Jean Vigo. La rivoluzione onirica

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TAXI DRIVERS MAGAZINE DOSSIER JEAN VIGO 2014

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Vincenzo Patanè Garsia VICE DIRETTRICE

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Lucilla Colonna CONCEPT DESIGNER

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TAXI DRIVERS è dedicata a Delian Hristev (R.I.P.)

In copertina: Jean Vigo


Nell'ottantesimo anniversario della scomparsa di Jean Vigo, Taxi Drivers Magazine comincia l'anno con un dossier interamente dedicato al regista francese. La sua breve esistenza osteggiata dalla censura e le opere (tutte visibili in rete) che è riuscito a realizzare hanno lasciato un segno indelebile nella storia del cinema, influenzando autori come Luis Buñuel, François Truffaut e Steve McQueen (al quale già abbiamo dedicato un numero). Il dossier è firmato dal giornalista professionista ragusano Gaetano Veninata, classe 1984, che dopo essersi laureato a Perugia in Comunicazione Multimediale, ha collaborato con Quotidiano Piemontese, EaST Journal, Italic, Area, Il Fatto Quotidiano e Radio Radicale. Attualmente, gestisce il blog Villa Telesio e scrive per l'agenzia di stampa Public Policy. In fondo al magazine troverete il calendario Taxi Drivers 2014. Buon anno!

Lucilla Colonna

La cinematografia ribelle e sociale di Jean Vigo

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Una vita all’insegna della censura

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Cinema e avanguardie storiche

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Il surrealismo nella poetica vigoliana

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Zéro de conduite: la memoria strumento di rivolta

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La cinematografia ribelle e sociale di Jean Vigo «Cineasta esteta e cineasta realista, Vigo evita sia i trabocchetti dell’estetismo, sia quelli del realismo». In questa frase di François Truffaut c’è tutto Jean Vigo, interprete di una cinematografia onirica e ribelle, ma mai “schierato”, mai “schiavo” di una corrente, mai banalmente commerciale. Nelle parole di Truffaut c’è anche, palpabile, un riconoscimento per l’importanza che il giovane cineasta, morto di setticemia virale a soli 29 anni, ha rappresentato, e continua a rappresentare, per tutta una generazione di registi (dallo stesso Truffaut al più odierno Almódovar de La mala educación). L’insegnamento più grande da trarre dalle opere di Vigo è proprio la sua concezione di un’arte (quella cinematografica) che è impossibile disgiungere dalla vita, dalla società e dai modelli che essa impone. Cinema da intendere come strumento di elaborazione del pensiero di un soggetto di fronte alla complessità del reale, e non come una pratica esclusivamente artistica o estetica. Vigo si rifiuta di giocare con il cinema «come quel papà che bamboleggia col suo bimbo per farsi capire meglio da lui»1. Vigo vuole un “cinema sociale”, che sia in grado di parlare alla società, di rendersi complice di un rifiuto generalizzato nei confronti della corruzione borghese, che sia in grado di mettere a nudo i rapporti umani e le loro interconnessioni con la società stessa; e nelle sue opere c’è tutto questo, c’è arte e c’è significato, c’è cinema e c’è realtà. Se Vigo non avesse scritto Zéro de conduite, Caussat, Bruel, Colin e Tabard sarebbero esistiti lo stesso, i loro sentimenti reali, la loro ribellione compiuta; ma forse non sarebbero riusciti a mostrare alla società cosa vuol dire libertà, cosa vuol dire infanzia. E qui subentra l’artista, e il suo talento, che dev’essere messo al servizio di quei bambini, o di chiunque altro, per recuperare il tempo e la memoria al servizio dell’uomo, del suo destino. Il cinema come messa a nudo della realtà, il regista come artista del sociale. Ecco il più grande insegnamento di Jean Vigo.

1. In M. Grande, Jean Vigo, Il Castoro, Milano, 1979, p. 5.

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Jean Vigo nasce il 25 Aprile 1905 a Parigi; è figlio di due militanti anarchici, Eugène Bonaventure de Vigo (meglio conosciuto con lo pseudonimo Miguel Almereyda) ed Emily Clèro. è soprattutto il padre a segnare in maniera profonda l’infanzia del piccolo Jean: figura di spicco nel mondo anarchico francese, fondatore del settimanale La Guerre Sociale e del quotidiano Le Bonnet Rouge, viene più volte arrestato per la sua militanza nella galassia eversiva; ed è proprio dopo aver scontato due mesi di prigione alla Petit Roquette, nel 1900, che Eugène Bonaventure de Vigo decide di cambiare il suo nome in Miguel Almereyda, anagramma di “y a la merde”, grido di rivolta e insieme sfida alle autorità francesi. Un’infanzia passata a giocare nei cortili delle prigioni statali dove il padre era rinchiuso e le innumerevoli riunioni anarchiche alle quali Jean assiste, lasciano una traccia indelebile sul giovane Vigo; una traccia che si avvertirà in maniera netta nei suoi lavori e specialmente in Zéro de conduite. Tra il 1905 e il 1913 Almereyda diventa uno dei leader del movimento anarchico transalpino; gli anni di Jean passano tra drammatici avvenimenti politici e saltuarie frequenze a scuola. Nel 1914 l’attività di Almereyda si fa sempre più disordinata ed egli assume posizioni ambigue restando sospeso in un limbo tra rivoluzione e pacifismo; i giornali reazionari lo attaccano continuamente, accusandolo di alto tradimento. Durante tutto questo periodo Jean vive con la madre in una sontuosa villa a SaintCloud, dove le rare apparizioni del padre lasciano nel giovane impressioni di grande ammirazione.

Nel 1917 scoppia la rivoluzione in Russia; in Francia, viene tacitamente bandito il socialismo. Tutto ciò porta alla chiusura del Bonnet Rouge e all’arresto del padre di Vigo; egli viene incarcerato alla Santé. Trasferito a Fresnes perché gravemente malato, Almereyda viene trovato morto nella sua cella nella notte tra il 13 e il 14 agosto 1917, strangolato con i lacci delle scarpe legati alle sbarre del letto. Ancora oggi resta un ombra di dubbio sulla morte dell’anarchico; la versione ufficiale parla di suicidio, tesi che sembra tuttavia discutibile, considerando che la motivazione del gesto sarebbe da ricercare nelle precarie condizioni di salute. Le versioni dunque che parlano di omicidio e di come Eugène Bonaventure de Vigo sia stato ammazzato in carcere per togliere di mezzo un personaggio scomodo e una delle figure di spicco dell’anarchia francese restano in auge come le più probabili. Dopo la morte del padre Jean lascia Parigi e va a stabilirsi nella vicina Montpellier, ospite degli Aubès, amici di famiglia. Nel 1918 Vigo viene iscritto alla scuola media di Nimes sotto il nome di Jean Salles, per evitare di essere riconosciuto come figlio del “traditore” Almereyda; nell’autunno dello stesso anno si trasferisce al Liceo di Millau, dove trascorrerà quattro anni. Ed è proprio a Millau che il futuro autore di Zéro de conduite vive sulla propria pelle l’esperienza del collegio e sviluppa una coscienza tragicamente critica di quanto siano distanti il mondo degli adulti e quello, così banalmente anarchico, dei bambini. Nell’agosto del 1922 Vigo si iscrive con il suo vero nome al Liceo di Chartres dove, dopo


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ben due bocciature, ottiene, nel 1924, la maturità; è qui che conosce Jean Colin e Paul Mercier (il Tabard di Zéro de conduite). Nel 1925 si iscrive alla Sorbona. Dopo pochi mesi di studio, Vigo è costretto a ricoverarsi nel sanatorio di FontRomeu a causa di una malattia polmonare; lì conosce l’editore-scrittore Claude Aveline, suo futuro esecutore testamentario e fondatore del premio per la regia “Jean Vigo”. Nel 1928 conosce la sua futura moglie, Elisabeth “Lydou” Lozinska, figlia di un noto industriale polacco; a dicembre si trasferiscono a Nizza dove si sposano nel ’29. Dopo aver tentato invano di ottenere qualche incarico alla Franco-Film, Jean incontra Germaine Dulac, che gli promette un appoggio; ed è proprio grazie alle sue conoscenze che Vigo comincia finalmente a lavorare nel mondo del cinema: alla Victorine come assistente di Burel nel film “Vénus”. Dopo il matrimonio il giovane regista, sulla scia paterna, cerca di impostare la sua vita secondo uno stile libertario; grazie ai centomila franchi regalatigli dal padre di Lydou acquista una Debrie di seconda mano e realizza le sue prime riprese. Nell’autunno del ‘29 conosce e stringe una forte amicizia con Boris Kaufman, fratello minore di Dziga Vertov, noto cineasta sovietico autore de L’uomo con la macchina da presa; gli propone di girare un film-documentario su Nizza. La mente ribelle e antiautoritaria di Vigo partorisce così A propos de Nice, sorta di documentario sociale, figlio del Kino-Glaz (Cine-Occhio) di Vertov. Il film, secondo Vigo, vuole mostrare «quanto siano diffuse quelle volgari voluttà poste sotto il segno del grottesco, della carne e della morte e che costituiscono gli estremi sussulti di una società che rinnega sé stessa fino a provocare in te la nausea e la voglia di una soluzione rivoluzionaria»2 . A propos de Nice è un cortometraggio polemico e irriverente nei confronti di quel mondo decadente e borghese che Nizza,

2. Ivi, p.37.

come brillante meta turistica, tende a rappresentare; un mondo fatto di finzioni dove tutto si mescola fino a creare un moloch mostruoso di vuota apparenza, figlio di quella società del benessere che dimentica i suoi stessi figli fino a privargli persino la vista del limpido cielo azzurro. Il regista definiva Nizza un “deserto” per chi, come lui, amava la vita, l’amore e la liberta senza alcuna convenzione. Vigo, in questo cortometraggio, coglie gli aspetti puramente progressivi e linguisticamente innovativi dell’avanguardia sovietica; egli padroneggia questa esperienza mettendola al servizio di un nuovo modo di fare cinema. Il termine documentario sociale ci fa comprendere quanto l’esperienza vigoliana sia punteggiata dalla presenza di un “punto di vista” che «garantisca al cinema un soggetto che mangi della carne», evitando di cadere nel tranello ipocrita di una falsa obiettività. I “punti di vista” che ha in mente Vigo devono essere aderenti all’attualità e radicati nei rapporti sociali. Una volta realizzato A propos de Nice bisognava farlo conoscere, trovandogli una distribuzione; ma dopo due proiezioni, il 28 maggio e il 14 giugno 1930, al “VieuxColombier”, la circolazione del cortometraggio subisce un arresto; solo ad ottobre dello stesso anno la casa cinematografica Pathé-Nathan decide di programmarlo in esclusiva a Parigi, allo “Studio des Ursulines” . Nel frattempo le condizioni di salute precarie di Jean lo costringono a tornare a Nizza, dove, seguendo l’esempio olandese di Joris Ivens, fonda un cineclub (“Les Amis du cinéma”) e si associa alla Lega Internazionale del Cinema Indipendente. In questi anni Vigo scopre i film di Sergej Ejzenstejn, Henri Storck e dello stesso Ivens. Il cineclub vigoliano aveva l’obiettivo di far conoscere i film d’avanguardia senza tagli né censure; tra le pellicole proiettate vale la pena di ricordare L’ âge d’or di Buñuel e Paris qui dort di René Clair, mai distribuito.


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Con A propos de Nice Jean si inserisce a pieno titolo nel mondo del cinema francese, e anche grazie ad amicizie illustri come quella di Germaine Dulac, ottiene l’incarico, nel 1931, di girare un cortometraggio per la Gaumont Franco-FilmAubert. Realizza dunque su commissione un documentario naturista su un campione francese di nuoto (Jean Taris), dal titolo Taris ou la Natation. Vigo non era certo entusiasta del compito affidatogli, considerato noioso e prosaico; per questo introduce nel suo lavoro variazioni ludiche, insistendo sull’elemento acqua, sia acusticamente che visivamente. Il film doveva avere uno scopo esclusivamente didattico; Vigo lo trasforma e gli dona una valenza creativa, grazie anche ad un uso accurato del ralenti. Lo stesso Jean Taris, nelle scene finali, viene come contagiato dal genio del regista e gioca anch’egli con l’elemento acqua e con lo spettatore, fino a diventare quasi una presenza onirica. Rientrato a Nizza, dopo la fatica di Taris ou la Natation, Vigo è costretto a disfarsi della Debrie, cinepresa regalatagli dal suocero, anche e soprattutto per far fronte alle spese del parto di Lydou; il 30

giugno dello stesso anno nascerà infatti Luce Vigo. Dopo brevi periodi di riposo, ottiene un altro incarico dalla Gaumont: deve girare un altro cortometraggio dedicato questa volta al tennis, con protagonista il famoso tennista transalpino Cochet. Ciò che caratterizza (o meglio, avrebbe caratterizzato) questo secondo documentario è la commistione straordinaria che Jean opera tra l’aspetto fantastico, quasi utopico, del gioco dei bambini-tennisti, e la precisione impeccabile, quasi fredda, dell’adulto-campione Cochet. La fantasia e il talento di Vigo ci appaiono in tutto il loro splendore, specialmente per la virtù tutta vigoliana di saper cogliere la bellezza pura e incontaminata del corpo umano in continuo movimento, in una danza sportiva che rasenta l’utopia. Purtroppo tutto ciò resterà solo sulla carta, visto che alla fine il progetto non andrà in porto, nonostante Vigo avesse già scritto il copione insieme a Charles Goldblatt. Il fallimento di Tennis spinge i coniugi Vigo a trasferirsi definitivamente a Parigi, dove Jean ritrova gli amici di un tempo come Kaufman e Storck.


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Ed è proprio nella capitale francese che incontra Jean-Louis Nounez, uomo d’affari che voleva intraprendere l’attività di produttore cinematografico. Vigo ha finalmente la possibilità di esprimere il suo indiscutibile talento cimentandosi con un lungometraggio: il 24 dicembre 1932 negli Studi Gaumont iniziano le riprese di Zéro de conduite. Il film racconta la vita di alcuni studenti in un collegio francese degli anni trenta, privati della libertà creativa dell’infanzia e sottomessi alle rigide regole dei sorveglianti adulti, metafore della società borghese che Vigo combatteva. Quattro di loro (Caussat, Colin, Bruel e Tabard), provano a ribellarsi, grazie anche all’aiuto del nuovo sorvegliante Huguet (Jean Dastè); essi, coinvolgendo anche gli altri ragazzi, organizzano una rivolta, che sfocia nella scena finale (quella della festa in cortile) che tanto ha fatto gridare allo scandalo la censura francese: dopo aver costretto il preside e le altre autorità presenti a rifugiarsi nel granaio (per ripararsi dal lancio di libri vecchi e altre scartoffie) Tabard, l’alunno dapprima emarginato e successivamente divenuto leader dei ribelli, lancia dal tetto a un suo compagno la bandiera nera simbolo della rivolta, che questi raccoglie gettando per terra il tricolore francese che stava dapprima sventolando. La scena principale del film resta comunque quella del dormitorio, dove Tabard proclama l’inizio della rivolta, e Vigo realizza quello che ancora oggi resta nell’immaginario collettivo come il più bel ralenti della storia del cinema: mentre Pète-Sec, uno dei sorveglianti, nemico giurato dei quattro (ai quali rifila sistematicamente zero in condotta), ha ormai perso il controllo della situazione, in una sequenza memorabile un piano ravvicinato ci mostra le piume dei

cuscini sospese a mezz’aria, quasi irreali, mentre i ragazzi danzano leggeri sospesi come in sogno, creando un’immagine onirica e surreale di sospensione dell’infanzia in un limbo di ribellione; un ragazzo compie un salto mortale all’indietro e, adagiandosi come su un trono tra le braccia dei compagni, viene portato in processione nuotando tra le piume. Fondamentali, per la realizzazione di questa scene, le musiche di Maurice Jaubert, che riescono a ricreare con il suono la sensazione di leggerezza del momento. Quella dei giovani di Zéro de conduite è una rivolta anzitutto sonora, ma anche onirica e utopistica. Alla base dell’opera si percepisce limpida la visione anarchica che il cineasta ha della vita e dei rapporti sociali, e il suo desiderio di rivolta, infantile e sincero. Si tratta di un profondo malessere, sicuramente figlio della sua infanzia e dell’ambiente rivoluzionario nel quale è cresciuto, nei confronti di una società classista e autoritaria. Le riprese della prima, grande fatica di Vigo terminano il 22 gennaio 1933. Dopo aver dovuto tagliare, subito dopo il montaggio, 300 metri di pellicola (il film non doveva superare i 1200 metri) Vigo propone l’edizione definitiva del film nel marzo ’33; il 7 aprile al Cinéma Artistic a Parigi viene presentato ai critici e ai gestori delle sale cinematografiche francesi. L’accoglienza fredda e una stampa da subito ostile permettono alla commissione di censura di porre il veto alla programmazione pubblica: in Francia, per ben dodici anni, Zéro de conduite viene brutalmente censurato. Ecco di seguito alcuni stralci del discorso tenuto da Vigo a tal proposito a Bruxelles il 17 ottobre 1933 al Club de l’Ecran di André Thirifays, in occasione della prima proiezione del film in Belgio:

« [...] Nessuna falsa scusa gridando: la censura ha mutilato il mio film; e guardate: quale infamia! [...] Avrei voluto portarvi qualche membro della Censura francese, che finisce sempre più spesso per diventare, a colpi di forbici, il vero autore del film. Ma ho avuto paura che si inabissasse durante il viaggio.


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Una vita all’insegna della censura Mi basta, citando questi, rendere omaggio ai più grandi ammiratori di Zéro de conduite. “Questo film”, mi hanno confessato con aria ingorda, “bisogna che nessun altro sguardo, oltre ai nostri begli occhi, lo sporchi”. Incantevole esclusività. Riconoscerete con me che avrei torto a lagnarmi e che posso tutt’al più rinfacciare a questi gentili signori il loro egoismo e il loro buon gusto. E se bisogna dirvi tutto, sappiate che il Presidente di questa Censura indipendente ha risposto a un amico, che andava di soppiatto a trovarlo a proposito di questo veto: “Abbiamo ricevuto una nota di servizio che intimava di interdire Zéro de conduite, prima ancora che i miei colleghi ed io avessimo potuto vederlo e giudicarlo imparzialmente”. Sarebbe davvero disperare dell’intelligenza degli alti funzionari qualificati, poliziotti, mezze maniche, scrittori falliti e bisognosi, che costituiscono l’areopago di un’istituzione caduca e gesuitica, supporre per un momento che alcuni pacifici borghesi sul chi vive siano incapaci di vedere oltre la punta della loro baionetta, che non sappiano strapparsi dagli occhi la benda tricolore, e non fare altro che temere sempre un’allusione alla loro Patria, e solo ad essa. Tutto per essa. C’è davvero di che essere orgogliosi. [...]»3 .

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Le parole beffarde e amare di Vigo suonano come una sfida alle autorità e all’ordine precostituito di una società miseramente borghese, che non riesce a vedere oltre l’orizzonte di un nazionalismo reazionario e oscurantista. Si dovrà aspettare sino al 1945 per veder dissolto lo spettro della censura dalla pellicola vigoliana: nel ’39 Henri Beauvois, ex direttore di distribuzione della Gaumont, e fondatore della “Franfilmdis”, acquista Zéro de conduite (insieme alle altre opere di Vigo); nel ’45, come dicevamo, ottiene il visto di censura. L’oscurantismo termina, non senza conseguenze; il film risulta reduce da tagli e variazioni all’edizione originale. Nonostante il “fallimento” del primo lungometraggio del giovane cineasta francese, Nounez ribadisce la sua stima nei confronti di Vigo, figlia di un’amicizia leale e sincera. Affida a Jean la realizzazione di un lavoro che gli consenta di aggirare la censura francese: nasce il “progetto Atalante”, versione cinematografica di un romanzo di Jean Guinée. Il cast è fissato, nei ruoli principali, di comune accordo tra regista e produttore: Dita Parlo, Michel Simon, Louis Lefebvre e Jean Dastè (rispettivamente Caussat e Huguet di Zéro de conduite). Le riprese cominciano alla fine del 1933, e si concludono, fra mille travagli dovuti alle condizioni precarie di salute di Vigo, nel gennaio 1934. Le ultime scene saranno 3. Ivi, p.7.

girate da Boris Kaufman, seguendo le indicazioni di un Vigo gravemente malato e convalescente. A febbraio è pronto il primo montaggio; quello finale sarà affidato a Louis Chavance, imposto al regista dalla produzione. Ne L’Atalante Vigo descrive il legame tra un marinaio e la sua giovane sposa, ingenua ragazza di campagna; ciò che caratterizza la pellicola è il ruolo centrale che nella mente del regista assumono le atmosfere, non in quanto effetti stilistici, bensì in quanto creatrici di senso. Gli scenari principali del film diventano così il fiume e l’interno della chiatta, che diventa una sorta di microcosmo. Il soggetto originale de L’Atalante di Guinée era il classico esempio di una letteratura mediocre che metteva in scena la vita quotidiana: Jean, giovane capitano di una chiatta, sposa Juliette, ragazza di campagna, e la porta a vivere sulla sua barca insieme al mozzo e al secondo (uno straordinario Michel Simon); il fascino borghese di Parigi (descritta come una città dalla quale bisogna fuggire) e della vita mondana, a lei sconosciuta, porta la giovane sposa ad abbandonare la barca alla prima occasione, per finire come cameriera in un ristorante; viene ritrovata da père Jules (M. Simon) e ricondotta al marito. Vigo riesce a trasformare in maniera radicale il senso del soggetto originale. Il talento e la sensibilità del giovane cineasta si av-


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vertono nella capacità di creare il senso della storia partendo da un rapporto non convenzionale tra i personaggi e la macchina da presa; i contorni dei protagonisti vengono tratteggiati con mano abile e intrecciati gli uni con gli altri, per creare quell’armonia necessaria a raccontare la storia di un amore coniugale sensuale e quasi morboso; un amore coniugale che Vigo ci descrive in un rapporto di contrapposizione-confluenza con l’eros. Ne L’Atalante non manca, come d’altronde non mancava in Zéro de conduite, l’accento autobiografico: Vigo amava la vita e non concepiva un cinema disgiunto da essa. Il 25 aprile 1934 il film viene proiettato per la prima volta, in forma privata, al Palais Rochechouart. è un fallimento, nonostante il parziale apprezzamento dei critici. La Gaumont cede alle pressioni degli esercenti e stravolge L’Atalante: la durata viene ridotta da ottantanove a sessantacinque minuti; intere sequenze vengono tagliate; la colonna sonora di Jaubert viene sostituita da una canzone allora in moda, La Chaland qui passe (edizione francese di Parlami d’amore Mariù di Bixio, lanciata in Italia da Vittorio

De Sica), che diventa anche il nuovo titolo del film. Vigo assiste dal letto di morte alla distruzione della sua opera e all’umiliazione del suo talento. A settembre dello stesso anno l’ibrido partorito dalla Gaumont viene programmato al “Coliséè”, una sala sugli ChampsElysées. Il pubblico accoglie freddamente l’opera. La Chaland qui passe scompare dal circuito. Vigo si sta lentamente spegnendo; soffre di setticemia virale. Alle 21 del 5 ottobre 1934, all’età di 29 anni, muore. E con lui il sogno di un cinema sociale, fuori dai canoni, umano. Jean viene seppellito accanto al padre; Lydou lo seguirà dopo appena cinque anni. Nel 1950, al “Festival du Film de Demain”, viene proiettata una copia presumibilmente completa de L’Atalante; una copia “integrale”, molto probabilmente, non verrà mai vista da nessuno, e resterà esclusivamente negli occhi giovani di Jean Vigo, mai vivi come oggi. Per capire Vigo e il suo cinema bisogna approfondire gli intrecci tra la sua poetica ribelle e le avanguardie, specialmente dadaismo e surrealismo. Scrive Jean:

« L’occhio dell’uomo, allo stato attuale della scienza, non è affatto più sensibile del suo cuore. [...] Voi, che ignorate ancora che il cinema è una grande arte, che il cinema è la vita, che il cinema è un affare. […] […] Io so ugualmente che il vostro colore sarà senza anilina, il vostro rilievo non senza piattezza, e la vostra televisione una dissolvenza conforme al Potere. […] Andare verso il cinema sociale vuol dire questo: essere d’accordo, pretendere, permettere, che il cinema sfrutti una miniera di soggetti continuamente rinnovati dall’attualità; e inoltre essere d’accordo, pretendere, permettere, che il cinema dica qualcosa e svegli altre eco oltre ai rutti di quei Signore e Signori che al cinema ci vanno per digerire»4.

4. Ivi, p. 5.




Cinema e avanguardie storiche La parabola cinematografica di Vigo nasce e si esaurisce tra il 1929, anno di A propos de Nice, ed il 1934, anno della morte. In quegli stessi anni, e negli anni immediatamente precedenti, si era realizzato, e in un certo senso si andava consumando, un tanto inatteso quanto profondo connubio tra avanguardie storiche e cinema. Il senso e il significato di quest’unione va contestualizzato; va cioè inserito all’interno della discussione che le avanguardie portano avanti sul significato dell’arte e sul rapporto che intercorre tra processo artistico e percezione del reale. La ricerca, propria delle avanguardie, di un nuovo linguaggio e di un nuovo modo di costruzione del significato, consente al cinema di accreditarsi come modalità simbolica di notevole potenzialità; esso si scopre come il primo sistema linguistico complesso che consente di riprodurre consapevolmente le stesse modalità di costruzione del reale proprie della percezione ordinaria. Walter Benjamin, teorico del linguaggio allegorico, nonché studioso dell’influenza delle opere d’arte nella società di massa, dimostra di aver colto prima di altri i legami rivoluzionari tra avanguardie e cinema. Egli chiarisce questo concetto in un saggio del 1936, L’opera d’arte nell’epoca della sua riproducibilità tecnica: «Poi è venuto il cinema e con la dinamite dei decimi di secondo ha fatto saltare questo mondo simile a un carcere, così noi siamo in grado di intraprendere tranquillamente viaggi tra le sparse rovine»5.

Tra le innovazioni sostanziali e tangibili apportate al mondo delle arti visive, non può non essere ricordato il passaggio da un’estetica “individuale”, ovvero caratterizzata dall’esclusività della singola percezione artistica, ad un’estetica che potrebbe essere definita “collettiva”, anche, ma non solamente, figlia della nascente società di massa e del suo connubio con un primitivo consumismo. L’esperienza artistica diviene un’esperienza quotidiana, da vivere nell’immediato. Benjamin parla di “perdita dell’aura”, proprio per sottolineare la perdita dell’esclusività, che avviene prima con l’avvento della fotografia, e, successivamente, con quello del cinema. Ma il filosofo tedesco non si limita ad appurare le notevoli potenzialità del nuovo mezzo, e le possibilità di un suo uso rivoluzionario all’interno di un processo formativo in seno alle avanguardie, bensì analizza le diverse correnti, giudicandole paradossalmente “incomplete” (in particolar modo, cubismo e futurismo) o contraddittorie. Benjamin rimprovera a cubismo e futurismo di essere caduti vittime di «una sorta di fusione tra 5. In A. Costa, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino, 2002, p. 157.

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una realtà rappresentata e un’apparecchiatura rappresentata»6, anziché rappresentare la realtà artisticamente e attraverso l’apparecchiatura. In effetti il tentativo delle avanguardie di superare l’alienazione artistica, o, se vogliamo, la stessa arte, risolvendola nella realtà, e contemporaneamente la ricerca di un nuovo linguaggio e di un nuovo lessico, evidenzia le contraddizioni di cui parla Benjamin. Nonostante questo, resta il valore altamente innovativo del connubio artistico: le avanguardie fecero (o meglio tentarono di fare) del cinema lo strumento adatto per capovolgere e ribaltare i valori estetici tradizionali, attraverso un’opera di “demolizione” della cultura borghese. Nell’ambito dei rapporti di interazione tra le due culture, si trovano modalità espressive molto varie tra loro: artisti come Kandisky, ponendosi al di fuori delle grandi istituzioni cinematografiche, hanno fatto del cinema lo strumento per dare un’ulteriore spinta propulsiva alle loro ricerche sull’astratto, rivoluzionandone le dinamiche artistiche; altre volte sono state le avanguardie artistico-letterarie a influenzare i cineasti, come ad esempio nel caso dell’espressionismo tedesco. Resta comunque il fatto che i movimenti che maggiormente hanno cercato di utilizzare lo strumento cinema come forza innovatrice, rimangono tre: futurismo, dada e surrealismo. Essi, nonostante abbiano in comune il tentativo di sovvertire l’ordine delle arti tradizionali attraverso il rifiuto deciso della cultura borghese (ma non solo), hanno elaborato diverse strategie di avvicinamento al fenomeno cinematografico. Il Manifesto della cinematografia futurista, del 1916, compare sette anni dopo il manifesto di fondazione del gruppo, e quindi relativamente tardi. In realtà non è possibile parlare di un vero e proprio cinema futurista: tale manifesto configura semplicemente una trasposizione cinematografica delle sperimentazioni artistiche dei futuristi, senza aggiungere niente di nuovo alle teorie o alle tecniche del movimento. Per Marinetti e gli altri l’obiettivo è quello di giungere ad un superamento dell’arte, ancor prima di un suo reale rinnovamento. Azione sinonimo di dissoluzione, cinema come mezzo per esaltare la concretezza del quotidiano: sono queste le parole chiave della cinematografia futurista. Manipolare lo spazio e il tempo, e dunque le comuni esperienze percettive, diventa l’imperativo marinettiano; in tutto questo rientra la logica dell’attrazione spettacolare, ovvero il cinema come strumento per sbalordire e invertire i canoni percettivi dello

6. Ivi, p. 158.


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spettatore. Ma a questo avevano già pensato pionieri del cinema come Méliès, autore del breve film sull’Esposizione Universale di Parigi, nel 1900: ecco perché il tentativo dei futuristi italiani sembra paradossalmente anacronistico. Diverso è il discorso per quanto riguarda il dadaismo. Tristan Tzara, poeta franco-rumeno tra i fondatori del movimento e tra i firmatari del manifesti programmatici (ben sette) del gruppo, riassume in poche parole l’essenza del cinema dada: «C’è un grande lavoro distruttivo, negativo, da compiere»7 . L’ideale dadaista è così interamente votato alla negazione e all’assoluto superamento dei valori estetici tradizionali, in un quadro complessivo di ironia antiborghese. L’esempio più famoso e importante di cinema dada è rappresentato da Entr’acte (letteralmente “intervallo” ), scritto dal pittore francese Francis Picabia nel 1924 e diretto da René Clair (lo stesso di Paris qui dort). Tema centrale dell’opera è il grottesco funerale di Börlin, artista-prestigiatore, che dopo una serie di gag (es. un dromedario trascina con la carrozza il feretro), “resuscita” e con la sua bacchetta magica fa scomparire tutti i presenti, compreso se stesso. Non è semplice cogliere il significato intrinseco del film, vero e proprio inno al dadaismo. è come se i dadaisti pensassero che l’unico modo per infrangere e oltrepassare le barriere tra arte e vita reale fosse dissolvere le stesse nel tumulto frenetico chiamato modernità; il cinema, dunque, viene visto dal movimento dada come strumento principe nell’ “epoca della riproducibilità tecnica”. Il dadaismo si disgregò a Parigi, laddove molti artisti confluirono nel surrealismo: quest’ultimo, infatti, nacque nel 1924 in Francia proprio in seguito alla crisi del movimento dada. Scrive André Breton, nel suo Manifesto del surrealismo (1924): « […] A quell’immaginazione che non ammetteva limiti, permettiamo appena di esercitarsi, adesso, secondo le norme di un’utilità arbitraria; essa è incapace di assumere per molto tempo questa funzione inferiore, e intorno ai vent’anni, preferisce di solito, abbandonare l’uomo al suo destino senza luce. […] Cara immaginazione, quello che più amo in te è che non perdoni. La sola parola libertà è tutto ciò che ancora mi esalta. La credo atta ad alimentare, indefinitamente, l’antico fanatismo umano. Risponde senza dubbio alla mia sola aspirazione legittima. Tra le tante disgrazie di cui siamo eredi, bisogna riconoscere che ci è lasciata la massima libertà dello spirito. Sta a noi non farne cattivo uso. Ridurre l’immaginazione in schiavitù, fosse anche a costo di ciò che viene sommariamente chiamato

7. Ivi, p. 174.

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Cinema e avanguardie storiche

felicità, è sottrarsi a quel tanto di giustizia suprema che possiamo trovare in fondo a noi stessi»8.

Indubbiamente il movimento surrealista ha contribuito, più di futurismo e dadaismo, a creare un’idea del mezzo cinematografico quale mezzo di sperimentazione radicale dell’inconscio, attraverso un’integrazione tra cinema e sogno avversa all’astrattismo. Un’avversione verso il cinema astratto che è possibile cogliere attraverso le parole di Antonin Artaud, che in uno scritto del 1927 giustifica questa netta presa di posizione: « Il cinema puro è un errore, così come lo è, in qualsiasi arte, ogni sforzo per raggiungerne il principio a detrimento dei suoi strumenti obiettivi di rappresentazione. […] Il primo grado del pensiero cinematografico mi sembra essere nell’uso di oggetti e di forme esistenti a cui si può far dire tutto, perché le disposizioni della natura sono profonde e infinite»9.

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L’imperativo surrealista dal quale partire diventa un grido di rivolta insieme antiborghese e rivoluzionario: «squarciare il tamburo della ragione raziocinante e contemplare il buco»10. Il surrealismo propugnò un radicale rinnovamento della concezione tradizionale dei rapporti tra l’uomo e il mondo, rivendicando l’importanza fondamentale della rivelazione onirica, dell’inconscio e dell’istinto; tutto ciò per giungere infine all’instaurazione di una nuova e più complessa realtà assoluta, in cui fosse annullata ogni contrapposizione tra soggetto e oggetto. Ciò che a Breton e agli altri surrealisti viene rimproverato è la contraddizione tra l’essenza surrealista, ovvero il tentativo di dare espressione scritta al pensiero “parlato” (attraverso la cosiddetta “scrittura automatica”), e la reale essenza cinematografica. è infatti innegabile come il cinema sia un’arte che richieda un apparato produttivo complesso e difficilmente compatibile con l’ideale surrealista; e ciò è testimoniato dalla disparità numerica tra i film surrealisti progettati, e quelli effettivamente realizzati. Lo stesso Breton tende difatti a precisare il carattere temporaneo dell’unione artistica tra cinema e surrealismo, in una visione del mezzo cinematografico quale strumento di riscoperta onirica: «Bisogna riconoscere che nella vita l’età del cinema esiste, e che passa»11. Tra i film maggiormente rappresentativi della cultura surrealista non si può non ricordare La coquille et le clergyman (1927) della regista francese Germaine Dulac, la stessa che aiutò e favorì l’inserimento

8. A. Breton, Manifesto del surrealismo, Einaudi, Torino, 1966, pp. 11-12. 9. In A. Costa, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino, 2002, p. 180. 10. In A. Costa, Saper vedere il cinema, Bonpiani, Milano, 1985, pp. 63-64. 11. In A. Costa, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino, 2002, p. 181.


Cinema e avanguardie storiche

di Vigo nel mondo del cinema francese: realizzato su uno scenario di Artaud, il film rappresenta un audace rifiuto dei canoni del racconto logico, per dare sfogo ai meccanismi deliranti dell’inconscio e del sogno. Nonostante numerose critiche, anche all’interno dello stesso movimento (la prima proiezione, nel 1928 allo Studio des Ursulines, provocò il plateale rifiuto dell’opera da parte di Artaud), La coquille et le clergyman riesce in parte a trasfondere sullo schermo le ossessioni deliranti presenti nella sceneggiatura dell’artista francese, da sempre convinto sostenitore della specificità dei gesti umani come liberazione di reconditi istinti primordiali. A proposito dei rapporti controversi tra Artaud e il movimento, Maurizio Grande parla di «controversia dell’immagine»12 , per sottolineare quella “crisi dell’avanguardia” che colpisce, negli anni ’30, il surrealismo. Artaud non tollera l’uso dell’immaginazione esclusivamente metaforico dei surrealisti, rimproverando loro la volontà di ingannare ingannandosi, pur consapevoli della loro incapacità di fare della rivolta un’esperienza totalizzante; egli non tollera la loro impotenza e sterilità. Ma è solo con Un chien andalou (1928) e L’âge d’or (1930) di Louis Buñuel che le tecniche e la poetica surrealista trovano la loro espressione cinematografica, tanto da far esclamare a Breton che «questo film sarà molto utile, riteniamo, a squarciare cieli sempre meno belli di quelli che esso ci mostra in uno specchio»13. L’irrisione dei valori borghesi e l’ostentato anticlericalismo de L’âge d’or, uniti alle innovative sperimentazioni tecniche rappresentano l’anello di congiunzione tra l’ideale surrealista e il cinema di Buñuel. Un discorso a parte merita “Un chien andalou” (realizzato da Buñuel in collaborazione con Dalì), anche e soprattutto per l’influenza che questo film ha esercitato nei confronti di Jean Vigo. Uno studio attento dell’opera vigoliana non può certamente prescindere da un’accurata analisi delle avanguardie e della loro importanza nel quadro più generale del cosiddetto realismo poetico (di cui Vigo è uno dei precursori). Ecco perché gli intrecci che legano il movimento surrealista e il cineasta francese meritano un capitolo a parte, laddove non è possibile negare la reciproca influenza.

12. M. Grande, Jean Vigo, Il Castoro, Milano, 1979, p. 181. 13. In A. Costa, Il cinema e le arti visive, Einaudi, Torino, 2002, p. 184.

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Il surrealismo nella poetica vigoliana Il rapporto storico di contiguità tra Vigo e il surrealismo si integra in un rapporto di analisi linguistica che mostra punti di contatto, ma anche progressivi allontanamenti. La contiguità si realizza nell’utilizzo dell’immagine come disvelamento, che si accompagna, soprattutto nel primo Vigo (quello di A propos de Nice), alla volontà di denunciare la falsità della società borghese vista nei suoi aspetti più decadenti e volgari. Ma in Vigo il presupposto automatismo surrealista viene espresso attraverso un’immagine cinematografica che diventa strumento di recupero di senso, e allo stesso tempo creatrice di punti di vista e di atmosfere (anche sonore). Il cineasta francese si propone di svelare il significato profondo e intrinseco delle cose grazie ad un utilizzo sagace dello strumento cinema; la sua consapevolezza della complessità tecnica e produttiva dello stesso è proprio ciò che differenzia Vigo dai surrealisti: essi sottovalutarono infatti l’aspetto tecnico, per concentrarsi su quello onirico-utopistico inteso come forza liberatrice. Significato e senso che per Vigo non sono solo interni all’immagine, ma si espandono anche all’infuori di essa, coinvolgendo l’aspetto storico e quello psicologico. Come già detto, è innegabile, sul giovane regista francese, l’influenza di Louis Buñuel e del suo Un chien andalou: sono proprio le immagini crude e surrealiste del cineasta spagnolo che consentono a Vigo di parlare di “falsa coscienza” del pubblico al cinema, fenomeno che egli vuole estirpare. Il film si apre con le immagini di un uomo (lo stesso Buñuel) che osserva in cielo la luna velata da una piccola nuvola; in rapida sequenza la cinepresa ci mostra l’immagine della nube che attraversa come una lama il tondo della luna, mentre l’uomo squarcia con un rasoio un occhio di donna. Gli accostamenti ironici e inquietanti, uniti alle numerose incongruenze visive, fanno di Un chien andalou un’opera di chiara matrice surrealista; dice Vigo: «questo è il prologo e bisogna confessare che non ci permette di restare indifferenti. Esso ci conferma che, in questo film, bisogna saper guardare con altri occhi che non quelli abituali, se così si può dire»14 . Paradossalmente Vigo non vede nel film di Buñuel un’espressione dell’avanguardia, ma la possibilità di riscrivere la vita con un linguaggio cinematografico fatto di “punti di vista” e, allo stesso tempo, di sensibilità artistica. Egli ritrova nel film qualcosa che gli appartiene, riscopre il candore dell’infanzia costretta a crescere troppo in fretta e alle prese con un mondo pieno di pregiudizi.

14. In M. Grande, Jean Vigo, Il Castoro, Milano, 1979, p. 31.

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Quello che a posteriori appare il limite del cinema surrealista è l’assenza di una struttura di senso che dia modo al singolo gesto scandaloso (in questo caso l’occhio di donna tagliato è come se venisse esaltato maggiormente l’aspetto pittorico, compositivo e spaziale, rispetto alla costruzione di un senso condiviso. Ciò che invece Vigo mutua dal surrealismo, ovvero certi aspetti del suo approccio con la realtà e con la società, viene trasfigurato nel suo linguaggio cinematografico. In esso troviamo l’influenza vertoviana di fare cinema dentro e oltre le cose, “perforando con l’occhio della cinepresa la superficie del reale”15 . Nel suo manifesto estetico Dziga Vertov definisce il Kino-Glaz «l’arte di organizzare i movimenti necessari degli oggetti nel tempo e nello spazio fino ad ottenere un ritmo artistico globale, corrispondente alle caratteristiche del tutto e ai ritmi interni di ciascun oggetto»16. Nei film di Vigo la macchina da presa mostra le cose in funzione del senso che assumono in chi le riprende e in chi le guarda; essa diventa un punto di vista in movimento, e dunque viene utilizzata in quanto elemento allo stesso tempo soggettivo e oggettivo, unico promotore di significato. Ciò a cui mira il cineasta francese è una fusione, sul piano comunicativo, tra quelli che ritiene gli elementi fondamentali dello strumento cinema: le sue caratteristiche tecniche e linguistiche, e ciò che dev’essere imprescindibile, ovvero il suo radicamento nella realtà. Da un altro lato Vigo si identifica pienamente nel surrealismo in quanto grido di rivolta contro la degenerazione e l’oscurantismo culturale delle società borghesi; ma anche in questo caso egli va oltre, scavando nella memoria, con la sua poetica, alla ricerca di determinati canoni soggettivi che garantiscano all’individuo un elevato grado di percezione della realtà storica e sociale. Appare dunque chiaro come in Vigo l’influenza surrealista abbia la natura più di un’educazione sentimentale che di una vera e propria adesione a tecniche e ideali che il regista non può assimilare completamente; e ciò è ancor più vero se si pensa all’assoluta insubordinazione vigoliana nei confronti dell’apparato tecnico-produttivo di un mondo del cinema (quello “ufficiale”) nel quale non si riconosce. Sono proprio le sue frequentazioni surrealiste a consentire a Vigo di non sottostare alle rigide regole di un’arte cinematografica subordinata ad un linguaggio elaborato per raccontare ciò che cinematografico non è. Per chiarire il concetto di surrealismo di Vigo, può essere utile citare

15. Ivi, p. 27. 16. In Jean Vigo, Zero in condotta, Nautilus, Torino, 1994, p. 91


Il surrealismo nella poetica vigoliana

come esempio alcune scene di Zéro de conduite, specialmente quelle in cui Huguet incanta la classe con le sue “acrobazie”. In un’atmosfera resa confusionaria dalle grida dei collegiali e dalla “paterna” complicità del nuovo sorvegliante, un ragazzo cammina sulle mani, a testa in giù; a quel punto Huguet lo aiuta e mostra ai giovani la maniera corretta di eseguire l’esercizio. Dopo una breve inquadratura in cui appare l’infido Bec-de-Gaz (il sorvegliante generale che ruba le merendine dei collegiali) che spia dalla finestra la scena, Huguet appare magicamente sopra la cattedra a testa in giù, mentre chiede a uno dei ragazzi di passargli un foglio: disegna, sempre in quella posizione, un’ironica caricatura dello stesso Bec-de-Gaz. A quel punto il sorvegliante entra in classe, per cogliere in flagrante Huguet; indispettito osserva il disegno, che, in maniera surreale, si anima irridendolo. La scena appena descritta è un limpido esempio di come Vigo scivoli nel surreale senza mai perdere il contatto con la realtà e con il senso del film, raccontandoci dell’opposta visione, rispetto al resto degli adulti, che ha dei ragazzi e dell’educazione Huguet. D’altra parte Vigo, presentando nel 1930 A propos de Nice, espone il suo pensiero riguardo al cinema e al modo di fare cinema, analizzando in maniera critica sia il cosiddetto “cinema istituzionale”, sia quello partorito dalle avanguardie. Il primo viene accusato di rovesciare sugli spettatori banalità su banalità, in un intreccio perverso di connivenza all’interno del mondo cinematografico “ufficiale”; Vigo non ne può più di «due bocche che impiegano tremila metri per incollarsi l’una all’altra ed altrettanti per staccarsi»17 , in un universo dominato da rituali formali e intriso di falsa moralità. Ma allo stesso tempo, il regista intende decretare la fine dei cosiddetti esperimenti d’avanguardia cinematografica, in quanto considerati anacronistici, a causa soprattutto della pochezza tematica e dell’esaurimento di formule espressive realmente innovative. è ciò che Grande definisce «un’assunzione critica dell’esperienza dell’avanguardia»18 , all’interno di una dialettica costante tra l’autore di Zéro de conduite e il movimento. Ciò che rimane un fattore imprescindibile del quale non si può fare a meno è l’influenza di Almereyda sulla vita di Vigo; e quest’influenza si percepisce maggiormente se si vanno a vedere le “ragioni” dei suoi film. Quando si parla di Miguel Almereyda, si parla di una figura di spicco del movimento rivoluzionario europeo, del leader del mondo anarchico francese: tutto questo è costato caro soprattutto al giovane

17. In M. Grande, Jean Vigo, Il Castoro, Milano, 1979, p. 28. 18. Ibidem.

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Jean. La tragica fine del padre, l’alone leggendario che ha sempre accompagnato il suo nome, erano un peso enorme sulla spalle di un ragazzino; ed è forse anche per questo che Vigo non ha mai avuto un’ideologia ben definita, non ha mai saputo, o meglio voluto, scegliere “con chi stare”. Di certo c’è soltanto il suo rifiuto verso quel mondo borghese corrotto e reazionario ben rappresentato nelle sue opere; ma è pur sempre un rifiuto che sa di denuncia, più che di abbandono: ed è questo che differenzia gli ideali vigoliani da quelli anarchici o surrealisti, ovvero la volontà di mostrare ad un mondo squallido il proprio squallore attraverso un approccio possibilista, o almeno non completamente nichilista. L’arte vigoliana è dunque essenzialmente figlia di un’esperienza puramente cinematografica; con i suoi film egli dimostra autonomia dalle avanguardie e sfata quel mito di chi vuole Jean Vigo come un bardo del surrealismo cinematografico (senza però negarne l’influenza). Opere come Zéro de conduite ben rappresentano l’evoluzione del cinema vigoliano nella progressiva scoperta e padronanza nella capacità dello strumento cinema di costruire il reale, di rappresentare il senso profondo degli oggetti, in assoluta autonomia e anzi superando quel concetto primitivo e idealista proprio del surrealismo.

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Zero de conduite: la memoria strumento di rivolta « […] Se, a dispetto delle mie intenzioni, per il solo fatto che io non mi sono permesso in questo film alcuna letteratura, alcuna invenzione, non avendo avuto altro da fare che piegarmi appena per ritrovare i miei ricordi, certi episodi di Zéro de conduite raggiungono egualmente la satira, io non vedo perché tuttavia, di fronte a queste immagini non circostanziate, il governo Francese si senta a tal punto colto sul vivo da reagire spontaneamente e con tanto chiasso. A che pro ironizzare su questo o quel governo, su questa o quella nazione? […]Il problema per me è sventuratamente più grave. La mia preoccupazione più vasta e più casta. L’infanzia. Dei fanciulli che vengono abbandonati una sera di ottobre alla riapertura delle scuole nel cortile d’onore da qualche parte in provincia sotto una bandiera qualunque, ma sempre lontano da casa, dove si spera nell’affetto di una madre, nell’amicizia di un padre, se non è già morto. […] »19.

Vigo ha tenuto questo discorso il 17 ottobre 1933, in occasione della prima proiezione del film in Belgio (in Francia era già stato censurato), al Club de l’Ecran di André Thirifays; nelle sue parole si coglie l’amaro sarcasmo di chi vede la propria opera calpestata da una censura statale schiava del suo gretto nazionalismo. Ma non è solo il mondo laico e governativo a considerare l’opera vigoliana un attacco alle proprie fondamenta: anche il mondo cattolico sfoggia il consueto oscurantismo, parlando, a proposito del lungometraggio, di «notazioni realiste, idee sovversive, impressione spiacevole»20. Zéro de conduite è innanzitutto uno straordinario film sull’infanzia; Vigo la definisce la sua preoccupazione più vasta e più casta, cogliendo abilmente un aspetto fra i più inquietanti dei rapporti sociali: la distanza che intercorre tra il mondo dell’infanzia e quello, rigido e formale, degli adulti. Vigo non idealizza il mondo della gioventù, bensì lo dipinge realisticamente, in un quadro di felice anarchia giovanile. Guardando i ragazzi di Zéro de conduite si ha subito l’idea di un’infanzia

abbandonata a se stessa, che cerca all’esterno la sua libertà, in contrapposizione agli adulti, che sembrano sentirsi al sicuro solo all’interno delle mura collegiali. Anche in Zéro de conduite, come d’altronde in tutte le opere di Vigo, c’è un fondo autobiografico; ma esso viene utilizzato come fonte creatrice di senso, affinché la memoria venga ritrovata e liberata in tutta la sua potenza evocatrice. Così la scena del giovane sonnambulo nel dormitorio rappresenta un ricordo di ciò che Vigo ha vissuto sulla propria pelle; la morte del suo piccolo amico, il “vero” sonnambulo, nel 1919, viene celebrata e ricordata in questa sequenza, in una notte infantile vista come nascosta liberazione dalle rigide imposizioni del giorno. L’intento del cineasta francese è quello di mostrare l’infanzia dall’interno; l’adulto rivede il passato con gli occhi di quand’era bambino. James Agee, critico statunitense, illustra splendidamente questo concetto in un articolo pubblicato il 5 luglio 1947 sul The Nation di New York:

19. Jean Vigo, Zero in condotta, Nautilus, Torino, 1994, p. 12 20. Ivi, p. 99.

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« […] I ragazzi in Zéro sono visti come essi si vedono; il pubblico è uno di loro. […] Gli insegnanti […] sono perfetti. Visti come li vedono i ragazzi, o li vogliono vedere, sono capolavori di caricatura, semplicemente feroci, uno freddamente compassato, l’altro nelle iperboli dell’ammirazione»21.

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Gli adulti di Zéro de conduite sono schiavi della formalità, costretti a compiere gesti rituali per riuscire a sopravvivere. La differenza tra i due mondi è tanto maggiore quanto diverso è l’uso che essi fanno della parola: vuoto strumento forgiato nella finta moralità borghese per gli adulti, arma di liberazione e di emancipazione per i ragazzi. Infatti è proprio con un proclama di rivolta letto ad alta voce dal giovane emarginato Tabard che inizia la ribellione; ed è proprio durante le celebrazioni finte e inconsistenti, alle quali assiste una platea di pupazzi (e qua si vede il genio di Vigo nel mostrarci il mondo borghese per quello che è: apparenza) che il mondo adulto rivela tutta la sua impotenza e il suo “vuoto di parola”. I fantocci in tribuna rappresentano un’amplificazione grottesca del tiro al bersaglio. Il regista si schiera apertamente con il nuovo sorvegliante Huguet e con i ragazzi; egli riproduce la sensibilità e la banalità infantili in maniera fedele, in quanto crede in essi come unici valori esistenziali. Il nuovo sorvegliante rappresenta il simbolo di un mondo adulto che può e deve avvicinarsi a quello dell’infanzia. Si sente il sapore della sconfitta per ciò che l’uomo perde continuamente a causa del tempo e della consapevolezza della stessa perdita; è una battaglia che attende tutti i predestinati alla sconfitta. Huguet rivela pienamente il suo carattere sognatore nel momento in cui, durante la passeggiata in città con i collegiali, appena uscito dall’istituto, gira a destra trasognato mentre i ragazzi continuano verso sinistra. Dopo averlo raggiunto, gli scolari sono “costretti” nuovamente a seguirlo mentre egli si lancia all’inseguimento di una misteriosa signora in pelliccia, scomparsa dietro un angolo; girato lo stesso, Huguet si ritrova faccia a faccia

con un prete, che interdetto si allontana rapidamente sfogliando il breviario. Queste scene, caratterizzate da un ritmo incalzante, ben configurano la distinzione vigoliana tra interni (luoghi di costrizione) ed esterni (luoghi del divertimento). La banalità del mondo infantile è riprodotta fedelmente in Zéro de conduite, proprio in quanto promotrice di senso. La scena iniziale del film (Caussat e Bruel in treno al rientro dalle vacanze) è un vero e proprio inno alla banalità, a quel particolare tipo di banalità presente nei giochi e negli scherzi infantili. Dalla prima immagine di Caussat, segregato in una divisa scolastica che ricorda quelle militari, all’arrivo del treno, la scena è traboccante di rituali volgari ed elementari, ma assolutamente naturali: il trucco del “dito mozzato”, i palloncini di gomma che si trasformano in seni immaginari, la trombetta, l’imitazione di una gallina, fino ad arrivare all’accensione di due sigari, laddove Vigo dapprima opera una similitudine fra il fumo provocato dalla locomotiva e quello dei sigari, e solo successivamente, giunti a destinazione, ci mostra chiaramente il cartello “Non fumeurs”. La straordinaria figura del direttore del collegio (interpretato dal nano Delphin) è l’ennesimo esempio di come Vigo veda gli adulti come burattini grotteschi, esecutori di una censura totalizzante, caricature da fiera. A tal proposito, la scena in cui il direttore entra nel suo studio accompagnato da Bec-de-Gaz, è ricca di metafore. Il sorvegliante generale diventa lo specchio del direttore (si limita a ripetere i suoi stessi movimenti), che a sua volta inizia a compiere una serie di gesti rituali allo stesso tempo buffi e irrilevanti: dapprima si sforza, in punta di piedi, di depositare il cappello all’interno di un cilindro di vetro posto sopra la men-

21. In M. Grande, Jean Vigo, Il Castoro, Milano, 1979, p. 48


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sola del camino; dopo esservi riuscito (non senza difficoltà), inizia a specchiarsi, ma, vista la statura, lo specchio riflette solo l’immagine del suo “doppio” Bec-deGaz, in piedi davanti alla scrivania; accomodatosi infine il nano-direttore sulla sua poltrona, l’inquadratura ci mostra come egli abbia i piedi sollevati da terra e ricoperti di panni arrotolati. Appena il direttore inizia a parlare, e lo fa manifestando al sorvegliante le sue preoccupazioni per il comportamento “riprovevole” di Tabard e Bruel (colpevoli di avere stretto una forte amicizia), la comicità della scena diventa palese. Il discorso del nano, pieno di tic linguistici e pause, è formale, inutile, a tratti isterico: sembra quasi che Vigo voglia dirci che quello non è il discorso di un personaggio di Zéro de conduite, del direttore del collegio, bensì è l’anatema di una società corrotta e ipocrita. Ciò vuol dire che Vigo non ha dei rapporti sociali una visione schematica, bensì razionale, esclusivamente mirata a stravolgere le convenzioni medio-borghesi senza accusare direttamente questo o quel personaggio. Le scene finali della rivolta tendono a irridere, come già detto, sia i valori laici delle istituzioni, sia quelli religiosi; sarebbe infatti ipocrita non riconoscere nella già citata processione dei ragazzi nel dormitorio, e nella successiva “crocifissione” al letto di Pète-Sec una chiara e significativa dissacrazione dei rituali ecclesiastici e della fede in generale; così come non è possibile non notare i contorni ridicoli con i quali Vigo tratteggia le alte cariche cittadine presenti alla festa nel cortile, procedendo ad una sistematica distruzione del tanto odiato perbenismo borghese. La vita di Jean Vigo, dicevamo, è stata sempre all’insegna della censura, e ciò è ancor più vero per Zéro de conduite; ma i temi trattati nel film, quali appunto l’accesa denuncia vigoliana di un mondo degli adulti, metafora di un universo borghese che umilia l’uomo e il suo desi-

derio recondito di libertà, non sono l’unico motivo per il quale le istituzioni francesi hanno censurato Vigo per più di dieci anni. In realtà il giovane cineasta sembra essere stato censurato fin dall’inizio della sua vita, quasi fosse il suo destino; basti ricordare, ed è un paradosso, come venne iscritto a scuola con un nome falso per non suscitare i sospetti dei nemici della famiglia Vigo, tragicamente segnata dalle coraggiose scelte di Almereyda. Censura innanzitutto istituzionale, sicuramente; ma anche “logistica”, derivante dai diversi problemi di ordine materiale, economico, ideologico e culturale. E poi ci sono i problemi di salute di Vigo, la malattia che lentamente lo conduce a una precoce morte. Tutto ciò ha contribuito a creare attorno al regista quell’alone di leggenda che ancora lo circonda, inserendolo nel novero dei registi d’avanguardia, figli di un malessere insito nella società e più grande di loro. L’importanza attribuita alle opere di Vigo, e in particolar modo a Zéro de conduite, è figlia della sempiterna attualità delle stesse. Pensare che non vi sia un’istanza di rivolta dentro l’animo di ogni uomo, un desiderio di libertà maggiore di qualsiasi obbligo vale a dire negare l’evidenza; quello che per Jean Vigo rappresenta la ribellione in collegio, per gli uomini della nostra epoca può voler dire evadere dallo squallore delle metropoli, dalla rigidità e formalità dell’ufficio, dal bombardamento mediatico, da una stucchevole e disgustosa banalizzazione di un fenomeno complesso quale quello della globalizzazione. La razionalizzazione che ogni adulto si impone in seguito al raggiungimento di una compiuta maturità non può non passare da un rifiuto, anche involontario, della propria infanzia; essa viene tacitamente scordata, e in seguito inghiottita dal rullo borghese. Vigo non smise di essere bambino, e da questo si coglie l’attualità di Zéro de conduite: cosa c’è infatti di maggiormente attuale dell’infanzia,


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con tutte le sue banalità e il suo idealismo utopistico? Vigo vuole salvare la memoria della propria infanzia per spezzare le catene che opprimono la società. Il film è solo uno dei modi che esistono per raccontare il mondo infantile, per osservare le sue immagini che si contrappongono a quelle del mondo degli adulti; ed entrambi risultano come irraggiungibili, l’uno perché utopia, l’altro perché alienazione. E proprio nell’utopia galleggia Zéro de conduite, perché Vigo immagina una rivolta quasi onirica: laddove non arriva la realtà adulta deve arrivare il sogno infantile. Così il cinema di Vigo diventa tutt’uno con l’autobiografia e con l’avanguardia (nel senso letterale del termine), al servizio del “sociale”. Tutto il film risulta scandito da un ritmo ossessivo, che Vigo accentua nel suo carattere illustrativo: il continuo battere le mani (per richiamare all’ordine i ragazzi) degli istitutori, diviene, in Zéro de conduite, metafora di un’impostazione rigida e militaresca che fa dell’educazione uno strumento coercitivo. Vigo ricorda perfettamente il periodo nel quale era lui a sottostare alle regole degli adulti, era lui ad aspettare con ansia la domenica: «bisognava essere incredibilmente ubbidienti per uscire qualche ora la domenica»22 . Ecco dunque il perché vigoliano di Zéro de conduite: raccontare l’infanzia e il rapporto tra la memoria persa del bambino e la realtà angosciosa dell’adulto con alle spalle uno sfondo autobiografico innegabile. L’angoscia del regista nasce dalla consapevolezza della realtà, che non ricorda e soprattutto abbandona a se stessa la memoria, che non può non definirsi “tradita”. Il tentativo di Vigo di ridurre la frattura tra passato e presente è subito ridotto a mera illusione, illusione che diventa tale in quanto impossibilità di restaurare quel rapporto con la propria infanzia ormai volgarmente caduta nell’oblio. A questo punto il film sancisce quasi paradossalmente la morte definitiva di quel ricordo che avrebbe dovuto

22. Ivi, p. 54.

far rinascere; «il mio ricordo si ritrova male in lui», afferma Vigo durante la presentazione di Zéro de conduite: ed è un’amara verità. I tagli imposti al regista da parte della Gaumont (circa 800 metri di pellicola), resero il lavoro di Vigo doppiamente difficile; sia dal punto di vista logico-narrativo, che da quello tecnico-espressivo. Egli dovette infatti selezionare e scegliere se affidare il compito di dare significato al piano narrativo, oppure intensificare i suoi sforzi su quello delle “atmosfere”. Puntando sulla seconda ipotesi, Vigo ha consegnato ai posteri un’opera ricca di effetti e immagini allusive, cosicché la memoria appare concentrata nelle atmosfere, piuttosto che diluita all’interno di un processo narrativo classico. Per questo motivo, Zéro de conduite potrebbe geometricamente definirsi ellittico: le immagini in quanto tali si definiscono autosufficienti, creando una sorta di filo conduttore generatore di senso (anche in mancanza di una tipica forma narrativa). E qua è bene ricordare l’accorto uso del ralenti da parte di Vigo, in quanto limpido esempio di come l’immagine venga spezzata interrompendo la narrazione, proprio per dare più forza all’aspetto puramente estetico come sublimazione della ribellione. è significativo come Jean Dasté (il sorvegliante Huguet) sia l’unico attore professionista (per evidenti ragioni finanziarie); per il resto sono quasi tutti attori dilettanti, amici, conoscenti, gente presa per strada. La rivolta dei giovani inizia a prendere corpo nell’episodio dell’aula di scienze, che assurge a simbolo di una maniera tutta vigoliana di vedere la realtà: non più un fenomeno reale in sé, bensì come un traguardo che è possibile raggiungere solo attraverso una ferrea contrapposizione di immagini contrastanti. Così le mani unte del grasso professore di chimica che accarezzano quelle di Tabard, si pongono in netto contrasto con il candore del volto del giovane; i suoi rituali


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Zero de conduite: la memoria strumento di rivolta disgustosi ci fanno tornare in mente un mondo scolastico arcaico e formale. Tutto ciò è del tutto distante dall’ideale vigoliano di libertà infantile, costretti come sono, i collegiali, a subire attenzioni e comportamenti morbosi da parte di coloro che dovrebbero educarli. Abbiamo detto che la rivolta prende corpo in questa scena, poiché è proprio l’interesse del ripugnante professore verso di lui, che fa scattare in Tabard la molla della ribellione: «Merde!», grida sottraendosi violentemente alla carezza. “Merde” come “y a la merde”, anagramma di Almereyda, una frase pubblicata dal padre di Vigo contro il governo, insieme sberleffo e urlo di rivolta. “Merde” che, pronunciato dall’ormai emancipato Tabard, suona come liberazione, come estremo incipit di una ribellione imminente. Il principio della contiguità, in Zéro de conduite, è affidato esclusivamente a principi visivi; la memoria appare sincronica, ovvero le immagini non vengono

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riprodotte fedelmente in una successione che potrebbe definirsi temporale, bensì viene messa in evidenza la loro compresenza nello spazio. I rituali meccanici ai quali il mondo “adulto” ci ha abituati hanno come unico scopo la mansione di sbarrarci la vista al vero senso delle cose, alla loro essenza profonda. L’esperienza, il tempo passato, la nostra memoria dell’infanzia, vengono così disgiunti dalla consapevolezza della complessità dell’esperienza umana. è per questo motivo che Vigo sceglie di non mostrarci la realtà attraverso la logica della narrazione: perché non può e non vuole mostrarci un qualcosa che non esiste, che non c’è. I rituali borghesi rappresentano solo l’apice dell’assoluta man- canza di comunicazione che permea la società adulta. Ogni sequenza del film permette a Vigo di ricostruire ciò che è stato sepolto dall’inconsistenza del vuoto di parola; ogni sequenza racchiude in sé qualcosa di definitivo.

«La guerra è dichiarata. Abbasso i sorveglianti! Abbasso le punizioni! Viva la rivolta!....Libertà o morte!......Issiamo il nostro vessillo sul tetto del collegio. Domani, tutti, si svegliano con noi. Giuriamo di bombardare a colpi di libri vecchi, di barattoli vuoti, di ciabatte rotte, di munizioni nascoste nel granaio, le vecchie mummie che ci opprimono. Avanti! All’assalto!».

è Tabard a parlare, è l’infanzia a rinascere. La rivoluzione onirica è partorita così dalla rivendicazione infantile che si esplica nei piccoli gesti: uno scambio di cioccolata per sancire un patto, le sigarette fumate di nascosto, la parola d’ordine “vietato vietare”. Vigo regala alla società la sua memoria affinché la trasformi in memoria collettiva,

per non dimenticare, per non sottostare ai rituali della segregazione tanto cari al mondo borghese. Affinché Caussat, Bruel, Colin e Tabard possano nuovamente arrampicarsi sul tetto della rivolta, per salutare la liberazione della loro soggettività, per mostrare al cielo la loro utopia, la loro eterna infanzia. E noi con loro.


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BIBLIOGRAFIA ESSENZIALE AndrĂŠ Breton, MANIFESTO DEL SURREALISMO, Einaudi, Torino, 1966 Maurizio Grande, JEAN VIGO, Il Castoro cinema, Milano, 1979 Antonio Costa, SAPER VEDERE IL CINEMA, Bompiani, Milano, 1985 Jean Vigo, ZERO IN CONDOTTA, a cura di Claudio Sabani e Luigi Bontempi, Nautilus, Torino, 1994 Antonio Costa, IL CINEMA E LE ARTI VISIVE, Einaudi, Torino, 2002



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