Speciale Cannes 2013

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TAXI DRIVERS MAGAZINE SPECIALE CANNES 2013

DIRETTORE

Vincenzo Patanè Garsia VICE DIRETTRICE

Giorgiana Sabatini CAPOREDATTRICE MAGAZINE

Lucilla Colonna CONCEPT DESIGNER

Gianna Caratelli UFFICIO STAMPA

Valentina Calabrese INVIATE a CANNES

Maria Cera Elisabetta Colla Francesca Vantaggiato CONTRIBUTI di

Valentina Calabrese Lucilla Colonna Valentina Marchetti EXECUTIVE EDITOR

Giulia Eleonora Zeno WEB MASTER

Daniele Imperiali CONTATTI e mail: info@taxidrivers.it Facebook: Taxidrivers Mag II Arretrati Magazine: http://issuu.com/taxidrivers_magazine

TAXI DRIVERS è dedicata a Delian Hristev (R.I.P.)

In copertina: Ryan Gosling, protagonista di Only God Forgives


EDITORIALE I pugni di Ryan Gosling che quest'anno, in copertina, succedono al bacio di Marilyn Monroe del nostro Speciale Cannes 2012, introducono perfettamente all'impegnativa e tumultuosa 66ma edizione del festival. Una kermesse cominciata fra le proteste femministe per un concorso Palma d'Oro con diciannove registi uomini e una sola regista donna e continuata con gli spari a salve di uno squilibrato armato pure di coltello, con i furti di gioielli e di denaro negli alloggi dei partecipanti e con la manifestazione del movimento Occupy Cannes, che sostiene le ragioni dei filmakers indipendenti contro gli sprechi e lo strapotere della grandi case di produzione cinematografica. Insomma, non esattamente una tranquilla passeggiata sul Boulevard de la Croisette, per le inviate di Taxi Drivers Magazine... Eppure, eccoci come sempre qui, con una quarantina di recensioni ed altre sorprese per i nostri lettori e le nostre lettrici, direttamente da quel Palais des Festivals, dove sappiamo ormai che può succedere di tutto e quindi non ci stupiamo se la giuria capeggiata da Steven Spielberg decide di consegnare il premio più importante sia al regista che alle due protagoniste del film La vie d'Adèle, facendo diventare la Palma d'Oro addirittura una e trina.

Lucilla Colonna

SCELTI DA TAXI DRIVERS

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l’ITALIA a CANNES

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i PREMI

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in CONCORSO per la PALMA d’ORO

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IL GRANDE GATSBY Baz Luhrmann

2013

: Australia, USA

: Drammatico

: 142’


Leonardo Di Caprio è l'american dreamer

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di Valentina Calabrese

Arriva al cinema il quarto adattamento del romanzo di Francis Scott Fitzgerald, Il Grande Gatsby, diventato oggi un mito letterario e affidato alla regia del folle genio Baz Luhrmann. Il film, che ha aperto ufficialmente il Festival di Cannes, ha letteralmente spaccato a metà la critica, ricevendo disapprovazioni soprattutto per l’incongruenza e l’eccessiva spettacolarizzazione del romanzo. La storia di Jay Gatsby, il misterioso ed entusiasta american dreamer, è forse davvero, almeno per i primi quaranta minuti, messa da parte da Luhrmann, il quale si è evidentemente lasciato trasportare dalla gioia di dipingere con tutta la sua essenza sfarzosa e scenografica gli ambienti e le feste della New York dei ruggenti anni ’20. Pochi si ricordano, però, che fu lo stesso Fitzgerald, con una consapevolezza innata, a enunciare la fertile contraddizione che intendeva perseguire con il suo romanzo, quando nel 1922, tre anni prima della effettiva pubblicazione di Gatsby, mandò queste poche righe al suo editore Maxwell Perkins: “Voglio scrivere qualcosa di nuovo, qualcosa di straordinario e bello e semplice e dalla struttura intricata”. Semplicità e complessità: è infatti nella coesistenza tra questi due opposti che consiste la magia de Il Grande Gatsby, riscontrabile, in tal senso, anche nel film.Il libro di Fitzgerald, è stato volutamente ambientato negli anni prima della crisi del ’29, quelli in cui New York rappresentava la metropoli dell’autodistruzione, la città del piacere, apice del lusso sfrenato, dello sfarzo e delle feste senza eguali. “Tra un’esecuzione e l’altra la gente improvvisava ‘numeri’ per tutto il giardino, mentre scoppi di risa felici e inutili si alzavano verso il cielo estivo”. La vacuità e la decadenza di una generazione, quella dell’età del jazz, degli anni

Venti, sono l’anima del romanzo e che quindi oggi rivive sullo schermo grazie alla genialità di un regista come Baz Luhrmann che ha carpito il senso più intimo e contraddittorio del libro, sapendolo portare all’eccesso. Insomma, Fitzgerald parlava della generazione del benessere, di quei ricchi reazionari e razzisti senza contenuto che vivevano la loro vita schiacciando tutto e tutti, per poi rinchiudersi nella loro triste ma ben salda torre d’avorio. Allora quale altro modo, se non quello usato da Luhrmann, era giusto per rappresentare tutto questo? Considerando che poi, oggi, ci ritroviamo a vivere un’altra crisi non solo economica ma anche di valori: ecco allora che le feste sono dominate dal kitsch sfrenato, dai costumi appariscenti e dalla colonna sonora assordante. Quest’ultima, poi, fa parte di un’altra delle belle pensate del visionario regista, il quale, con l’aiuto del capace produttore e rapper Jay-Z, affianca a note jazz, tipiche dell’epoca descritta, l’hip hop, la neo espressione afroamericana. Dal jazz all’hip hop, dunque, per la contemporaneizzazione dello spettacolo. Il 3D, allora, diventa necessario all’operazione, per rendere ancora più spettacolari quelle feste di cui scriveva Fitzgerald. All’interno di questa lussuosa confezione, però, risiede un intero mondo, che è poi il fulcro del romanzo, ossia la storia di un eroe romantico che, grazie alla sua innata vitalità e incrollabile speranza, riesce a diventare il padrone indiscusso di una città come New York. Si dà il caso però che l’unico obiettivo del nostro eroe sia quello di riconquistare la sua metà. Gatsby, ha creato il suo impero solo esclusivamente per poterlo condividere con la sua Daisy. Sarà l’ossessione per lei, la sconsiderata passione che Gatsby prova nei suoi confronti a portare all’inevitabile.


IL GRANDE GATSBY Mirabile l’interpretazione di Leonardo Di Caprio che buca lo schermo con il suo sorriso da eterno sognatore, travolgendo lo spettatore e portandolo con sé dentro il significato del film. Bravissimo nel mettere in scena due facce della sua stessa persona, una quella apparente, del self made man, colui che con le sue sole forze e speranze è diventato l’uomo più potente di New York, l’altra è quella di un giovane fragile e sensibile, distrutto dall’intimo tormento causato dall’impossibilità di vivere con Daisy. In

fondo Gatsby è l’incarnazione del pirandelliano Uno, nessuno, centomila. Così potente e impotente di fronte all’apparente molteplicità che ti prende e poi ti butta via. Intima e delicata anche la Daisy del film, interpretata da una sublime Carey Mulligan che non delude le aspettative. Bravi tutti, anche il resto del cast, perfettamente plausibili nei confronti del romanzo. Andate a vedere Il Grande Gatsby di Baz Luhrmann e liberatevi dai paraocchi, lasciandovi trasportare dall’immaginazione.


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ALL IS LOST J.C. Chandor

2013

: USA

: Drammatico

: 105’

Robert Redford e il mare di Elisabetta Colla Only one man: un uomo solo ed una barca a vela, ed il film è servito. La trama di All is lost, l’ultima pellicola di J.C. Chandor (regista noto per Margin Call) interpretata da un magnifico Robert Redford (a qualsiasi età sarà sempre lui, l’icona cult degli Anni Settanta, l’attore/regista fascinoso, intelligente e democratico inventore del Sundance, insuperato interprete di film indimenticabili) è più o meno questa. Ma chi dovesse temere di annoiarsi, rimarrà piacevolmente sorpreso: Redford, infatti, intrattiene il pubblico per quasi due ore, dapprima aggiustando una falla nella sua barca (causata dall’impatto con un container pieno di scarpe da ginnastica), con grande perizia, nella speranza che i suoi guai finiscano lì, ma molto presto ingegnandosi a sopravvivere in più di un’occasione fra tempeste, squali (di passaggio), fame e sete. L’ultimo stadio, dopo che la sua imbarcazione sarà finita letteralmente nell’occhio del ciclone, resta il gommone di salvataggio (da cui scrive il classico SOS in bottiglia, anzi meglio una sorta di testamento), a cui dovrà dar fuoco per farsi notare da una enorme nave di passaggio. Ed allora tutto sembra perduto. Redford recita completamente solo per l’intero film, non

dice praticamente nulla (a parte qualche parolaccia quando avvengono piccoli, grandi drammi sulla nave) e tutta l’azione di svolge in acqua, nell’Oceano Indiano. Chandor, selezionato col suo film precedente al Sundance, ha pensato bene di offrire un ruolo al Direttore del Festival alias Redford, il quale ha chiesto di poter girare tutte le scene in prima persona, dimostrando ancora una notevole prestanza nonostante i suoi 76 anni. “Nell’accettare questo film volevo provare a fare tutto ciò che veniva richiesto, in senso fisico - ha raccontato Redford ai giornalisti, nel ruolo di un redivivo Hemingway, sfoderando il sorriso che l’ha reso celebre - Ho voluto girare io tutte le scene d’azione, sia per il bene del film che per il mio Ego: girare da solo e senza parlare è stata una grande sfida, ma credo profondamente nel valore del silenzio in questo film”. Dopo Cast Away e Vita di Pi, una nuova avvincente vicenda di lotta tra l’uomo e il mare (e gli elementi naturali in genere), che tiene col fiato sospeso fino all’ultimo istante, grazie ad una congrua dose di pathos ed all’incalzante colonna sonora, che accompagnano il protagonista nella sua incredibile traiettoria verso la salvezza.


THE BLING RING Sofia Coppola

2013

: USA

: Drammatico

: 90’


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Diciassette anni, gossip e furti di Francesca Vantaggiato

Inaugura Un Certain Regard il lavoro di Sofia Coppola, The Bling Ring, ispirato ai fatti di cronaca successi nelle colline dorate di Hollywood quando un gruppo di teenagers ossessionato dal glamour ha dato il via a una serie di rapine nelle ville di alcune star tra cui Paris Hilton, Orlando Bloom, Lindsay Lohan, Rachel Bilson e tanti altri, rubando vestiti, accessori e beni di lusso per un valore di 3 milioni di dollari. L’idea della Coppola prende corpo da un articolo di giornale pubblicato da Nancy Jo Sales su Vanity Fair intitolato The suspects wore Louboutins e ad esso resta fin troppo legata nella definizione del proprio punto di vista. The Bling Ring ci introduce efficacemente e velocemente nel mondo di Rebecca (Katie Chang), Mark (Israel Broussard), Nicki (Emma Watson), Sam (Taissa Farmiga) e Chloé (Claire Julien). Questo gruppo di ragazzi di appena 17 anni è ossessionato dalle star, si serve dei siti di gossip per sapere a quale party parteciperanno i loro beniamini in fatto di moda, localizza con un click l’indirizzo delle loro abitazioni ‘per fare shopping’, si introduce nelle loro eccentriche ville spesso lasciate aperte o insufficientemente sorvegliate, pubblica sui social media le foto dei nuovi ‘acquisti’. Nell’incoscienza del gesto guidato solo dalla brama di possedere oggetti indossati o appartenenti alle star, il quintetto capitanato da Rebecca trascura un dettaglio fondamentale, l’illegalità del loro vizio. Ritmo, colonna sonora e fotografia firmata impeccabilmente da Harris Savides sono elementi accattivanti di una bella confezione dal contenuto claudicante. “Ho cercato di essere empatica, non volevo giudicare. Non intendevo dire che quanto fatto da questo gruppo di teenagers fosse giusto ma ho preferito lasciare il pubblico libero di sviluppare la propria idea della storia. Non mi piace dire allo spettatore

cosa deve e non deve pensare. Questo film mostra come la cultura possa influenzare i ragazzi che non ricevono forti valori dalla propria famiglia”. Ciò che non convince del tutto in The Bling Ring è proprio la mancanza di prospettiva che la regista decide deliberatamente di assumere. Cambiare i nomi dei protagonisti per evitare di contribuire alla crescita della loro fama e apportare ai fatti realmente accaduti piccole modifiche funzionali alla messa in scena cinematografica non basta per trasformare la cronaca in film. Benché il suo ultimo film Somewhere, vincitore nel 2012 a Venezia, avesse fatto storcere il naso ai più per il suo girare intorno all’inconsistenza della vita di un attore famoso, tediandoci con la sua noia, va riconosciuta a questa penultima fatica un’intenzione precisa e coerente, a differenza del suo ultimo impegno cinematografico deliberatamente privato della stessa progettualità. The Bling Ring richiama immediatamente alla memoria – quasi cercando di essere il suo complementare – il capolavoro tanto dibattuto di Harmony Korine, Spring Breakers, quel film in concorso a Venezia 2012 su un gruppo di adolescenti perdute e attratte fatalmente dal sogno illusorio di fare soldi in modo facile. Non mancarono i critici che, usciti dalla sala, gridarono alla vacua esposizione di corpi nudi ancheggianti e deliranti, invece Spring Breakers è molto di più, è una critica all’american dream infranto e fatuo dei teenagers esplosa in quelle immagini di puro cinema. La Coppola riesce a iniettare nel suo film una carica estetica vividissima che si fissa sulla retina dello spettatore ma pecca nell’assenza di un messaggio veicolato, sembra infatti che la sua intenzione comunicativa resti inespressa nella potenza dell’informazionefonte sottesa all’idea.


NORTE/LA FINE DELLA STORIA Lav Diaz

2013

: Filippine

: Drammatico

: 243’

Colpa e innocenza di Elisabetta Colla Un linguaggio potente da narratore, quello di Lav Diaz (nome completo Lavrente Indico Diaz, regista, attore e sceneggiatore filippino, classe 1958), noto per le sue opere dalla lunghissima durata (anche 12 ore), che fortunatamente, nel film presentato a Cannes 2013, sezione Un Certain Regard, Norte/La Fine della Storia si è limitata a poco più di 4 ore. Nonostante la relativa lentezza dell’azione, la pellicola scorre, e si resta avviluppati da una storia niente affatto banale che accosta, su due livelli paralleli, tratti di racconto contemporaneo – i giovani intellettuali universitari filippini, non ricchi ma benestanti, che discutono, seduti ad un caffè, di politica ed attualità, di bene e male, colti, tolleranti, con uno sguardo profondo ed ironico sulla vita – ad una trama più complessa e tragica, che fa da trait-d’union alle tante conversazioni sulla politica, la religione, la giustizia che di quando in quando letteralmente fermano l’azione. La vicenda si svolge nel Nord delle Filippine, luogo dove convive la popolazione islamica con ex-cattolici che strizzano l’occhio agli evangelici e terreno di guerriglia marxista per lungo tempo. È qui che vive Fabien, giovane brillante che ha lasciato l’Università di Giurisprudenza perché crede sia più importante l’azione e perché nulla sembra avere più senso. Frequenta sempre i suoi amici che lo considerano il loro guru, il più bravo di tutti, e vorrebbero convincerlo a riprendere gli studi. Ma un giorno Fabien, senza rifletterci troppo, uccide un’usuraia che teneva in pugno l’intero paese, soprattutto i poveri delle baracche e poi fugge lontano. Al suo posto viene incriminato (a vita) un uomo già poverissimo, la cui moglie è così costretta a lavorare il doppio per dar da mangiare ai figli. Da qui si dipanano i per-

corsi ramificati dei personaggi: Fabien con grandi sensi di colpa non trova il coraggio di costituirsi e finisce per appoggiarsi ad un gruppo evangelico; l’uomo in prigione diventa quasi santo e sviluppa sensibilità e bontà in dosi massicce; la donna lavora e spera, spera e lavora. La giustizia cercata individualmente diventa ingiustizia certa per gli innocenti, l’assolutismo si rivela controproducente in ogni caso. Diaz fa parte di una generazione cresciuta con i film e gli insegnamenti di Lino Brocka (cineasta scomodo, morto in un incidente stradale in circostanze misteriose), maestro nel mostrare la storia e la politica del suo Paese attraverso ogni dettaglio di un film, nel cercare il dubbio ed il disequilibrio come valori, nel cinema e nella vita. Speriamo che, in qualche modo, sia possibile recuperare, per il pubblico dei cinefili, quest’opera così interessante e, a vari livelli, educativa.


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THE MISSING PICTURE PRIX UN CERTAIN REGARD

Rithy Panh

2013

: Cambogia, Francia

Il cinema di Rithy Panh da sempre ‘rivive’ la storia drammatica subita dalla Cambogia, devastata dal regime dei khmer Rossi. Una vera e propria opera di ricostruzione, la sua, nel recupero (nella forma e del documentario e della fiction) di tracce labilissime di un passato che ha lasciato marchi indelebili in corpi, memoria e coscienze, pur essendo difficile da rintracciare e saldare nella materialità di ‘segni’ pressoché scomparsi. L’Image manquante, vincitore di Un certain regard di questa edizione 66 del Festival di Cannes, è ispirato dal libro The Elimination, scritto da Panh insieme a Christophe Bataille. Il regista cambogiano questa volta va ‘a caccia’ dei propri anni autobiografici nei quali, in prima persona, ha subìto l’esperienza del totalitarismo attraverso la detenzione nei campi di rieducazione e la fine della vita per la sua famiglia… La scarsa documentazione di imma-

: Drammatico

: 95’

gini di repertorio (più o meno introvabili), viene compensata da un’animazione dal sapore e dal senso di un uso tutto speciale nei modellini di terracotta impiegati: uomini, donne, bambini che, nell’immobilismo fisico in cui ci vengono proposti, simboleggiano il dramma della spersonalizzazione, della ‘reclusione’ di coscienza di cui i Cambogiani sono stati vittima. Rithy Panh si proietta (e ci proietta) verso quell’immagine capace di sintetizzare una dittatura, un simbolo visivo impossibile da trovare. E proprio in quanto impossibile, quell’immagine cercata è ancora più vivida come essenza. Il sonoro funge da messa a fuoco di dettagli ‘invisibili’. L’audio dà corpo, profondità ad uno sguardo che manca perché distrutto, fatto sparire, per fingere che nulla sia mai accaduto, che nulla sia mai stato reale.


BLIND DETECTIVE Johnnie TO

2013

: Hong Kong, Cina

: Poliziesco atipico

: 129’


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Johnnie TO irresistibile e ‘incondannabile’ di Maria Cera

Arriva a Cannes fuori concorso Johnnie TO con la sua ultima creatura… E di creatura si tratta, perchè il cinema di questo prolifico ‘mostro doppio’ (occhio-penna: Johnnie TO e Ka Fai WAI, suo inseparabile sceneggiatore, co-fondatore della loro casa di produzione, la Milkyway) fermenta e si sviluppa in progressione. Come un lievito, cresce man mano che avanza nella narrazione, inglobando-fagocitando stili, stilemi, stati emotivi e mentali, deviazioni-devianze- aberrazioni… Il risultato è un coacervo esplosivo folle, dolce, macabro, comico. Cosi può essere condensato Blind detective, contraltare in chiave ironica del piu cupo Mad Detective (2007), con l’identica predisposizione di atipicità e menomazione del protagonista. Anche in questo film To crea l’antitesi del cop in pistola, incatenato alle prove, prevedibile e pragmatico. Il nostro bizzarro e irresistibile agente in pensione forzata – autodefinito e definito il poliziotto migliore del mondo – si avvale di espedienti altri, amplificati da una menomazione (la cecità) che espande il tatto, l’olfatto e soprattutto il cervello. L’immaginazione-immedesimazione- riproduzione dei prodromi del delitto permette al nostro supercop di arrivare a delle conclusioni meta reali e infallibili. In uno dei suoi pedinamenti straordinariamente illuminati nell’inventiva narrativa (un cieco armato del suo inseparabile bastonciono che segue, nella massa informe e metropolitana, un sospetto seminatore di acido solforico), il supercop è affiancato in incognito come controllore visivo da una superagente in provetta (la tosta-dolce-bambina Sammy Change) che resta folgorata dal vederlo in azione. La donna gli si rivolge nel duplice intento di diventare sua apprendista e di ingaggiarlo nella soluzione di un caso che le ha preso il cuore. Da questo incipit veniamo letteralmente

proiettati dentro un flusso concomitante di situazioni tra il serio e faceto, supportate da paradossi soprendenti ed esilaranti – pure nel macabro a cui alcuni di essi rimandano – capitanati, nel vortice episodicoemotivo-umano, dallo straodinario Andy Lau, e dalla sua mimica stracomunicativa: il supercop è esuberante, narciso, egoista, intransigente, infantile (e una buonissima, vorace forchetta). Un personaggio difficile da dimenticare. Come il suo doppio femminile, un maschiaccio seducente che vede in lui un maestro ed anche un uomo di cui ben presto di innamora. Inutile e superfluo spiegare come l’incredibile matassa giungerà al totale dipanamento. Ciò che conta è quel che succede nel mezzo, le digressioni comiche e inventive, orrorifiche e sognanti, le piccole verità ed emozioni che spontaneamente, da se stesse, emergono. Sull’amore, per esempio, To ha molto da insegnarci e farci riflettere, divertendosi sempre, nei paradossi che inscena, a mostrarci le piccole illusioni di cui ci nutriamo, i giochi del caso, i masochismi che abbracciamo. E sopra ogni cosa, egregiamente dipinta, la “follia” orientale… Un essere sopra le righe che esplode in esilaranti urli, caratterizzazioni umane e disallineamenti ad un ordine e compostezza che, innati, pure appartengono a quella cultura. Si avverte la pesantezza di un tempo filmico e narrativo tirato troppo, nel quale alcuni nuovi inizi, che si aggiungono al già stato e lo riproducono parallelamente, appaiono sterili, complicando tanto per complicare. Ma quando le luci si spengono, perdoniamo a To una sovrapposizione ed un investimento eccessivo, troppi gli stimoli visivi e immaginativi che ci ha reso, con una regia sempre impeccabile nell’eleganza e pulizia di contenitore filtrante di un flusso creativo incontenibile.


LES SALAUDS Claire Denis

2013

: Francia, Germania

: Drammatico

: 100’

Dopo Chocolat, alcool e droga di Elisabetta Colla Una storia torbida e piena di non detti (troppi), quella del film Les Salauds, diretto da Claire Denis (divenuta nota a livello internazionale con Chocolat nel 1988), la regista francese cresciuta in Africa, che ha lavorato con Costa-Gavras, Jarmusch e Wenders, e che studia nei suoi film le tensioni interculturali, la diversità ed i conflitti familiari. Qui la trama è davvero complessa quanto oscura, ed il film non gira come dovrebbe: un comandante della marina, Marco Silvestri (nel ruolo, il sempre affascinante Vincent Lindon), che vive in mezzo all’Oceano su una petroliera, viene richiamato in terraferma dalla sorella, dopo il suicidio del marito, per il quale la donna incolpa Edouard Laporte, un ‘bastardo’, piccolo imprenditore mafioso, coinvolto, fra l’altro, in un giro di

prostituzione minorile. Nel frattempo la nipote adolescente Justine, la dolce Lola Créton, nota per Après mai, si lascia andare ad alcool, droghe ed incontri con personaggi equivoci: Marco, nel tentativo di salvarla, si troverà preso in una rete vischiosa e in un gioco più grande di lui, innamorandosi, per giunta, della donna del boss (Chiara Mastroianni). Se l’atmosfera del film poteva anche funzionare, lo script è debole ed il film, nell’insieme, risulta decisamente noioso. Importante, questo sì, che sollevi il sipario su un certo mondo di ricchi senza scrupoli che amano le ragazzine giovani, possibilmente molto giovani, trascinandole in veri e propri tunnel senza ritorno.


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AS I LAY DYING James Franco

2013

: USA

: Drammatico

: 110’

Faulkner in split screen di Elisabetta Colla Il profondo Sud dell’America, descritto da Faulkner nei suoi tanti romanzi, trova una delle sue rappresentazioni più oscure e complesse in un lavoro meno noto (ai più) del 1930, As I Lay Dying, cui è ispirato il film omonimo selezionato a Cannes 2013 nella sezione Un Certain regard, diretto ed interpretato dal bravo James Franco, il quale merita di essere apprezzato come artista a tutto tondo, capace di attraversare generi cinematografici e professionali senza bruciarsi (e non è cosa da tutti). Tradotto in Italia con il titolo Mentre morivo, l’originale faulkneriano, As I lay dying, è tratto da un verso del libro XI dell’Odissea, relativo alla discesa agli inferi da parte di Ulisse, perfetta introduzione al luogo senza ritorno dove si avvia il film ed, in particolare, alcuni dei suoi protagonisti. Addie, madre di cinque figli (Cash, Darl, Jewel, Vardaman e Dewey Dell) è sul letto di morte; il marito/padre, Anse, è convinto che la donna abbia deciso di morire ed in effetti, dopo una breve agonia, così avviene. Nelle prime scene vengono ‘presentati’ i figli, creature singolari, tra cui Darl reduce dalla guerra creduto pazzo, Jewel – frutto del vero amore conosciuto dalla madre con un altro uomo – unito alle foreste ed ai cavalli più che agli umani, Dewey Dell, ragazza silenziosa semischiavizzata dai fratelli. Qui si legge uno dei tratti distintivi di Faulkner, quello di leggere, dietro l’apparenza semplice, qui quasi primitiva, di alcuni personaggi, elementi di intelligenza fuori del comune. La famiglia Bundren, dunque, parte dall’immaginaria contea di Yoknapatawpha (regione del Mississippi frutto della fantasia dello scrittore) verso la lontana Jefferson, portando la bara della

madre su una sorta di carro funebre piuttosto sgangherato. Nel corso del viaggio le tensioni interne, le gelosie e le catastrofiche peripezie del nucleo familiare non si contano: naufragio del carro nel fiume, gambe tagliate, aborti e maltrattamenti, incendi, pazzia, tutto nella miglior tradizione faulkneriana. Solo l’epilogo porterà uno spiraglio di catarsi, con una nuova dentiera ed una nuova moglie per il vecchio Anse, monumento al padre egoista. Franco, che si aggiudica come attore il ruolo del fratello sfortunato e presunto pazzo, gioca come regista per buona parte del film con lo split screen, dividendo in due lo schermo per seguire parallelamente più azioni, e la cosa funziona, così come l’atmosfera di catabasi e tragedia, di miseria umana ed ambientale, viene resa con capacità non comune nelle sue irreparabili conseguenze. Sembra, per i più curiosi, che Faulkner abbia scritto questo romanzo a 32 anni, in un periodo in cui lavorava come fuochista alla centrale elettrica dell’Università di Oxford, in Mississippi, appoggiato ad una carriola capovolta e sfruttando la tranquillità della notte.


OMAR JURY PRIZE - UN CERTAIN REGARD

Hany Abu-Assad

2013

: Palestina

: Drammatico

: 97’


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Oltre il muro di Elisabetta Colla

L’occupazione israeliana della Palestina, com’è noto, è una delle tragedie politiche mondiali irrisolte più scottanti di tutti i tempi, ed il cinema ha raccontato in molti modi storie personali e collettive legate alla convivenza forzata, ai posti di blocco, alle angherie dell’esercito israeliano ai danni dei civili inermi (spesso donne e bambini che si recano a visitare parenti, o vanno a scuola o in ospedale), all’odio che cresce, coltivato per le strade, giorno dopo giorno, fra ebrei ed arabi, all’ombra del muro divisorio costruito per isolare la Cisgiordania (in inglese, la cosiddetta West Bank). In tale contesto si colloca la nuova pellicola Omar del regista Abu-Assad – già noto per Rana’s Wedding e per il coraggioso Paradise Now – selezionata a Cannes nella rosa dei 18 candidati della sezione Un Certain Regard (la seconda più importante sezione in competizione) e presentata ieri al Festival con un’acclamazione di critica e pubblico: tale esito ha colpito favorevolmente il regista presente in sala, il quale ha dichiarato, dopo la prima del film, di sperare che il successo porti anche attenzione all’opera, benché la sua prima ‘audience’ rimangano sempre i palestinesi, i giovani ed il mondo arabo. Il film può inoltre vantare, oltre ad una solida storia ben girata con personaggi credibili e dotati di una certa originalità, una produzione interamente palestinese, sia come cast e troupe e sia come finanziamenti. Omar è un ragazzo che lavora come panettiere e vive in Cisgiordania: ogni giorno va oltre il muro, salendo su e giù per una fune presa di mira dall’esercito, per visitare i suoi più cari amici, Amjad e Tarek, e la sorella di quest’ultimo, Nadia, della quale è innamo-

rato e, sembra, contraccambiato. I tre giovani si incontrano, scherzano, amano il cinema moderno e sognano un’altra vita ma, al tempo stesso, odiano gli occupanti e si esercitano a sparare e a lottare nei gruppi di resistenza dei territori. Uno degli ennesimi episodi di gratuita violenza, umiliazione ed intimidazione subito al check-point ad opera di militari israeliani, convincerà Omar ed i suoi amici ad agire, ma le cose sfuggiranno loro di mano ed Omar verrà arrestato. Da qui la trama s’infittisce, fra politica, spionaggio, torture in carcere, veri o presunti tradimenti e triangolo sentimentale, con un ritmo serrato nelle scene d’azione come nel susseguirsi degli eventi incalzanti del quotidiano, a descrizione di una vita che brucia i suoi giovani, crea guerre fratricide e uccide la purezza, degli ideali e delle speranze, conducendo molti, da entrambe le parti, a gesti anche estremi. Il regista ci racconta, con la naturalezza di chi conosce bene il suo tema, e senza annoiare (anzi scegliendo una cifra leggermente ironica), l’ordinaria follia che si dipana nei territori occupati, in un quotidiano che viola sistematicamente i diritti umani, le libertà personali ed il rispetto dell’altro, erigendo muri invalicabili fra mondi di per sé vicini. Il dialogo sobrio ma d’effetto, la forza della regia e la precisione del montaggio sono ben evidenziati nella pellicola grazie alla bravura dei giovani protagonisti (su tutti spicca Adam Bakri, figlio di Mohammed Bakri), che sprigionano energia e vigore come è proprio di chi vive intensamente per una causa, sognando una vita migliore, fino all’impatto con un reale destabilizzante.


MY SWEET PEPPER LAND Hiner Saleem

2013

: Fr+Ger+Iraq

: Drammatico

: 100’

Curdi e cowboys di Elisabetta Colla La forza e la vitalità del cinema curdo, già abbastanza noto in tutto il mondo, vengono alla luce con tutta evidenza anche a Cannes, nella sezione Un Certain Regard, con un delizioso cowboy movie sui generis, My sweet Pepper Land, girato dal regista kurdo-irakeno Hiner Saleem e prodotto da Robert Guédiguian, un vero e proprio inno alla libertà, politica, religiosa, individuale. Baran (che ha il bel volto baffuto dell’attore Korkmaz Arslanha) ha combattuto nella guerra per l’indipendenza del Kurdistan ma, dopo la caduta di Saddam Hussein, non accetta di diventare un burocrate né approva i mezzi ‘spicci’ dei suoi superiori, che inneggiano alla sicurezza ed alla pena di morte per prigionieri e traditori. Decide quindi di farsi spedire in un villaggio isolato in mezzo alle montagne, ai confini tra Turchia ed Iraq come rappresentante della polizia e tutore delle forze dell’ordine: da subito si accorge che vige già una sorta di ordine territoriale, amministrato in modo del tutto illegale da un signore locale, Aziz Aga, e dai suoi (pericolosi) sgherri che prosperano grazie al contrabbando di alcool, droga e farmaci sul confine, e quando si accorgono dell’integrità di Baran, cercano dapprima di corromperlo, poi di eliminarlo. Ma se la vita è dura per gli uomini onesti, figurarsi per le donne … il caso vuole infatti che, proprio nello stesso paesino, si trovi a lavorare come maestra (dopo una lunga ed estenuante trattativa svolta col padre e con i tanti fratelli, preoccupati per la sua reputazione, e già pronti al matrimonio combinato) la bellissima Govend, invisa al clan ‘mafioso’ in quanto donna e per di più sola, gelosi della pudica amicizia che vedono nascere fra lei e Baran.

La condizione femminile, oltre che dalla precaria situazione di Govend (l’attrice iraniana Golshifteh Farahani, abile suonatrice, nel film e nella realtà, di hang, un tamburo di metallo dal suono melodioso) è rappresentata da un gruppo di guerrigliere kurde del lato turco, donne e resistenti, che vivono sulle montagne e continuano a combattere per la causa ed anche per affermare la propria libertà rispetto al triste destino delle donne ‘normali’. Alla soluzione finale della storia ed alla conquista della libertà dei due protagonisti saranno determinanti proprio loro, le donne delle montagne, decise a vendicare la morte di una compagna uccisa dai brutti ceffi. Il clima del film è volutamente leggero, pur in mezzo a numerose tragedie, che sfiorano spesso il comico, malgrado tutto, tra grotteschi ed ironici ritmi country-blues e sparatorie degne delle migliori sfide all’O.K. Corral.


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WAKOLDA Lucía Puenzo

2013

: Arg+Spa+Fra+Ger+Norv

: Drammatico

: 90’

Il pericolo nascosto di Elisabetta Colla Nell’ambito delle nuove generazioni di registi selezionati a Cannes, in particolare nella sezione 2013 di Un Certain Regard, fa piacere trovare diverse donne, professioniste di alto livello ma di grande semplicità nel’approccio, capaci di raccontare storie profondamente umane con un occhio intelligente ed attento. È il caso ad esempio dell’argentina Lucía Puenzo, figlia di Luis Puenzo (un regista che nel 1985 vinse il premio Oscar con il film La historia official, sulla tragedia dei cittadini argentini dopo la caduta del regime militare) che ha presentato Wakolda, un film applauditissimo e già venduto in diversi Paesi, salendo sul palco della Sala Debussy come fosse ‘la ragazza della porta accanto’. La pellicola è ispirata alla vera storia di una famiglia argentina che, durante un viaggio in una sterminata Patagonia, nel 1960, incontra un medico dai modi strani e dall’accento tedesco, che s’interessa ossessivamente a Lilith, la figlia adolescente del nucleo familiare, molto minuta per la sua età, ed insiste per darle farmaci che forzino la crescita prima che ‘sia troppo tardi’. Il padre di Lilith non si fida ma la madre, incinta di due gemelli, lo lascia fare, visto che la piccola, a causa della sua bassa statura, viene presa in giro da tutti i coetanei. A poco a poco l’uomo, che lavora in un laboratorio, diventa ospite fisso della locanda ristrutturata dalla famiglia: fa iniezioni alla bambina (finché il corpo di lei non darà segni di rigetto), s’informa sullo sviluppo della gravidanza della madre, disegna i corpi di tutti i membri della famiglia, aiuta il padre a creare una piccola impresa con le bambole artigianali che realizza. Ma, a poco a poco, la vera identità del criminale verrà alla luce, anche grazie ad un’archivista foto-

grafa che, in incognito, lavora con le organizzazioni cacciatrici di criminali di guerra: il dottore altri non è che il feroce ex-nazista Josef Mendele, uno dei fautori e realizzatori degli esperimenti per la purezza della razza. Il mostro, avvertito dai suoi contatti, prende il volo per il Paraguay, troppo tardi per la cattura ma giusto in tempo perché la bambina ed i gemelli neonati vengano sottratti ai suoi esperimenti. La piccola Lilith, che si era affezionata a lui senza sapere nulla del suo passato, soffrirà intensamente per il distacco. Il film, ispirato ad una storia vera, ha un ritmo serrato, da thriller, ed immagini stupende, girate in una luminosa Patagonia, dagli orizzonti infiniti. Lucía Puenzo torna a Cannes dopo i successi già ottenuti nel 2007 con il film XXY – tratto da un racconto dello scrittore e regista argentino Sergio Bizzio – che le era valso il Grand Prix della Semaine de la Critique ed un Premio Goya.


MANUSCRIPTS DON'T BURN Mohammad Rasoulof

2013

: Iran

: Drammatico

: 134’


La censura non può annientare il pensiero

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di Francesca Vantaggiato

Il titolo del film riprende non a caso un verso famoso tratto da Il Maestro e Margherita di Mikhail Bulgakov, un libro uscito sul finire degli anni ’60 dai contenuti satirici spiccati e commoventi nei confronti della realtà sovietica. Il regista iraniano Mohammad Rasoulof appare a Cannes per la prima volta in pubblico dopo l’arresto e la condanna a 6 anni di reclusione (ridotta poi a un anno) per propaganda antiregime, aggravata dal divieto di girare film e di lasciare l’Iran per 20 anni. “Di questo film si dirà in Iran che non ha alcun valore artistico”, dice in sala, tra rabbia e dolore. La storia di Rasoulof non è un caso sporadico in Iran, la sua tragedia risuonava negli ambienti culturali mondiali insieme a quella del conterraneo e collega Jafar Panahi, raccogliendo un sentito e attivo sostegno con campagne di sensibilizzazione dell’opinione pubblica. Privare un regista del suo mezzo di comunicazione significa spogliarlo della libertà di pensiero. Sembra inverosimile, una cronaca del passato che non può tornare a essere scritta sulle pagine d’attualità, la censura violenta che tuttora si abbatte in Iran, su Rasoulof costretto a girare questo film in gran segreto, a non rivelarne la trama fino all’ultimo istante e a non citare i nomi dei suoi collaboratori nei titoli di coda. Senza mezzi termini, Rasoulof attacca lo stato di censura, corruzione e violenza del suo Paese raccontando una storia ispirata a fatti realmente accaduti tra il 1988 e il 1998, quando la voce di 80 iraniani – scrittori, intellettuali, attivisti politici e ordinari cittadini – oppositori del regime fu messa tacere dalla Repubblica Islamica.

Iniziando dal finale per poi sciogliere gradualmente l’intreccio, Rasoulof inquadra un giorno nella vita di due sicari, Khosrow and Morteza, impegnati in una torbida missione da compiere. Rapiscono, torturano e interrogano uno scrittore dissidente di nome Kasra. L’oggetto della ricerca è una manoscritto, di cui esiste un originale e due copie, testimonianza di un attentato criminale architettato dal governo per dirottare un autobus con a bordo 21 cittadini tra intellettuali e giornalisti. Il colpo fallisce e le vittime restano in vita, testimoni sorvegliati e bersagli impotenti di continue intimidazione del potere. Khosrow, che ha una moglie e un figlio con gravi problemi di salute, si interroga sulla giustezza della missione, sulla possibilità che la malattia del figlio sia il segno di una punizione divina per il sangue versato. Il compagno Morteza, un uomo senza scrupoli, lo convince a non preoccuparsi perché le loro azioni avvengono nel rispetto dei dettami della legge islamica. Le copie vanno eliminate, e insieme ad esse anche il pensiero di chi le ha concepite e protette, azzittito in un suicidio che dissimula un’aggressione violenta, al singolo e ai diritti di tutta l’umanità. Rasoulof non sensazionalizza il male, non banalizza la potenza criminale degli aguzzini, non estremizza la violenza legittimata. Il suo cinema è un grido d’ira personale contro un momento buio della storia iraniana, una testimonianza coraggiosa che si serve di mezzi leggeri – il film è girato in digitale – per aggredire sotto il cielo plumbeo di Teheran i suoi aggressori.


LA JAULA DE ORO PRIX UN CERTAIN TALENT all'insieme degli attori

Diego Quemada-Diez

2013

: Messico, Spagna

: Drammatico

: 102’


La brillante opera prima di Quemada-Diez

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di Maria Cera

Seconda e ultima mia visione di Un certain regard: la scelta e il caso di incastro delle proiezioni mi hanno permesso di scoprire un autore pienamente maturo, padrone del mezzo visivo e narrativo, dotato di un’estetica senza incertezze, di una poetica parimenti spiazzante per l’alta capacità di approfondire una realtà sociale nella quale è molto semplice cadere in una retorica falsa, incapace di penetrare la verità che rappresenta. La Jaula de Oro, primo lungometraggio di Diego Quemada – Diez, si candida ad una Camera d’Or (premio per l’opera prima) che spero possa portarsi a casa. Una fotografia ‘brulicante’ ci getta nel reale degradato e normale di una baraccopoli ai margini di una discarica in Guatemala. Poche ed efficaci istantanee ci rendono uno spaccato esistenziale che fa del sopravvivere il vivere. Una ragazza si appresta a dare avvio alla propria metamorfosi: taglio di capelli, fascia compressa ai seni, cappellino in testa. Si maschera da maschio. Raggiunge gli altri due amici che l’aspettano… Sono pronti a lasciare il niente che li contiene, pronti a partire per tentare di vivere veramente. Arrivare in Messico e varcare a tutti i costi il confine, nella ‘terra promessa’ degli Stati Uniti. Juan, ragazzo già segnato da un cinismo e una durezza forzata, patina autoprodottasi per non soccombere nell’inferno dove è nato e cresciuto, è il naturale leader di questo terzetto. La sua meta è impressa in lui in modo indelebile, con una serietà già troppo adulta ma necessaria. Il viaggio che li aspetta (nel quale ci entriamo tutti), non è un’avventura epica con un bel lieto fine…È incerto, ingiusto, dominato dal caso, controllabile solo in parte…È orrendamente ineluttabile, come la vita. Ai tre poco dopo si aggiunge un altro ‘infante’, un

indio del Chiapas, muto nello Spagnolo. L’ingresso nel gruppo non sarà semplice. Juan nutre una gelosia sia fisica che mentale: un estraneo nel proprio sogno non lo vuole. Farà di tutto per espellerlo, ma riceverà una bella lezione da un reale che gli si sovrasterà, destabilizzandolo nelle proprie certezze, sicurezze, riducendogli sempre più il suo isolamento…Troverà un complice ed un amico nell’orrore di una verità in cui gli umani animali hanno perduto l’amore, il rispetto per l’altro…predoni di corpi, di dignità, di libertà…Avidi nel corrompere, violentare, dominare i più deboli in una vera e lampante lotta per non soccombere. In questo bacino di mondo abbandonato a se stesso, che attraversiamo insieme ai nostri piccoli eroi, sopra i vagoni di treni merci ammassati di uomini disperati e sognanti, dentro le baracche, le strade polverose, tra sporcizia, “inerzia-abbandono all’e così sia”, i quattro protagonisti impareranno a dare forma al tuffo nel vuoto che la voglia di cambiamento li ha spinti a fare. Per uno di essi, l’affacciarsi al baratro sarà decisivo dell’abbandono dell’impresa. Non ne ha forza morale e fisica, comprendendo a pelle che la via potrebbe essere anche senza ritorno… Gli altri proseguiranno e saranno divisi da un’ingiusta e cieca sorte nera. Solo Juan potrà definirsi testimone della beffa della vita. Il suo sguardo teneramente disperato alla neve che scende su di lui, a un passo dal confine di una libertà di possibilità non rese, chiude densamente una storia di formazione tra le più toccanti e crude a cui mi sia stato dato di assistere. Una scrittura dei personaggi e delle evoluzioni psicologiche, emotive e narrative perfetta: nessun tentennamento, nessuna deviazione da una verità palpabile, così naturalmente espressa in una amoralità


LA JAULA DE ORO da legge della giungla, in cui pure appare con forza l’idolo-demone dell’’oltre confine civilizzato e moderno’, creatore di quel depauperamento sociale e territoriale nel quale ha gettato una parte di umanità, unico ‘dio’ che può dare o respingere l’accesso alla fine di una schiavitù. La macchina da presa parimenti riproduce uno sguardo impassibile su ciò che ci mostra. Ispeziona l’inferno che attraversa con finta asetticità: tutto in realtà è molto caldo e partecipativo. A cominciare dalla fotografia nel brulichio di fondo che permane per tutto il viaggio, dalle pastosità di distanze che segnano anche confini emotivi. Il reale nella sua crudezza, che contiene anche momenti di bellezza di una natura incontaminata, alternati al degrado che si forma dove l’uomo

tocca la terra. Il movimento, tra primi piani, estensioni, carrellate, discese a braccia e mano, assorbe con coraggio tutto ciò che attraversa. Con quella serietà impotente e forte di testimonianza, fragile e poetica nell’abbraccio del dolore di un reale più forte di qualunque sogno: emblematica la scena della pulizia dello stoccaggio delle carni macellate ad opera di Juan, piccolo ma già uomo in tuta da lavoro che scopa i resti di grasso e interiori rimasti a terra. Briciole amare di una bruciante sconfitta. Bravo Diego Quemada- Diez e bravi i suoi interpreti. Un nuovo Brillante Mendoza, accostabile per uguale potenza e poetica visivo- narrativa del disincanto e della realtà, che ci offre.


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SARAH PRÉFÈRE LA COURSE Chloé Robichaud

2013

: Canada

: Drammatico

: 94’

La corsa è il territorio mentale di un’anima in crescita di Maria Cera Prima pellicola della sezione Un certain regard (sezione più ‘sperimentale’ e variegata per stili e linguaggi visivi rispetto alla selezione ufficiale) in cui entro, Sarah préfère la course è una piacevole sorpresa. Candidata anche per la Camera d’Or, premio assegnato alla miglior opera prima, Chloé Robichaud non è una novità per Cannes. La giovane regista canadese è alla sua seconda selezione ufficiale al Festival. Fattasi notare all’interno della sezione cortometraggi, ha alle spalle una dozzina di spot pubblicitari, due video musicali, e otto cortometraggi. Scrive, dirige e monta i suoi lavori. Piccolo ed intimo esordio nel lungometraggio, questo film, nel quale ci viene presentata e mostrata una figura femminile caratterizzata in sfumature finissime. Sara è una ventenne atipica: un bocciolo speciale, che ancora non sa come fiorire. Contiene tutto in sé ed ha una sola, importante certezza. Correre. Quando si infila le scarpette e si getta nella pista o per strada è la persona più appagata della terra. E anche vincente (pur se questo non le interessa granché). Potrebbe andare a studiare a Montréal ed entrare nella squadra di atletica migliore dell’università, ma sua madre non approva, preoccupata per la distanza. L’ostacolo economico viene dalla giovane apparentemente risolto grazie all’incontro con Antoine, giovane desideroso di cambiar vita: le propone di andare via insieme a Montréal, e di sposarsi, per poter avere un sostentamento statale che permetterebbe loro di realizzare i rispettivi obiettivi. Sara accetta. La nuova esperienza di vita che l’attenderà porterà a galla e farà affrontare alla gio-

vane una conoscenza di sé distante dai suoi sogni di adolescenza… Capirà, nella tensione confusa nutrita verso l’amica di pista, che l’amore e l’attrazione non si governano razionalmente, che sono più sottili e misteriosi… Affronterà la propria aritmia cardiaca con coraggio, prendendosi con convinzione, quando corre, i rischi che comporta. Imparerà ad essere completamente se stessa nella specialità che rappresenta. La stessa intimità descrittiva, che a piccoli e penetranti tratteggi di stati d’animo, atteggiamenti, sguardi, compongono il puzzle di una individualità, la troviamo visivamente. La macchina da presa è estremamente tattile e sensitiva: nelle fissità spaziali ed emozionali, nei primi piani percettivi di sensazioni, paure, e consapevolezze, ci rende la medesima finezza di sguardo, penetrando un’anima e le sue evoluzioni. Il correre è l’ingresso ad un se stessi saturo di verità invisibili nel rapporto col proprio modo di percepire la realtà, compenetrarla con ciò che si è realmente. La giovane protagonista Sophie Desmarais assorbe completamente il personaggio che interpreta, fornendone un’interpretazione mirabile.


L'ITALIA A CANNES

a cura di Lucilla Colonna

La grande bellezza del napoletano Paolo Sorrentino e il terzo lungometraggio della torinese Valeria Bruni Tedeschi sono recensiti rispettivamente alle pagine 58 e 53 della sezione dedicata alle opere in concorso per la Palma d'Oro, ma qui vogliamo dedicare spazio ad altri film e registi che a Cannes hanno tenuto vigile l'attenzione internazionale sul nostro Cinema e sul nostro Paese. E prima di guardare ai protagonisti di questa edizione del festival francese, abbiamo incontrato a Roma, nell'accogliente sala bistrot del cinema Kino, il vincitore “uscente” del Grand Prix Matteo Garrone, che a Cannes si è aggiudicato il medesimo prestigioso riconoscimento sia nel 2008 per Gomorra sia nel 2012 per Reality.

Incontro con Matteo Garrone Ancora oggi se vado a Cannes mi sembra di andare a Wimbledon, dice con autoironia il regista che ha intrapreso la strada del cinema a 26 anni, dopo aver esplorato la carriera tennistica e la pittura: «Sono un tennista mancato! Non ho fatto scuole di cinema e sto imparando questo mestiere film dopo film. Dipingendo, mi sono abituato a lavorare sulla composizione e sulla luce delle immagini, così parto quasi sempre da idee visive, corpi che si trasformano, ossessioni. Sento il desiderio di entrare in mondi che non conosco, la possibilità di indagare nuovi generi mi dà adrenalina, mi eccita. Gomorra si può ricondurre a un film di guerra e Reality a una commedia: partire da dei generi cinematografici mi rassicura anche molto perchè mi dà l'impressione di avere un dialogo col pubblico, sebbene alla fine gli spettatori possano rimanere delusi perchè si aspettano qualcosa e invece i film diventano altro». Fin dai suoi primi film compaiono sempre gli stessi collaboratori: «Ho avuto la fortuna di trovare i collaboratori giusti, come Marco Spoletini al montaggio e Marco Onorato

(scomparso un anno fa, NdR) alla fotografia. Il cinema è un'arte collettiva e io credo nel gruppo. Mi piace avere degli amici con cui andare avanti anche nei momenti in cui ho difficoltà a trovare l'ispirazione». Gli piace girare tutte le scene in sequenza, senza rivelare la sceneggiatura agli attori prima del necessario: «Girare in sequenza, dalla prima all'ultima scena, mi permette di verificare con gli interpreti il percorso drammaturgico. Se 'sentono' qualche stonatura, posso capire quando ci sono degli errori di sceneggiatura o di ambientazione e posso fare dei cambiamenti. Ma spesso agli attori non dico come continua la storia: in Gomorra Marco e Ciro non sapevano che l'indomani sarebbero stati uccisi nell'agguato. Un'altra cosa che ho fatto sempre, anche per Gomorra e Reality, è stato tornare a girare almeno un'altra settimana dopo la fine delle riprese, come quando si scrive un romanzo e alla prima stesura ne segue una seconda».


Garrone, con la sua Archimede Film, è anche produttore: «Per produrre i miei primi film ho rischiato i miei soldi, ma sono costati così poco che il margine di rischio era minimo. C'era un equilibrio fra quello che erano costati e quello che potevano incassare. Invece, Reality è costato troppo, è stato un lusso che mi sono concesso dopo il successo di Gomorra, ma come co-produttore (insieme a Fandango, NdR) ho sbagliato tutto: dovevo farlo uscire in contemporanea al festival di Cannes, però siccome a

giugno c'erano le elezioni politiche francesi e poi c'erano gli Europei di calcio ho aspettato fin dopo l'estate. Inoltre, non avevo calcolato che le notizie uscite sui giornali avrebbero fatto pensare al pubblico che si trattava di un film sul Grande Fratello... Al contrario, produrre Pranzo di ferragosto è stata un'esperienza molto positiva ed è un film amatissimo da Polanski: ci siamo incontrati ad un pranzo durante il festival di Cannes ed è stato dieci minuti a parlarmene»! L.C.

Matteo Garrone


SALVO

GRAND PRIX NESPRESSO e PRIX REVELATION FRANCE 4

F. Grassadonia, A. Piazza

2013

: It+ Fr

: Drammatico

: 104’

di Elisabetta Colla La mancata attribuzione di premi ai film italiani di Sorrentino (La grande bellezza) e della Golino (Miele), selezionati a Cannes rispettivamente nelle sezioni ‘in concorso’ ed ‘un certain regard’, ha fatto brillare di una luce ancora più forte il doppio premio attribuito dalla 52esima Semaine de la Critique (l’importante sezione parallela del Festival curata dal Sindacato francese dei Critici cinematografici) al nostrano ed indipendente Salvo, debutto di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, vincitore sia del Grand Prix 2013, con una giuria presieduta dal regista portoghese Miguel Gomes, sia del Prix Révélation, assegnato dalla giuria diretta da Mia Hansen-Løve. “Questi premi sono stati una sorpresa ed una grande gioia – afferma Antonio Piazza – e ci hanno ripagato di 5 anni di duro lavoro. Vogliamo condividerli con tutti quelli che hanno lavorato con noi e che ci hanno aiutato a realizzare il film. Dedichiamo la vittoria a Falcone e Borsellino, proprio in questi giorni ricorre l’anniversario della strage di Capaci”. Inizia come un qualsiasi mafia movie, l’opera prima della coppia GrassadoniaPiazza (entrambi palermitani d’origine), con sparatorie e morti ammazzati a bruciapelo in una Palermo sbiadita e cupa. Ma, pur restando saldamente ancorato agli stilemi del genere, Salvo rivela gradualmente il suo vero obiettivo, suggerendo come persino nei contesti più degradati possa farsi strada un barlume di umanità. Quell’umanità che sembra negata in radice al protagonista, un killer della mafia palermitana, al punto da

non mostrarne – nelle sequenze iniziali – nemmeno il volto. Fin quando, per caso, Salvo incontra Rita (molto brava, in una parte davvero complessa, l’esordiente Sara Serraiocco), la sorella cieca di un imprenditore che deve essere eliminato: una volta portato a termine il lavoro, succede qualcosa d’imprevisto, Rita inizia a vedere e questo – unito alla fragilità complessiva della ragazza – tocca le corde più profonde del killer, difensore degli animali e dei più deboli. È un fiore che lentamente si apre una via nel cemento, nasce un sentimento dapprima timido e incerto, poi via via più forte, ma senza futuro, tra il killer spietato e la vittima designata. Benché il film abbia numerose incoerenze e momenti difficili da comprendere, talvolta pleonastici, di certo non pecca per coraggio e ricerca di linguaggi sperimentali. Particolarmente suggestiva la scena in cui la ragazza cieca, terrorizzata dalla presenza dello sconosciuto in casa, brancola a tentoni in una lunga sequenza angosciante, quasi da cinema horror, che si avvale dell’uso del buio nella fotografia, firmata dal bravo Daniele Ciprì, e di altri effetti, fra cui un sonoro ‘amplificato’ (come se i suoni fossero accentuati dalla condizione di cecità). Dopo Gomorra, non è facile parlare di mafia in un certo modo: Salvo vi si avvicina in certe sequenze, dove solitudine, squallore e spietatezza emergono, ma cerca il soffio di umanità sopito in ciascuno. Una nota di leggerezza al film è data dal cameo di Luigi Lo Cascio e Giuditta Perriera, nel ruolo quasi macchiettistico dei pensionanti che ospitano


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Salvo e gli preparano da mangiare. Nei panni del protagonista, l’intenso e concentratissimo Saleh Bakri, attore palestinese di cinema e teatro, visto di recente in La sorgente dell’amore, del regista Radu Mihaileanu. Realizzato col supporto del Premio Solinas (dove la sceneggiatura ha vinto una Menzione Speciale nel 2008), del Torino FilmLab, del Ministero per i

Beni e le Attività Culturali, della Film Commission Regione Sicilia, di Eurimages, coprodotto tra Italia (Acaba Produzioni e Cristaldi Pictures) e Francia (Mact Productions e Cité Films), Salvo potrebbe non trovare facilmente una distribuzione in Italia (voci di corridoio parlano forse della Lucky Red), mentre le vendite internazionali sono assicurate da Films Distribution.


STOP THE POUNDING HEART Roberto Minervini

2013

: Usa, Belgio, Italia

: Drammatico

: 100’

di Francesca Vantaggiato Una delle eccellenze del cinema italiano arrivate a calcare la scena di Cannes è Roberto Minervini con Stop the Pounding Heart, terzo film di una trilogia sul Texas presentato nella sezione Fuori Concorso. Accanto a Paolo Sorrentino, applaudito per ben due volte al termine della proiezione e dato tra i favoriti in lizza per la Palma d’Oro con La Grande Bellezza, all’opera prima Miele di una Valeria Golino matura e convincente vista in Un Certain Regard e Salvo dei palermitani Fabio Grassadonia e Antonio Piazza vincitore del Gran premio e del Prix Rèvèlation nella sezione Semaine de la Critique, Minervini è un punta di diamante del cinema nostrano, è un autore che onora la tradizione neorealista sperimentando il suo linguaggio. Stop the pounding heart chiude idealmente il focus sul Texas iniziato con The Passage e proseguito con Low Tide, con i quali condivide caratteri, tematiche ed estetica. La sua è una poetica di emozioni primitive e sedimentate nell’essere umano, il suo stile è di confine tra fiction e documentario, di cui non arriva mai ad assumere definitivamente i canoni. Solitudine, paura, speranza ardono, avvinghiano e rinvigoriscono i cuori delle persone/personaggi seguite e osservate, mai giudicate. Nell’America rurale del sud vive Sara con la sua famiglia di allevatori di capre. I suoi undici fratelli non vanno a scuola perché sono i genitori a prendersi cura dell’educazione dei figli. Sara, come le sue sorelle, è cresciuta secondo gli insegnamenti della Bibbia, sa di

dover essere devota e servile verso il suo uomo, al quale dovrà consegnarsi pura nello spirito e nel corpo il giorno del matrimonio. L’incontro con Colby, il ragazzo che cavalca i tori, e l’interesse suscitato da questo mondo così lontano dal suo, accende in lei il dubbio sugli unici valori conosciuti e sposati. Sara e Colby lottano per essere al mondo e per comprenderne le regole, lei affrontando la crisi interiore scatenata da sentimenti che non dovrebbe provare per vivere nell’osservanza dei precetti religiosi, lui per dominare il toro cavalcato. Il cinema di Minervini è innanzitutto uno sguardo antropologico sulla comunità d’interesse, è il frutto di un legame basato sul rapporto di fiducia tra mondo osservato e osservatore, è rispetto di un modus vivendi costruito su principi sociali ferrei a volte inaccessibili. L’adolescenza, la religione, le regole e le aspettative sociali, le differenze culturali, l’incontro tra mondi diversi ma comunicanti sono i paradigmi di uno studio-ritratto esistenziale dell’essere umano. Intimo è il suo approccio al reale e distanziata dai preconcetti la sua messa in scena, il suo linguaggio cinematografico è denso di vita vera nonostante la pre-costruzione dell’arco narrativo. Il cinema verità di Minervini si incanala verso la scelta di attori non professionisti, gente reale nel ruolo di se stessa ripresa negli ambienti della quotidianità, paesaggi non manomessi dall’occhio della telecamera che raccontano storie senza tempo, radicate nelle tradizioni vive di un popolo, topografie di una società dimenticata.


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MIELE

MENZIONE SPECIALE della GIURIA ECUMENICA

Valeria Golino

2013

: Italia

: Drammatico

: 96’

di Valentina Marchetti Irene (Jasmine Trinca), nome di servizio Miele, ha trent’anni e si sposta tra Roma e il Messico per via del suo lavoro, un impiego molto particolare, che cerca di svolgere con il doppio della “delicatezza” che si potrebbe avere per qualunque altro mestiere. Aiuta infatti malati cronici, a porre “fine” alle loro esistenze. “Perché non è più vita”, quella che fanno i pazienti, “clienti” di Irene. Una sorta di angelo della morte, con regole precise, e il cui “tocco” non lascia tracce, che ha anche per chi lo svolge, una specie di codice deontologico. Ma un giorno un cliente diverso dal solito richiede le sue “cure”. Sarà un incontro decisivo per la vita della ragazza, da cui nascerà anche un legame molto speciale. Presentato nella sezione Un certain regard del Festival di Cannes e uscito nelle sale a Maggio, il primo film di Valeria Golino per il grande schermo è un film a trecentosessanta gradi, che per essere un primo tentativo dimostra come gli attori sappiano anche essere acuti osservatori di coloro che li hanno diretti nel tempo dietro la macchina da presa. Miele è un'opera intensa, che non scende mai nel pietistico e tocca un tema molto delicato. Il risultato è un film che porta lo spettatore dentro situazioni spinose, ma non lo induce mai a puntare il dito, casomai in punta di piedi lo fa mettere da un lato ad osservare, con il rispetto richiesto quando si vedono sofferenze enormi come quelle raccontate, però senza dirgli se sia giusto o sbagliato ciò che viene fatto (naturalmente ognuno poi può avere la propria idea, ma

qui non c’è nessuno schieramento da parte dell’autrice). Questo è il nodo cruciale: portare dentro la sofferenza, vedere le reazioni che il singolo soggetto può avere e cosa decide di fare per porvi fine, ma senza voler veicolare alcun “grido” o “credo” a livello politico su argomenti come l’eutanasia, o lo stesso “suicidio assistito” (quello di cui si parla in questo film) in senso polemico; sollevare solo la questione, far parlare di una tematica esistente, con le relative “soluzioni” che alcuni scelgono o possono voler scegliere. Questo a livello contenutistico; quanto all'interpretazione da parte di tutto il cast, della sceneggiatura, e della regia, i risvolti sono eccellenti per una esordiente alla sua prima, vera produzione importante. C’è una cura nella fotografia, nella scelta anche delle colonne sonore, delle inquadrature, nell'impostazione dei dialoghi che rende Miele una piccola perla del cinema italiano. Talmente ben fatto da questa prospettiva, che alcuni stentano a credere che sia un film italiano, segno che se si vuole fare un bel film, sappiamo ancora farlo, a discapito di chi ritiene che per il cinema nazionale non ci sia più speranza. Sugli attori bisogna necessariamente evidenziare la bravura generale di tutti, ma specialmente della Trinca e di Carlo Cecchi nei panni dell’Ing. Grimaldi, la figura centrale nella narrazione e co-pratogonista con quella di Irene, con cui riesce a creare un rapporto profondo, e che aiuta a trovare una sorta di serenità che probabilmente le è sempre mancata.


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Incontro con Valeria Golino Liberamente tratto dal romanzo “A nome tuo” di Mauro Covacich, il film Miele (nella sezione Un certain regard del Festival di Cannes) parla di suicidio assistito. Abbiamo incontrato Valeria Golino in occasione della presentazione alla stampa di questa sua opera prima. Da dove parte il desiderio di fare un film tratto dal libro di Mauro Covacich? Ho letto questo libro tre anni fa, si intitolava "Io vi perdono" ed era firmato da Angela Del Fabbro, una scrittrice che non esisteva, perché in realtà era lo scrittore Mauro Covacich sotto pseudonimo. E' un libro fulminante, molto provocatorio, con un personaggio femminile inedito. Ho chiesto ai miei soci di prendere i diritti e l'idea è piaciuta anche a loro. Abbiamo spremuto il libro fino in fondo e l'abbiamo filtrato. Abbiamo preso tutto quello che ci piaceva, ma abbiamo lasciato anche cose che ci piacevano di meno, abbiamo cambiato alcuni contenuti del libro perché in letteratura hai più modo di complicare, rispetto al cinema. Abbiamo cambiato anche il finale. Ha avuto la “tentazione” di interpretare la protagonista? Il personaggio doveva essere una ragazza di ventotto-trent'anni, più giovane di me, quindi il problema non si è mai posto, se non giusto all'inizio. Il personaggio doveva essere una ragazza giovane, non vissuta come posso essere io. Il primo istinto per me è quello di dirigere altri. Per il ruolo maschile, anche Riccardo (Scamarcio) avrebbe potuto fare uno dei due ruoli maschili, ma abbiamo pensato che non fosse il caso.

Cosa l'ha spinta a voler scegliere proprio questo tema molto “discusso” in Italia, e che cosa significa per lei partecipare a Cannes in una sezione così importante, con un film come questo? La storia mi interessava molto mentre scrivevo, immaginavo di vederli. Mi interessava parlare di questo argomento, più “tabù” per le istituzioni che per le persone. Nel mio film c'è questo tentativo di farsi delle domande, non ho voluto fare un film né provocatorio né contro altri, non ho preso neanche una posizione definitiva. Io non riesco ad avere delle posizioni definitive, anche se credo che ognuno come essere umano debba scgliere cosa fare del proprio corpo, della propria vita, anche di come finirla e questo comporta mille altre complicazioni. Ognuno di noi è un'altra cosa, un'altra storia. Per Cannes sono molto contenta, mi mette allegria andare lì ben vestiti, mi diverte, poter partecipare mi dà un senso di appartenenza. V.M.


i PREMI

PALMA D'ORO

LA VIE D’ADÈLE - CHAPITRE 1 & 2 (Blue Is The Warmest Colour) di ABDELLATIF KECHICHE con ADÈLE EXARCHOPOULOS & LÉA SEYDOUX

GRAND PRIX INSIDE LLEWYN DAVIS di ETHAN e JOEL COEN

PRIX DU JURY SOSHITE CHICHI NI NARU (Like Father, Like Son) di KORE-EDA HIROKAZU

MIGLIOR REGIA AMAT ESCALANTE per HELI

MIGLIOR SCENEGGIATURA JIA ZHANGKE per TIAN ZHU DING (A Touch Of Sin)

MIGLIOR ATTRICE BÉRÉNICE BEJO in LE PASSÉ (The Past) di ASGHAR FARHADI

MIGLIOR ATTORE BRUCE DERN in NEBRASKA di ALEXANDER PAYNE

PALMA D'ORO per i CORTOMETRAGGI SAFE di MOON BYOUNG-GON

MENZIONE SPECIALE EX-AEQUO: HVALFJORDUR (Whale Valley / Le Fjord des Baleines) di GUDMUNDUR ARNAR GUDMUNDSSON 37°4 S di ADRIANO VALERIO

UN CERTAIN REGARD PRIX UN CERTAIN REGARD L’IMAGE MANQUANTE (The Missing Picture) di RITHY PANH

JURY PRIZE OMAR di HANY ABU-ASSAD

MIGLIOR REGIA ALAIN GUIRAUDIE per L’INCONNU DU LAC

PRIX UN CERTAIN TALENT L'insieme degli attori del film LA JAULA DE ORO di DIEGO QUEMADA-DIEZ

PRIX DE L’AVENIR FRUITVALE STATION di RYAN COOGLER

CAMÉRA D’OR ILO ILO di ANTHONY CHEN présenté (Quinzaine des Réalisateurs)

CINEFONDATION CAMÉRA PRIX NEEDLE di ANAHITA GHAZVINIZADEH

GRAND PRIX NESPRESSO e PRIX REVELATION FRANCE 4 SALVO di FABIO GRASSADONIA e ANTONIO PIAZZA

GIURIA ECUMENICA

MENZIONE SPECIALE

MIGLIOR FILM

EX-AEQUO: MIELE di VALERIA GOLINO

LE PASSÉ (The Past) di ASGHAR FARHADI

SOSHITE CHICHI NI NARU (Like Father, Like Son) di KORE-EDA HIROKAZU


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Michael Douglas è Liberace di Elisabetta Colla Interpretare un personaggio eccentrico come Władziu Valentino Liberace, pianista, attore e show-man statunitense di origini polacche/italiane, morto di AIDS alla fine degli anni Ottanta, non era impresa facile ed il regista di Behind The Candelabra, il forever young Steven Soderbergh (vincitore nel 1985 della Palma d’Oro con Sesso, Bugie e Videotapes, il ‘nostro’ ha da poco compiuto 50 anni) ne era perfettamente consapevole. Ci voleva un attore carismatico e duttile, che sapesse rendere l’ambivalenza, il narcisismo, le doti artistiche e l’umanità di Liberace: chi meglio di Michael Douglas, reduce da una lunga malattia ma eccezionalmente vitale e incredibilmente bravo? Molti facevano il suo nome per la Palma come miglior attore, essendo riuscito ad incarnare un ruolo da artista omosessuale, eccessivo e kitsch, in modo così convincente e personale da stupire. È andata diversamente, quanto ai premi, ma ciò non toglie che l’interpretazione di Douglas rimarrà un esempio di professionismo ai massimi livelli. Liberace, protagonista della pellicola, non fece mai espressamente coming-out, temendo probabilmente scandali che infangassero la sua reputazione agli occhi della pletora di fedelissimi fan (specialmente signore, innamorate dei travestimenti e delle scenografie vistose, e degli enormi candelabri del titolo appoggiati sul pianoforte durante i concerti), ma condusse di fatto una vita segnata dalle relazioni con bei ragazzi, come quella viscerale e tumultuosa descritta nel film con il giovane amante Scott Thorson, interpretato qui da un Matt Damon in gran

forma (benché reciti la parte di un ventenne pur avendo già passato i 40), che certo non sfigura vicino a Douglas. Scott è un ragazzo semplice, cresciuto in orfanotrofio e poi affidato ad una famiglia di campagna; l’incontro con Liberace sconvolgerà la sua vita, portandolo dalla stalle alle stelle (denaro, belle macchine, abiti di lusso, gioielli, piscine e quant’altro), e poi di nuovo alle stalle. Finita la storia d’amore dopo circa sei anni, infatti, un po’ per le abitudini di ‘caccia’ sempre nuova dell’incontenibile pianista, un po’ per l’eccesso nel consumo di alcool e droghe da parte del povero Scott privato di ogni libertà decisionale (Liberace, volendolo adottare come figlio, arriva a fargli fare un intervento di chirurgia estetica per ‘costruire’ una somiglianza con se stesso), i due finiranno nelle mani di spietati avvocati e, ça va sans dire, Liberace avrà la meglio, lasciando a Scott briciole dei suoi stratosferici guadagni (sembra che negli anni ‘50-‘70 fosse il musicista col più alto cachet al mondo). Sul letto di morte il pianista ‘pentito’ chiamerà Scott per un ultimo saluto pacificatore, a tardivo suggello dell’amore (vero) che fu. La descrizione di un ambiente artistico, smodato e in parte distruttivo, l’esplicito riferimento all’amore gay, con scene di sesso libero, l’accenno all’AIDS (un giornale, nel film, dà la notizia della morte di Rock Hudson) come malattia allora mortale, danno il senso di un film che racconta, oltre ad un biopic tra realtà e fantasia, un’epoca intera ed un segmento, molto americano, del mondo dello spettacolo. In conferenza stampa Douglas si commuove e piange: “Questo film, dopo il


BEHIND THE CANDELABRA Steven Soderbergh

2013

mio cancro, è un vero regalo. Sono grato a Soderbergh di aver aspettato che mi ristabilissi per girarlo’. Per stemperare l’emozione, Matt Damon, cerca una battuta di spirito: “Ora che anche io sono andato a letto con Douglas, ho qualcosa di cui parlare con Sharon Stone”. Peccato che il film non abbia ricevuto alcun pre-

: USA

: Commedia drammatica

: 118’

mio; in realtà, se tale si può chiamare, un riconoscimento l’ha avuto: Baby Boy, il barboncino semi-cieco adorato dal suo padrone, Liberace, ha ricevuto la Palm Dog, la Palma alla miglior interpretazione canina. Chissà se Soderbergh avrà apprezzato la cosa …


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di Francesca Vantaggiato

Una giornata all’insegna degli antipodi stilistici e tematici questa prima con cui ha avuto inizio la 66esima edizione del Festival di Cannes. Sulle note scalpitanti frutto di una mescolanza attualizzante di jazz e rap dello sfarzoso The Great Gatsby di Baz Luhrmann, presentato nella sezione non in competizione, ha avuto il via quest’edizione bagnata del festival con Leonardo Di Caprio, Tobey Maguire, Carey Mulligan e Baz Luhrmann tra i primi a calcare il montée de marche. La magnificenza e l’eccesso come marchio di fabbrica del regista australiano, il quale non rinuncia a un gusto dell’immagine che si costruisce in stretta simbiosi con i paesaggi sonori assemblati, sono presto contraddetti dal secondo film proiettato nella giornata in apertura, il primo dei venti in concorso intitolato Heli e firmato da Amat Escalante. Il regista messicano, avvezzo alla croisette che l’ha visto partecipare nella sezione Un Certain Regard nel 2005 con Sangre e nel 2008 con Los Bastardos, ritorna questa volta col suo cinema antropologico di matrice quasi documentarista concorrendo per la Palma d’Oro. La storia ruota intorno all’appena dodicenne Estela e al vortice di violenza e desolazione che risucchia la sua famiglia composta da padre, fratello, cognata e nipote. Estela è innamorata di Berto, un giovane cadetto della polizia cinque anni più grande di lei, con cui progetta una fuga d’amore e un matrimonio. Heli, il fratello, li scopre e cerca di impedirne il piano, non senza disfarsi prima della cocaina che Berto aveva nascosto nella loro modesta dimora. Da quest’istante la famiglia di Heli viene coinvolta in un turbinio di eventi poco chiari e mortiferi dai quali non vi è possibilità di ritorno. La città di Guanajuato con i suoi paesaggi secchi e desolati interrotti da una fabbrica di

auto dove Heli lavora come operaio è un personaggio attivo e condizionante, dilaniata da povertà e violenza impone senza misericordia agli abitanti i suoi ritmi e le sue ferite. Escalante decide di mostrarci fedelmente questo mondo non per scioccare ma per imprimere nella mente i fatti assurdi a cui i suoi connazionali sono esposti tutti i giorni senza ormai esserne troppo sorpresi, senza sadismo sebbene non si/ci risparmi le torture più spietate. La storia circolare, che si apre e si chiude con un ragazzo lasciato penzolare esanime su di un ponte, è il suo chiaro avvertimento sulla crudeltà dei fatti narrati, acuita da uno stile realistico confinante con le tecniche documentaristiche apportate dal contributo del direttore di fotografia Lorenzo Hagerman, il cui background affonda proprio nel genere. Cinema antropologico, dicevamo, misto a un’autorialità che si spinge nelle trame sociali per sventrarle, masticarle e comprenderle a fondo prima di rappresentarle, dal forte rimando al cinema del reale firmato Brillante Mendoza. Lontano dal puro compiacimento dell’esibizione forzata della violenza-tortura praticata da molti suoi colleghi, Escalante lascia parlare senza censura la ferocia dei luoghi declinata nella vita di persone comuni, senza mezzi, trascinate inconsapevolmente verso un destino di annientamento personale e di sconfitta sociale. Vicino in qualche modo all’amico e produttore di Heli Carlos Reygadas, di cui l’anno scorso abbiamo ammirato sconcertati Post Tenebras Lux, Escalante è un creatore di atmosfere paranoiche e disturbanti, fiuta i meccanismi assurdi del reale per inoltrarsi nei suoi misteri nel tentativo di risolverli e chiarirli, non rinunciando a confonderci per strada, giocando a dilatare e a comprimere gli effetti di uno stato psicologico alterato.


HELI PALMA D'ORO come MIGLIOR REGIA

Amat Escalante

2013

: Fra+Ger+Mes+Ola

: Drammatico

: 105’


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Siamo figli del caos e del male di Maria Cera Entro a Festival avviato e mi immergo subito nella Competizione ufficiale con una pellicola spiazzante. Borgman, dell’olandese Alex van Warmerdam, appare come un calcio all’occhio e una sferzata interiore di pari energia. Un disvelamento, che raggiunge le nostre viscere inconsce senza sconti e mediazioni. L’eclettico regista olandese nato dal teatro, da sempre attratto da uno scavo umano nel quale si confronta con gli innati e repressi lanci nel vuoto di un perdersi che è sfogo di istinti votati ad un essere se stessi nella immersione nel caos primoridale che ci contiene - e che abbiamo imparato a dominare per sopravvivere come specie – , ha partorito il suo ultimo lavoro stimolato dalle letture del marchese De Sade (leggo in un’intervista rilasciata), sia dei suoi scritti che dei saggi che lo hanno riguardato. Camiel Borgman (il ‘paralizzante e camaleontico’ Jan Bijvoet) è uno strano essere: vive sottoterra come un clochard, si aggira nel pezzo di realtà che tocca come un alieno, condivide uno status di ‘demone risvegliato’ con altri pochi marchiati esseri… Si imbatte in una porta di una villa e nella vita di una famiglia espressione lucida e visiva di quella ‘perfezione’ che è esattamente opposizione al caos, (falsa) sicurezza di dominarlo, (falsa) certezza di impossibilita’ di perdita. Marina (una Hadewych Minis erotica a ‘pelle e mente’, magnifica nel rendere il suo stato di consapevole e combattuto divario tra dovere ed essere), suo marito Richard (un ‘empatico bastardo’ Jeroen Perceval), e i loro tre splendidi piccoli figli. Tutto è normalmente inquietante, a cominciare dall’isolamento in cui la casa è immersa, e dal tenore, alto e aset-

tico, di vita che si consuma: baby sitter che parla in inglese ai piccoli, ogni confort, lusso e benessere ‘paradisiaci’. Eppure subito avvertiamo una frizione tra apparenza e realtà: Richard ‘brucia’ in sfoghi violenti di totale nero mentale. Picchia, sferra calci, con la voglia repressa di far male, uccidere. Razzista, classista, possessivo e maschilista, comprime e reprime un marciume di essere umano totale. Marina è la più perversa. Avverte il limbo in cui tutto è contenuto – Spesso sento irreale chi ho davanti… Siamo stati fortunati, in qualche modo verremo puniti… confessa con paura e tenerezza al marito – il caos che è dentro ognuno di noi, ma lo teme. Lo esorcizza, sognandolo: si sveglia, scossa da un inconscio che tramuta il rapporto sessuale e d’amore in accesa violenza subita. Odia il marito, dopo ogni sogno ne prova un disgusto infinito. Ma in realtà è quello il piacere capace di scuoterla e ne è terrorizzata. E riconosce immediatamente Borgman, in qualche modo percepisce la verià’ che porta addosso, e lo accoglie clandestinamente in villa, dandogli da mangiare nella depandance. Ma non sa a cosa andrà incontro… Van Warmerdam lascia volutamente aperti alcuni spiragli narrativi, non volendo renderci una verità umana ed esistenziale che neppure lui sa pienamente comprendere. Tutto si mescola, bene e male (se vogliamo utilizzare questa classificazione) sono inscindibili, vasi comunicanti di una realtà che sotto la superficie cela un buco nero infinito… Si sorride, anche, ma è un riso sadico, che ci getta in faccia e spudoratamente ciò che


BORGMAN Alex Van Warmerdam

2013

: Olanda+Belgio+Danimarca

siamo. Il minimalismo visivo ma penetrante della macchina da presa, attenta a vivificare, e nelle plastiche messe in scene che riproduce, e nello scorrere calmo e imperturbato dentro

Thriller

: 113’

gli ambienti spaziali ed emotivi che attraversa, l’inquietudine e l’orrore di una fissità apparente, rende al meglio una tensione impassibile e feroce. Consapevoli e neri.


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I tumulti di un’adolescente alla scoperta del piacere di Francesca Vantaggiato

Se ad accogliere The Great Gatsby non sono mancati i fischi tra i critici e le reazioni durante la proiezione del messicano Heli sono state anche più radicali, implicando l’abbandono della sala nella scena cult in cui una gang composta da giovanissimi dà fuoco ai genitali del povero malcapitato, l’applauso dedicato al nuovo lavoro di François Ozon in lizza per la Palma d’Oro ha decisamente impresso un nuovo corso al Festival. Eppure, siamo sicuri che Jeune & Jolie non mancherà di sollevare critiche e pareri discordanti. La sinossi, così come riportata nel press book per la stampa, è “il ritratto di una diciassettenne in quattro stagioni e quattro canzoni”. Conciso quanto efficace, il contenuto riportato riassume in maniera essenziale quanto accade nel film, escludendo a ragione la complessità psicologica in cui Ozon affonda – non senza pecche – e scandita dalle note di Françoise Hardy e dai versi di Rimbaud, No One’s Serious at Seventeen. Isabelle, interpretata da Marine Vacht sulla cui bellezza sembra reggersi l’intero film, è un’adolescente che scopre il sesso d’estate, sotto il cielo stellato di una spiaggia francese, e in autunno decide di prostituirsi. Era un giovane adolescente il protagonista dell’ultimo film Nella casa di Ozon, che torna a parlare di adolescenti concentrandosi questa volta su un personaggio femminile con un registro stilistico diverso. Gioca con i punti di vista e l’estraniazione

della soggettiva il regista di 8 donne e un mistero: è prima il fratello a osservare attraverso il binocolo i movimenti di Isabelle, poi il suo cliente, la madre e infine il padre adottivo. Benché Ozon conceda ai famigliari della turbata adolescente di osservarla al limite del vouyerismo, l’esplorazione degli accadimenti torna comunque a essere inquadrata dalla angolazione inquieta di Isabelle. Tuttavia l’adolescenza, intesa come età della scoperta, del disagio in un corpo in cambiamento, di umori traballanti in balia di emozioni e pulsioni ancora difficili da decifrare è solo in parte messa a fuoco da Ozon, il quale predilige il confronto di Isabelle con la ricerca carnale del piacere più che con l’indagine emozionale. Isabelle si osserva dall’esterno nel momento in cui perde la verginità, non si abbandona a nessun trasporto emotivo bensì oggettivizza il suo sguardo alla ricerca di una comprensione analitica della situazione e della reazione del suo corpo. Il corpo, costantemente esibito, messo a nudo in ogni amplesso in una ricerca spasmodica di una forma che lo definisca, è la parte di sé che Isabelle mette in gioco per definirsi e relazionarsi con un mondo al quale sfugge. Refrattaria ai sentimenti, allontana i suoi simili per rintanarsi in un angolo di mondo solitario da cui osservarsi e scoprirsi a modo suo. Delle delineazioni caratteriali e psicologiche di Ozon, quella di Isabelle risulta tra le


JEUNE ET JOLIE François Ozon

2013

più fragili forse perché troppo ci si affida alla bellezza contraddittoria del suo corpo innocente e gentile, passionale e audace. Jeune & Jolie vuole essere un film sul passaggio violento dall’innocenza alla sua uccisione, dall’inconsapevolezza alla presa di coscienza, dalla

: Francia

: Drammatico

: 96’

passività nello sguardo riflessivo alla percezione attiva di sé. Resta forse poco chiara la motivazione su cui si sorregge la decisione di avviare un percorso conoscitivo doloroso e profondo verso la metamorfosi attraverso la scelta della prostituzione.


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MICHAEL KOHLHAAS Arnaud des Pallières

2013

: Fra+Germ

: Drammatico storico

: 125’

Ecco un cavaliere di Elisabetta Colla Tratto da una novella dell’Ottocento, opera dell’autore tedesco Heinrich von Kleist, basata su una storia vera (o presunta tale) accaduta ad Hans Kohlhase nel XVI secolo, il film Michael Kohlhaas, del regista francese Arnaud des Pallières, selezionato in concorso a Cannes 2013 (secondo alcuni senza un vero perché), trasferisce la vicenda in Francia e racconta la storia di un allevatore e mercante di cavalli che, avendo subito una grave ingiustizia da parte di un nobile locale, decide di appellarsi alla Corte, poi alla principessa Margherita Regina di Navarra, fino a sperperare tutte le sue sostanze, a creare un gruppo di ribelli sulle montagne e a mettere a repentaglio la sua vita e quella dei suoi cari (moglie devota e figlia biondina sguardo triste) per ottenere giustizia. Ma la figura di Kohlhaas non è quella di uno squilibrato oltranzista (o meglio può apparire tale agli occhi di chi ama il quieto vivere) bensì, per la rappresentazione simbolica della leggenda, quella di un uomo coraggioso che detesta i soprusi inflitti a chicchessia (non per niente i suoi lavoratori sono fedelissimi e ben felici di aiutarlo), e, per certa letteratura scientifica, un antesignano fautore dello Stato di diritto (in tal senso la novella aveva un risvolto politico forte); il nostro (anti?)eroe, in ogni caso, dopo aver tentato invano la strada della legalità, passa alla lotta armata con i deboli contro i forti, infine si ravvede (per gli influssi religiosi ed etici del protestantesimo) e depone le armi quando gli viene assicurata giustizia per il torto subito, anche se il prezzo che dovrà pagare sarà altissimo.

Insomma una sorta di Robin Hood, molto più serio ed austero, che concede ben poco, come del resto l’intero film, alle emozioni ed alla creatività, rimanendo rigorosamente attinente ad un copione poco originale che fa pensare allo spettatore di aver già visto tante pellicole simili a questa. Ma qualcosa di buono c’è: innanzitutto l’attore principale, il danese Mads Mikkelsen (Le mele di Adamo, Dopo il matrimonio, Il sospetto, solo per citare alcuni dei suoi film più noti) che sta vivendo una stagione d’oro e meritatamente, capace di dare luce alle scene del film che lo vedono protagonista indiscusso, con grande presenza fisica, giusto carisma, sguardo e dignità da vero cavaliere; il secondo aspetto interessante è la splendida e raffinatissima fotografia, che cattura ed evidenzia, grazie alla scelta di Jeanne Lapoirie e del regista stesso, i momenti più belli e meno scontati (questi si!) della luce e della foresta nella selvaggia regione Cevenne, scelta per le riprese come luogo di convivenza pacifica tra cattolici e protestanti nei primi anni del XVI secolo.


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SHIELD OF STRAW Takashi Miike

2013

: Giappone

Drammatico

: 125’

Un action movie debole e deludente di Francesca Vantaggiato Il folle e provocatorio regista nipponico Takashi Miike viene accolto da sonanti fischi a Cannes dove con Shield of Straw concorre, stonando, alla Palma d’Oro. Un film d’azione dove giustizia privata e rispetto della legge si combattono in un duello infinito e non sempre ben ritmato ‘Scudo di paglia’ passa attraverso la corruzione scatenata dal denaro, mentre agli antipodi, in una posizione fin troppo manichea, si consumano i destini di chi incarna questa lotta. Ninagawa è un uomo ricco e influente che, per vendicare la morte della piccola nipote, mette una taglia di un miliardo di yen sulla testa di Kunihide Kiyomaru, il suo assassino. Si scatena la caccia all’uomo, tutti cercano di uccidere Kiyomaru, il quale chiede protezione alla polizia di Fukuoka che dovrà scortarlo fino a Tokyo dove verrà processato regolarmente. Kazuki Mekari è l’incorruttibile poliziotto a capo della squadra dei quattro detective incaricati di proteggerlo in questi interminabili 1.200 km di presunta azione. Nella corsa all’omicidio, non sono tanto i complotti della popolazione a preoccupare i quattro, quanto il potenziale killer risvegliato dall’allettante ricompensa nella mente degli altri poliziotti, uomini addestrati a combattere. Nel tragitto infernale dove la scorta dovrà confrontarsi con la follia generale, la vendetta, il tradimento, infinite sono le sfide logistiche scelte da Miike per mostrarci il ventaglio delle reazioni umane dinanzi all’allettante dio denaro, a cui la volontà si piega con differenti dosi e resistenza. La devozione alla causa dei due uomini – il poliziotto disposto a mettere a repentaglio la sua vita e quella dei suoi per portare

a termine la missione e consegnare alla giustizia il criminale, e il ricco magnate pronto a comprare la vita di un maniaco – è netta e incorruttibile, inverosimile. In mezzo ai due estremi inconciliabili e perentori Miike inserisce dubbi e debolezze dettate da varie ragioni personali, giocando senza convincere con la vastità delle risposte psicologiche al dubbio morale su cosa rappresenti il bene e cosa il male. La tragicità dello sforzo sovrumano di Mekari – ogni tanto ci si chiede se la sua sia fedeltà alla causa o incapacità di un pensiero critico – è portata all’eccesso, l’eroicità del gesto si annulla e si trasforma in una caricatura dello stesso. Shield of Straw è un action movie che strizza l’occhio a un certo cinema hollywoodiano senza però eguagliarlo, avvincente è la scena del camion che corre all’impazzata sbaragliando dozzine di auto della polizia (unico momento del film ad aver strappato qualche applauso) ma da sola non basta a sostenere la tensione del genere in cui Miike vuole circoscrivere una questione etica arronzata.


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Quando un uomo diventa padre di Francesca Vantaggiato

Il regista di Nobody Knows, Kore-Eda Hirokazu, torna sul grande schermo calcando la croisette di questa promettente edizione festivaliera con un film che pone una domanda tanto chiara nella formulazione quanto difficile nella risposta: quando un padre diventa tale? Like Father, Like Son racconta la storia di una famiglia sconvolta dall’inaspettata chiamata dell’ospedale in cui sei anni prima il figlio era venuto al mondo: Ryota (un toccante Fukuyama Masaharu) e Midori (Ono Machiko) scoprono che il piccolo Keitanon è il loro figlio naturale, scambiato alla nascita. Like Father, Like Son è uno sguardo insolito e accurato sulla paternità, tematica cara al regista giapponese, padre da cinque anni, il quale ha dichiarato di aver spesso riflettuto sul processo di riconoscimento del proprio ruolo affettivo e di educatore nella vita dei figli, rimanendo colpito dalla complessità dell’argomento e della difficoltà di comprenderlo appieno. Per una donna il sentimento della maternità sembra un passaggio automatico e naturale (anche se film come …E ora parliamo di Kevin sollevano una problematicità femminile non trascurabile della materia), ma per un uomo la molla scatta secondo tempistiche diverse e con l’intervento di altri fattori. È sufficiente il legame di sangue per definire la relazione padre-figlio o si tratta invece di un rapporto da costruire sulla base del tempo trascorso insieme? Kore-Eda Hirokazu, come il protagonista Ryota attraverso i cui occhi viviamo la disperazione della situazione, non ha e non propone soluzioni arrangiate, si ‘limita’ piuttosto a scavare nella drammaticità del dubbio e nell’impossibilità di razionalizzarlo.

Ryota è un uomo in carriera, desidera una vita perfetta e il meglio per la sua famiglia e soprattutto per il piccolo Keita. Come spesso accade laddove le proiezioni sull’avvenire del figlio sono dense di speranze, il presente fatto di piccoli gesti e premure scorre nella disattenzione. A dispetto delle alte pretese per il futuro del figlio, Ryota non è un padre all’altezza del suo ruolo, trascorre poco tempo con Keyta, anteponendo le sue ambizioni da eterno vincente alla costruzione di un solido rapporto. Al contrario, la famiglia che per errore ha cresciuto suo figlio ha prospettive più modeste ma non in materia d’amore e attenzioni donate. Arriva dopo mesi il momento dello scambio dei figli: per Ryota giunge l’ora di mettere da parte le priorità lavorative per concentrarsi sul suo essere padre, una posizione che l’ha visto pieno di manchevolezze ed errori. In termini affettivi, chi è Keita – figlio naturalmente ancora fragile e non eccellente al pianoforte – per il severo Ryota? Non giudica il cinema di Kore-Eda Hirokazu ma drammatizza la condizione del carattere maschile della storia, lo pone in una criticità sentimentale violenta fino a obbligarlo a guardare in fondo alla sua coscienza di genitore per affrontare di pancia il rapporto mai coltivato con il figlio. Like Father, Like Son è un appassionante racconto di emozioni, un amore commovente – sottovalutato, strappato, ricucito dolorosamente – uno dei più bei film passati fino ad ora in concorso a Cannes.


LIKE FATHER, LIKE SON PRIX DU JURY e MENZIONE SPECIALE della GIURIA ECUMENICA

Kore-Eda Hirokazu

2013

: Giappone

: Drammatico

: 120’


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THE PAST MIGLIOR ATTRICE a BÉRÉNICE BEJO - MIGLIOR FILM per la GIURIA ECUMENICA

Asghar Farhadi

2013

: Francia

Drammatico

: 130’

Il regista di Una separazione torna ad esplorare la coppia di Francesca Vantaggiato Una separazione ha segnato un momento importante nella cinematografia del regista iraniano Asghar Farhadi: con l’esplorazione di una coppia sull’orlo del divorzio ha conquistato il plauso internazionale aggiudicandosi l’Orso d’Oro a Berlino 2011 prima e poi l’Oscar al Miglior Film Straniero l’anno successivo. Eccelle Farhadi quando tenta di raccontare attraverso una storia universale una società complessa e claustrofobica, lasciandola emergere nelle parole, nei disagi e nelle costrizioni dei personaggi. Con About Elly, precedente di due anni a Una separazione, i vincoli morali di una società non libera si delineavano man mano che il mistero si infittiva intorno alla protagonista scomparsa, in un’atmosfera da thriller socio-antropologico. Di diversa natura è The Past, privato della disanima sociale e applaudito a Cannes dove è stato presentato nella rosa dei concorrenti all’ambito premio. Marie (Bérénice Bejo) chiede al marito Ahmad (Ali Mosaffa) di ritornare a Parigi da Theran per ultimare le pratiche del divorzio. La donna è coinvolta sentimentalmente con un altro uomo, Samir (Tahar Rahim), con il quale convive. Ahmad verrà presto invischiato nelle beghe domestiche, sollecitato dalla ex moglie a capire le ragioni della rabbia della figlia Lucie (Pauline Burlet) contro di lei. Una situazione di crisi domestica aggravata dalla distanza culturale di una coppia alla deriva si trasforma in un incalzare di misteri e svelamenti scatenati da un passato incombente. L’arrivo di Ahmad nella quotidianità turbolenta di Marie e Samir mette in mostra la pericolosità dell’irrisolto, di un tempo che fu e che forse non si è ancora concluso. Ahmad

viene trascinato con la forza da Marie nel conflitto tra lei e il compagno-convivente, mentre Samir guarda agli ex coniugi come a una coppia ancora sentimentalmente legata. In questo triangolo amoroso fatto di ferite, insicurezze e gelosie manca un quarto elemento, un’assenza volutamente imposta nell’attrito e palesata solo al momento della risoluzione delle tensioni. Nel ripetere i dialoghi, presentandoli dal punto di vista ora dell’uno ora dell’altro protagonista dell’oscuro caso, Farhadi riesce a non rallentare il ritmo della suspense e a non sminuire la potenza del twist con cui il plot è tragicamente ribaltato. Messo da parte il ritratto sociale del suo Paese d’origine, Farhadi firma un cinema investigativo, sia nell’atmosfera sia nelle questioni amorose sollevate: è il legame col passato un naturale momento esistenziale o una minaccia paralizzante? In ogni caso il passato racchiude in sé una forza dannosa.


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INSIDE LLEWYN DAVIS GRAND PRIX

Joel e Ethan Coen

2013

: USA

: Drammatico

: 105’

L'uomo che tentò di cantare la musica del popolo di Francesca Vantaggiato File interminabili e tanta stampa rimasta fuori dalla prima mondiale organizzata nella sala Debussy del Palais per il film dei fratelli Coen. Attesissima e applaudita da pubblico e critica, la coppia di registi del Minnesota sembra non sbagliare un colpo a Cannes: Palma d’Oro al Miglior Film e Regia nel 1991 con Barton Fink, ancora Palma d’Oro alla Regia nel 1996 con Fargo e nel 2001 con L’uomo che non c’era. Liberamente ispirato alla vita del chitarrista folk Dave van Ronk, che influenzò Bob Dylan, Inside Llewyn Davis ritrae le vicende di una settimana nella vita di Llewyn (un malinconico e profondo Oscar Isaac), un giovane cantante folk che cerca di affermarsi nella scena ancora non battuta del Greenwich Village di New York dei primissimi anni ’60. È appena uscito il suo singolo – dopo la morte del partner artistico – quando la sua etichetta, la Legacy Records, lo informa dell’insuccesso economico dell’album. Senza soldi e senza tante alternative, dorme sul divano dei suoi amici, dall’accademico Gorfein alla coppia nell’arte e nella vita Jim (Justin Timberlake) e Jean (Carey Mulligan), la quale aspetta da lui un figlio che non vuole. Si arrabatta come può, Llewyn, accettando di lavorare nella marina mercantile come il padre, fino all’istante di cedimento in cui il dubbio se continuare a lottare per affermarsi o abbandonare tutto si fa insostenibile. In un road movie in autostop, da zaino e chitarra in spalla e in compagnia di un gatto ora perduto, ora abbandonato o ritrovato, Llewyn incontra i personaggi più disparati, da Bud Grossman (F. Murray Abraham) – il magnate dell’industria musicale di Chicago

– al jazzista Roland Turner (John Goodman) scarrozzato dal suo autista personale (Garrett Hedlund), testimoni dello sconforto di un musicista incompreso e abbattuto. Grazie alla fotografia crepuscolare di Bruno Delbonnel (Il favoloso mondo di Amelie, Harry Potter e Il principe mezzosangue) e alla supervisione musicale di T.Bone Burnett che ricrea lo spirito sonoro dell’epoca, i fratelli Coen ci deliziano con il ritratto di un uomo e un artista importante nella storia della musica sebbene non toccato dalla fama. Il mondo su cui i Coen puntano la lente di ingrandimento è lontano dallo star system musicale e il business sfrenato arrivato una manciata di anni dopo. L’uomo su cui si concentrano non è una stella del firmamento musicale ma ha un dono e una passione per cui vive, lotta e a volte si arrende. Oscar Isaac (di recente visto recitare una piccola parte in Drive) è emozionante, puro sentimento nel vestire i panni mesti dell’artista talentuoso e bistrattato. Ancora una volta in equilibrio tra genere e autorialità, i Coen hanno portato alla ribalta una piccola e umile pagina di umanità e arte rendendola magnificente e vibrante sul grande schermo.


50

L’assoluto di eros e sentimento di Maria Cera

Chiudo il mio reportage dei 4 giorni a Cannes con la pellicola del Concorso che insieme a La grande Bellezza, è riuscita a toccare corde vitali. La vie d’Adèle, chapter 1 e 2 (Blue is the warmest colour), in lizza per la Palma d’Oro, è uno splendido scossone e scuotimento intimo ed emotivo che il talentuoso Abdellatif Kechiche ha regalato alla Croisette. Tratto-ispirato dal graphic novel Blue is the warmest colour, scritto e illustrato da Julie Maroh, La vie Adèle traccia visivamente e narrativamente una figura femminile che simboleggia fortissimamente e vibratamente l’essenza della scoperta e dell’appagamento del proprio desiderio, nella chiave etimologica di riduzione della lontananza, di riduzione del distacco da ciò che dà calore, luce, emozione… Adèle (un’Adèle Exarchopoulos straordinariamente reale e sopra la media insieme, nell’essere femminile che rende) è un’adolescente inconsapevolmente ‘famelica’, ossia che nutre se stessa in maniera diversa e più alta della normalità di chi la circonda: la bocca, carnosa e piena, mai completamente serrata, ossessivamente scrutata dalla macchina da presa di giorno e nel sonno, è il simbolo di un riempimento, fisico ed emotivo, a cui la giovane donna ambisce pur senza ancora comprenderne il modo e la forma a lei più adatte. ‘Ingurgita’ il cibo con identica tensione e seduzione, e sperimenta con la stessa attitudine la ricerca dell’amore e del piacere. Un giovane studente pare incarnare questo desiderio e sentimento: primi sguardi reciproci di attrazione, prime frequentazioni. Mentre sta per raggiungerlo ad

un appuntamento, per strada, Adèle incrocia una visione che la lascia stordita: è un attimo… il blue dei capelli corti, un viso bellissimo… è una donna (l’ipnotica Léa Seydoux), che ne abbraccia un’altra. Lo sguardo di Adèle e del corto taglio blue si posano reciprocamente addosso. Quella sensazione resta dentro Adèle, scaricandosi inconsciamente in un’eccitazione che esplode di notte, in una masturbazione carica di desiderio. Fa l’amore con lo studente, e si accorge che non c’è pathos, che non è eccitata e appagata come pensava accadesse. Constatazione dolorosa, ferocemente dolorosa. Adèle tronca l’avvio del rapporto, capisce subito che là non troverà ciò che cerca. Viene attraversata da tentazioni lesbiche, che afferra, ma di cui non è per nulla certa, fin quando, in un bar per sole donne dove si è ficcata per curiosità e istinto, ritrova il colore blue ed Emma. è un magnetismo immediato tra loro, che esploderà dopo poco in un’attrazione e una complicità assoluta. Amore e desiderio, rivelati da Kechiche in un erotismo diretto e coinvolgente: le scene di sesso a cui assistiamo senza alcuna mediazione sono l’impareggiabile e dirompente rappresentazione di un’unione di corpi e sentimenti. Ciascuna entra dentro l’altra, violentemente ardenti, tenere, e le invidiamo con meravigliosa immedesimazione. Questo è l’amore, questo è il desiderio, la passione, l’eros. Kechiche ci imbarazza pure, in un voyeurismo prolungato, e ci ‘ferisce’, riportandoci ad una realtà (la nostra) mediamente incolore e insapore sotto questa luce, dove si è ‘rasse-


LA VIE D'ADÈLE, CHAPITRE 1 & 2 PALMA D'ORO come MIGLIOR FILM

Abdellatif Kechiche

2013

gnati’ a vivere eros e sentimenti per come vengono, ossia in generale fiaccamente e superficialmente. Adèle attraverserà la normale fisiologia d’amore con Emma, anche i momenti di vuoto e solitudine, dove il desiderio vaga per vie oblique di appagamento, disorientato necessariamente, per comprendere che ciò che si sta vivendo e perdendo è una rarissima esperienza tra due esseri. Grazia concessa a pochi fortunati. Kechiche, innato sensuale e denso da sempre nel suo cinema, segue la giovane Adèle dentro un movimento di macchina nei cui primi piani affonda come dentro un’anima. La sorprendente Adèle Exarchopoulos, in una

: Francia

Drammatico

: 179’

maturità attoriale precocissima, si affida totalmente al suo regista, lasciandosi guardare e ‘toccare’ (e la splendida Léa con lei) dentro un’intimità totale. Il resto della storia è l’ordinarietà dell’esistenza a cui anche Adèle dovrà soccombere nella impossibilità di trattenere per sempre quella rivelazione di appagamento e riempimento assoluti. La camera la lascia e ci lascia mentre abbandona il vernissage della sua amata che ha perduto, spenta nella fine di un ‘eterno fluire’, quell’estasi di corpo ed anima che sola può placare la fame di reale pienezza (per chi è della razza dei ‘famelici autentici’, come me).


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A TOUCH OF SIN MIGLIOR SCENEGGIATURA

Jia Zhang-Ke

2013

: Cina

: Drammatico

: 133’

Violenza e riscatto nel cinema di Jia Zhang-Ke di Francesca Vantaggiato Un preludio di morte è la premessa scelta da Jia Zhang-Ke per raccontare quattro storie accadute in quattro province della Cina – Shanxi, Chongqing, Hubei e Guangdong – distribuite da nord a sud lungo l’immenso territorio del gigante dai piedi d’argilla. Un minatore arrabbiato si ribella contro i soprusi e la corruzione dei capi del suo villaggio, un operaio migrante ritorna a casa per festeggiare il capodanno dopo aver sperimentato le possibilità di guadagno offerte dalle armi da fuoco, un’affascinante receptionist di una sauna (Zhao Tao, recentemente vista e premiata in Io sono Li di Segre) viene provocata fino a reagire violentemente, un giovane operaio di una fabbrica si barcamena in diverse attività per migliorare la sua condizione. Tre storie di omicidi e un caso di suicidio inquadrano nel sangue la Cina contemporanea, un impero economico in espansione ancora fragile e contraddittorio consumato dalla violenza dilagante. Mentre l’economia impenna arricchendo come di consueto una fetta minore della società, il popolo versa in condizioni di indigenza e di degrado, fisico e morale. Jia Zhang-Ke ritrae il cambiamento del suo Paese declinandolo nel quotidiano di piccoli casi di esistenze al margine, esistenze dimenticate, corrotte, aggredite, misere. La ferocia con cui i protagonisti si scagliano contro i propri aguzzini rivendicando una dignità oltraggiata viene trattata dal regista Leone d’Oro 2006 di Still Life con un eclettismo stilistico interessante e audace che rimarca l’influenza dei wuxiapian mescolata in salsa pulp.

Muovendosi in un lungo e in largo nel suo Paese, Jia Zhang-Ke cerca di delineare una geografia paesaggistica e umana dove l’incomunicabilità con il proprio vicino e la migrazione alla ricerca di una condizione di vita migliore – spesso disattesa – sono il fondamento del conflitto sociale, economico e privato e il fulcro di un cinema alla ricerca del reale che si definisce in una rappresentazione brillantemente rivisitata del genere.


UN CHÂTEAU EN ITALIE Valeria Bruni Tedeschi

2013

: Francia, Italia

: Commedia/Drammatico

: 104’

L'unica donna in gara e il suo castello di Elisabetta Colla Creatura strana ed interessante, Valeria Bruni Tedeschi, attrice, autrice e regista di origini italiane naturalizzata in Francia, apparentemente fragile rispetto alla più nota sorella Carlà (ex first lady di Francia) ma in realtà estremamente selettiva e determinata nelle scelte professionali, non cessa di stupirci, nel bene e nel male: con il nuovo film presentato in concorso (unica donna in corsa per la Palma d’oro), Un Château en Italie, la sua terza opera registica, la Bruni Tedeschi torna a Cannes, dove nel 2007 aveva ottenuto il Prix spécial du Jury nella sezione Un Certain Regard con il film Actrices. La pellicola ha molte ambizioni, forse troppe: raccontare una storia di famiglia (in parte dichiaratamente autobiografica, il cognome doppio – nel film Rossi Levi - , il fratello morto giovane, la mamma pianista, la decadenza lenta ed inesorabile di una famiglia di industriali del nord Italia), parlare d’amore in modo non convenzionale, rendere protagonista una casa ‘avita’, come luogo di memoria e ricordi d’infanzia; l’intento è buono e le idee tante ma il risultato si va perdendo nei meandri della narrazione, rendendola discontinua e a tratti faticosa, pur se sempre sincera. Le vicende di fratello e sorella inteneriscono, benché segnate da momenti crudi; le trovate brillanti spiazzano, in particolare (paradossalmente, essendo la questione tutt’altro che spassosa) quelle legate agli episodi sul tema della ‘fecondazione in vitro’, cui la protagonista si sottopone con il riluttante compagno nel disperato tentativo di avere un bimbo in età limite, e dalle quali nascono situazioni

tragicomiche sia in clinica e sia presso le suore scandalizzate e ignare. Numerosi anche i momenti di malinconia: il matrimonio in ospedale, l’antico albero tagliato dopo la vendita della casa, i beni di famiglia perduti. La regista, con l’aiuto della co-sceneggiatrice Noémie Lvovsky, costruisce personaggi decadenti e tragici – come l’amico d’infanzia indebitato e un po’ laido – o bizzarri ed imprevedibili – come Nathan, il ragazzo della protagonista, molto più giovane di lei, che si sente stretto nel mestiere di attore (nel ruolo Louis Garrel, fino a poco tempo fa vero fidanzato di Valeria)-, o lievi , ironici ed apparentemente garruli – come la madre pianista, tale nella finzione e nella realtà, interpretata da Marisa Borini. «Mi piacciono i disequilibri nei personaggi che descrivo, come nella vita – spiega Valeria – e sulla scena fanno più spettacolo come insegnano i maestri del teatro». A chi le chiede se pensa che fare cinema sia terapeutico, la regista risponde: «È il lavoro ad essere terapeutico , ma la psicoanalisi è tutt’altra cosa».


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Il Ciad e il suo rassegnato sfruttamento a passo di danza di Maria Cera La competizione ufficiale arriva in Africa con Grigris, spaccato intimo e civile di una piccola fetta di Ciad raccontata attraverso il suo singolarissimo protagonista. Il regista Mahamat-Saleh Haroun, per questa pellicola, si è ispirato a colui che ne è diventato protagonista, il giovane Souleymane Démé, scovato per caso mentre Saleh Haroun si trovava al FESPACO Film Festival in Ouagadougou…Assistendo ad uno show in un locale, il regista ha scoperto questo singolare danzatore. Affetto da un rachitismo ad una gamba, Démé ne ha fatto la punta di diamante di un ballare snodabile e aggraziato, al ritmo di una musica dance che trattiene ed espande l’energia di corpo e spirito tutta africana. Souleymane, alias Grigris (nome d’arte quando si esibisce), diviene il perno attorno al quale la macchina da presa fa ruotare il suo sguardo sulla porzione di spazio e tempo dominata dalla povertà, da un vivere che oscilla tra una pia rassegnazione, nella muta accettazione di una condanna alla quale è impossibile sfuggire, e il sogno di un riscatto, irrealmente legato ad ambizioni della cui impossibilità di realizzazione si è consci nel profondo. In questa piccola comunità Grigris spicca per grazia e purezza, agnello legato al sogno della danza, che abbraccia diverse croci. Oltre alla sua condizione fisica, la malattia del suo patrigno dispendiosissima per la povertà di casa rispetto al costo delle cure richieste. Per pagarle il giovane cerca di farsi assumere

(e inevitabilmente, di dover dipendere) nella rete dei contrabbandieri di petrolio, che succhiano e disperdono il prezioso (non per gli africani, purtroppo) oro nero in differenti modalità: un riappropriarsi delle risorse del proprio territorio, sovraccaricato dall’ulteriore interno sfruttamento malavitoso, che non vale neppure un briciolo di riscatto rispetto allo sfruttamento economico ed ambientale delle nazioni terze e civilizzate su questa terra d’Africa. Mimi (Anaïs Monory) è la luce che abbaglia il cuore del giovane ballerino, capace di catturare l’animo di questa splendida giovane prostituta, che sogna di diventare una modella. Quando il necessario doppio gioco del giovane nei confronti del boss della zona viene scoperto, Grigris e Mimi non possono far altro che fuggire. Tornati nel villaggio di Mimi, in mano alle donne mentre i maschi sono in tempo di raccolto, si consuma la giustizia nelle mani dell’essere femminile, dentro un’Africa più a misura di se stessa, morfologicamente ed esistenzialmente… Pur partendo da una prospettiva indubbiamente sui generis, consumando la storia in un’atmosfera da ‘thriller’ sicuramente privo di qualunque cliché sia di azione che di contenuti specifici, la pellicola non spicca né visivamente, né narrativamente per originalità nel suo complesso. Strutturalmente, la storia va per inerzia, sottratta pure ad un approfondimento di accrescimento di tensione. Il minimalismo, di fatto,


GRIGRIS Mahamat-Saleh Haroun

2013

è impersonale, non getta una luce specifica sulla realtà che descrive. Anche visivamente, la distanza della macchina da presa non si tramuta in una rivelazione: nemmeno nei momenti di ballo di Grigris, che rimangono seducenti di

: Francia, Ciad

: Drammatico

: 101’

per se stessi. L’occhio non li trascende, non li penetra. La poesia ci arriva alla fine, nel bel riscatto femminile di questo ‘utopico’ e possibile governo delle cose da parte delle donne… l’unico novus di una visione decisamente piatta.


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Grandi interpretazioni per dialoghi piatti di Francesca Vantaggiato

Si ispira a una storia vera Arnaud Desplechin per tornare a Cannes con il suo nuovo film in concorso, Jimmy P., dopo avervi partecipato nel 2008 presentando Racconto di Natale con cui Catherine Deneuve si aggiudicò un Premio Speciale del 61º Festival. Jimmy P. prende le mosse dal libro Reality and Dream dell’antropologo Georges Devereux (interpretato da Mathieu Amalric), un’indagine multidisciplinare tra psicanalisi e antropologia pubblicata nel 1951 a cui andò il merito di aprire la strada all’etno-psichiatria. Jimmy Picard (Benicio Del Toro), il protagonista che dà il titolo al film, è un nativo americano, un Indiano delle Pianure appartenente alla tribù dei Blackfoot di ritorno dalla Seconda Guerra Mondiale, affetto da alcuni sintomi inspiegabili quali perdita momentanea della vista e dell’udito e vertigini, erroneamente diagnosticato come un caso di schizofrenia. 1949, Browning, Montana. Quando la sorella di Jimmy si accorge dei suoi disturbi, decide di portarlo al Winter Hospital di Topeka, Kansas. È tempo per Jimmy di riprendere il controllo della propria vita. Dopo una serie di esami e accertamenti, i medici insospettiti dal suo stato di confusione tra sogno e realtà si rivolgono all’antropologo e psicanalista francese di origine ungherese Devereux, specialista nella cultura dei nativi d’America. Scavando nei sogni e nel passato del suo paziente, Devereux viene a capo degli eventi traumatici nella vita di Jimmy, ancora legato alla ex moglie morta

durante un intervento, e Lily, la figlia che non ha potuto crescere. Sebbene movente e direzione siano lontani anni luce, ricorda The Master (dove Paul Thomas Anderson ha reso il confronto-conflitto tra Joaquin Phoenix e Philip Seymour Hoffman intenzionalmente respingente e appassionante) il film di Desplechin incentrato sul rapporto tra terapeuta e paziente, e tuttavia del film di Anderson Jimmy P. è solo una vaga e blanda reminiscenza. Il fulcro della storia ruota intorno al legame tra Jimmy e Georges, due universi lontani che si scoprono in un crescendo di introspezione culturale e psicanalitica, molto verbosa, troppo, a cui non riesce l’esperimento di coinvolgere nell’incalzare di scoperte e conquiste dialettiche. Del Toro e Amalric confermano in una superba definizione caratteriale un’interpretazione meritevole di essere premiata. È un peccato vedere mancata un’occasione che sulla carta pareva promettente, visto il materiale trattato, pieno di spunti e sottotracce, solo accennate, esploratrici di antropologie americane, agganciate a presupposti etnografici e immerse nell’affascinante universo della psicoanalisi, dove l’onirico avrebbe potuto essere indagato e declinato in maniera più convinta e potente. Ultima nota negativa è il percorso sonoro di Howard Shore (premio Oscar con due capitoli della trilogia de Il Signore degli Anelli e collaboratore fidato di Cronenberg), disturbante e abbondante in alcune scene.


JIMMY P.

(PSYCOTHERAPY OF A PLAINS INDIAN) Arnaud Desplechin

2013

: Francia

Drammatico

: 114’


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Roma metafisico emblema del viaggio nella vita di Maria Cera

Paolo Sorrentino è arrivato a Cannes ieri con la sua attesissima pellicola. Attesa vibrante, anche la mia, dopo la delusione dell’esperienza americana con This must be the place, ‘flop’ consumatosi dentro le eccessive cariche di aspettativa di cui il regista è stato investito. Sorrentino con La grande bellezza è tornato a casa. E ci è tornato con una riflessione matura, feroce e malinconica, senza inganni, sull’esistere contemporaneo. La messa in scena di una presa di coscienza e di rinascita. Viaggio al termine della notte di Celine ci introduce con le parole nell’occhio lanciato sulla città eterna… Fissata-resa in un’apparizione densamente metafisica, potente verità di un’indefinibile bellezza capace di persistere ed essere visibile oltre tutto il meschino e frastornante scorrere dei giorni, avanzare della specie umana, oltre tutto il vuoto contemporaneo che ci attraversa. La macchina da presa, mobile e sinuosa più che mai, più di tutte le altre volte che Sorrentino l’ha toccata, accarezza i ponti, le chiese, le strade, gli interni degli storici palazzi, le fuggevoli apparizioni ecclesiastiche…Pare voler inutilmente rubare ad essa il segreto, nel chiaroscuro che attraversa, lasciandoci un’estatica sensazione di pace e di appagamento. Rotta-spezzata dal frastuono musicale e umano, barocchissimo e folgorante fotograficamente, di una festa mondanissima su una terrazza, celebrazione amara del nulla. Il ballo degli invitati, dai corpi e dalle movenze volgari, da tribù privilegiata di lusso, tratteggia in un montaggio da ‘puzzle’

un’ambiente di compressione del vuoto. Come quando si parla perchè si e’ terrorizzati dal silenzio. Autentiche maschere, grottesche e infinitamente tristi nell’esplosione di entusiasmo, divertimento, e mancanza di inibizione che manifestano. Tutto completamente massificato. Dentro questo corpo informe che si destreggia in un latino americano che inneggia al ‘Viva la vita’, si stacca lui. Jep Gambardella. Che ci rivela : “Io alla domanda: Qual e’ la cosa più bella della vita?”, da ragazzo non rispondevo: “La f.” come tutti i miei amici. Rispondevo… (e la risposta non ve la scrivo, la scoprirete vedendo il film). Jep Gambradella è uno di loro. Uno pigro. Uno che ha volutamente gettato all’aria, dissipato il suo talento. Uno che ha esattamente realizzato ciò che voleva essere: non un mondano, ma il signore dei mondani. È un cinico. ‘Dandy’ autoironico, con la passione che prende le distanze, da napoletano qual è, nel constatare la miseria in cui è immerso. Soprattutto Jep Gambardella è una persona sensibile. Ha scritto un libro anni, anni fa. Giornalista, padre padrone del jet set, festeggia il suo 65 esimo compleanno. Questo traguardo gli lascia un’insofferenza pallida. Comincia ad essere stanco, comincia a sentirsi vecchio, comincia ad essere stufo di fare cose che in realtà non ama fare. Comincia a pensare di volersi rimettere a scrivere… Inizia la sua risalita… lenta, incerta, contraddittoria, costellata da incontri significativi e nel confronto-scontro con gente del suo ambiente, e nell’ingresso


LA GRANDE BELLEZZA Paolo Sorrentino

2013

di umani che ne stanno fuori (la popolare e vera Ramona-Sabrina Ferilli; la tragicomica e rivelatrice santa; il cardinale esorcista amante della cucina; il marito del suo unico e giovane amore), rivelandogli ancora più marcatamente la finzione, la mediocrità di un vivere senza pensare ed essere, attaccato al flusso dello stordimento di relazioni umane fatte di chiacchiericci ed autoinganni vacui e sterili, di rapporti con un’arte e una cultura in cui l’essere alla moda fa rima con creazione e talento: tutti fanno tutto, dicono tutto, caricandosi di una falsa verità sulla propria vita e su se stessi, dentro una totale massificazione e banalizzazione che ha fatto perdere il valore di emozioni, intelletto, di un vivere realmente attaccati alla realtà che ci circonda e a ciò che si è. La pellicola non manca di momenti zoppicanti… alcune situazioni eccessivamente estremizzate in modo un po’ scontato – come la serata lifting – e la stessa narrazione perde di elasticità, immobilizzandosi in sospensioni e ri-

: Italia

Drammatico

: 142’

partenze slegate, dove ci viene in aiuto solo la macchina da presa nelle sue dilatazioni, a riafferrare il tempo di racconto, perduto. Alcuni personaggi, come uno dei pochi amici veri di Jep interpretato da Carlo Verdone (nel suo primo ruolo drammatico, diciamo serio) sono troppo ancorati alla carta e scialbi di forza propria, questo sempre per demerito di Umberto Contarello, sceneggiatore da ‘vecchia scuola‘ di cui Sorrentino dovrebbe sbarazzarsi per rendere, anche a livello di scrittura, fluido e denso il suo racconto visivo, come ai tempi de le Conseguenze dell amore… Nonostante queste pecche La grande bellezza fa fare al cinema di Sorrentino un passo in avanti. Jep Gambardella contiene in sè Toni Servillo (che rende un’interpretazione anche ‘di cuore‘, amando come non mai il suo personaggio) e lo stesso Sorrentino, che con questo manifesto intimo e sociale solca con un punto una prima fase del suo percorso da autore e regista.

P.S.: accostamenti a Fellini sono, come giustamente il regista ha precisato in conferenza stampa, interiorizzazioni delle sue visioni che, da amante del cinema e autore, ha assorbito nel corso della sua formazione. Fellini non c’entra in nessun altro modo, e si comprende benissimo.


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Un road movie sul viale del tramonto di Francesca Vantaggiato Non esalta e non delude, non intenerisce e non inquieta il film in corsa per la Palma d’Oro di Alexander Payne, Nebraska, un road movie sul viale del tramonto avaro di forti emozioni che scava nelle radici di una famiglia per delineare la figura di un uomo, di un padre. Montana. Woody (Bruce Dern), un marito e padre di famiglia affetto da demenza senile, convinto di aver vinto un milione di dollari da ritirare in Nebraska, si mette in cammino per raggiungere la meta. Mentre la moglie (June Squibb) insieme ai figli Ross (Bob Odenkirk) e David (Will Forte) dibattono sull’eventualità di ricoverarlo in una casa di riposo, stanchi dei suoi innumerevoli e imbarazzanti episodi di follia, David decide di accompagnarlo a ritirare l’inesistente premio. Il viaggio alla ricerca di una ricompensa immaginata traccerà la rotta di una relazione imbastita sugli incontri – rivelatori di segreti – con il passato di un padre quasi sconosciuto. Momenti di ilarità cadenzano e alleggeriscono i toni scuri dell’avventura on the road che i due uomini sembrano più che mai determinati a compiere. Oltre alla sosta lungo i binari del treno alla ricerca della dentiera perduta e la breve visita al monte Rushmore liquidato bruscamente da Woody perché ‘incompiuto’, padre e figlio concedono un’interruzione più lunga al viaggio per fermarsi dal fratello di Woody, presso il quale il massimo momento di raccoglimento famigliare avviene attorno al televisore. Nel riprendere il passato di Woody fatto di volti tutt’altro che amici, Payne palesa l’effimero sentimento di interesse risvegliato dal profumo del denaro che l’anziano vanta di dover ricevere. Come in The Descendants, fa da perno al

nuovo lavoro di Payne il confronto generazionale famigliare ma, questa volta, l’affondo umano e relazionale è privato di un contorno colorato adatto alle Hawaii a favore di un bianco e nero essenziale per ricreare l’atmosfera più modesta delle pianure nel cuore dell’America. David è consapevole della futile richiesta di un padre cocciuto e dimesso, eppure decide di accompagnarlo nella desolazione dei luoghi appartenenti al suo passato perché ha bisogno di costruire una relazione solida con lui. Echi lontani ricostruiscono la figura di un padre che il figlio sente di non afferrare, voci del passato raccontano di un uomo nuovo screditato da una moglie che lo considera ormai inutile. David vorrebbe poter comunicare di più con suo padre, e durante il cammino percorso insieme cerca di imparare le regole del linguaggio – non verbale – per potersi avvicinare a lui. Il passato – visivamente evocato dalla coraggiosa scelta del bianco e nero – è il tempo in cui tuffarsi per comprendere il presente, è il luogo delle possibilità che furono e che, una volta lasciate cadere, ritornano solo nelle illusioni di uno sguardo nostalgico. Nebraska è una commedia nera e una fotografia umana caustica e desolante che vuole sottrarsi tanto a una critica spinta dello scorcio osservato quanto all’approfondimento sentimentale di un rapporto che avrebbe potuto risolversi in un avvicinamento delle parti più toccante. Sembra che Payne non voglia spingersi al di là di alcuni limiti emotivi sia nella rappresentazione del fallimento comunicativo padre-figlio sia nelle conquiste affettive e di comprensione dell’altro raggiunte alla fine del road trip.


NEBRASKA Bruce DERN premiato come Migliore Attore

Alexander Payne

2013

: USA

: Drammatico

: 110’


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I vampiri di Jarmusch di Elisabetta Colla

Torna Jim Jarmusch sugli schermi di Cannes ed è subito sogno, mistero, bellezza. Distinguersi ed affascinare senza clamore è proprio dei grandi e di certo Only Lovers Left Alive, l’ultimo lavoro di uno dei registi più indie del panorama americano ed internazionale, un’inconsueta storia di vampiri, ha tutte le caratteristiche di un film fuori dal coro, in una selezione, quella di quest’anno, che ha proposto fin troppe opere ‘classiche’ per un Festival come Cannes. Ma cos’è che rende questa pellicola così bella e diversa? In una parola, tutto: l’originalità della storia, la cura e la forza estetica delle immagini, la scelta della musica, il culto del rock, lo stile narrativo e gli echi letterari, le atmosfere dark, il passaggio fluttuante fra dimensione onirica e realtà futuribile, il simbolismo e la metafora accompagnati da una sottesa ironia, la magnifica fotografia bruciata che dà vita e ‘luce’ a decadenti notti underground. Senza trascurare la scelta degli attori protagonisti (Tilda Swinton e John Hiddleston), oculatamente raffinata ed anticonformista, e delle location, Detroit e Tangeri. “Ho scelto questi luoghi – racconta il regista – perché sento un legame emotivo con entrambi: e ne sono attratto per motivi diversi. Io sono cresciuto in Ohio, nei pressi di Cleveland; Detroit, pur se poco distante, rappresentava la città misteriosa e magica del Midwest, quando andavamo là con i miei genitori, era per un motivo importante. Inoltre Detroit è una città che ha un’incredibile cultura musicale ed ha prodotto buona parte della più bella musica americana. Per me è

molto triste vederla oggi così decaduta, ma mantiene ancora un gran carattere anche se non è più quella di un tempo”. Protagonisti del film, dunque, due sofisticati e colti vampiri, innamorati da diversi secoli, Adam ed Eve, che abitano in città diverse, ma non per questo sono meno legati l’uno all’altra, anzi: dotati di ricordi, conoscenze ed abitudini acquisite in tutte le epoche trascorse, vivono in un personale, distaccato altrove ma hanno anche debolezze da XXI secolo, come l’utilizzo di Youtube (che il regista confessa di amare ben più della televisione) o di cellulari con webcam, e ricercano sangue umano per interposta persona (non più la ‘volgare’ caccia notturna ma corruzione di medici in possesso di sangue ‘0’ negativo). Adam, musicista depresso q.b. (quanto basta) per il comportamento degli umani (chiamati zombie nel film – ‘i peggiori, dice il protagonista, sono quelli che vivono ad L.A.’: qui si rivela la critica di Jarmusch a buona parte dell’ambiente del cinema), per il declino del mondo visibile ed il ripetersi infinito della quotidiana routine, è anche appassionato di liuti, chitarre elettriche (possiede tra le altre, delle stupende Supro, Hagstrom e Silverstone) e strumenti musicali in genere, nonché attratto da complicati congegni meccanici; compone musica che definisce ‘funebre’ ed è costantemente ossessionato dal mantenere segreto il suo nascondiglio ed il suo status di musicistavampiro. Eve, efebica e lunare, vive nella medina di Tangeri, legge e memorizza avidamente libri scritti in ogni sfera spazio-


ONLY LOVERS LEFT ALIVE Jim Jarmusch

2013

: Ger+ USA +UK +Fran+Cyp

temporale, ed ha come amico e fornitore di sangue fresco nientemeno che Christopher Marlowe in persona, drammaturgo del ‘500, qui vecchio e rispettato vampiro, interpretato da un grande John Hurt. Dopo una lunga separazione i due decidono di riunirsi e Tilde/Eve parte per Detroit dove trascorre un periodo romantico con l’amato bene fino all’arrivo della giovane e scombinata sorella di lei, Ava, interpretata da Mia Wasikowska, che turberà la quiete della coppia con la sua giovanile esuberanza ‘vampiresca’. Numerosi i divertissements di Jarmusch, che cita qua e là i suoi autori e rocker preferiti nel corso del film, tappezzando le pareti dell’incredibile casa di Adam con foto di letterati, musicisti e poeti, antichi e moderni, alludendo alla conoscenza personale dei due protagonisti con Shakespeare, Lord Byron e tanti altri. Molte anche le allusioni socio-politiche, che disseminano il tracciato del film attraverso momenti ironici o brevi flash di riflessione dei protagonisti su concetti significativi: la scienza, l’ambiente e le risorse del pianeta; la difficoltà di emergere di chi ha talento; l’incapacità degli zombie di liberarsi delle persone inette; le assurde forme d’intolleranza che hanno attraversato i secoli. “Mi riesce difficile parlare del film – ha specificato il regista – e non mi sento a mio agio ad analizzarlo e sezionarlo, vorrei che parlasse da sé. Non sono nemmeno tanto sicuro di cosa significhi ma posso dire che ho in mente il pro-

: Fantastico/Noir

: 123’

getto da sette anni e ci è voluto molto tempo per convincere qualcuno a finanziarlo, forse perché è una storia imprevedibile ed insolita, lontana dal mainstream, che si distacca dagli stereotipi”. Niente di più vero, caro Jarmusch! ce ne fossero di romantici bohemiens, outsiders creativi, notturni ribelli e pacifisti come questo regista, che ancora oggi (60 anni appena compiuti ed ottimamente portati, a distanza di quasi 30 anni da Stranger than Paradise, che nel 1984 lo fece conoscere a Cannes) è capace di ideare e sfornare un film come questo, inno all’immortalità della vita, dell’invisibile e dell’amore, nei mille rivoli del suo dispiegarsi, oltre ed al di là della morte (e della sala cinematografica!). Senza dubbio la riuscita della pellicola è strettamente legata agli aspetti visivi e sonori: per quanto riguarda la fotografia, Jarmusch ha lavorato con professionisti del calibro di Yorick Le Saux, come direttore della fotografia, Marco Bittner Rosser, come production designer e Bina Daigeler per i costumi, il make-up e l’hair styling. Le musiche, altro elemento determinante alla riuscita del film, sono state pensate e coordinate da Jozef van Wissem, liutista, compositore, musicista avangarde, chitarrista e storico della musica, insieme all’attuale band di Jarmusch, gli Squirrels, cui è stata aggiunta la canzone originale di Yasmine Hamdan, una cantante marocchina molto amata dal regista.


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La “satira del sessismo” tra arte e realtà di Francesca Vantaggiato

Si sapeva che l’arrivo in chiusura di Roman Polanski avrebbe sbaragliato ogni (personale) certezza o preferenza di vittoria, messo in crisi i pronostici di un festival che negli ultimi giorni aveva ristretto a una manciata di favoriti il numero di papabili vincitori. La proiezione di Venus in Fur ha riaperto i giochi, dunque, con la messa in scena circoscritta al palcoscenico di un teatro, unico spazio messo a disposizione dei due soli personaggi, interpretati da Emmanuelle Seigner e Mathieu Amalric – entrambi in forma smagliante – che ammaliano lo spettatore in un gioco vertiginoso di scambi di ruolo. Amalric è Thomas, un regista teatrale in cerca dell’attrice appropriata al ruolo di Vanda, la protagonista del suo adattamento del romanzo Venus in Fur scritto dall’austriaco Leopold Von Sacher-Masoch. Le audizioni si concludono nel disastro, Thomas è deluso dall’inadeguatezza delle attrici fino a quando non si presenta Vanda (Seigner) la quale nonostante i suoi modi volgari, la sua disperazione e la sua ignoranza ostentata, ottiene un provino e sorprende Thomas, costretto da lei a vestire i panni di Severin, il protagonista maschile che da ragazzino fu sculacciato dalla zia davanti a uno stuolo di serve. È lei l’attrice tagliata per la parte. A due anni da Carnage, trasposizione cinematografica della pièce teatrale Il dio del massacro di Yasmina Reza, Polanski si lascia ancora una volta ammaliare dal teatro affondando le radici di Venus in Fur nello spettacolo di David Ives, basato sull’omonimo testo di fine ’800 che ispirò il termine ‘maso-

chismo’. Un lungo piano sequenza ci conduce all’interno di un teatro parigino passando per un viale alberato: la porta si apre su Thomas, l’adattatore-regista che si lamenta al telefono con la fidanzata, mentre il palcoscenico è occupato dai resti di scena di un musical belga che si rifà a Ombre rosse. Decadenza e attrazione, sottomissione sessuale e piacere derivato occupano la scena e si declinano in ruoli che, come nel romanzo, sono interscambiabili e continuamente contesi. Regista e attrice si trascinano in un incontro di seduzione sadomasochista (lei definisce la rappresentazione un porno sadomaso, lui una grande storia d’amore) danzato sul confine tra realtà e finzione, ne violano i limiti, lottano per dominarsi. Nello spazio claustrofobico della scena Polanski denuda il rapporto tra regista e attore, tra chi plasma e chi si lascia plasmare, tra chi conduce il gioco e chi lo segue, portando alla ribalta il patto di dominazione bilaterale intrinseco. Vanda, che con l’eroina di Thomas condivide solo il nome essendo lontana anni luce dalla figura descritta dalla sua penna, si lamenta più volte della natura misogina e sessista del testo (lei definisce la rappresentazione un porno sadomaso, lui una grande storia d’amore) e, trasformandosi nella sofisticata Vanda del libro indossando vari abiti e accessori estratti dalla sua grande borsa, riesce a soggiogare con una forza di parole e di gesti inarrestabile Severin/Thomas. Vanda è la dea della vendetta, un’Afrodite irruenta che decide quando concedere il potere alla sua controparte e quando scagliarsi


VENUS IN FUR Roman Polanski

2013

: Francia, Polonia

: Drammatico

: 95’

in tutta la sua maestosità contro di essa. Nel e trasformato in un Polanski da giovane come processo di negoziazione tra le parti di servo se assistessimo al passaggio del testimone are padrone, Thomas non è più nè Severin né il tistico – che sul palco mette in scena i tumulti regista dell’opera, è se stesso nudo e crudo – della sua anima.


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Il nuovo mondo di James Gray di Elisabetta Colla

Il mondo nuovo, costi quel che costi. Questo il risoluto obiettivo di molti europei che immigravano nell’America del primo ventennio del Novecento, disperati (oggi purtroppo, nel ricevere i ‘nuovi’ immigrati, l’Europa sembra aver perso memoria di quei tempi!) per fuggire alla fame ed alla scarsità di risorse nei rispettivi Paesi. La statua della libertà, al centro della prima, lunga inquadratura del film The Immigrant, quinta pellicola di James Gray in concorso per la Palma d’Oro a Cannes 2013, sembra accogliere maestosamente le nuove schiere di lavoratori, ma ben più selettiva si rivela invece la selezione all’interno di Ellis Island, luogo di confine fra il passato ed il sogno americano, fra il mare e la terra, fra la libertà e l’espulsione. È qui che approdano, dalla lontana Polonia, Ewa Cybulski e sua sorella Magda (splendide prove di Marion Cotillard ed Angela Sarafyan), orfane dei genitori uccisi in guerra sotto i loro occhi, piene di speranza verso l’idea di nuova vita che le ha sostenute nel corso di un viaggio lungo e spaventoso (più avanti si scoprirà che Ewa è stata violentata in cambio di cibo per sé e per la sorella). Ma in pochi minuti lo scenario si capovolge: la zia materna che doveva attenderle all’arrivo negli States non si vede, Magda viene fermata e messa in quarantena per sei mesi a causa di una malattia polmonare ed Ewa viene inserita nella fila dell’espulsione. A questo punto entra in scena il perfido Bruno Weiss (perfetto nella parte Joaquin Phoenix, che dà al personaggio il giusto fascino torbido e ambiguo) solo apparentemente per

caso: corrompe una guardia e porta con sé la bella e stremata Ewa, offrendole un tetto e la possibilità di lavorare (ob torto collo, soprattutto per pagare le cure alla sorella) in uno spettacolo di burlesque fino a prostituirsi. James Gray – vincitore di un Leone d’Argento a Venezia 1994, a soli 25 anni, con Little Odessa, e già in corsa alla Palma d’Oro nel 2008 col toccante Two Lovers – coglie le suggestioni dei suoi nonni, che sbarcarono ad Ellis Island dalla Russia nel 1923, e non si vergogna di credere esplicitamente nei sentimenti e nella redenzione anche degli individui più abietti, oltre che nel melodramma delle relazioni umane. Afferma infatti, senza mezzi termini, che il suo intento era quello di fare un film classico, che rendesse omaggio ai suoi maestri, Coppola e Cimino, e di non temere le emozioni, verso le quali si sente più incline che non rispetto a forme di distaccato cinismo. Ed il suo lungometraggio è esattamente questo: un filmone, molto ben confezionato (stupenda la fotografia di Darius Khondji e l’atmosfera del Lower East Side nella Manhattan degli Venti), con una storia solida ma già vista, che tocca punte di grande cinema e momenti decisamente noiosi, i cui protagonisti, di fatto soli a questo mondo (Ewa viene respinta dai parenti americani perché il suo comportamento è giudicato immorale), s’incontrano per caso, si odiano e loro malgrado, alla fine, si amano, sotto il comune ombrello delle umane debolezze e sospinti da una forza interna che richiede loro di vivere e lottare.


THE IMMIGRANT James Gray

2013

“Il sogno americano non è stato falso – afferma il regista – ma necessitava una lotta”. Ewa ce la farà, sostenuta dalla sua profonda religiosità, spinta dal desiderio di vivere, di ritrovare Magda, di accedere alla vita che le spetta: gli altri personaggi, il mago Orlando (un simpatico Jeremy Renner) che vuole fuggire in Ca-

: USA

: Drammatico

: 120’

lifornia, lo stesso Bruno, innamorato di Ewa ma incattivito dagli eventi e dal suo ruolo di ‘protettore’, le donne del teatro che desiderano un’esistenza migliore, rappresentano tanti tasselli di un mosaico utile alla ricostruzione di un contesto. A ciascuno il proprio destino, di salvezza o perdizione, senza giudizi né rimpianti.


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Il ritorno di Refn/Gosling è il nostro film-copertina di Francesca Vantaggiato Dopo La grande bellezza di Sorrentino, unico italiano a gareggiare per aggiudicarsi la Palma d’oro 2013, è finalmente arrivato il momento di un’altra grande attesa del festival di Cannes, Only God Forgives del danese Nicolas Winding Refn. A due anni dal Premio Miglior Regia assegnato a Drive, Refn torna sulla croisette con Ryan Gosling protagonista silenzioso del film d’ambientazione thailandese e grande assenza sul red carpet a causa delle riprese del suo film esordio alla regia How to catch a Monster. Refn ci propone la storia di Julian (un Ryan Gosling monocromatico replica di se stesso in Drive), scappato dagli States dopo aver ucciso il padre e approdato in Thailandia, a Bangkok, dove gestisce un club di boxe come copertura ai suoi traffici di droga. Suo fratello Billy viene giustiziato dopo aver assassinato brutalmente una prostituta, e la madre (un’eccezionale Kristin Scott Thomas sebbene lontana dai ruoli consueti) accorre dall’America rabbiosa e assetata di vendetta. La morte del figlio prediletto deve essere vendicata da Julian, il quale però dovrà confrontarsi con Chang (Vithaya Pansringarm), un personaggio misterioso, un ex poliziotto seguito da una stuolo di uomini in uniforme, considerato un esecutore divino della giustizia, ‘Dio’. Come in Valhalla Rising e Drive, l’estetica della violenza (splatter) e l’enigmatico silenzio sono la struttura portante attorno cui edificare le circostanze, definendosi come linguaggio prediletto. La vendetta, leitmotiv della storia, esplode/implode nei racconti neri di Refn, infiltrandosi nel confronto mi-

stico di una dualità titanica. Predomina il rosso-sangue nella tonalità dei luoghi bui e notturni e nella definizione dell’atmosfera in cui si consuma il dramma per immagini di una lotta più spirituale che fisica tra Julian e ‘Dio’. Refn sceglie la chiave del silenzio per (non) comunicare la tensione emotiva di Julian, un uomo dalla forza espressiva paralizzata, capace di grandi atti di violenza, cresciuto al fianco di una madre detestabile e tiranna in un ambiente straniante. Nella negazione della parola e del tatto – della concessione del piacere – si consuma il rapporto di Julian con la sua ‘accompagnatrice’, e ancora nell’assenza della reazione verbale e gestuale quello con una madreMedea generosa nell’impartire ordini e nell’annientare il figlio meno amato e parca nell’affetto. Risente di un’influenza mitologia Only God Forgives, dove figure archetipiche si cercano, si respingono, entrano in conflitto e soprattutto si muovono – ignorando la via per raggiungere la meta, e forse la stessa – verso la risoluzione di sé e della propria rabbia. Chang-God, protettore old-fashioned della sua gente, è il giustiziere con la spada che canta per i suoi in un bar raccontando storie umane universali ed eterne. Julian è l’anti-eroe alla ricerca ‘di quello che non è’, il lupo solitario in corsa che chiude il suo arco evolutivo nell’atto cruento e liberatorio scagliato contro la madre. Eppure solleva non poche perplessità il lavoro in sottrazione del regista che firmò quel capolavoro di Bronson. L’azzeramento dei dialoghi, la scarnificazione dei personaggi, la riduzione di ogni collisione alla sola imma-


ONLY GOD FORGIVES Nicolas Winding Refn

2013

gine fanno di Only God Forgives un’opera criptica e sospesa nell’astrazione di una poeticità feroce fine a se stessa. Bangkok, città dove spiritualità e realtà dialogano e si mescolano, è l’anima del film, l’emblema della raffigurazione tanto cerebrale quanto carnale dello scontro.

: Danimarca

: Drammatico

: 90’

L’oscuro viaggio intrapreso da Julian nel tentativo di afferrare la sua religione, il suo Dio, per sfidarlo in duello e andare oltre se stesso alla scoperta di un io sconosciuto è manchevole di radici e fascino.


70

Incontro con Nicolas Winding Refn Ha origini lontane Only God Forgives, precedenti a Drive, come spiega Nicolas Winding Refn alla stampa: “Avevo in mente di girare un film su un uomo che voleva combattere Dio. In quel periodo (siamo nel 2009 n.d.r.) stavo attraversando un momento molto difficile, con mia moglie aspettavamo il nostro secondo figlio e la gravidanza si prospettava difficile. Non sono un grande fan dei film con i combattimenti ma in quel momento vivevo una lotta esistenzialista e l'idea di creare un personaggio alla ricerca del proprio Dio da sfidare mi allettava. Poi è arrivato Drive e il mio progetto ha subito una deviazione. Tuttavia ero talmente risoluto nel voler portare avanti questo film che la sua preparazione è avvenuta mentre giravo Drive”. Ryan Gosling, protagonista del film e grande assenza del festival, ha salutato in una lettera letta da Thierry Frémaux il pubblico di Cannes, dichiarandosi vicino a Refn e spiegando che l'impegno da regista nella sua opera prima intitolata How to Catch a Monster non gli ha permesso di lasciare gli States. Affiancato dall'attrice Kristin Scott Thomas, l'attore Vithaya Pansringarm, il montatore Matthew Newman e il compositore Cliff Martinez, Refn spiega le ragioni che l'hanno portato a girare un film ambientato a Bangkok: “Sono stato a Bangkok un paio di volte e trovo che sia una città stravagante. La Thailandia è un Paese speciale dove spiritualità e realtà si mescolano. Mia figlia riesce a vedere cose che non esistono e nel mio film ho cercato di rappresentare la sensazione di vivere in un universo parallelo. Era mia intenzione fare un film dove misticismo e realtà si fondessero. Only God Forgives condensa tutti i film realizzati finora, con esso volevo creare una collisione creativa per cambiare le convenzioni sposate nei precedenti lavori e vederne il risultato”. A proposito dell'uso di un'alta dose di vio-

lenza combinata con una forte tensione spirituale, Refn si dichiara “un feticista della violenza, essendo essa alla base dell'Arte. L'Arte è penetrazione. Seguo l'istinto nel mio lavoro, non penso molto alle cose che faccio. Pur non essendo una persona violenta ho una devozione per l'immaginario violento che considero istintivo”. I dialoghi sono ridotti all'essenziale, le battute pronunciate da Gosling sono ancora meno rispetto a Drive, film dai lunghi silenzi dominanti lo spazio: “Julian è una creatura mitologica che non sa dove andare, uno sleepwalker che si guarda intorno, perso, alla ricerca di una risposta. Le sue azioni sono determinate da altri personaggi, dalla madre e dal poliziotto. È incatenato a una madre terribile e la violenza è l'unico modo per liberarsene. Trovo il linguaggio del silenzio più forte e poetico, più interessante, immagini e suoni influenzano le emozioni più di quanto il dialogo possa fare. Abbiamo usato il movimento e lo spazio per delineare il carattere del personaggio”. Kristin Scott Thomas, raccontando la genesi del suo personaggio così lontano dai ruoli di solito interpretati, dice: “Questo non è il genere di film che amo guardare, non mi piace la violenza, ma lavorare con Nicolas è stato il motivo che mi ha portato ad accettare di partecipare a questo progetto. Dopo aver letto la sceneggiatura mi sono sentita immediatamente catturata dalla possibilità di vestire i panni di un personaggio diverso, selvaggio. Crystal è una femme fatale pericolosa, una creatura mitologica, è la madre dei nostri incubi, una sorta di Medea. È bello lavorare con Nicolas, ascolta i suggerimenti di noi attori, si fida di noi riuscendo a creare un'atmosfera collaborativa”. Ride, Refn mentre scherza sulla facilità con cui Kristin Scott Thomas si è calata


nella parte: “Durante la lavorazione ci siamo spinti oltre col linguaggio, come nella scena della cena in cui Crystal racconta l'invidia di Julian verso il fratello perché il suo pene è più grosso. Fare un film è come fare sesso, non ci si diverte se sai come va a finire. Mi alzavo ogni mattina con la consapevolezza di avere a disposizione Kristin e Ryan sul set, si iniziava da questo.” Vithaya Pansringarm interpreta God, l'uomo divino che Jualian/Gosling cerca e combatte. L'attore thailandese racconta così chi è 'God' secondo Vithaya e come è stato entrare nella parte: “Only God Forgives è un film spirituale e fisico, io e Ryan ci siamo allenati a lungo per creare una perfetta armonia tra corpo e mente. Il film di Nicolas ha pochi dialoghi perciò noi attori abbiamo dovuto lavorare sull'energia mentale per comunicare con lo spettatore. La scena del combattimento, ed esempio, è uno scontro più mentale che fisico. 'God' sente il dovere di proteggere la sua gente e di punire chi commette un atto di violenza contro il suo popolo. Ho ricevuto lo script nel 2009 e ho sentito subito che il personaggio non era un semplice poliziotto in pensione ma un uomo con un forte potere spirituale, un Dio che decide cosa sia giusto e cosa sia sbagliato. Molte volte ho recitato la parte del poliziotto ma è la prima volta che interpreto Dio. Per accettarne i poteri Refn mi ripeteva ogni giorni “tu sei Dio”, aiutandomi così a portar fuori questo carattere”. Only God Forgives è un film dedicato da Refn ad Alejandro Jodorowsky: “Jodorowsky è una creatura mitologica. Per molti anni è stato impossibile vedere i suoi film perché non erano in circolazione. Quando ho avuto la possibilità di vederli qualche anno fa sono rimasto colpito dal suo linguaggio cinematografico unico. Incontrarlo a Parigi è stato fonte d'ispirazione, mi ha dato il coraggio di uscire dagli schemi e sperimentare”. Nei film in cui la parola cede il passo alla negazione di sé, la musica assume un ruolo importante. Cliff Martinez risponde: “Ho cercato di raccontare questa storia attraverso la musica. Nicolas mi ha chiesto di distanziarmi da Drive, ho attinto alla musica pop thailandese per poi creare delle musiche potenti considerando un sound di tradizione horror e fantascientifica. Lavorare in opere con dialoghi come in Drive o Only God Forgives è una sfida per un compositore perché la musica assume un ruolo chiave”. F.V.


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