mutamento così secco e brutale della famiglia che l’ha generata (e che dovrebbe accudirla per sempre) le fa vivere. Il confronto con la natura pare confermarle questa perpetuità, che in quel mondo non viene intaccata, spezzata. L’impeccabile riflessione di Michael Rowe è contenuta in uno stile qualitativamente alto fotograficamente e tecnicamente, nell’assenza di qualunque suono musicale ingannatore-induttore di emozioni artificiali, dentro un minimalismo visivo e verbale rigoroso e flessibile insieme: il non detto, il sottobosco emotivo nelle sue contraddizioni emerge lampante e crudo in una verità anche estetica (oltre che etica) disarmante. Pure la violenza indirettamente subita dalla piccola nell’imposizione del cambiamento, vibra, vivida, nonostante mai venga direttamente provocata. La si respira. La macchina da presa blocca dentro frammenti immobili pezzi di vita nelle splendide inquadrature compositive di taglio medio basso che ‘riducono l’altezza’ a misura di Caro e coinvolgono l’occhio nella verità di rappresentazione a cui assiste. L’eccessiva indifferenza-sottovalutazione nella gestione psicologica della piccola (troncata di netto nei punti di riferimento), che può apparire

poco realistica ad una cultura occidentale più attenta (apparentemente) alla psiche del bambino, è una falsa e risolutiva modalità di interpretazione della pellicola. L’Occidente crede di affidare ai facilitatori psicologici la gestione di un senso di colpa nei confronti dei figli che, in entrambi gli universi sociali e culturali, non è considerato con l’attenzione delle reali conseguenze prodotte in loro. Michael Rowe (che vive in Messico ormai un’altra vita) aggiunge uno spaccato sociale differente (solo più rozzo nella sostituzioneimposizione diretta di un passaggio emotivo feroce, non mediato) in cui permane, insormontabile (pur in ambienti medio borghesi), una cultura magico-religiosa dove la psicanalisi non è mai arrivata. E la entomologia che emerge, affascinante, è il riflesso speculare dello sguardo che il regista da sempre imprime di rigore ed obiettività all’osservazione umana che con il suo cinema compie. Forte è pure il riflesso di condanna di una civilizzazione completamente dissociata dalla natura (emblematico il rifiuto-noia di Caro di vedere la tv, rispetto al giocare in giardino, maggiormente stimolante e reale nel senso di identità che il contatto con la natura produce), una delle cause più profonde della solitudine dell’essere umano contemporaneo.


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I CORPI ESTRANEI Mirko Locatelli

2013

: Italia

: Drammatico

: 102’

La dignità della solitudine di Emiliano Longobardi Mirko Locatelli è un “costruttore” di emozioni, un artigiano che con il giusto tempo e molta cura cesella le sue opere partendo sempre dal fattore umano. Un lavoro lungo un anno, mesi passati insieme agli attori alla ricerca della direzione giusta così da arrivare sul set pronti e immersi nel ruolo. Il film affronta il tema della malattia raccontando la storia di un padre, Antonio (uno straordinario Filippo Timi), che si trova da solo a Milano per assistere suo figlio gravemente malato. All’interno dell’ospedale, una specie di realtà alternativa che si regge su ansia, dolore e paura, la sua solitudine si scontra con quella di un adolescente, Jaber (Jaouher Brahim), emigrato dopo la primavera araba e che si trova lì per assistere il suo amico Youssef. I corpi estranei sono loro, due anime che si muovono ed entrano in contatto sotto la flebile luce dei neon, accomunati solo dalla malattia di una persona cara. Non è facile raccontare ciò che accade in un ospedale senza scadere nel banale, nella semplice contemplazione del dolore altrui, ma il regista scava in profondità dentro le emozioni dei protagonisti, i loro volti raccontano un’esperienza che non ha bisogno di parole. L’esperienza come regista di documentari aiuta Locatelli a mantenere il giusto distacco, non si concede tempi morti, non dilunga le scene inutilmente, e soprattutto mostra con profondo rispetto il pudore dei protagonisti, non la vergogna, ma la volontà con cui difendono e curano i loro sentimenti, le loro paure. Sono tutti eroi i personaggi coinvolti in questa storia, eroi silenziosi che si muovono nell’ombra ma lottano per la sopravvivenza con tenacia, spesso abbandonati e lontani dalle famiglie. Nel voler trovare per forza un lato negativo possiamo dire che forse i temi trattati sono

troppi per una sola pellicola, la malattia, la paternità e l’integrazione sono spesso tematiche che riempiono da sole un film intero, ma si tratta di un esercizio inutile perché non c’è contraddizione o confusione in questo film. I corpi estranei è un’opera riuscita, un elogio delle emozioni più pure che rapisce e convince regalando momenti di vero cinema autoriale.


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Diritti umani e sanità negli Usa di Valentina Calabrese Era atteso e forse da molti il più atteso, il nuovo film di Jean-Marc Vallée, Dallas Buyers Club, in anteprima e in concorso al Festival Internazionale del Film di Roma. Un film, ispirato a una storia vera degli anni ‘80, la cui sceneggiatura ha girato per i corridoi delle produzioni hollywoodiane per quindici anni anni prima di finire nelle mani di Vallée. Da qualche tempo, poi, il web aveva anticipato delle foto sconvolgenti dei protagonisti Matthew McConaughey e Jared Leto, trasformati fisicamente per questo ruolo, scheletrici e praticamente irriconoscibili. In prima linea c’è McConaughey nei panni di Ron Woodroof, il creatore del Dallas Buyers Club. Chi e Ron? Un figlio del Texas, campione del rodeo, un elettricista che conduce una vita fatta di vizi estremi, senza rincorrere alcun obiettivo. È proprio questa sua esistenza dissoluta a portarlo a contrarre il peggiore dei virus esistenti, considerato in quegli anni una malattia senza cura. Dopo un primo rifiuto della verità, Ron farà i conti con le prime difficoltà, innanzitutto la discriminazione. Già perchè in quegli anni, l’AIDS era per tutti la malattia degli omosessuali e in Texas, da sempre paese non particolarmente avanzato per la questione dei diritti, l’omofobia era (e probabilmente è ancora) predominante. Ron viene subito allontanato dagli amici restando solo a fronteggiare una malattia che pian piano lo corrode dentro, soprattutto considerando che, lo stesso ospedale, dopo la diagnosi, depone le armi, lasciandolo andare morente. Ron però non e un uomo qualunque, si informa sul virus, e scopre varie cure non ancora approvate che potrebbero, anche se

non curarlo, permettergli una sopravvivenza maggiore dei 30 giorni indicati dai medici. Parte così alla volta del Messico dove sa di trovare un dottore che può aiutarlo. Il dottore in questione è stato radiato dall’ordine perchè non ha voluto piegarsi ad un brutto gioco, quello delle industrie farmaceutiche che corrompono la commissione della FDA americana (Food and Drug Administration) per far approvare solo ciò che conviene per una questione puramente economica. Questo sistema non può andare avanti e Ron, spinto da una irrefrenabile voglia di vivere, da tossicomane si trasforma in paladino dei diritti dei malati di AIDS, fondando un club a Dallas che permetterà a chi soffre di continuare a vivere, nel miglior modo possibile. Accanto a lui due grandi personaggi, il trans Rayon (Jared Leto), un uomo sensibile e generoso che aiuterà Ron a comprendere l’omosessualità e a non averne paura e la dottoressa Eve (Jennifer Gardner), una donna intelligente e coraggiosa che sarà di grande supporto per Ron. I 30 giorni, diagnosticati, diventano anni e Ron, pur non riuscendo a sovvertire il malato sistema sanitario americano, ha la straordinaria occasione di sensibilizzare coloro che incontra aiutandoli a sopravvivere. Dallas Buyers Club, proprio come il suo personaggio cerca di fare, diventa dunque un’occasione unica e sensazionale per ricordare una verità, quella dell’omofobia e delle società farmaceutiche, ancora oggi dominanti, discriminanti negli Stati Uniti e nel resto del mondo. Da vedere per tre motivi: la tematica, la regia e la straordinaria interpretazione dei protagonisti.


DALLAS BUYERS CLUB Jean-Marc Vallée

2013

: USA

Drammatico

: 117’


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Emozioni e tecnologia di Valentina Calabrese

Il cinema è una macchina senza tempo che permette a chi sa manovrarla di raccontare storie talmente intense da modificare il pensiero di chi le osserva. Questo è quello che dovrebbe essere, spesso non accade, ma quando si ha l’occasione di assistere a questo straordinario processo, è difficile dimenticarlo. Questo è il caso di Her, il nuovo film di quel brillante Spike Jonze. Un artista poliedrico, famoso per i suoi videoclip e per la bravura nel realizzare film illuminanti e spiazzanti come quando ci ha permesso di entrare nella testa di John Malkovich in Essere John Malcovich. Questa volta ci troviamo a conoscere da più vicino un’altra personalità complessa e sensibile, quella di Theodore, interpretato da un grande Joaquin Phoenix. Siamo in un mondo in cui la tecnologia ha preso il sopravvento sull’uomo, è qui che iniziamo a conoscere Theodore, a pezzi a causa della separazione dalla sua Catherine (Rooney Mara). Per colmare il grande vuoto, installa un nuovo sistema operativo, una versione molto più evoluta dell’odierno Siri. Samantha, questo è il suo nome, è un sistema intuitivo che sa ascoltare, è divertente, intelligente. Grazie a lei, Theodore, può riorganizzare la sua esistenza quotidiana e non servirà molto tempo prima che diventi una vera e propria compagna. Interpretata dalla bellissima e profonda voce di Scarlett Johansson, Samantha aiuterà Theodore a rivivere

emozioni di recente soppresse. Le conversazioni che intrattengono sono così stimolanti, divertenti e profondamente reali da non farci mai renderci conto che di realtà non si tratta. Il loro sentimento, infatti, non è virtuale ma è tangibile. Gli amici e i colleghi hanno lo stesso sistema operativo, non tutti lo vivono nel medesimo modo, proprio come avviene nelle normali relazioni interpersonali. Qui sta la bellezza narrativa del film. Attraverso la storia di un rapporto virtuale, come tante ne abbiamo lette e viste anche al cinema, Spike Jonze racconta della ricerca eterna ed universale dell’amore e della gioia, una ricerca che tutt’ora resta confusa. Due persone si conoscono, si innamorano, poi crescono, cambiano e non sempre restano insieme. A volte capita di buttarsi a capofitto in una relazione per colmare un’assenza oppure perché si sta cercando un certo tipo di persona accanto, e così ci si dimentica di comprendere e conoscere fino in fondo chi abbiamo di fronte. Questo è il tema del film, tutto il resto, come l’isolamento della tecnologia, la solitudine esistenziale dell’uomo moderno è dunque solo un pretesto narrativo per raccontare qualcos’altro. Altissimo il livello della qualità narrativa ma non solo, Spike Jonze realizza questa volta un film che vince in tutti i suoi piani, come la musica degli Arcade Fire e soprattutto la fotografia di Hoyte Van Hoytema, calda e vintage, realizzata con il preciso scopo di contrastare l’ipertecnologia del nostro mondo.


HER Spike Jonze

2013

: USA

I due attori, poi, Phoenix e la voce, Scarlett Johansson, riescono a entrare nella nostra mente; le loro conversazioni, rivivono in noi, nella nostra realtĂ di coppia e riecheggiano senza abbandonarci. Accanto ai due protago-

Com, Dram, Rom, Fantas

: 120’

nisti, altrettanti grandi interpreti, come Amy Adams, amica di Theodore, anche lei alla ricerca della gioia. Il film, in concorso al Festival Internazionale del film di Roma ha commosso tutti e rischia davvero di vincere.


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VOLANTIN CORTAO Diego Ayala e Anibal Jofré

2013

: Cile

: Drammatico

: 76’

La violenza di un destino di Vittorio Zenardi I giovani registi Diego Ayala (24 anni) e Anibal Jofré (25) si presentano in Concorso con Volantin Cortao, opera che fa della vocazione realista il suo punto di forza. Storia di ribellione giovanile che fermenta ai margini di una Santiago del Cile straniante e violenta, divisa fra un centro moderno e scintillante e una periferia degradata senza apparenti regole da rispettare. In questo scenario si troveranno a vivere i due protagonisti: Paulina (Loreto Velazquez), studentessa che vuole diventare assistente sociale, e un ragazzo “difficile” che conosce nella struttura dove fa il tirocinio, Manuel (René Miranda). Invece di attrarlo nel suo mondo fatto di regole e legalità, Paulina si troverà immersa gradualmente nel duro mondo che ha modellato Manuel. Pur non essendo ben vista dalla gang degli amici di Manuel; «tu sei quella del centro, vieni per fare la spia», spera di trovare in quel microcosmo la rivincita alla sua mediocrità per uscire dalla routine familiare che ormai pare soffocarla. La litigata con il direttore del centro, che la esclude dal tirocinio per le frequentazioni con Manuel, serve a livello narrativo come detonatore di una violenza a lungo covata e rimastra inespressa (vedere la scena in cui spacca il parabrezza dell’auto del direttore). La sua iniziale voglia di redimere Manuel pare bloccarsi, quando si accorge che sono più le somiglianze che le differenze a unirli. Fino a quando arriverà addirittura a proporre a Manuel di svaligiare una casa dimostrando più sfrontatezza del ragazzo. La macchina da presa accompagna i due protagonisti, come la teoria del “Pedina-

mento” di Zavattini insegna, scandendo la loro quotidianità e il loro avvicinamento. La realtà di una città disgregata e in alcune sue parti anarchica è ben resa dai due registi cileni, che dimostrano anche di saper ben armonizzare la sceneggiatura all’interno dell’opera, dando il giusto ritmo ai dialoghi. Anche la musica prevalentemente diegetica ben s’inserisce nella struttura complessiva, come si nota nella scena del tram in cui Manuel canta e suona il bongo. Una buona opera che ricerca e scava nell’intimità dei personaggi, aiutata da un’interpretazione credibile e spontanea dei giovani attori.


71

OUT OF THE FURNACE Scott Cooper

2013

: USA

Drammatico

: 116’

Il ritorno del Western di Emiliano Longobardi Russell Baze è un uomo esemplare, operaio in un’acciaieria, figlio devoto che accudisce il padre malato, fidanzato tenero della giovane Lena e soprattutto fratello dell’amato Rodney, il reduce dall’Iraq che non trova la sua strada nel mondo. Un tragico incidente stradale spazza via tutto, arriva il carcere, la morte del padre e l’abbandono della fidanzata, ma quando Russell esce c’è ancora qualcuno che ha bisogno di lui, Rodney, che si è infilato in un brutto giro di lotte clandestine. In un paese dove vince chi è più forte, i due fratelli entreranno in una spirale senza fine di violenza, dall’esito impossibile da prevedere. Chiaro omaggio al genere western, ma ambientato nel vuoto della società contemporanea, il film di Cooper ha alcuni elementi che lo rendono straordinariamente funzionante, ed altri che invece non lo aiutano. In primo luogo la struggente interpretazione di Christian Bale, a conferma del suo innegabile talento da trasformista, che regala una tensione sempre palpabile al suo Russell, l’uomo comune dall’animo nobile che deve farsi giustizia da solo. Convincente anche il giovane Casey Affleck che interpreta Rodney, il fratello devastato dagli orrori della guerra, ma la gara è tra giganti dato il cast di lusso che Cooper ha avuto a disposizione, che va da Forest Whitaker a Woody Harrelson passando per Sam Shepard e Willem Dafoe. Le immagini desolanti della città industriale sono accompagnate da musiche lente, quasi ipnotizzanti così come il gioco di luci e ombre orchestrato dal regista. È sempre presente un richiamo alla religione, anche nella fisicità di Bale (basta vedere il suo volto ed il suo passo

lento), che si addossa i peccati del fratello e cerca di salvarlo, ed ogni protagonista di questa storia mette alla prova il povero Russell Baze. Interessante per la sua messinscena, Out of the furnace poteva dare di più in quanto a qualità della trama, troppo appiattita su temi già visti e già sentiti, ma rappresenta comunque un valido esempio di cinema che gioca con il talento dei suoi protagonisti regalando performance inattese.


72

Un dramma autobiografico di Francesca Vantaggiato

Il 69enne Nils Malmros, uno dei più importanti se non il più importante e influente regista danese degli ultimi tre decenni, autore leader del movimento realista nonché ammiratore e seguace dell’avant-garde francese con Truffaut come maestro, costruisce sui toni del thriller meta-cinematografico una storia di educazione sentimentale, una storia vera. Sorrow and Joy è un po’ una summa della carriera di Malmros fatta di incontri tra cinema e vita personale, omaggi – o plagi – al cinema amato, rappresentazioni emotive della collettività. Sorrow and Joy è un’incredibile storia autobiografica. Nel 1984 il regista Johannes/Malmros torna a casa e vive una tragedia: la figlia Marie è stata uccisa dalla moglie Signe, ora in attesa di giudizio. Johannes si batte per proteggerla e ridarle un’altra possibilità. L’estetica fredda e realistica dell’immagine è il corrispettivo visivo di una storia che procede a ritroso per addentrarsi nel passato della donna accusata del feroce delitto. Lo stile didascalico del regista ci serve con cura – troppa – ciascun dettaglio di ogni passaggio verso l’infanticidio: scopriamo così l’adolescenza turbolenta di Signe, il tentato suicidio, il ricovero in un ospedale psichiatrico, la paura dell’abbandono causata da una madre poco attenta, la gelosia scatenata da un regista narcisista invaghito della sua attrice feticcio appena sedicenne (sensuale e maliziosa proprio come Signe alla sua età),

la malattia psichiatrica di una donna maniaco-depressiva bisognosa di cure. Malmros ha una spiccata sensibilità nell’addentrarsi in finezze psicoanalitiche che sminuisce, sfortunatamente, ricorrendo all’uso eccessivo della chiarificazione minuziosa e inutile. I difetti inconfutabili del film sono giustificabili dal diretto coinvolgimento nel dolore e nella gioia di un matrimonio e di un delitto, comprensibile è l’esitazione e l’imperfezione nel fare i conti con il rimosso. Frutto di un pensiero ragionato è la rappresentazione del regista – di sé – come una creatura intellettualmente fine, con punte di meschinità nella sua intransigenza contro il perbenismo borghese, fedele innamorato del suo lavoro a cui sacrifica tutto, coinvolto in un gioco di seduzione ed erotismo (negati) con l’attrice protagonista dei suoi film convinto sia la chiave per indurre lo spettatore a flirtare idealmente con la sua eroina e ad amare, infine, la sua opera. Interessante è l’accento sulla collettività danese, avanguardista già negli anni ’80 che, emancipata e scevra da giudizi di ordine morale, supporta attivamente la donna – insegnante amata e stimata – comprendendone il dolore senza condannarla. Infine, rivoluzionaria e inaspettata è la lettura dell’infanticidio, approdo ultimo di un disturbo psichiatrico trascurato che ha origini lontane e colpe collettive, gesto straziante concepito per porre fine a un amore difettoso (quello di un marito egoi-


SORROW AND JOY Nils Malmros

2013

: Danimarca

sta), metafora disperata e malata di salvezza. Uccidendo Marie, sua gioia più grande nonché frutto dell’amore con Johannes, Signe spera di annientare un amore insano portatore delle gioie più grandi e di dolorose incomprensioni che la sta uccidendo lentamente, giorno dopo giorno. A distanza di 26 anni dalla tragedia, ritroviamo la coppia ancora insieme, lei graziata dal tempo proprio come la protagonista di un romanzo di cui parlavano anni prima, lui invecchiato, pieno d’amore e gratitudine per lei, lontano ormai dalla carriera cinematografica. La sua ‘biografia’ registica manca però di un capitolo: dall’innamoramento ai tempi delle medie,

Drammatico

: 107’

a quello del liceo, intrecciato all’ossessione di un padre geloso e restio a lasciar andare la figlia ormai cresciuta (sublimazione dei sentimenti del regista per la sua attrice feticcio), la scansione in capitoli cinematografici sull’amore è stata privata dell’ultimo appuntamento, quello in cui si impara ad amare. Un apprendimento doloroso che passa per il lutto e per l’uccisione di un io strabordante. Peccato che l’introspezione tesa al massimo per via del carattere autobiografico della storia sia inficiata dalla negazione imposta all’immaginazione degli spazi ‘bianchi’ nella scrittura e alla personale costruzione di senso a cui lo spettatore mediamente attivo ambisce.


74

Romania in bianco e nero di Veronica Mondelli

Quod erat demonstrandum: così i matematici concludono una dimostrazione, con un c.v.d., un come volevasi dimostrare. Subito dopo i titoli di testa, il regista ci mostra il protagonista, Sorin Parvu, un matematico alle prese con la lavagna, una dimostrazione e un tanto agognato quod erat demonstrandum. Siamo in Romania, sotto il governo di Ceausescu. Sorin ha trentacinque anni, insegna all’università e ha un interesse illimitato nei confronti delle serie di Fourier, serie che hanno possibilità di applicazione pressoché infinite. Ma come si può sperare di dare spinta all’evoluzione tecnologica e comunicativa sotto un potere tanto accentrato? E, infatti, Sorin è un sorvegliato speciale: non riesce a finire il dottorato, non riesce a pubblicare nulla. In realtà, dietro la vita tranquilla di Sorin, si nasconde un continuo traffico di pubblicazioni universitarie all’estero, dove Sorin ha potuto dimostrare le sue teorie. Pubblicazioni che, però, l’uomo tiene nascoste al governo. Sorin, in particolare, ha bisogno di pubblicare in Francia: e chiede aiuto ad Elena, una sua amica di gioventù e moglie di un rifugiato romeno in terra francese. L’opera, sulle prime, non appare necessaria; tuttavia si comprende bene il fatto che un tale argomento debba essere ancora molto acceso e dibattuto in Romania. È indubbio, in ogni caso, l’elevato talento di Gruzsniczki, che realizza un’opera controllatissima: proprio come se, di sequenza in sequenza e di inquadratura in inquadratura, il regista non potesse perdere alcun passaggio, come se

stesse affrescando la lavagna con una dimostrazione matematica – pena il fallimento della propria tesi. Gruzsniczki opta per il bianco, il nero e il grigio in tutte le sue sfumature; il bianco e nero è una scelta che dà un classico senso di passato ma che, allo stesso tempo, permette al regista di controllare ulteriormente l’opera con una supervisione costante sulla cromia (su due soli colori, i giochi cromatici sono rigidi). Inoltre – sembrerà forse esagerato tirar fuori un’idea simile – un bianco e nero di questa fattura ricorda molto il modo in cui il bianco del gesso sporca il nero della lavagna: e ci troviamo, ancora una volta, a sottolineare il valore di dimostrazione scientifica che questo film ha. La dimostrazione scientifica passa anche per le inquadrature e la composizione della scena. La macchina da presa è quasi completamente statica, non esiste il concetto di campo-controcampo nei dialoghi; e, tuttavia, quando occorre muoverla, il regista realizza movimenti sempre controllati e mai gratuiti, affinché la forma abbia un suo corrispettivo nel contenuto e non sia mai mero orpello. Come ragionati sono i movimenti precisi degli attori e dettagliate sono le scenografie: quelle casalinghe sembrano caotiche ma sono cariche di un loro preciso senso nella disposizione degli oggetti. Le scenografie dei luoghi di lavoro, invece, appaiono geometricamente lineari, quasi un revival della Bauhaus. Tutto, così, assume un tono scientifico, anche se parliamo di arte: e la scientificità si traduce in una forma che ricorda i migliori film del passato – sovvengono il


QUOD ERAT DEMONSTRANDUM Andrei Gruzsniczki

2013

controllo dreyeriano e alcune atmosfere tarkovskiane. Forse, tanta scientificitĂ , a partire dal titolo, rischia di affossare il film, che spesso diventa difficile da seguire e che emotivamente prende poco (solo dopo una prima ora introduttiva, inizia a spiccare il volo). Nel film non esi-

: Romania

Storico/Politico

: 105’

ste il concetto di azione hollywoodiana, ma solo, matematicamente, teoremi. Dimostrazione che il cinema di Gruzsniczki è un cinema classico, che narra la Storia con il supporto solido di una forma ragionata proveniente dal passato.


76

La censura cinese di Luca Biscontini

Finalmente visiono un film in concorso, Blue sky bones del regista cinese Cui Jian. Non avendo mai sentito nominare l’autore in questione, mi faccio un giretto su internet e scopro che è stato un’icona rock in patria e che, a causa della sua musica, ha subito violente censure da parte delle autorità cinesi nel corso di tutti gli anni ’90. Questa informazione è utile per comprendere l’importanza che la parte musicale riveste nel film, anzi si potrebbe proprio dire che è una canzone la vera protagonista del lungometraggio d’esordio del regista cinese. La storia è intergenerazionale, si sviluppa dagli anni settanta ad oggi, e mette in scena le vicende di una famiglia – padre, madre e figlio – attraverso le quali viene affrontata la questione della libertà, declinata in maniera differente a seconda delle epoche storiche cui ci si riferisce. Tutto ruota intorno a una canzone, intitolata “La stagione perduta” che, osteggiata dai caporioni della rivoluzione culturale, comporterà la condanna della protagonista ai lavori forzati. Qui conosce un uomo, e, pur non amandolo – in realtà era attratta dall’amico omosessuale -, lo sposa, e dalla loro unione nasce un figlio, Zhong Hua. Nel frattempo la donna scopre che il marito è una spia e, mentre sta fuggendo portandosi via il figlio, gli spara, provocandogli una ferita. La narrazione è volutamente molto confusa, c’è un montaggio alternato che dagli anni settanta ci catapulta alla contempora-

neità in cui Zhong Hua, anch’esso alla prese con la canzone della madre, si trova a doversi districare dalle maglie del sistema capitalista, con riferimento alle logiche del mercato discografico e alla apparente libertà della rete. Insomma, c’è un evidente attenzione al problema della censura esercitata nei confronti della libertà d’espressione, però le questioni sollevate non vengono analizzate adeguatamente, poiché i contesti storici rimangono solo uno sfondo rispetto alla saga famigliare che prende il sopravvento nella narrazione. La questione emotiva – l’amore negato e ricercato – svetta in maniera non misurata nell’economia della storia, e ci si sente smarriti rispetto alla mancanza di linearità del racconto (eccessiva anche la presenza della voce off, proprio per sopperire alla mancanza di rappresentatività delle immagini). La sensazione che si prova è che il regista, un po’ inesperto, abbia concentrato in un solo film troppi elementi, e che non abbia saputo gestire tutta questa materia. Il risultato è un po’ un pasticcio che non convince. Per non parlare poi della sequenza finale in cui, per celebrare la tanto osteggiata canzone, assistiamo a una sorta di videoclip abbastanza kitsch, che sa di “cineseria”. Quindi, troppo impeto e poca capacità di ordinare una storia che aveva in sé una forza espressiva interessante. Un’occasione mancata.


BLUE SKY BONES Cui Jian

2013

: Cina

: Drammatico

: 101’


78

Oltre il campo visivo di Francesca Vantaggiato

In 60 minuti di messa in scena Kiyoshi Kurosawa ci regala un twist, arti marziali, lotte criminali russo-nipponiche, il traffico di armi nucleari con annessi intrighi di palazzo, l’inganno dell’apparenza e la verità celata dietro di essa, una metafora di vita cantata, l’ossessione tutta cinese che la ricchezza porti al potere, esplosioni azzeranti. In 60 minuti si condensano generi cinematografici, figure classiche, perdite, inseguimenti, accoglienza e distacco, amore e tradimenti, doppiogiochismi, destini beffardi, per ricordarci che – proprio come nella vita – quanto visto dagli occhi non è tutto. Come l’accordo di settima (definizione ripresa metaforicamente nell’inserto musicale) è considerato dissonante nella teoria musicale, così gli avvenimenti di Seventh Code sono aspri e stridenti, inaspettati e cinici, in armonia solo con l’idea di realtà-verità negata a prima vista. Kiyoshi Kurosawa ci spinge pertanto oltre il campo visivo costringendoci a riempire di senso il non detto-non mostrato. Russia, Vladivostok. La giovane e bella Akiko (interpretata dalla popolare cantante giapponese Atsuko Maeda) arriva da Tokyo decisa a incontrare l’uomo con cui cenò una sola volta, l’imprenditore Matsunaga, che presto scopriamo essere invischiato in traffici loschi con la mafia russa. Lui la respinge senza mezzi termini, mentre lei trascina il suo trolley ovunque pur di stargli alle calcagne. Accolta da una coppia che gestisce un ristorante sull’orlo del fallimento, Akiko si avvicina

e ascolta le teorie della ragazza (cinese) secondo cui il denaro è potere, motivo per cui abbandona il compagno, protagonista di scelte imprenditoriali fallimentari. Gli elementi di una storia d’amore lineare sono stati ben costruiti solo per essere poi confutati a riprova della tesi principale secondo cui la realtà contiene molto di più di quel che riusciamo a vedere. Sebbene sia solo un’ora di girato, Kurosawa vuole tutta la nostra attenzione e ci sollecita senza sosta poiché il suo film, in fondo leggero, presuppone intuizione, immaginazione, costruzione di senso, ci impone insomma uno sguardo attivo. I pochi personaggi e quel poco che ci è dato sapere di loro sono in realtà dei microcosmi appena accennati, un work in progress che siamo liberi di mescolare e approfondire a nostro piacimento. Nel finale, di cui non vogliamo rivelare alcun dettaglio, Kurosawa chiude la vicenda di Akiko concedendoci ancora una volta la possibilità di scegliere la traiettoria preferita tra destino, casualità o probabile salvezza, lasciando traballare nell’incertezza la definizione morale di lei: è vittima (in senso ampio) o aguzzino? Uno scorcio di vita piuttosto solido e variopinto il quale, tutto sommato, non si può encomiare né per una lettura cinematografica rivoluzionaria né per essere una rivelazione esistenziale assoluta. La visione di Seventh Code è stata accompagnata da un progetto ancora più corto,


SEVENTH CODE Kiyoshi Kurosawa

2013

Beautiful New Bay Area Project (CinemaXXI), 29 minuti di scazzottate e poco amore tra il rampollo disadattato di uno studio edilizio e un’operaia presso il complesso marittimo che il gruppo guidato dal ragazzo ha pensato di

: Giappone

Thriller

: 69’

abbattere per portare avanti il progetto di modernizzazione urbana. Una mini-realizzazione filmica descritta dal prolifico regista nipponico come il primo film d’azione della sua carriera. Una piccola idea senza troppe pretese.


80

ENTRE NOS Paulo Morelli

2013

: Brasile

: Commedia

: 97’

Lettere dal passato di Vittorio Zenardi Entre nos diretto da Paulo Morelli, affiancato dal figlio Pedro, racconta la storia di sette giovani ragazzi brasiliani con aspirazioni letterarie, che si ritrovano in uno stupendo casolare immerso nella natura incontaminata nelle montagne di San Paolo. Siamo nel 1992 e durante questo incontro, a base di alcool e canzoni, decidono di scrivere delle lettere a se stessi che sotterrano in giardino, promettendosi di riaprirle dopo dieci anni. Quando si ritroveranno allo scadere della fatidica data, i loro sogni si saranno affievoliti insieme a quell’energia vitale che aveva caratterizzato la loro gioventù. Le lettere parlano di persone che non esistono più, trasformate in qualcos’altro dallo scorrere del tempo. Inoltre porteranno alla luce una verità scomoda celata negli anni. Morelli spiega così questo passaggio: «Il film parla della propria crescita personale, del passaggio all’età adulta e di come i sogni si trasformino durante la vita. M’interessava anche analizzare il rapporto tra amicizia e tradimento. I sogni, a volte, si realizzano solo a costo di un tradimento». Il merito della pellicola è di portare sullo schermo una certa freschezza tipica del cinema sudamericano. Il legame fra i protagonisti appare convincente e spontaneo, grazie anche alle due settimane che il regista ha fatto passare a tutto il cast nella casa prima delle riprese. Gli attori hanno così potuto dare il loro contributo anche in fase di sceneggiatura con suggerimenti e dialoghi scaturiti dalla reale permanenza insieme. Il debito verso un capolavoro come Il grande freddo di Lawrence Kasdan è evidente. Pro-

prio questo confronto mostra la mancata capacità di quest’opera di far identificare lo spettatore con i personaggi, non riuscendo a rappresentare modelli universali. La sceneggiatura a volte dice più di quello che dovrebbe e si affida a immagini simboliche (vedi quella dell’insetto capovolto) che semplificano più che dare una svolta narrativa. Tutto sommato un’opera godibile e mai pretenziosa che risulta, però, incompleta. Per finire una curiosità: tutto il cast ha sotterrato delle lettere che aprirà fra dieci anni, forse un pretesto per un nuovo film insieme.


81

I AM NOT HIM Premio per la Miglior sceneggiatura

Tayfun Pirselimoglu

2013

: Turc/Grec/Fran/Germ

Drammatico

: 123’

Due solitudini di Elisabetta Colla Vincitore del Premio per la Migliore Sceneggiatura al Festival Internazionale del Film di Roma, il lungo e lento ‘I Am Not Him’ (titolo originale ‘Ben o değilim’), del regista e sceneggiatore turco Tayfun Pirselimoğlu, pur interessante film d’autore su temi quali il doppio, l’identità, il destino e la libertà - sia in senso individuale e sia nazionale, con un forte accento sulla questione detentiva turca e la brutalità della repressione di chiunque non si adegui al sistema - non sembra brillare per originalità, sia relativamente alla storia, che rivela e mette troppo presto le carte in tavola, sia nel rigore quasi ossessivo dei piani sequenza con camera fissa che, se da un lato sottolineano la paralisi esistenziale dei protagonisti, dall’altro non convincono lo spettatore - anche il più allenato - al quale non viene concesso nulla in termini di decifrabilità né tantomeno di vissuti emotivi, se non alcuni bei momenti ‘visivi’ di immagini scolpite che restano a lungo nell’occhio. La trama, apparentemente semplice, si sviluppa intorno all’incontro fra due solitudini, quella di Nihat lavapiatti di poche parole in una mensa ospedaliera, che trascorre tristi serate in una casa deserta talvolta in compagnia di film porno, e quella di Ayse, giovane donna misteriosa, assunta alla mensa quando il marito finisce in carcere. Dopo poco tempo fra i due nasce una relazione strana ed ambigua: Nihat si trasferisce a casa della donna e si accorge di somigliare come una goccia d’acqua al marito detenuto così, a poco a poco, comincia ad assumerne l’identità ed il carattere, nelle abitudini di coppia, nella vita quotidiana, e ne diviene il doppio a tutti gli effetti - verso l’estraniazione dalla sua condi-

zione o in una ricerca di sé nell’altro-da-sé? fra la riprovazione sociale dei colleghi di Ayse, ed il connivente ‘laissez-faire’ della donna. Statico, surreale, paradossale il film procede fra silenzi desolanti, luoghi squallidi, umanità senza speranza, in un clima carico di angoscia ed alienazione, fino ad un forse inevitabile epilogo. L’accettazione ed il pes- simismo, a detta dello stesso regista, sembrano essere la chiave di lettura principale del film.


82

Quell’immobilismo che è divenire di Maria Cera

Vítor Gonçalves, un punto di riferimento del cinema portoghese contemporaneo, docente alla Escola Superior de Teatro e Cinema di Lisbona, dopo vent’anni da Midnight (1988) e da A Girl In Summer (1986), con A Vida Invisível torna dietro la macchina da presa imbastendo una sfida interessante ed ardua, dentro la quale cade più volte, pur rimanendo flebilmente attaccato ad uno spirito, ad un’anima. L’anima di se stesso, l’anima del suo paese. Hugo (Filipe Duarte) è un impiegato ministeriale isolato dalla vita: già dentro un irreale – un altrove – da cui viene irrimediabilmente risucchiato. L’unico ‘mondo’ capace di riempire un’essenza che lui stesso non riesce ad afferrare. Specchia se stesso nel suo ‘alter ego’, Antonio (omaggio, nel nome, da parte di Gonçalves, al suo amico e mentore António Reis, compianto maestro del cinema portoghese), unico e reale legame umano da cui indirettamente riceve un minimo confronto, sul quale fa cadere insicurezze, attraverso il quale decifra il proprio modo di essere (“Lui non ha capito, lui non mi conosce”). Antonio (João Perry) e la sua parallela solitudine (più viva e consapevole di quella di Hugo) stanno per subire l’ennesima operazione chirurgica, ben conscio che la fine è prossima. I super 8 di Antonio (di mare, di coste, di montagne, stati visivi di stacco dall’ordinaria quotidianità) diventano il non detto tra i due, quel lascito ‘criptico’ dalla cui visione Hugo avvia un percorso a ritroso di pensiero e nel pensiero, dove viene

messa a nudo la sua condizione di inazione. Il fuoricampo vocale e la fisicità del nostro protagonista riempiono i luoghi che la macchina da presa attraversa in una fusione tra materia e spirito non perfettamente riuscita. È più la materia, sia solida che liquida, a dare sostanza all’altrove. Le stanze della grande casa di Hugo, quasi sempre in penombra, gli esterni degli edifici storici mostrati come un’apparizione negli affondi di prospettiva lenti, sinuosi. La Piazza del Commercio di Lisbona, fissata nella metamorfosi ricostruttiva di simbolo metafisico che abbraccia-include la sospensione che la contiene. E il mare… Stordisce, per quanto vivido sia quell’invisibile che mostra, dentro un azzurro ipnotico che pare gettarsi in un orizzonte di nulla. I quesiti irrisolti e le riflessioni che Hugo si pone intorno a se stesso alla ricerca di quel qualcosa che Antonio voleva dirgli, i confronti sterili con l’ego opposto di un collega, fantasma di un reale ferocemente amaro sulle vie di fuga che Hugo si dà, e l’amore incarnato nella figura di Adriana (Maria João Pinho), complice nello stato di smarrimento esistenziale, di indecisione (“Ho fatto e pensato male in questi mesi”), incapace però di condividere, pur amandolo, quell’alienazione dal mondo che Hugo ha abbracciato… quel legame con l’immanenza che gli parla, gli sussurra attraverso l’esterno percepito dalle fessure delle serrande, nel buio in cui convive, dentro la solitudine del suo lavoro… Una relazione con un immutabile che fa di Hugo e della realtà che lo circonda un


A VIDA INVISÍVEL Vítor Gonçalves

2013

fantasma di un perenne immobilismo, esso stesso divenire. Peccato che proprio sulle atmosfere umane il regista inciampi in un’affettazione (gli attori sono spesso inadatti ad espandere in modo credibile stati d’animo, a fondersi con la rispettiva voce fuori campo), in una forzatura di atmosfera che dilata troppo i tempi emotivi,

: Portogallo

: Drammatico

: 99’

sgonfiandone parecchio potenziale interiore. Pure i tempi filmici di questo viaggio di coscienza sono eccessivi: la morte di Antonio fa ripartire il film in una ‘rivelazione’ per Hugo, che arriva quando si è già logorati da uno stato visivo e narrativo troppo disteso, compiendo un ulteriore giro di boa prima di arrivare alla chiusura del cerchio.


84

Un film falsamente dispari di Maria Cera «Il bello del jazz è che puoi prendere un tema di Bach e improvvisare. Non importa da dove viene quel tema; il modo in cui lo elabori diventa jazz». Dave Brubeck

Il giovane regista Guido Lombardi e l’attore-produttore Gaetano di Vaio avevano fra le mani un materiale davvero interessante. Un classico del Jazz, come Take Five e la sua metrica in 5/4 nell’ispirazione (titolo della pellicola). 5 assoli esistenziali (incarnati in attori altrettanto irregolari nelle vicissitudini private): un idraulico con il vizio del gioco (Carmine Paternoster), un ricettatore (Gaetano di Vaio), un malavitoso leggendario vittima della depressione (Peppe Lanzetta), un pugile squalificato a vita (Salvatore Ruocco), un fotografo di matrimoni, ex rapinatore, ex infartato, in attesa di un trapianto (Salvatore Striano). Il ritmo irregolare di una Napoli, anima ‘jazz’ per eccellenza nel DNA di atmosfere che la contengono. La voglia di giocare con gli archetipi del film di genere, decontestualizzandoli in una società e contemporaneità dove domina la solitudine e la depressione. Dove si combatte a tutti i costi un anonimato che marchia il fallimento, in cui i soldi, il successo, la fama sono le uniche forme di riscatto. In più, un premio con Làbas – Educazione criminale (opera prima), Leone del Futuro che Guido Lombardi aveva incassato lo scorso anno. Tutta l’energia, lo stimolo per spezzare o quanto meno lavorare ai fianchi un cinema italiano che ha tanto tanto bisogno di occhi nuovi, racconti nuovi…. Di ‘ritmi dispari’. Carmine si ritrova nel caveau di una banca, per riparare una perdita della rete fognaria, e matura l’idea di estinguere i propri debiti di gioco progettando una rapina…

Gaetano la raccoglie con entusiasmo (volendo liberarsi della caverna-parcheggio in cui lavora in cerca di luce, colori… Brasile), aggregando gli altri personaggi dentro un gruppo che non sarà mai tale. E che comincerà a sfaldarsi quando il loro punto di tenuta (Gaetano) non farà ritorno dopo il colpo, corrompendosi e ingarbugliandosi nell’ingresso della camorra, fino all’implosione ultima e alla casuale vittoria dell’innocenza. Non c’è un ritmo dispari ed autentico in Take Five, né un’identità propria. Non un’altra forma, non un altro sguardo che assorba e si emancipi stilisticamente e narrativamente dal materiale ispiratore. Il movimento di macchina rende un antidinamismo che neppure può essere definito la speculare reazione al genere-ri da cui il regista prende le mosse. È semplicemente una prevedibilità visiva, anche nella caratterizzazione emotiva (accentuato da una musica di richiamo di generi, ma senza una vita propria): esattamente tutto quello che ci si aspetta, c’è in questo film. Un grammatica filmica senza la minima sorpresa. Quanto al racconto in sé, il ritmo irregolare di questo gruppo, le differenti personalità e la vicenda della distruzione del grande sogno di riscatto collettivo ed individuale, vanno di pari passo con l’occhio. Non si respira una forza narrativa capace di trascinare questo modello da un’altra parte, né si coglie un’altra Napoli che non sia quella macchiettistica, sia nel luogo ma specie nelle caratterizzazioni attoriali. Peppe Lanzetta carica al massimo una napoletanità verbale e gergale, irritante perché


TAKE FIVE Guido Lombardi

2013

plastica (è una napoletana che lo sta scrivendo). L’unico attore che riesce a recuperare autenticità e quella misura di naturalismo ambientale alla sua recitazione e al suo personaggio è Salvatore Ruocco, il giovane ex pugile: il più sensibile e umano del gruppo, il meno alienato dei cinque, ancora acerbo nella disillusione. Anche Salvatore Striano indossa un ruolo che non riesce a vestire bene, che pare non sentire completamente (indirettamente, sembra rivelarci l’artificiosità di una costruzione umana neppure di genere). I dialoghi manifestano ciò che si sa già, su una storia già scritta e già vista… Aggiungiamo il femminiello, sempre estremizzato nel ruolo di oca giuliva, la modella nordica (e il rapporto Nord-Sud anche quello caratterizzato in modo stereotipato e senza originalità, nemmeno tentata in un paradosso), e le maschere di Pulcinella messe in volto ai rapinatori. Messe in volto e basta. Non meritate, nell’evoluzione della storia… Insomma, Guido Lombardi è clamorosamente inciampato. Spero che si rialzerà con il prossimo lavoro, e che possa più propriamente emanciparsi dentro un cinema completamente libero ed esplorativo sia nell’occhio che nel racconto.

: Italia

: Drammatico

: 100’


86

La condizione universale della donna di Elisabetta Colla

Mai titolo fu più appropriato ad un’opera come nel caso di Acrid– in italiano ‘agro’, ‘aspro’ – film iraniano in concorso al Festival Internazionale del Film di Roma ed opera prima del regista Kiarash Asadizadeh, che ben rappresenta il gusto amaro della condizione femminile nell’Iran contemporaneo (rispecchiando quella di tanti altri luoghi del mondo), la solitudine delle sue protagoniste e la loro incapacità e sofferenza per non potere o volere rompere quei vincoli matrimoniali e familiari (per paura, tradizione, fragilità o timore della riprovazione sociale?) che le legano ad uomini instabili, traditori, meschini e privi di scrupoli, condannandole ad una cupa infelicità e ad un immobilismo senza prospettive, visivamente resi dai toni grigi e tetri della fotografia. Ma forse il film vuole dirci anche qualcos’altro ed affida alle donne il ruolo di un intero Paese che non riesce, nonostante la cultura, l’impegno ed il desiderio di emancipazione politica e libertà di espressione, ad uscire da un claustrofobico ‘loop’, entro il quale la famiglia si dissolve, l’ipocrisia di certa parte della società trova terreno fertile ed i forti, furbi e violenti hanno la meglio. Ritorna nel film, non a caso ma come una citazione, l’idea della circolarità di storie femminili, già sviluppata nella celebre pelli-

cola Il cerchio di Jafar Panahi (che fruttò al regista il Leone d’Oro a Venezia nel 2000), dove otto donne facevano quotidiano esercizio di sopravvivenza in una società ostile e distaccata. Echeggia anche la rottura ‘laica’ (la religione appare in dissolvenza) dei legami familiari, ben descritta nel più recente Una separazione, la pellicola di Asgar Farhadi premiata con l’Oscar per il miglior film straniero. In Acrid si avverte la stessa gelida freddezza, che non cerca di commuovere o convincere lo spettatore nel raccontare le vite di quattro donne apparentemente prive di ‘trait-d’union’ se non quello delle sfortunate relazioni sentimentali con i partner, dell’impotenza al cambiamento (emergente solo a livello razionale), della scarsa possibilità reale d’incidere sugli eventi. Il racconto si dipana piuttosto come una descrizione cruda e distaccata di fatti e parole di ordinaria insensibilità (come ad esempio il ginecologo Jalal, che assume solo segretarie nubili e tradisce la moglie Soheila quando lei, medico, fa le guardie di notte ed al mattino le chiede anche insistentemente, in tono sprezzante: ‘perché non te ne vai da casa? non puoi restare qui, vattene!’), sia pur caratterizzato da un’atmosfera oppressiva, in cui un personaggio tira l’altro e si aggancia al precedente,


ACRID Premio per giovane attore/attrice emergente all'intero cast del film

Kiarash Asadizadeh

2013

finché l’ultima protagonista, una studentessa universitaria, tradita inaspettatamente dal fidanzato, corre a cercare conforto nel padre, che altri non è che il ginecologo Jalal, chiudendo così il cerchio narrativo e simbolico. «Le donne hanno un ruolo importantissimo nella famiglia – afferma il regista – ma il mio intento era anche quello di raccontare i cambiamenti della struttura familiare iraniana e dei valori, osservabili soprattutto nell’ultimo decennio in cui ho cominciato a fare cinema: ho infatti l’impressione che qualcosa si stia allentando ed i componenti della famiglia hanno sempre meno rispetto reciproco, ma non credo sia una cosa solamente iraniana, bensì un problema esteso a tutto il mondo. Quanto alla distribuzione del film, abbiamo avuto difficoltà ordinarie e problemi con la vecchia amministrazione, ma il nuovo Governo sembra più aperto al dialogo e siamo in trattativa per avere il permesso di uscire nelle sale». All’intero gruppo/cast delle brave ed espressive attrici del film – Roya Javidnia, Ehsan Amani, Pantea Panahiha, Saber Abar, Shabnam Moghadami, Mahsa Alafar, Mahana Noormohammadi, Sadaf Ahmadi, Nawal Sharifi, Mohammadreza Ghaffari - è stato assegnato il Premio ufficiale del Festival per la giovane attrice (o attore) emergente.

: Iran

: Drammatico

: 94’


88

Una vita on the road di Vittorio Zenardi

Il terzo e ultimo film italiano in concorso è Tir, opera prima del documentarista Alberto Fasulo. Narra la storia di Branko (Branko Završan), ex professore della croata Rijeka, diventato camionista per un’azienda italiana con la prospettiva di guadagnare molto di più. Un camionista dell’est che trascorre 25 giorni al mese percorrendo il “Corridoio 5”, quell’asse portante che nei piani dell’Unione Europea unirà Lisbona con Kiev, lungo il quale si spostano i flussi di manodopera che lasciano l’est per l’ovest, e quelli di capitali che da ovest migrano a est. L’azione si volge principalmente dentro la cabina del camion con l’attore, il regista e due fonici pronti a cogliere, nell’immediatezza, il suono vero della strada e il battito di tutte le sue umanità. Viene mostrato il lavoro scandito dagli orari obbligati di riposo (un’ora ogni quattro ore e mezzo), il tutto controllato da una sorta di scatola nera che, per guadagnare di più, si cerca di aggirare in tutti i modi. Završan per calarsi nella parte ha accettato la sfida di diventare ed essere camionista per sei mesi, conseguendo la patente di guida prevista dal codice della strada. Anche il suo compagno di viaggio Maki

(Marijan Šestak) è di professione camionista. Tir pur avendo un evidente taglio documentaristico ha un’architettura narrativa da opera cinematografica, con inquadrature studiate (notevoli quelle costruite con il gioco di specchi riflessi) e dialoghi elaborati. Pecca però nel ritmo, che è troppo lento in alcune parti. Si poteva pensare a una durata inferiore rispetto ai novanta minuti, magari un medio metraggio, che meglio avrebbe condensato l’azione. Da segnalare un’ottima fotografia curata dallo stesso regista e la volontà di portare alla luce le problematiche di un ambiente lavorativo ai più sconosciuto. L’opera, mostrandoci la crisi e l’alienazione che affronta il protagonista evidenzia un paradosso: quello di un lavoro che ti porta a vivere lontano dalle persone care per cui, in fondo, stai lavorando. Puntando la luce sulla vita del protagonista, Fasulo mostra le fatiche e le contraddizioni di un mestiere duro, in balia della crisi imperante, riuscendo a suscitare in noi una certa solidarietà ed empatia su chi all’interno di quei bolidi passa l’esistenza e che troppo spesso guardiamo con nervosismo quando ci rallenta mentre andiamo in vacanza.


TIR Marc’Aurelio d’Oro

Alberto Fasulo

2013

: Italia

: Docu-dramma

: 90’


90

La danza del poliziotto imperfetto di Francesca Vantaggiato

The Mole Song – Undercover Agent Reiji, firmato Takashi Miike, ha dovuto affrontare un ‘rivale’ molto forte nel palinsesto festivaliero, The Hunger Games: La ragazza di fuoco, evento fuori concorso da sold out e folle di teenagers scalpitanti accampate all’auditorium dalla sera prima. Takashi Miike ha portato sul grande schermo il popolare manga dall’omonimo titolo di Noburu Takahashi, una storia tutt’altro che convenzionale sulla yakuza da cui è rimasto profondamente colpito. Toma Ikuta è Reiji Kikukawa, poliziotto per miracolo, diplomato con i voti più bassi della scuola, inetto e goffo, relegato ai controlli di quartiere in cui si distingue per una condotta tutt’altro che esemplare. Quando per la prima volta nella sua carriera difende delle povere innocenti dai soprusi di un prepotente, il nostro malcapitato si scontra con un politico che ne ordina immediatamente il licenziamento. Ma al suo capo viene un’idea geniale e invece del licenziamento Reiji si ritrova una promozione: lavorerà come infiltrato nel più potente clan yakuza della zona di Kanto, lo Sukiya-kai, per inchiodare il capo supremo Shuho Todoroki, sospettato trafficante di droga. Abile ‘talpa’, diventa il braccio destro del Crazy Papillon, capo del clan affiliato Akogi. L’operazione di Reiji si compie proprio quando lo scontro tra gli uomini del Sukiya-kai e i rivali Hachinosu-kai sta per esplodere.

Ingannevole è la trama. Se sulla carta ‘La canzone della talpa’ sembra un film di genere, uno yakuza tradizionale, la realtà è ben diversa, per cui è auspicabile prepararsi a un’operazione del tutto originale: Takashi Miike, il folle regista che a Venezia 67 entrò in sala per la proiezione di mezzanotte con la maschera di Zebraman – la Sala Grande dava Zebraman 2: Attack on Zebra City, si è divertito a impastare cultura pop, animazione fumettistica e yakuza story nel pirotecnico film in concorso. Con uno spirito goliardico più che mai, il regista nipponico ha voluto divertirsi per divertire girando The Mole Song, un concentrato di passioni e ossessioni dell’universo di Takashi a servizio di un cinema davvero libero. Dalla caratterizzazione fisica e psicologica dei personaggi – i principali richiamano nel soprannome e nella cura dell’immagine un animale identificativo, alla presentazione degli stessi – con immagini d’ispirazione fumettistica, al sovvertimento delle regole di divisione per generi, The Mole Song ci consegna la straordinaria epopea di un eroe imperfetto in 130 minuti ben ritmati per niente pesanti. Canzoni e balletti di poliziotti scalmanati da far invidia ai musical di Broadway, gag ben inserite in una trama più ampia, immagini e caratterizzazioni kitsch compiaciute, combattimenti e duelli all’ultimo sangue, debolezze poco virili e poco yakuza dall’effetto


THE MOLE SONG – UNDERCOVER AGENT REIJI Takashi Miike

2013

: Giappone

comico assicurato, una spensieratezza diffusa che alleggerisce i toni guida la narrazione, sono gli ingredienti agitati bene prima dell’uso del cocktail The Mole Song. Un cocktail che il prolifico e provocatorio autore ha preparato per deliziare innanzitutto se stesso, e poi il suo pub-

: Yakuza/Surreale

: 130’

blico sempre più internazionale. Questo lavoro cross mediale è una danza liberatoria di un regista che ha voluto mescolare tutte le sue passioni, ossessioni e perversioni, tradendo i canoni e rimanendo fedele a una poetica ed estetica rigorosamente anarchiche.


92

I nostri fantasmi di Elisabetta Colla

Tutti si attendevano qualcosa di più da Another me, presentato in concorso al Festival Internazionale del Film di Roma 2013, ultima fatica di Isabel Coixet, la brava regista e sceneggiatrice catalana (spesso co-prodotta dal grande Almodovar) nota a livello internazionale per film ben scritti, ben girati e di grande impatto emotivo quali, fra gli altri, La vita segreta delle parole (presentato alla Mostra del cinema di Venezia e vincitore in patria di 4 Premi Goya nel 2006, fra cui miglior film e miglior regista) e La mia vita senza me (selezionato al Festival di Berlino e vincitore di 2 Premi Goya nel 2004). Cimentandosi per la prima volta con un film di genere, sorta di thriller psico-horror tratto dal romanzo Another Me di Catherine MacPhail, la Coixet non sembra saper maneggiare adeguatamente la nuova creatura, che le sfugge da più parti, nonostante la bellezza delle immagini, l’atmosfera ben studiata dell’ ambiente ‘teenager british’ ed una notevole capacità nell’impiego dei mezzi tecnici. Il film racconta la storia di una famiglia, un tempo felice, ora in crisi: il padre si è ammalato di sclerosi multipla, la madre ha una relazione con il professore di teatro della figlia adolescente, e la ragazza - vera protagonista del plot - l’affascinante e bellissima Fey, è preda di continue inquietudini e strane visioni/situazioni. Le sue angosce e paure si riflettono in brutti sogni, si sente osservata, seguita, perseguitata. Dopo aver inizialmente dato la colpa dei misteriosi eventi ad una compa-

gna di scuola che le somiglia - invidiosa dei suoi successi nella recita scolastica ed in amore - Fey capisce (quasi da subito in realtà, senza che nello spettatore si sviluppi il giusto ‘pathos’) di avere un doppio: chi sia e perché la tormenti è il tema centrale della seconda parte del film, che svelerà un segreto di famiglia (una gemella mai nata in cerca di giustizia), proseguendo con manciate di banali elementi horror (crepe nei muri, altalene vuote che si muovono, luci che si spengono all’improvviso) ed un finale abbastanza scontato. “Il mio film - ha affermato la regista - non intendeva puntare sulla suspense o sul thriller, ma piuttosto su come viviamo con i nostri fantasmi, tutti ne abbiamo, con il nostro passato, e mi sono ispirata alla letteratura giapponese di Yoshimoto e Murakami, dove la presenza dei fantasmi è una cosa naturale. Al tempo stesso sono stata contenta di scrivere un ruolo per adolescenti, perché ho una figlia di quell’età ed ho anche pensato molto a come ero io da adolescente”. Come abitudine della regista (e si dice come richiesto dalla Fox) il film è girato in inglese e con un cast internazionale, composto di artisti eterogenei, fra i quali spiccano Sophie Turner (la diciassettenne Sansa Stark della serie televisiva ‘Il trono di spade’), Rhys Ifans, Claire Forlani, Gregg Sulkin, Leonor Watling, Jonathan Rhys Meyers e la splendida ‘forever green’ Geraldine Chaplin nel ruolo della vicina di casa, curiosa ed inquietante quanto basta.


ANOTHER ME Isabel Coixet Takashi Miike

2013 2013

: Spagna/Regno : Drammatico : Giappone Unito : Yakuza/Surreale

: :86’ 130’


l’OPINIONE di TAXI DRIVERS Ha vinto su tutti Tir di Alberto Fasulo, il film-documentario ambientato, appunto, su un tir. Non ha mancato di sollevare le attese critiche e perplessità il verdetto della giuria presieduta da James Gray e composta da Verónica Chen, Luca Guadagnino, Aleksei Guskov, Noémie Lvovsky, Amir Naderi, Zhang Yuan per l’ottava edizione del Festival Internazionale del Film di Roma. ‘Sembra essere una tendenza inaugurata dal Sacro GRA (diretto da Gianfranco Rosi) a Venezia’, ha mormorato arcigna la folla di critici. C’è chi ha urlato immediatamente alla divisione in generi, ‘che non si mischi la fiction con il documentario’, chi a una sorta di docu-nazionalismo dei festival italiani, ‘ormai dopo Venezia è una moda premiare i documentari italiani’, chi all’inconsistenza del progetto, ‘non c’è regia, non c’è un filo conduttore, non c’è bellezza’. E così tra malumori e nasi storti, il road-movie sulle gioie e dolori dei camionisti immigrati, con al volante l’attore sloveno Branko Zavrsan, si aggiudica il Marc’Aurelio. Lo stipendio è tre volte più alto di quello da insegnante in patria ma i chilometri da percorrere in giro per l’Europa e i turni anti-umani sfiniscono e annullano ogni traccia di spazio personale. Se da un lato la fedeltà al reale è alta, tanto da richiamare alla mente quel cinéma vérité che rinuncia a ogni artificio nel rispetto dell’aderenza al vero, dall’altro lato non si spiega la scelta di un attore non camionista per il ruolo principale. Il paradosso continua con lo sviluppo di una trama che si fa appassionante proprio quando il friulano Fasulo inietta una dose di pathos (ri)costruito nel tracciato narrativo di per sé abbastanza aleatorio. Non è, pertanto, il genere a destar sconcerto quanto piuttosto l’imprecisione, l’infiacchimento di una buona idea - in potenza, in atto un debole progetto. In concorso insieme ad altri

due italiani, Take Five di Guido Lombardi e I corpi estranei di Mirko Locatelli, non solo Tir sbaraglia i suoi connazionali tornati a casa a mani vuote, ma vince su alcuni titoli che, considerata la giuria e la fattura delle pellicole, in molti davano per favoriti. Her, uno dei più belli e completi film in concorso, si aggiudica solo il premio per la migliore attrice Scarlett Johansson. Premio che ha sollevato altre polemiche alla luce dell’interpretazione di sola voce della Johansson. Premio a nostro avviso coraggioso e meritato, se si considera la difficoltà di recitare in assenza. Dispiace per il non premiato Joaquin Phoenix che, in forma più che mai, regge l’intera storia sulle proprie spalle interfacciandosi con un monitor/auricolari per tutto il film. Il povero Spike Jonze ha dovuto pertanto accontentarsi di un premio alla migliore voce. Altro titolo appartenente alla rosa dei papabili, Dallas Buyers Club ha portato a casa il premio miglior attore consegnato a un Matthew McConaughey irriconoscibile, non di certo in forma smagliante ma artisticamente elevato a un altro livello. Il film sull’AIDS e sulla battaglia personale di Rod ai limiti del cavillo legale si è aggiudicato il premio del pubblico, dell’Agiscuola e dell’AIC per la fotografia. Personalmente non crediamo meritasse la vittoria assoluta, per cui il premio allo strepitoso McConaughey consegnato da James Gray non poteva rivelarsi più azzeccato. Il giapponese Kiyoshi Kurosawa si è aggiudicato, con Seventh Code (che poi tecnicamente sarebbe dovuto essere Chord?) la miglior regia e il miglior contributo tecnico: un’ora di cinema che condensa generi e colpi di scena a riprova dell’incompletezza o inesattezza del mondo secondo i nostri occhi. Quod erat demostrandum – l’avvincente versione ro-


95

mena de Le vite degli altri – ha portato a casa il premio speciale della giuria, il turco I Am Not Him quello per la sceneggiatura, il premio attori/attrici emergenti è andato al cast di Acrid (Grass), ritratto (tutt’altro che innovativo) contemporaneo della donna - o della famiglia - in Iran. Infine il cinese Blue Sky Bones ha conquistato la menzione speciale. Out of the Furnace di Scott Cooper, con Christian Bale e Casey Affleck, ha vinto il Premio Taodue Camera d’Oro per la migliore opera prima/seconda, secondo la volontà della giuria di Roberto Faenza. Larry Clark, presidente di giuria a CinemaXXI, elegge a vincitore Nepal Forever di Aliona Polunina, Prospettive Doc Italia vede il trionfo di Dal profondo di Valentina Pedicini e Alice nella Città sceglie il finlandese The Disciple. Tutto è filato liscio. Claudicante è stata invece l’identità del festival-festa, una maledizione che pende ogni anno sull’evento romano, annaspante nel trovare la sua strada: il versante festival è stato ben nutrito dalla programmazione schizofrenica di Müller che ha portato con successo a Roma blockbuster, autorialità, sperimentazione, Hollywood, l’Oriente, ma l’assenza di star, soprattutto in sede di premiazione, ha lasciato scoperto l’aspetto più festaiolo della kermesse ben piazzato solo con Hunger Games, quando folle di teenagers si sono accampate all’Auditorium per salutare la loro beniamina, il premio Oscar Jennifer Lawrence. Festa vs festival, documentario vs fiction, Italia vs resto del mondo. Sorvolando le dicotomie fastidiose – a ciascun festival le sue – l’edizione 2013 è stata un’ottima annata, un evento pensato per appagare tutti i gusti.

Francesca Vantaggiato


s c o d / e n i z a g a m _ s r e v i r d i x a t / m o c . u u s s i / / : p t ht


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