Speciale Venezia 70

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TAXI DRIVERS MAGAZINE SPECIALE VENEZIA 70

DIRETTORE

Vincenzo Patanè Garsia VICE DIRETTRICE

Giorgiana Sabatini CAPOREDATTRICE MAGAZINE

Lucilla Colonna CONCEPT DESIGNER

Gianna Caratelli ART DIRECTOR

Luca Biscontini INVIATI a VENEZIA

Rita Andreetti Maria Cera Elisabetta Colla Vittorio Zenardi UFFICIO STAMPA

Valentina Calabrese EXECUTIVE EDITOR

Giulia Eleonora Zeno WEB MASTER

Daniele Imperiali CONTATTI e mail: info@taxidrivers.it Facebook: Taxidrivers Mag II Arretrati Magazine: http://issuu.com/taxidrivers_magazine

TAXI DRIVERS è dedicata a Delian Hristev (R.I.P.)

In copertina:

Alba Rorhwacher Via Castellana Bandiera

nel film


EDITORIALE

“Alla veneranda età di settanta anni ancora ci si aspetta da questa signora, che a suo modo ha fatto la storia d’Italia, uno sforzo ulteriore per continuare a soddisfare le aspettative. Malgrado la crisi, economica o di governo, malgrado i fondi governativi inesistenti, malgrado il pubblico in forte calo. Fino all’ultimo minuto i lavori di allestimento sono proseguiti a pieno regime, tant’è che pareva che a ridosso della prima proiezione stampa ci fossero più operai che critici e professionisti del settore. Tappeti rossi e moquette grigie ancora avvolte nel cellophane, muletti ovunque, transenne labirintiche e pile di sedie in ogni angolo. Non posso poi non citare quel cratere spaventoso su cui si affaccia il Palazzo del Casinò, che anno dopo anno continua a restare lì, in attesa di una evoluzione degli eventi…” Dal diario di bordo di Rita Andreetti, prima inviata di Taxi Drivers Magazine sbarcata a Venezia 70. Quando l'hanno raggiunta Maria Cera, Elisabetta Colla e Vittorio Zenardi, la programmazione della Mostra era entrata nel vivo e stava già regalando forti emozioni cinefile, miste al consueto stress. Ora che la vetrina-passerella è finita con uno smagliante Leone d'Oro a Sacro GRA (primo documentario della storia del festival ad essere inserito nella sezione principale), ci resta il piacere di aver parlato della rassegna con Alba Rohrwacher e questo numero speciale di Taxi Drivers con più di ottanta pagine dedicate ai film che stanno arrivando nelle sale. Buona visione!

Lucilla Colonna

SCELTI DA TAXI DRIVERS

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i PREMI

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INTERVISTA AD ALBA ROHRWACHER

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in CONCORSO per il LEONE d’ORO

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GRAVITY Alfonso Cuarón

2013

: GB, USA

: Fantascienza Drammatico

: 91’


Cuarón e le nuove frontiere degli effetti speciali

5

di Rita Andreetti

L’inaugurazione ufficiale di questa Mostra del Cinema di Venezia è affidata ad un prodotto che rappresenta pienamente le meraviglie della cinematografia del nuovo secolo. Ad oltre cent’anni dalle prime riprese, a settanta dal primo red carpet veneto, questo Cuarón ha offerto con la sua opera Gravity un’eccellenza tecnica e adrenalinica che va ben oltre il cinema nel senso tradizionale: è un prodotto questo che va fruito nella sua più potente forma tecnologica, al di là degli occhialetti polarizzati che ormai sono i Rayban della sala. Suono, luci, paesaggi ricostruiti, questo è un sogno idilliaco che diventa realtà (tra l’altro, proprio un sogno infantile dello stesso regista): è tutto così potentemente concreto, così prossimo allo spettatore, che lo spazio infinito e gli orizzonti riempiti dalla palla terrestre sembrano location vive e alla portata. Una facile missione dello shuttle americano vede la dottoressa Ryan Stone (Sandra Bullock), in compagnia dell’astronauta esperto, quasi sconsiderato, Matt Kovalsky (una misura abbastanza tipica per il brillante George Clooney). La pace profonda e silenziosa dello spazio nel quale gli astronauti fluttuano perfettamente viene improvvisamente rotta dall’arrivo di una pioggia di detriti cyberspaziali. Da quel momento i protagonisti si troveranno a tentare l’impossibile, saltellando da un satellite all’altro, in cerca di un modulo di salvataggio ancora in condizione

di poter partire e ricondurli fisicamente con i piedi per terra. Se il pubblico è in cerca di un intrigo complesso, Gravity non è il film adatto. Tuttavia, nella linearità della storia, metafore intrecciate parlano di ostacoli della vita, di speranza, di caparbietà. La Bullock salta da una isola aerospaziale all’altra imbattendosi in tutte le religioni, alla quali espressamente non si aggrappa, ma che a loro modo proteggono la sua battaglia instancabile, nelle icone ortodosse di madre e figlio abbracciati o nelle opulenze dei Buddha. Seppure le lingue siano diverse, questi moduli si manovrano allo stesso modo, perché simili sono le menti che li pensano e i corpi che li abitano: lassù, nell’infinito, l’assenza di confini è spaziale quanto umana. Un film che è uno spettacolo tecnologico, più che altro, di cui si ricorda più facilmente l’efficacia della pioggia di detriti piuttosto che la Bullock (in perfetta forma atletica). Seppure ci si spinga fino al silenzio più pastoso e inspiegabile, la storia ha qualcosa di più simile ad un viaggio di riscoperta e crescita, piuttosto che un tentativo fantascientifico di riflettere sui confini alieni. Ma in quanto ad emozione, si rimane sospesi. E scaraventati. Prede della stessa assenza di gravità che guida gli astronauti.


GERONTOPHILIA Bruce LaBruce

2013

: Canada

: Commedia

: 85’


La bellezza dei corpi levigati dal tempo

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di Vittorio Zenardi

Come spesso capita al Lido, il film che doveva provocare scandalo si rivela un'opera delicata e convincente. Certo l’amore omosessuale tra il diciottenne Lake (Pier-Gabriel Lajoie) e l’ottantaduenne Peabody (Walter Borden) poteva essere affrontato in modo più ruvido e crudo da un regista come LaBruce che adora scandalizzare (si guardi il provocatorio L.A. Zombie), invece questa volta lo sguardo del regista canadese si è posato sui corpi dei protagonisti senza mostrare amplessi shock ma quasi accompagnando le loro carezze. La macchina da presa, vicinissima ai corpi, li filma in movimenti impercettibili e intensi, come in un vero e proprio rito pagano. Lake che dalla sua ragazza Desiree (Kate Boland) è considerato un santo per il suo altruismo e il modo in cui accudisce la madre (una milf sempre in cerca di uomini) compirà un viaggio verso l’accettazione del proprio “feticismo”. La sua attrazione verso uomini anziani scoppia con tutta la sua forza quando si troverà a lavorare in una casa di riposo. L’incontro con Peabody non farà altro che catalizzare tutte le sue pulsioni, ma non si

tratta solo di attrazione fisica, come dichiarerà lo stesso Lake (“Non è soltanto sesso, sento che mi sono innamorato di te” dichiarerà in una stanza di albergo a Peabody), bensì di un sentimento profondo. Quando scopre che i pazienti vengono drogati, decide di far fuggire Peabody per fargli realizzare il suo sogno: vedere nuovamente l’Oceano Pacifico. Inizia così un viaggio per le strade del Canada che si concluderà in modo imprevisto. LaBruce con quest’opera lancia il suo J’accuse verso una società dell’immagine formata da corpi plastificati in balia di chirurghi avidi per teste vuote. Ci mostra una nuova bellezza, quella dei corpi levigati dal tempo, cercando anche di sfatare un tabù persistente nella comunità gay che vede mal viste le relazioni fra persone di età molto differenti. Inquadrature come veri e propri tableau vivant dai colori accesi incantano, e l’uso magistrale del rallenti enfatizza gli sguardi e i dettagli, dilatandoli. Un’opera che ribalta il canone classico di bellezza facendo riflettere senza finti intellettualismi.


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ISTINTOBRASS Massimiliano Zanin

2013

: Italia

: Documentario

: 105’ di Vittorio Zenardi

Nella sezione Venezia Classici – Documentari, Massimiliano Zanin presenta Istintobrass, documentario elegante e raffinato dedicato ad uno dei protagonisti più discussi del cinema italiano. Viene ripercorsa la carriera del regista veneto: gli inizi della formazione a Parigi alla Cinémathèque Française a fianco di Roberto Rossellini e Joris Ivens, l’incontro con altri giovani cineasti, (Bresson, Godard, Truffaut) agli albori della Nouvelle Vague, il ritorno in Italia con i primi capolavori come Chi lavora è perduto, L’urlo, Nerosubianco, simboli di un cinema libero e controcorrente. Il documentario ha il merito di portare alla luce una cinematografia quasi dimenticata intervallando spezzoni di film con i competenti e stimolanti interventi di Marco Müller, Gianni Canova, Marco Giusti. Una parte importante viene riservata all’analisi di Salon Kitty e Caligola e agli interventi di Tinto Brass che ci rivela sfiziosi retroscena oltre a dedicare un tributo alla sua musa ispiratrice, la rimpianta”

Tinta”. Ci viene così mostrata l’iconografia del piacere erotico e voyeuristico, nei racconti di Gigi Proietti, del premio Oscar Helen Mirren, dell’attore feticcio Franco Branciaroli, di Serena Grandi, di Franco Nero e del due volte premio Oscar Sir Ken Adam fino ad arrivare alle ultime opere. I bellissimi fotogrammi di alcune delle pellicole più famose di Brass ci aiutano a notare il suo sguardo bulimico e panottico, risultato dell’uso sapiente degli specchi e della curata messa in scena. Documentario che rende omaggio ad un autore che ha saputo mostrare il sesso con gioia, liberandolo da antichi Tabù. Mai profeta in patria, dove non gli è mai stato perdonato il suo mostrare il sublime con un registro basso, popolare, inaccettabile per i ben pensanti. Lui che contro ogni censura e imposizione è riuscito ad imporre sempre la sua visione estetica, etica e filosofica che vede nelle sue opere emergere l’antica dicotomia che contrappone eros e thanatos.


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ZORAN, IL MIO NIPOTE SCEMO Matteo Oleotto

2013

: Italia, Slovenia

: Commedia

: 103’ di Rita Andreetti

Zio Paolo Bressan è un friulano DOC, sia perché lo è l’attore che lo impersona, Giuseppe Battiston, sia perché il vino gli circola ormai nelle vene. Uomo di mezza età sciupato, beone, bugiardo e traditore, pare investire le sue giornate per arrivare il prima possibile a sera e sedersi al tavolo della Osmiza (specie di agriturismo a gestione molto famigliare, che rimane aperto per breve tempo e si occupa della vendita dei soli prodotti autonomamente coltivati). La morte della quasi sconosciuta zia slovena Anja gli affibbia in custodia temporanea il nipote Zoran (Rok Prašnikar): un ragazzetto dalla storia un po’ infelice, che pare uscito da un film di Fellini, che straparla in auliche terminologie, si veste come un anziano zitello e non guarda mai negli occhi nessuno. Inutile dire che la vita io-centrica del protagonista si trova interdetta dalla presenza di un parente che gli pare più che altro una palla al piede; questo fino a quando non si svela la sua natura geniale, il suo talento nascosto, nelle freccette. In realtà, queste freccette sono solo un pretesto per tentare una svolta nella vita di entrambi e trascinare il pubblico in una storia di adolescenti (uno anagraficamente adolescente, l’altro cerebralmente di quell’età), che a loro modo scoprono come vivere a contatto con gli altri, come gestire l’affetto e gioire delle esperienze. L’esordio dell’attore e aiutoregista friulano Matteo Oleotto, che come Hitchock si concede un cammeo di spalle nel proprio film, non è una commedia priva di seconde letture: c’è una critica ad un certo tipo di società rinchiusa mentalmente e geograficamente nella provincia e della sua dipendenza dal vino, che va oltre la faccenda culturale. C’è anche quella sensazione di insufficiente serenità, creata dalla precarietà e dalla dipendenza misera dal lavoro,

che rende i rapporti umani l’unica ancora di salvezza dalla disperazione. Ecco quindi che Battiston affronta un ruolo invadente del film, per il quale riesce a non contraddire mai se stesso; esilarante per il suo cinismo, si aggancia in simbiosi perfetta con il nipote sempliciotto. La performance di Rok Prašnikar, poi, è la controprova di come la tradizione slovena in fatto di attori, sia una garanzia di successo. Seppure sia una commedia, seppure gli italiani ultimamente nel fare commedie intelligenti non se la cavino benissimo, qui Matteo Oleotto, Daniela Gambaro, Pier Paolo Piciarelli e Marco Pettenello lavorano sulla struttura narrativa e sulla profondità dei personaggi, rifuggendo la risata facile e banale in favore di una ironia affilata e non scontata. Le pennellate di Carso, poi, che si intravedono negli esterni, completano la visione di quella orgogliosa regionalità, celebrata ad alto livello etilico da botti e damigiane di vino, che fa piacere poter osservare sul grande schermo.


MEDEAS Andrea Pallaoro

2013

: Italia, Usa

: Drammatico

: 97’


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Talenti italiani all'estero di Rita Andreetti

Questa è la seconda occasione in due anni che ci è fornita dal Festival di Venezia per confermare che certe teste pensanti italiane si trovano meglio a fare i film all’estero. È stato così l’anno scorso con l’esordio di Roberto Minervini, Low Tide; e lo è quest’anno con l’esordio di Andrea Pallaoro, Medeas. Un racconto pittorico che sorprende per lo studio fotografico approfondito che conduce, inquadratura dopo inquadratura, sentenziosamente fino alla fine. Nessuna imprecisione ammorbidisce l’impatto, la glacialità, la fermezza dei contorni stabili dei quadri, quantunque a volte storti, obliqui, disequilibrati, è il paradigma essenziale con cui fruire la storia di Medeas. In termini di mise en scène è sempre più difficile riuscire ad essere originali: in quest’opera, tuttavia, numerose sono le perle dai chiaroscuri attenuati, le ombre ammorbidite e le profondità di campo (e di campagna) allungate all’infinito. Una forza trainante, questa, che è la voce più forte, quanto l’unica voce, nel dialogo con lo spettatore. Il film ci mostra Christina, suo marito e le loro cinque creature, in un momento in cui la comunicazione tra loro è davvero complessa e sempre più sporadica. Mentre i bambini affrontano tappe della crescita delicatamente accennate, che li mettono a confronto con le loro vere identità, il dramma più grande è nel rapporto tra i genitori. Seppure si avverta la presenza di un sentimento che li

unisce, il loro equilibrio si va sgretolando fino a dissolversi, proprio come si sgretola il terreno della campagna afflitto da un lungo periodo di siccità; la pioggia finale, scrosciante, non è ben chiaro se abbia davvero la forza di risanare e lavare via i peccati. L’attento lavoro di studio operato in fase di scrittura su questa comunità periferica dimostra come il loro equilibrio si regga necessariamente ed indissolubilmente sul nucleo famigliare. Perse queste certezze, si perde la ragione di vita. L’esordio al lungometraggio di Andrea Pallaoro, già visto in altri festival con il suo lavoro corto Wunderkammer, è un prodotto profondo che favorisce della recitazione ermetica dei protagonisti, tra cui la splendida Catalina Sandino Moreno. Omaggia gioiosamente l’Italia con una canzone di Mina urlata con fare liberatorio dalla ragazzina, mentre per tutto il resto del film sono solo i rumori della vita ad essere udibili (per chi li può sentire). Si diverte giocando con specchi e vetri per suggerire allo spettatore la distorsione della realtà, o il suo raddoppio, o forse per escluderlo dalla sincera intimità di quello che sta succedendo: e in effetti, Medeas è un film di scoperta, che inganna, che suggerisce ma non spiffera. Una istantanea verista di un dramma dai ritmi melliflui e polverosi, che, nuovamente, non avrebbe mai potuto trovare spazi produttivi nell’Italia delle grasse risate.


UNE PROMESSE Patrice Lecont

2013

: Francia, Belgio

: Drammatico, Romantico

: 95’


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La prova d’amore dell’erotica romanzesca che fu di Maria Cera

Patrice Leconte arriva al lido Fuori Concorso con una pellicola ‘d’altri tempi’. Non tanto per la collocazione storica (inizi del ‘900), quanto per la materia di cui tratta. Une promesse, nato da una novella di Stefan Zweig, ci mostra l’amore in una chiave completamente inattuale. Nella Germania del 1912 Friedrich Zeitz (Richard Madden), giovane ingegnere di umili origini, viene assunto nell’acciaieria di Karl Hoffmeister (Alan Rickman). La voglia di fare del giovane viene subito messa a frutto, e attraverso piccoli e rapidi step, Friedrich raggiunge la carica di segretario personale del signor Hoffmeister. Che lo introduce fin dentro la sua casa, facendogli condividere anche la sua famiglia: la moglie Lotte (una splendida Rebecca Hall) ed il figlioletto Otto. Friedrich scopre così Lotte e la sua straordinaria sensibilità e grazia. Una bellezza non solo fisica: il portamento, l’affabilità, la vitalità, l’amore per la musica, la giovinezza… Lotte è l’antitesi di suo marito Karl, al quale è legata da un paterno affetto. Friedrich ne è immediatamente attratto. Prima come maestro di lezioni private per Otto, dopo quale coinquilino della famiglia, compagno di giochi e passeggiate con Lotte ed Otto, ha occasione di penetrare sempre più a fondo nei meandri di una condivisione invisibile e reciproca. Lotte resiste, non esteriorizzando nessun rimando emotivo, neppure quando Friedrich le confessa che non riesce più a star da solo con lei senza far finta di niente. Lotte crolla (e il crollo, emotivamente e fisicamente, è reso con tutta la tensione di un’attrazione repressa e trattenuta, nelle lacrime spezzate, stroncate da un respiro mozzato) soltanto

con l’annuncio di Friedrich che spezza la catena di reciproco possesso che li aveva sin da subito portati a riconoscersi reciprocamente: “Due anni in Messico su incarico di Karl Hoffmeister, la partenza tra dieci giorni”. Si amano. E da questo momento inizia l'inattualità’. Friedrich vorrebbe possederla con tutta l’anima, ma Lotte lo trattiene: “Fermati. Non ora. Non qui”. Stop. Stop. Il vero amore esige una prova. Una promessa. Dovranno entrambi attendere due anni. L’amore vero deve superare ostacoli, deve meritare la grazia che ha toccato entrambi. E la prova sarà ancora più lunga… Arriva, inaspettata la guerra (preceduta dal decesso di Karl Hoffmeister), che dilaterà tempi e pathos. Dopo sei anni, una telefonata metterà fine alla prova. L’amore torna, imbarazzato, estraneo… Il tempo paralizza e stordisce la passione. Confuso, ma vivo e pronto a venir condiviso per sempre. Une Promesse si avvale di uno sguardo che parzialmente seduce: la sinuosità della macchina da presa, che scivola, accarezza, raggiunge con grazia gli ambienti che attraversa, riproduce una sensualità trattenuta ma carica di tensione, ‘corrispondente visivo’ dello stato emotivo dei due protagonisti. Ciò che manca a questa pellicola è proprio il periodo di mezzo: l’attesa di Lotte è troppo frettolosa, temporalmente. Poco vissuta interiormente e fisicamente. Si consuma in scarne sequenze, abbastanza sterili narrativamente, neppure simboliche. Il perno della vicenda non viene vivificato, facendo perdere spessore e peso al prima e dopo. E al tutto.


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WHY DON'T YOU PLAY IN HELL? Sion Sono

2013

: Giappone

: Azione

: 119’

Sion Sono, splatter e metacinema di Vittorio Zenardi Accostato spesso a Takashi Miike il regista e poeta Sion Sono torna al Lido dopo aver partecipato nel 2010 con Cold Fish e nel 2011 con Himizu (Segreto). Presenta un’opera divertente e ben congegnata, una prova, riuscita, di metacinema. Basato su un’idea avuta quando aveva quindici anni, il film narra della rivalità di due boss della Yakuza: Muto (Jun Kunimura) e Ikegami (Shinichi Tsutsumi), in perenne lotta per il potere territoriale. Muto ha una figlia, Mitsuko (Fumi Nikaido) divenuta celebre da bambina per un fortunato spot pubblicitario, che sogna di fare l’attrice. Per esaudire questo desidero il padre sarà costretto a produrre un film diretto da Hirata (Hiroki Hasegawa), fidanzato della figlia che si servirà della consulenza di un giovane cinefilo di nome Koji (Gen Hoshinoe). Per rendere il tutto più realistico si decide di filmare il regolamento di conti fra i due boss. Partono così

una serie irresistibile di gag demenziali condite da litri di sangue. Uno splatter all’ennesima potenza, volutamente grottesco ed eccessivo, con arti e teste che saltano per aria sotto i colpi del tradizionale katana con una frequenza impressionante. Le scene di combattimento sono filmate in modo spettacolare e con un taglio adrenalinico. Il ritmo però non è il solo punto di forza del film, infatti è tutta la sceneggiatura a reggere nonostante la storia stratificata e i numerosi personaggi. Nel riprendere il set dentro al set in una sorta di “mise en abyme” filmico, Sono dimostra tutto il suo amore per il cinema e non è difficile scorgere in Koji ragazzino che si rivolge al dio del cinema un vero e proprio alter ego del regista giapponese. Si denota anche una certa nostalgia per un cinema che fu, per un'opera come “Requiem per la pellicola da 35mm”.


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WE ARE THE BEST Lukas Moodysson

2013

: Svezia, Danimarca

: Drammatico

: 102’

La Svezia che ride (finalmente) di Rita Andreetti È la prima volta che leggo di qualcuno che dichiara di essere stato salvato da Rihanna… Non è che la cantante non sia capace di tali miracoli, ma sinceramente sentire Lukas Moodysson raccontarne proprio come le sue protagoniste tredicenni inneggiano ai propri miti punk… Modysson non è un artista monodose: è un cubo di Rubik che a seconda del colore che combina sa esprimere il meglio di sé. Cinema e scrittura, ma soprattutto di qua e di là tra generi e linguaggi (giusto per citarne due, Fucking Amal e Liljia 4-ever), a tal punto che siamo approdati con il vivace We are the best! alla teenager-retrò-commedia. Bobo e Klara sono due ragazzine piene di spirito e indipendenza che si mettono in testa di formare una band punk pur senza capire un tubo di musica. Il progetto nasce in principio come pura ribellione, ma dall’incontro con Hedvig pare che le note mancanti diventino realtà. Il loro inno alla schifezza dello sport diventa canzone, e questo gruppo è il pretesto per ritrovare un po’ di considerazione persa tra le mura di casa: equilibri famigliari opinabili, nel troppo e nel poco, lasciano intendere come l’urlo delle ragazzine sia la denuncia narrativa che il regista vuole far sentire. Sfacciatamente ribelli e infantilmente provocanti, sono una versione di Pippi Calzelunghe con la cresta e molto meno “birbantella”. I loro dispetti assomigliano piuttosto a dei sabotaggi che a delle ragazzate, ma pare tutto così divertente e privo di conseguenze che non esiste alcuna valida ragione per smettere: smettere di vomitare sui dischi del fratello, smettere di canzonare… cantando, smettere di tagliare i capelli da

maschiaccio, smettere di confutare le teorie sulla fede cristiana, smettere di tirarsi il cibo nella mensa scolastica. In realtà il film di Modysson, tratto dal comic book della moglie Coco, è un elogio scanzonato alla libertà di fare in quell’età dove, in fondo, ti è concesso fare. Poi, ovviamente, c’è anche un piacevole ritorno musicale al punk (svedese) degli anni Ottanta, con i suoi ritmi convulsi e rumorosi che anche due tredicenni assolutamente digiune di musica riescono a riprodurre. Tuttavia, oltre ad essere questa piacevole camminata saltellante nella fredda Svezia, il film non ha ulteriori pretese. Esilarante l’interpretazione delle tre ragazzine, ma rimane una commedia fatta di esagerazioni adolescenziali, creste appiccicate con il sapone e maglioni sovra misura. Certo, ci vogliono anche certe ragazzate ogni tanto.


LA MIA CLASSE Daniele Gaglianone

2013

: Italia

: Drammatico

: 92’


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Mastandrea insegna di Rita Andreetti

Inizia dichiarandosi sfacciatamente come un documentario di finzione, in un parola più tecnologica, un mockumentary. Un genere che pensavamo fosse passato di moda, fino a quando non ha deciso di cimentarsi nella fusione elaborando un prodotto che non è banalmente un rimescolamento di linguaggi: c’è una tale consapevolezza dello strumento adoperato per fare leva sull’emotività dello spettatore, una tale cosciente volontà di raccontare una storia scrollando lo spettatore dall’indifferenza della poltrona della sala, che il film fluttua in un magnifico equilibrio funambolico. Raccontarne la trama in dettaglio, sarebbe come svelare il contenuto dei regali di Natale in anticipo. Ogni singolo passaggio narrativo è bello sia nella sua scelta registica che nel suo percorso di evoluzione della storia, e ha il diritto di essere lasciato alla scoperta, non allo svelamento anticipato. Pertanto, la sola vicenda di base è la simulazione (quanto vera e quanto finta?) di un corso di italiano per stranieri tenuto da un docente d’eccezione, Valerio Mastandrea. Il suo ruolo, all’interno della classe ricostruita, sta a metà tra il burattinaio e l’alterego del regista: una fiducia eccezionale deve aver legato il regista al suo sostituto, che ha personalmente guidato gli alunni ad interpretare se stessi davanti all’obiettivo. I personaggi pertanto, prima si esercitano nella lingua e ti fanno sorridere, e poi iniziano ad aprire i loro cuori. Contemporaneamente, con silente lentezza, una linea di finzione si

insinua e rimescola il confine tra realtà e fantasia: a tal punto che sul finale di alcuni non sappiamo realmente interpretare la fine (fortunato il pubblico veneziano, che ha parlato direttamente con gli attori in sala). L’opera poi, è completata da: colori vivaci, che ben rappresentano la variopinta varietà dei protagonisti; lenti movimenti di carrello, che cullano le storie e accompagnano lo spettatore all’interno dei profili drammatici e di critica al sistema; una canzone, discussa in classe, che ha reso Daniele Silvestri interprete dell’animo di almeno dieci diverse culture. La genialità del prodotto è data dall’imprevedibilità degli avvenimenti: essersi confrontati con la precarietà delle esistenze di questi immigrati ha coinvolto l’esito stesso del film, ingabbiato nelle maglie burocratiche del sistema, che ad un certo punto ha costretto il regista a metterne in discussione la resa finale. Ma tale era l’interesse a voler portare a termine questo discorso aperto, che la creatività ha lavorato per trovare una strada alternativa che salvasse film e intento sociale. Rimane infine da citare la primaria riflessione tematica che Gaglianone opera con questi strumenti linguistici raffinati, a proposito della coltre di gomma appiccicosa che avvolge questi esseri umani, spesso fuggiti dalla terra di nessuno. Da quei racconti si capisce come le loro speranze siano schiave di un battere d’ali burocratico che si sposta col vento politico. La mia classe non è pensato per provare pietà, ma per restituir loro il rispetto dovuto.


MARY IS HAPPY, MARY IS HAPPY Nawapol Thamrongrattanarit.

2013

: Thailandia

: Drammatico

: 125’


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L’estetica ed etica contemporanea delle emozioni

di Maria Cera

Biennale college cinema è l’avampostocrogiuolo di nuovi semi creativi messi a germogliare in film a basso costo da giovani futuri visionari (con la partnership di Gucci). La Thailandia, fucina creativa originale sia visivamente che narrativamente, è presente con il giovane Nawapol Thamrongrattanarit. Il suo Mary is happy, Mary is happy è un riuscito esperimento destrutturato, una sfida a ‘tradurre’ in narrato una delle sequenze comunicative più usate da milioni di persone globalizzate: twitter. Impiegando 410 tweet di una reale Mary, non modificandone l’ordine cronologico di invio, Thamrongrattanarit imbastisce con 4 lire di budget una gradevolissima storia ‘scadenzata a colpi di invio’, che rende anche visivamente la filosofia twitteriana nell’oscillazione tra l’assurdo e il reale, il bizzarro e il vero, la retorica e il sentimento. Tutti i nostri mali e temi universali sono presenti nella vita di Mary (Patcha Poonpiriya), sensibile e sognatrice liceale prossima alla maturità, che insieme alla sua inseparabile e più matura-disincantata Suri (Chonnikan Netjui), divide paure, insicurezze, speranze, sentimenti, progetti. La macchina fotografica (tematica visiva già presente in 36, film di Thamrongrattanarit presentato a Rotterdam 2013) è il cordone ombelicale che Mary ha con l’esterno, alla ricerca di quella luce giusta

capace di catturare una bellezza esistenziale quasi mai presente nella quotidianità. Dentro la scuola-bunker diroccata, all’inseguimento del libro fotografico di classe da realizzare, Mary, per il tramite dei twitter che steppano le micro vicende del suo ultimo anno più strano ed imprevedibile, esternalizza intimità ed esteriorità umana in un delirio minimalista (visivo e di scrittura) dell’assurdo del vivere: comico e tragico, tenero e delicato. Tra location ‘disperate ed ironiche’ (binari di una ferrovia, non luogo di riflessioni ed incontri; foresta, esterno-interno dell’inconscio nei tentativi di fuga e di rinascita), fantasmi dell’amore, del sentimento, della creatività, della morte, dell’autorità (uno spasso ridicolo e inquietante, il nuovo preside dittatore, che aleggia sulla scuola con ordini e disposizioni senza mai apparire, personalizzando in suo nome perfino il test di esame, e segregando le allieve fino alla fine dell’anno scolastico), ogni tweet ‘esplode’ narrativamente in pillole visive a sé stanti e insieme legate le une alle altre, unendo in questo modo l’umanità globale all’esperienza individuale di un’esistenza simbolo di comunanza di questa assurda avventura chiamata vita.


MEMPHIS Tim Sutton.

2013

: USA

: Sperimentale

: 84’


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Fantasmi e potenzialità di Elisabetta Colla

Presentato nell’ambito della rassegna Biennale College Cinema (“laboratorio di alta formazione aperto a giovani filmmakers per la produzione di film a basso costo”), lo statunitense Memphis, diretto da Tim Sutton e interpretato da Willis Earl Beal (artista, comico e mago che ne firma anche la buona colonna sonora), ha lasciato ai più l’amaro in bocca per ciò che prometteva e non ha realizzato. Al cuore del soggetto vi è una materia magmatica dalle grandi potenzialità, il rapporto tra musica, spiritualità e magia, che però non viene “trattata” dal regista ma solo messa in mostra, come inerte. Un flusso di immagini suggestive e di brevi tranches de vie dal delta del Mississippi che non si compongono in un quadro narrativo dotato di una minima coerenza ma restano, più che altro, un insieme di sensazioni al cui centro campeggia la pur intensa presenza del protagonista, un bluesman che ha smarrito la vocazione e si aggira tra funzioni celebrate da pastori battisti e fugaci incontri con personaggi impalpabili. A poco a poco viene ripreso dal regista il declino di questo cantante tormentato, che si aggira nel paesaggio urbano cercando di salvarsi l’anima, ritenendo il suo talento una sorta di ‘dono di-

vino’ che lui non è più in grado di valorizzare, e rifugge gli studi di registrazione per dedicarsi a giornate ‘naturalistiche’, presso zone piene di alberi e verde, che indirizzano il film quasi verso un approccio documentaristico. “A Memphis - racconta Sutton – circola la leggenda di un cantante dotato e maledetto chiamato O.V. Wright, che cadde in disgrazia e fu sepolto in una tomba senza nome. Sono venuto a conoscenza di questo mito all’incirca nello stesso periodo in cui mi portarono alla Peace Baptist Church e assistetti a una spiritualità profonda e antica come le querce che costeggiano tutte le strade della città. Credendo fermamente nelle storie di fantasmi ed essendo specializzato in studi africani, ho avuto l’impulso di raccontare una storia popolare, e c’era un unico luogo che avevo in mente. Ci siamo circondati di veri abitanti di Memphis e abbiamo girato un film che si spera proietti l’immagine di un mondo fresco e splendido, vecchio come la terra eppure assolutamente nuovo e che meritava il titolo di Memphis”. Peccato, nonostante tutto, per la mancata occasione di rappresentare in immagini coerenti una storia ed un progetto dalle caratteristiche piuttosto originali.


YURI ESPOSITO Alessio Fava

2013

: Italia

: Drammatico

: 73’


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Una rivelazione a Venezia 70 di Rita Andreetti

Yuri Esposito è l’uomo più lento del mondo: si muove lentamente, molto lentamente, parla e respira ad un quinto della velocità. Ma la sua mente è veloce al punto giusto, anzi, è una persona brillante e sensibile, a cui la strana disabilità ha conferito una eccezionale finezza e ricettività alla vita. Quando la sua innamoratissima compagna gli annuncia di aspettare un figlio, una serie di dubbi si affacciano sulla sua normalità melliflua. Quella caratteristica che aveva fino a quel momento considerato parte di sé, diventa un virus da debellare, a costo di sottoporsi a sperimentazioni mediche talvolta eccessive. Tuttavia, non è detto che quell’incremento sia la soluzione ai suoi problemi: il dualismo velocità-normalità, forse è più pericoloso di una vita di pacifica e rallentata riflessione. Elogio dell’accettazione di sé, l’opera prima di Alessio Fava è il risultato della partecipazione al progetto Biennale College: unico film italiano ad essere selezionato e prodotto con un budget risicatissimo, è un’opera straordinaria per composizione narrativa e fotografica, nella quale si riconosce quella libertà produttiva offerta dal bando e che obiettivamente mancava al cinema italiano. Yuri Esposito si colloca lontano dai soliti schemi nazionali, perché si amalgama di un respiro pittorico balcanico e nord-europeo, dai contorni leggermente diffusi, le luci fredde che si riscaldano appena, la macchina da presa che segue la velocità del personaggio e la sua conseguente evoluzione interiore. La struttura emotiva del protagonista e la performance attoriale (Yuri è Matteo Lanfranchi) completano l’alchimia

sospesa nel tempo e nello spazio, di questa vita al rallentatore. Non si tratta di fantascienza: questa è una favola che si prende il tempo di riflettere sulla diversità e sull’autostima, così troppo spesso legata alla conformazione e all’assimilazione. Non è detto che il protagonista non trovi una sua forma di adeguamento agli schemi della convenzione, che lo ricollega ai suoi sogni di bambino e gli fa trovare una propria strada di rivincita, che qui ha la forma di un’eccellenza nello sport. Non è detto neppure che questo sia un modo per riconoscere appieno le proprie doti, che sono altre, e sono insite nella propria personale diversità. Quel che il protagonista ci invita ad assaporare, inoltre, è il valore di un ritmo altro, del “fermarsi a”, che cozza anche narrativamente con i montaggi tecno della crisi d’accelerazione e della degenerazione fisica che Yuri affronta nel tentativo di curarsi. L’idea è stata snocciolata propriamente, grazie alla consapevole scrittura di Leonardo Staglianò, che aggiunge pure un interessante simbolismo “liquido” e una serie di stratagemmi di vita che rendono il personaggio più concreto. Personalmente, quello che ho amato trovare nell’opera di Fava e che ne determina il suo valore, per chi saprà sintonizzarsi su questi ritmi, è stato un insolito binomio tra densità espressiva e naturalezza visiva; una sintesi amplificata da un attento e ammirevole studio del ruolo in tutte le sue sfaccettature, che non avrebbe mai avuto la stessa potenza senza il volto e la bravura di Matteo Lanfranchi.


JE M’APPELLE HMMM… Agnès B.

2013

: Francia

: Drammatico

: 120’


L’orco, la bambina e Toni Negri

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di Maria Cera

La fashion designer Agnès Troublé, nota come Agnès B., è al suo debutto dietro la macchina da presa. Personalità notissima nel mondo della moda, e già dentro il cinema in veste di produttrice (fondatrice della O’Salvation con Harmony Korine), dirige e scrive per se stessa (sceneggiandolo insieme a Jean-Pol Fargeau) Je m’appelle Hmmm…, una favola contemporanea (ispirata da un particolarissimo suicidio realmente accaduto) sul concetto di evasione. Due esseri, Céline (12 anni), francese, e Peter (40 anni, il bravo Douglas Gordon), scozzese, implodono in un’esistenza che non riescono a cambiare. La prima è vittima degli abusi sessuali di un padre che consuma nel proprio cunicolo di disoccupato una stasi deviata. Il secondo, divorato dalla perdita irreversibile della propria famiglia, dentro un’incompletezza che è separazione fisica e mentale, percorre da automa con il suo camion il passaggio francese del tratto di trasporto, concedendo alla propria solitudine scariche di dolore, improvvise. Il caso li lega al limbo unico di ritrovo: il mare. Céline respira ancora a fatica nella piccola liberazione di una gita scolastica, insieme alla sua inseparabile Barbie, unica amica (immaginaria e non) confidente-condivisore del proprio dolore. Peter vi si rifugia in sosta, richiamato dalla sabbia e dall’acqua di un avvio di primavera ancora lontano, in un momento di arrendevolezza. Céline, scritta sul braccio la promessa a se stessa di andare via di casa, viene attratta dall’abitacolo colorato e accessoriato del camion-scatola magica. Vi entra dentro come in un mondo parallelo e lontano da un reale che vuole dimenticare. Peter ne fa inaspettata scoperta, e sente che deve tenerla con sé. Da quel momento inizia

il vero viaggio per entrambi. Nelle tappe scandite di un’evasione che porterà a rispettive e parziali liberazioni, tra i due si instaura una comunicazione prevalentemente emotiva, empatica. Le lingue differenti segneranno un avvio che attraverserà lo sguardo e il corpo. La casa-camion, il non luogo dove l’esistere viene guardato dall’alto e da un vetro, attraversato nell’afferrarne le mutevoli forme e presenze, di natura e umane, colte in un esserci spontaneo, libero, in una provincia francese probabilmente dipinta troppo pittorescamente, e probabilmente volutamente trasfigurata dallo sguardo di due esseri a caccia di ‘purezza-pulizia’. Agnes B. è brava a tratteggiare le atmosfere (scandite anche da un ipnotico Stabat Mater vivaldiano): la cupezza asettica dei piani-messe in scene di una famiglia degradata dall’incedere del tempo e degli ostacoli che hanno reso la gioia e l’amore tra marito e moglie invisibile e pesante abitudine, e il legame di sangue, vera e propria prigione di corpi ed anime. Visivamente, Agnes B. pecca di eccessi di mutevolezze: tra fermo immagini, scatti zoomanti, variazioni di formato e di risoluzione, forza la narrazione per immagini di un substrato ‘pseudo-artistico’ che solo a tratti convince. Comprese le frasi-stati d’animo che sovraimprimono alcuni momenti della vicenda. Il cameo di Toni Negri (che s’insinua senza eccessi e stonamenti di realtà e credibilità), filosofo vagabondo che disserta da vecchio saggio sull’amore e sulla libertà, è la inclusione (e condivisione) con un amico (così Agnès B.) della sua prima prova da regista.


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CLASS ENEMY Rok Biček

2013

: Slovenia, Germania

: Drammatico

: 112’

Contro l'insegnante di Elisabetta Colla Quanto pesa la valutazione di un’insegnante sulla sensibilità di ragazzi vulnerabili e a volte fragili, con personalità comunque in evoluzione? A questa domanda, ed alle sue sfaccettature, cerca di rispondere il bel film sloveno Class Enemy, diretto da Rok Biček e presentato alla Settimana della Critica, una delle sezioni indipendenti del Festival di Venezia, risultato vincitore della Palmares Fedeora 2013. Il regista, non ancora trentenne, ha realizzato un film di grande maturità, dove il bianco ed il nero si confondono, traendo spunto da un fatto realmente avvenuto quando era al liceo: una ragazza di nome Sabina, dal temperamento artistico ed inquieto, dopo l’arrivo di un professore di tedesco molto severo che la richiama in modo piuttosto aggressivo alle sue responsabilità nel progettare la propria vita, si suicida. I suoi compagni di classe si stringono contro il professore, considerandolo un vero e proprio nemico, e mettono in atto comportamenti trasgressivi e rabbiosi, per tener vivo il ricordo di Sabina e farle giustizia, mentre la scuola cerca di dimenticare rapidamente l’accaduto. Il professore non sembra, apparentemente, soffrire per l’accaduto, né sembra sentirsi in colpa, e si trincera dietro l’affermazione: ‘Sabina ha fatto la sua scelta”. A poco a poco vengono fuori altre informazioni sulla ragazza, problemi in famiglia, altro che possa aver contribuito alla sua decisione, alcuni ragazzi della classe cominciano ad avere dubbi sulla linea dura e pura contro il professore, il gruppo vacilla, iniziano i primi litigi e vengono coinvolti genitori, psicologi e gruppo docente.

La pellicola ha il suo punto di forza nei dialoghi e nelle riflessioni, sia quelle degli studenti fra loro, sia quelle del professore incriminato e degli altri adulti con gli studenti: la descrizione delle difficoltà intergenerazionali, della fatica di crescere ed accettare i meccanismi del mondo adulto e le regole della vita stessa, le espressioni della rabbia giovanile per eventi incontrollabili, sono affrontate con un’ottica di grande profondità e con non comune capacità di scavare nei personaggi. Un film che non si dimentica facilmente e che ci fa porre domande sulle nostre presunte certezze di adulti, sulle nostre responsabilità di esseri umani.


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LA VIDA DESPUÉS David Pablos

2013

: Messico

: Drammatico

: 90’

Una famiglia alla ricerca di sé di Vittorio Zenardi Nella sezione Orizzonti delicata opera prima del regista messicano David Pablos che affronta come tema, quello che sta diventando il leitmotiv della Mostra: il disfacimento della famiglia. In questa pellicola intimista e sincera viene indagato il rapporto fra i due fratelli Rodrigo (Rodrigo Azuela) e Samuel (Americo Hollander), il primo (il più grande) aggressivo e introverso, l’altro riflessivo e calmo. Quando, la loro madre, Silvia (Maria Renée Prudencio), (da sempre instabile mentalmente) scompare lasciando come unica traccia un misterioso biglietto d’addio, inizia per loro una viaggio che li porterà a fare i conti con le loro paure e insicurezze in uno scontro che metterà alla luce le differenze fra i due caratteri. Sullo sfondo un Messico dai colori caldi mostrato fino al deserto di Sonora, luogo terribile e iniziatico per antonomasia. La sequenza iniziale dell’abbraccio fra Samuel e sua madre, immersi in mare, mentre scende la pioggia di un temporale improvviso è mostrata con un’eleganza visiva do-

vuta anche ad un ottima fotografia realista. La macchina da presa segue i personaggi mostrandoci spesso dettagli e sguardi che amalgamati con un’appropriata colonna sonora mettono in risalto gli stati d’animo dei protagonisti. Le immagini e la musica ci dicono della famiglia molto di più delle parole. Pablos non sfoggia una sceneggiatura particolarmente brillante, ma riesce a rendere bene le dinamiche all’interno della famiglia dando peso più ai silenzi che ai dialoghi, come ha spiegato lui stesso in conferenza stampa: “Volevo fare un film sulla ricerca della propria casa, sul fatto che il luogo in cui nasciamo non è necessariamente il luogo che possiamo chiamare casa. È una storia sull’eredità che viene trasmessa dai genitori ai figli, un’eredità che va oltre l’aspetto fisico, ed è visibile nella nostra vita di tutti i giorni, nel modo in cui interagiamo con gli altri e in cui viviamo la nostra vita”. Un’opera incoraggiante che si inserisce di diritto nella nuova ondata di cinema messicano indipendente.


L'ARTE DELLA FELICITÀ Alessandro Rak

2013

: Italia

: Animazione

: 82’


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Il taxi-movie filosofico di Rita Andreetti

Alfredo e Sergio sono due fratelli cresciuti con un solido legame, nutrito anche dalla comune passione (e talento) per la musica. Una scelta, che pare improvvisa agli occhi di Sergio, porta Alfredo lontano, in Nepal, nel pacifico isolamento di un monastero buddhista. Così la vocazione per la musica di Sergio va svilendo, raggrinzita dall’assenza del compagno di vita e di ispirazione, fino a scemare definitivamente: rassegnato alla possibilità di non poter più suonare, Sergio accetta la licenza del taxi dello zio e trascorre le sue giornate al volante. Alfredo e Sergio sono anche due amici fraterni le cui le certezze del legame vengono messe in discussione dalla morte di Alfredo. Con un linguaggio destrutturato in flashback continui e persecutori, alternando partenze e addii, Sergio si domanda se veramente ha saputo capire quel fratello così lontano, oppure se il suo egoismo non lo abbia reso cieco di fronte ai messaggi silenti che questo gli lanciava. Tuttavia, Alfredo e Sergio sono pure due anime perse che hanno incontrato in modi diversi la filosofia buddhista: il primo abbracciandola apertamente, il secondo traducendola in spicciolo motore di vita quotidiana. L’abitacolo del taxi di Sergio diventa infatti un confessionale e un dispensatore di saggezze forse popolari, forse eccelse. Ogni passeggero ha il suo messaggio da lasciare e una corrispondente

pillola di sapere da ritirare, per poi tornare a vivere sotto la pioggia scrosciante, quasi infinita, della Napoli trafficata. Proprio Napoli è l’ultima protagonista della vicenda, con le sue strade disegnate, scolpite, dai cumuli di spazzatura, e la cittadinanza chiassosa che si alterna sotto gli ombrelli. Anche il Vesuvio ha un suo ruolo definito, una specie di dio supremo, una calamità incontrollabile che vorrebbe ripulire la città con i sistemi più drastici, scavalcando le trame fitte dei potenti che controllano dall’alto. L’arte della felicità è finalmente una storia all’italiana di un taxi driver, stratificato e misterioso così come la struttura narrativa stessa. Ma soprattutto è un film di animazione italiano, dal tratto graffiato, piovoso e scrosciante, che si avvale di una scrittura molto profonda, e, non si spreca qui il termine, filosofica; è un racconto avvincente sui percorsi di autoscoperta e coscienza, sulle relazioni fraterne e sui sensi di colpa che rendono questa animazione un compendio di virtù umane idealizzate. Dal punto di vista produttivo, poi, è uno di quei miracoli all’italiana inspiegabili, un’essenza dell’artigianato che qui sta tra l’arte e la tecnologia, con la lista troupe più corta della storia, sulla quale ovviamente troneggia il contributo manuale e intellettivo di Alessandro Rak: un esordio olistico tutto napoletano.


NOBODY'S HOME Deniz Akçay

2013

: Turchia

: Drammatico

: 81’


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Storia di una famiglia di Elisabetta Colla

Nelle sezioni parallele della 70esima edizione del Festival di Venezia brillano, qua e là, veri e propri gioielli, come Koksuz-Nobody’s Home, film turco della giovane regista Deniz Akçay, presentato alle Giornate degli Autori, ovvero i Venice Days, e che ha riscosso un ottimo e meritato successo di critica e pubblico. Si racconta la storia di una famiglia multiproblematica di Izmir (città natale della regista) che, dopo la morte del padre/marito, non riesce a ricostituire la propria identità né a mantenersi unita: la madre, Nurcan, non esce più di casa, passa le sue giornate davanti alla TV o pulendo ossessivamente la casa, alternativamente urlando contro i figli o chiedendo loro di risolvere ogni tipo di situazione di emergenza. I figli più giovani, Ilker, un ragazzo e Özge, una preadolescente, hanno reazioni diverse: il primo, mal sopportando l’autorità materna, fuma spinelli e fa scenate continue, spesso rifugiandosi a dormire da un amico, con la cui madre ancora piacente intreccia una storia di sesso; la seconda compra regali alla madre per farsi notare ma queste attenzioni non scalfiscono neppure la donna, che non è in grado di ricambiare l’affetto desiderato. Neppure Feride, la figlia più grande impiegata in un ufficio, sulla quale la madre fa ricadere pesantemente, giorno dopo giorno, ogni responsabilità familiare, è in grado di prendere le redini della famiglia: anzi si sente imprigionata in una rete vischiosa, dalla quale vorrebbe fuggire e che le impedisce di fare la vita dei giovani della sua età, tanto che quando i colleghi la invitano ad uscire, Feride è sempre costretta a declinare perché la

madre ha bisogno di lei. Ma la ragazza troverà una parziale via di scampo in un giovane gentile che le chiede di sposarlo e, benché lei non ne sia innamorata, accetta pur di svincolarsi da un destino di morte lenta in casa sua, e preferisce passare ad un’altra forma di prigionia, scelta questa volta. La famiglia reagisce male alla notizia del matrimonio, vissuto come un tradimento, e la madre compirà un gesto estremo proprio nel giorno fatidico, di fronte a tutti gli invitati, sostenendo lo sguardo della figlia come a sfidarla per il suo tentativo di fuga. “Köksüz è un film sul senso di appartenenza - afferma la regista – e sulle conseguenze estreme che la mancanza di esso può avere sulle persone. È la storia straziante di una famiglia che ha subito una perdita improvvisa e non sa come affrontare le nuove situazioni che ne derivano, le lotte di potere all’interno della famiglia, le inadeguatezze, le fughe, l’incomunicabilità, il senso di colpa, la rabbia e la depressione”. Un senso di claustrofobica angoscia pervade il film, le stanze della casa (la casa di nessuno del titolo), gli occhi dei protagonisti, il loro vacuo girare alla ricerca di un senso, tesi verso il baratro. Solo la nonna ha in sé ancora i germi positivi della passata serenità e saggezza familiare ed è da fra le sue braccia, finalmente, che Ilker riesce a piangere in una scena molto toccante, mentre la madre ordisce, giorno dopo giorno, la trama del disfacimento esistenziale collettivo. Senza ripensamenti, senza redenzione. Bravissimi gli interpreti, Ahu Türkpençe (Feride), Lale Başar (Nurcan), Savaş Alp Başar (Ilker), Melis Ebeler (Ozge), Hatice Lütfiye Dinçer (la nonna).


STILL LIFE Uberto Pasolini

2013

Premio Orizzonti per la migliore regia

: Italia

: Commedia/Drammatico

: 87’


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Emozioni sospese nel tempo di Rita Andreetti

Dopo dodici giorni di film, l’unico che mi ha veramente fatto saltare sulla poltrona è stata quest’opera che, con mio grande sollievo, almeno porta una firma italiana, quella di Uberto Pasolini; seppure l’ambiente sia visibilmente British, così come il cast, tra cui Eddie Marsan, che è il lusso brillante di questo piccolo racconto che ambisce a nobili significati. Uberto Pasolini ha una formazione da produttore (che annovera l’intramontabile Full Monty – Squattrinati organizzati), ma dal 2008, dopo l’esordio di Machan – La vera storia di una falsa squadra, si dedica anche alla regia. Still life è quindi matematicamente la seconda opera; ma dal punto di vista della maturità del linguaggio, siamo nel pieno di una carriera cinematografica, e lo dimostra il risultato artistico preciso, bilanciato, portatore di una delicata riflessione sulla solitudine, sulla risoluzione della vita e dei conflitti, sulla sospensione delle emozioni nel tempo. John May è un funzionario comunale, un dipendente scrupoloso, pignolo e profondamente coinvolto nel proprio lavoro: egli si dedica al ricomporre l’identità di defunti sconosciuti, le cui vite si sono perse nella solitudine, che May combatte fino all’ultimo cercando di riunire gli affetti del passato, oppure regalando loro un commiato dignitoso. Purtroppo May, nel pieno di una indagine, viene rimosso dal suo incarico, perché il capo (stigma della società moderna, votata all’avanzamento asettico) lo ritiene ormai un dipendente superfluo; per tutta risposta, egli

si sente ancora più in dovere di riallacciare i fili sciolti della vita dell’ultimo solitario ubriacone assegnatoli, Billy Stoke. L’umanità inquadrata di cui May si fa portatore è un misto più dimesso e sospeso, tra il George di A single man e il caro vecchio Melvin Udall di Nicholson. Lavorando con i processi di immedesimazione del pubblico, Pasolini ci conduce in un primo tempo a dubitare di questo ometto tozzo dal dubbio gusto estetico, che pare agire per un vago interesse necrofilo, andando a profanare i nidi e le intimità (mutande stese ovunque!) di queste anime passate. Poi, piano piano, dalle pagine sfogliate di un album fotografico ai discorsi funebri, ne comprendiamo la volontà consolatoria, la piena condivisione di quelle vite sole. May è a tutti gli effetti l’assolutore, colui che riempie il vuoto dell’isolamento; nel suo prodigarsi disinteressato ne penetriamo la vita squadrata, la sua still life, intimamente mossa da uno spleen benevolo e un pò incosciente, a cui finalmente sarà data quella opportunità ch’egli stesso ha concesso più volte. Per Pasolini forse non è importante il quando, nella vita o nella morte, purché sia possibile godere della vicinanza e della ricchezza degli affetti. In questi ambienti freddi e asettici, il colore compare solo quando l’emozione ritorna, poiché è ciò che realmente determina l’esistenza viva degli esseri umani, i quali altrimenti, vivrebbero nel bilico di un moribondo distacco.


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IL TERZO TEMPO Enrico Maria Artale

2013

: Italia

: Drammatico

: 94’

Rugby, il gioco di squadra di Rita Andreetti Non esiste nella cinematografia italiana una solida tradizione nel genere sportivo. Seppure, come dire, siamo italiani! A maggior ragione, in pochi finora avevano tentato di aprire una finestra sul mondo del rugby, uno tra i tanti sport messo in ombra dall’osannato calcio. Tuttavia, non ci stiamo dimenticando del percorso teatrale di Marco Paolini. Ecco quindi che arriva finalmente qui al Lido, l’opera prima di Enrico Maria Artale, per cercare di sensibilizzare il pubblico su questo sport sottovalutato e raccontarne il solido sistema di valori. Il terzo tempo è la storia di Samuel (Lorenzo Richelmy), un ragazzo dal passato problematico, dentro e fuori dal riformatorio. Al passaggio alla semi-libertà, il giudice lo inserisce in un programma di recupero professionale presso una azienda agricola della provincia laziale. L’assistente sociale che lo sorveglia, Vincenzo (Stefano Cassetti), è un ex-rugbysta che ancora allena la squadra locale, ma che sta attraversando una fase difficile; intravedendo le doti atletiche nel ragazzo, Vincenzo lo convince ad inserirsi nella squadra. Samuel forse non perderà la sua natura aggressiva, la veracità stereotipata

della provincia romana e la presunzione spocchiosa del ribelle medio; ma la personale rivincita che insegue, partita dopo partita, sarà di aiuto per lui e per lo stesso Vincenzo nel riacquistare fiducia nei confronti della vita e di una propria nuova opportunità. La storia non brilla per quel che riguarda la vicenda di Samuel, che si alterna tra un addestramento alla Karate Kid e l’avversione scontata per “gli sbirri”; tuttavia, l’intreccio denso dei valori sportivi è uno spunto coinvolgente, sapientemente indirizzato da un climax ritmico e spaziale. Il montaggio, infatti, si struttura di pari passo alla confidenza che il protagonista sviluppa con l’attività, il gioco di squadra e i compagni stessi. Così, Il terzo tempo diventa una scorciatoia per svelare questa disciplina di squadra, le regole in campo, quanto i valori del gruppo, del dopo partita (il terzo tempo appunto) e la condotta di vita. È probabile che il film otterrà maggiori consensi tra coloro che hanno avuto esperienze sportive in prima persona, poiché il punto di vista del giocatore è la lente primaria sulla vicenda; per l’altra parte di pubblico, confidiamo che le corse, le cariche e i calci piazzati facciano nascere nuove passioni.


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LA PRIMA NEVE Andrea Segre

2013

: Italia

: Drammatico

: 104’

Dal regista di Io sono Li di Rita Andreetti Non nascondo che ci si aspettava un prodotto più convincente da Andrea Segre, più che altro perché la sua opera prima di fiction Io sono Li aveva felicemente stupito. Invece, purtroppo, La prima neve è una bella ricerca sulle cime dei monti realizzata anche con attori non professionisti, ma che tuttavia traballa e non si avventura troppo oltre i paesaggi mozzafiato. Ambientata ai piedi della Val di Mocheni, la storia racconta di Dani, un rifugiato della guerra in Libia originario del Togo, che abita in una casa famiglia e lavora come aiutante di Pietro, un vecchio falegname e apicoltore. Dani ha qualche problema ad affrontare serenamente la sua condizione di ragazzopadre di una bimba di un anno. La sua vita si intreccia con quella di Michele, il nipote di Pietro, che ha da poco perso il padre. L’amicizia tra i due, così lontani nelle esperienze ma così vicini nelle sofferenze, li aiuta a superare gli ostacoli e a recuperare un equilibrio con se stessi. L’ambiente del Trentino è qui assolutamente una parte integrante della storia,

quasi l’unica strutturata componente del film, che riempie i vuoti creati dalla flebile sceneggiatura. Le inquadrature che temporeggiano sui boschi e sui panorami aprono i polmoni e le pupille e ci fanno inghiottire un senso di libertà molto piacevole. Il tema poi del rapporto padre-figlio, che attraversa diametralmente le culture, appartiene a quella visione olistica e multiculturale che sappiamo essere cara al regista. Tuttavia, l’avvicendarsi delle storie e dei personaggi non ci aiuta a risolvere il loro percorso: dove Giuseppe Battiston è l’allegra linea comica, la sua presenza non ha alcuna influenza sullo svolgersi degli eventi, ma rimane narrativamente fine a se stessa. E la neve, quella del titolo, appare improvvisamente come appare improvvisamente la decisione di Dani di cambiare vita. Ciononostante, ci complimentiamo con la delicatezza dell’interpretazione di Jean-Christophe Folly, quel Dani indeciso, dagli sguardi drammatici e il volto dall’espressività morbida: un opposto pittorico azzeccato accanto al biondissimo Matteo Marchel.


TRAP STREET Vivian Qu

2013

: Cina

: Drammatico

: 93’


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Il trabocchetto cinese di Rita Andreetti

Sembrava un film timido. Questo avremmo potuto pensare vedendo prima la regista, con gli occhi abbassati, mentre proferiva timidi monosillabi di risposta alle domande del pubblico. In realtà, l’opera prima di Vivian Qu è un urlo a squarciagola, un affronto-confronto-scontro con quella che è la realtà cinese odierna. La storia scelta racconta perfettamente la sorveglianza stretta a cui tutto il popolo cinese è costretto quotidianamente, allietando le giornate di quel Grande Fratello che non si fa scappare nulla, a costo di imbastire storie assurde per giustificare il proprio operato di controllo estremo. La vicenda racconta di Li Qiuming, un giovinetto di Nanchino, appena assunto in una ditta che si occupa di rilievi per mappe GPS. Le sue giornate sono particolarmente tipiche: è costretto al doppio lavoro a causa di stipendi sempre insufficienti ad assolvere a tutti i doveri; e nel tempo libero gioca con i videogiochi oppure naviga in rete e chatta. Poche interazioni, giusto i suoi amici nonché coinquilini. Durante un rilievo si imbatte in una strada inesistente, un vicolo presente nella realtà ma lasciato come un fantasma dai satelliti. Il suo interesse, però, viene catturato più che altro dalla donna misteriosa ed elegante che incontra proprio in quel posto senza nome. Come un condannato appeso a pochi secondi dall’esecuzione, Li Qiuming si troverà accerchiato da una polizia di controllo che lo spinge a confessare colpe che non ha, tenendolo recluso alcuni giorni mentre lavora per fare terra bruciata della sua quotidianità. Il cappio piano piano si fa sempre più stretto, fino a quando il ragazzo si trova alienato e scollato dalla sua stessa vita mentre attorno

a lui la gente “continua a vendere ravioli; poi, quel che fanno gli altri non interessa”. Apologia inversa della dittatura mediatica, Vivian Qu racconta di questo mostro contro cui Li Qiuming si scontra, privo di ogni velleità combattiva e pure di qualunque strumento per poterlo fronteggiare. Le telecamere lo sorvegliano in ogni dove, seppure lui cerchi di controllare questa lente che registra i suoi pensieri, le sue curiosità inammissibili, il sentimento per questa donna misteriosa che ha causato involontariamente la sua rovina. Geniale la relazione che la regista costruisce narrativamente con le telecamere, occhi guardoni affissi ad ogni angolo, che permettono l’evoluzione stessa della storia essendo per il protagonista prima fonte di guadagno e poi di sfacelo. Accanto a questo, si accenna ad altre problematiche che affliggono questa società: la complessa relazione uomo donna, il legame con l’alcool, lo sfratto obbligato e la ricostruzione selvaggia delle città che mutano forma continuamente e non permettono ai propri abitanti di costruire un equilibrato legame di identità con lo spazio e il tempo. Non credo di sbagliare nel dire che il film non verrà distribuito in patria. Non verrà cioè promosso nei teatri, ma piuttosto passato di mano in mano in copie DVD pirata: un tale strumento di presa di coscienza del logorante lavoro di indottrinamento e persecuzione messo in atto dalle istituzioni è un passo troppo lungo per un Paese che non gode di libertà espressiva. Il festival stesso, in un qualche modo, lo ha protetto e gli ha dato a possibilità di essere visto in questo contesto importante. Giusto per chiarire: questa non è fantascienza.


CON IL FIATO SOSPESO Costanza Quatriglio

2013

: Italia

: Drammatico

: 35’


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Alba Rohrwacher è Stella di Elisabetta Colla

Costanza Quatriglio, documentarista e regista di grande talento, che l’anno scorso ha presentato a Venezia il bel documentario Terramatta alle Giornate degli Autori (poi vincitore del Nastro d’Argento per il miglior documentario 2013), è una di quelle autrici che sono sempre rimaste fedeli a se stesse, nella scelta dei temi, delle storie, e nella ricerca di senso da dare ad immagini e parole. Lo conferma anche il suo ultimo lavoro, Con il fiato sospeso, presentato fuori concorso a Venezia 70, un’opera breve (35’) ed intensa, basata su un fatto di cronaca, la chiusura per insalubrità di alcuni laboratori della Facoltà di Farmacia dell’Università di Catania, e sulle storie delle tante persone coinvolte. «Ho preso spunto da questa notizia – afferma la regista – per creare il personaggio di Stella, una studentessa che vive un’esperienza di intossicazione e disillusione, perché la passione, la meraviglia, l’intelligenza, il talento e la fiducia di quei ragazzi viene come tradito. Il film pone una riflessione su questa storia, non vuole emettere una sentenza, perché non spetta al cinema farlo: se si dovesse accertare che c’è stata insalubrità, la giustizia farà il suo corso». La protagonista, Stella, inizia a capire che qualcosa non va nei laboratori di chimica della Facoltà di Farmacia quando, inserita in un gruppo di ricerca per elaborare la tesi, nota che diversi colleghi si sentono male e che i professori tendono a minimizzare la cosa. Nel ruolo di Stella una coinvolgente Alba Rohrwacher, alla quale la regista ha il-

lustrato il progetto, e che si è lasciata guidare nel costruire un personaggio di finzione che ne racchiudesse tanti altri, tutte le vittime dell’insalubrità, e dei loro sogni giovanili. «Avevo pudore a recitare il monologo centrale del film – racconta Alba Rohrwacher - e ne sentivo la responsabilità, ma poi lavorando sul testo e nei laboratori di ricerca veri, con studenti e professori che ci hanno accolte ed ospitate, l’urgenza di farlo è diventata anche mia, e quando abbiamo registrato l’intervista mi sono accorta che era qualcosa che mi apparteneva, non era il cinema che si appropriava di qualcosa di intimo ma accadeva una cosa intima e qualcuno la ‘spiava’». Interessanti i personaggi di ‘contorno’, Anna, l’amica punk di Stella che ha lasciato gli studi per suonare in un gruppo indie rifiutando le logiche universitarie (un omaggio della regista alla vitale scena musicale di Catania), ed il giovane dottorando, con cui Stella farà amicizia. Per questa occasione specifica, ai fini della storia che voleva raccontare, la Quatriglio si misura con un genere misto, non più documentario tout court ma un prodotto con una vera sceneggiatura e degli attori da dirigere: «Il cinema sta andando sempre più a scardinare definizioni schematiche: negli anni è stato realizzato tantissimo cinema documentario all’ombra del mainstream, con temi forti, ed oggi la Mostra di Venezia dà visibilità a questo cinema, sperando non ci vogliano troppi anni a vederlo distribuire nelle sale».


RUIN Amiel Courtin-Wilson/Michael Cody

2013

: Australia

: Doc/Drammatico

: 90’


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Due anime all’inferno di Maria Cera

La comune passione per l’estetica drammatico-documentaristica e il legame anche cinematografico di entrambi con l’Asia, ha portato Amiel Courtin-Wilson e Michael Cody a fondare il collettivo Flood Projects. A Venezia 70, approdano nella coregia con Ruin, nella sezione Orizzonti, dopo Hail – in Orizzonti del 2011 – in cui si erano divisi i ruoli di produttore (Michael Cody) e regista (Amiel Courtin-Wilson). Il progetto (girato in 2 blocchi di venti giorni a un anno di distanza l’uno dall’altro, con la troupe australiana e la produzione cambogiana Hanuman Films) che sta alla base di Ruin è ambizioso: forma visiva al confine tra documentario e drammaturgia, riflette come un prisma, percezioni, contatti, stati d’animo, traducendole in incorporee essenze di luce, spazio, materia. Due esistenze invisibili, ai margini in una Cambogia post genocidio, consumano il loro rispettivo ‘supplizio’. Sovanna e Phirun (gli attori non professionisti Siek Somalen e Rous Muni). Sovanna è puro corpo alla mercé di violenza e sfruttamento. Phirun, frustrato dentro un carattere che lui stesso non riesce a domare negli scatti di intemperanza a cui è soggetto, vaga dentro i giorni prendendo il lavoro che trova. Una strada li avvicina nel cammino reciproco (fuga per Sovanna, vagabondaggio per Phirun) e li porta a riconoscersi. Da quel momento saranno uniti in un viaggio che è allontanamento fisico e mentale dalla realtà che li circonda: inferno di lotta per la sopravvivenza a cielo aperto,

dove la donna è puro corpo-merce da abusare in qualsiasi momento, nell’atto più ‘naturale’ del mondo. E dove il danaro è mezzo di identificazione-salvezza da un’invisibilità esistenziale perenne. Nel non luogo verso il quale i due si dirigono, scoprono ognuno l’altro nelle rispettive ‘chiusure’: di fuoco imploso per la violenza subita, di progettualità rimandata in un mancato confronto con se stessi. L’acqua è la simbologia che più di ogni altra accompagna questa narrazione: allontana, sospende, calma. Flusso di un inconscio che diviene palpabile nelle scie di luce, fuoco e brillantezza in cui trattiene istinti e desideri, tensioni verso una rinascita che dovrà attraversare altre dure prove per entrambi, nel rafforzare una reciproca fiducia inizialmente trattenuta. La pellicola contiene indubbi pregi visivi: la camera induce sia nella materia che nel corpo, in una esplorazione raffinata nei dettagli che mostra, nei tagli di inquadratura che intensificano percezioni, nelle rarefazioni di messa a fuoco che stratificano stati d’animo ed atmosfere. Ma procura anche eccessi di artificio tecnico che fanno perdere credibilità impressionista a ciò che si racconta. E la storia in sé è lasciata andare ad un caso che non è mero flusso (avendo, allora, tutto il senso di raccordo con la prospettiva visiva messa in scena), ma passaggi guidati in un ‘andare da sé’ che chiede ‘ragione narrativa’ di ciò a cui si assiste.


MOEBIUS Kim Ki-Duk

2013

: Corea del Sud

: Drammatico/Thriller

: 90’


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Dopo il Leone d'Oro di Rita Andreetti

Decisamente e indiscutibilmente una tra le proposte più difficili, quasi persa, della carriera del maestro coreano, già Leone d’Oro l’anno scorso per un film dai regimi estetici nettamente più elevati. Eguagliare Pietà, un’opera cruda che tuttavia aveva messo d’accordo appassionati e critica, svelando contemporaneamente l’esteta e il persecutore che è nel regista, era una sfida persa in partenza. Moebius, infatti, sembra pagare un tentativo di cucinare troppo nella stessa pentola. Nella nuova opera di Kim Ki-Duk troviamo tutto: sesso, ossessione, evirazione, incesto, stupro, bullismo, suicidio, cannibalismo, dolore e follia. Una ricerca forse filosofica, forse freudiana o forse disperata; oppure un tentativo di approdare ad una sofferenza assoluta, ad un male nella sua forma più acuminata, per sottoporre ad una prova definitiva l’essere umano; ma anche probabilmente una sfida a tutti i tabù indotti dalla società. Non stupisce quindi che la Corea abbia risposto a questa sperimentazione spietata con due minuti e mezzo censurati. Visivamente quest’opera non trascina quanto aveva fatto il suo Leone d’Oro, né emotivamente affascina come le opere dell’ascesa (Ferro 3 o Primavera, Estate, Autunno, Inverno…e ancora primavera); non cattura e tortura finemente come La Samaritana o L’arco: più che altro trita le budella come carne da ragù sin dai primi minuti, confonde e ubriaca perché mentalmente non ci conduce a nessuna soluzione, se non forse nel rapporto di sacrificio estremo padre-figlio. I protagonisti sono tre personaggi molto introversi, ovvero muti (in questo, il regista ritorna ai ritmi vincenti del suo cinema del silenzio), che si trovano invischiati in uno sfogo di vendette scatenato dal tradimento del

padre. La madre tenta di evirarlo, ma poi si rivolta contro il figlio che, nel suo picco ormonale adolescenziale, leggeva in tutt’altro modo la scappatella del padre. Questi decide di farsi carico della croce del figlio ingiustamente mutilato e fagocitato dalla sua procreatrice, evirandosi chirurgicamente a sua volta e salvando il membro per un impianto. Il ragazzo, disturbato dagli eventi, si infila subito nella prima banda di spostati che lo avvicina, e si lascia trascinare altrettanto in fretta nella mascalzonata di gruppo: stupro collettivo al quale lui partecipa fintamente poiché privato del mezzo. Si salva dalla prigione solo dopo aver perso la faccia davanti a tutto il distretto di polizia, a mutande calate. Già fino a qui, lo svariato pentagramma di suoni emessi dalla platea mostrava come il pubblico stesse brancolando nel buio. La seconda parte della storia è trainata da un parallelismo tra dolore estremo e piacere dove i due uomini si gettano per ritrovare la serenità ormonale: con masturbazioni di pugnali e sfregamenti di pietre, i due ritrovano un linguaggio segretamente condiviso e una sottospecie di serenità fisica. Fino a quando la madre ricompare e decide di trovare una sua strada per riconciliarsi con il figlio, di cui, ricordiamo, ha staccato i genitali all’inizio del film e ne ha fatto un sol boccone. Certo che, così esplicitata, sembrerebbe la trama di un B-movie. Tuttavia, la regia è sempre quella di un grande autore, e quella sua intramontabile abilità espressiva che sorpassa ogni comunicazione verbale è talmente evoluta che rende poetica ogni gestualità, persino la meno credibile. Ciononostante, è proprio questo dettaglio che è mancato e ha reso la visione davvero imbarazzata: questo film non è all’altezza della credibilità di cui Kim Ki-Duk gode.


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THE CANYONS Paul Schrader

2013

: USA

: Thriller/Noir

: 104’

Il sottobosco hollywoodiano di Elisabetta Colla Lo scrittore americano Bret Easton Ellis, noto soprattutto per i suoi romanzi American Psycho e Le regole dell’attrazione, da cui sono stati tratti gli omonimi film (rispettivamente usciti nel 2000 e 2002), firma ancora una sceneggiatura al vetriolo, The Canyons, dove i protagonisti, non più yuppie ma attori in carriera, sono disposti a tutto e di più per arrivare (o restare) dove vogliono. Con l’aiuto del regista Paul Schrader, che trasforma lo script in un film asciutto ed ossessivo presentato fuori concorso a Venezia 2013, si compone una storia di torbide passioni e pericolosi giochi di potere. La bella Tara (una Lindsay Lohan in gran forma), ex attrice squattrinata, vive con il ricchissimo produttore Christian, che ama organizzare e filmare incontri erotici di gruppo ai quali la donna non può sottrarsi, pena il ritorno alla vecchia vita. Christian, che ama avere il controllo sugli altri (ma è costretto dal ricchissimo padre ad andare dallo psichiatra una volta a settimana in cambio dell’accesso al fondo fiduciario) scopre che Tara

ha aiutato un suo ex-fidanzato, Ryan (l’attore Nolan Funk), ad avere la parte in un film da lui prodotto e che, nonostante sia ora il ragazzo della sua assistente Gina (Amanda Brooks), Tara lo frequenta ancora di nascosto. Su questo gioco di incontri segreti, minacce, ricatti e sospetti, si scatena la vena noir dello scrittore, che delinea un quadro acido e perfido del sottobosco hollywoodiano nel quale, al di là del divismo di pochi, si cerca di stare a galla con ogni mezzo: prestazioni sessuali di scambio, ipocrisie e voyerismo, bugie e legami di convenienza. La perdita del controllo porterà Christian (impersonato dal pornodivo James Deen) ad estreme conseguenze, rapidamente coperte e messe a tacere dal minaccioso silenzio imperante nelle ville con piscina della New Hollywood. Pur con qualche difetto di regia, il film ben evidenzia il vuoto sottostante ad un certo ambiente, i cui giovani protagonisti giocano con le vite altrui quasi senza rendersene conto, del tutto organici ad un mondo alla deriva.


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BETHLEHEM Yuval Adler

2013

: Israele

: Drammatico

: 99’

Bethlehem o il paradosso della guerra di Vittorio Zenardi Ai temi della Palestina e di Israele le Giornate degli Autori hanno sempre posto speciale attenzione: a partire dal dolente Sous les bombes (2007) del libanese Philipe Aractingi e l’amatissimo Incendies – La donna che canta (2010) di Denis Villeneuve passando per l’emozionante Heritage (2012), opera prima da regista di Hiam Habbass. E ancora, nel 2011, le Giornate si fecero luogo di incontro e confronto, presentando il drammatico Edut – Testimony dell’israeliano Shlomi Elkabetz e il primo film che sventolava con orgoglio la bandiera palestinese, Habibi, della regista Susan Youssef. In questo contesto, di riflessione e incontro col mondo Mediorientale, si inserisce Bethlehem, opera prima del giovane israeliano Yuval Adler che ci porta nel cuore degli scontri nel South Bank, dove agiscono il giovane infiltrato palestinese Sanfur (Shadi Mar’i), fratello minore di un combattente palestinese ricercato, Ibrahim (Hisham Suliman), e Razi (Tsahi Halevy), agente che il servizio segreto israeliano ha reclutato quando aveva appena quindici anni, investendo molte energie sul ragazzo e sviluppando una relazione quasi paterna con lui. Questo

rapporto non resisterà, però, al richiamo dei legami di sangue, Sanfur si troverà, infatti, costretto a scegliere fra due tradimenti, condizionato dalla famiglia di origine. Il regista riesce bene a far emergere dal racconto come questo conflitto coinvolga numerosi “attori” che spesso sconfinano nel campo avversario. Il confine pare, infatti, essere molto labile: esemplare la scena della morte di Ibrahim quando si contengono il corpo sia gli amici della resistenza palestinese sia i seguaci di Hamas. Dramma psicologico e spy story si intrecciano dando vita ad un’interessante opera prima che prende spunto, purtroppo da situazioni reali, come ci conferma il regista: “Un agente dei servizi segreti israeliani una volta mi ha detto che la chiave per il reclutamento e la gestione degli informatori è nello sviluppare una relazione intima con loro. Sul piano personale – continua Adler – non è solo l’informatore a sentirsi confuso sulla propria identità e lealtà, anche l’agente finisce col non distinguere più con chiarezza il limite“. Tutto questo viene mostrato con uno stile quasi documentaristico dove il sangue della vendetta si mischia con la polvere.


LOCKE Steven Knight

2013

: USA, Regno Unito

: Drammatico/Thriller

: 85’


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Dentro l'abitacolo di Elisabetta Colla

Secondo molti è uno dei film-rivelazione della Mostra 2013, ed è un peccato che sia stato inserito nella sezione Fuori concorso. L’etichetta di ‘thriller’ non è precisa, in quanto Locke, del regista e sceneggiatore Steven Knight ( Piccoli Affari Sporchi, La Promessa dell’assassino), travalica i generi ma, certamente, è in grado di mantenere alta la tensione per 85’ che sembrano volare ed oscilla fra il dramma psicologico ed il thriller etico, se tale definizione può aver senso. Il fatto straordinario è che l’intero film si svolge nell’abitacolo di una macchina, quella del capo-cantiere Ivan Locke, un uomo rispettato da tutti, gran lavoratore, marito e padre di famiglia premuroso, che decide una sera di non tornare a casa a vedere la partita (i figli lo attendono con birra e salsicce) ma, giunto allo stop, cambia direzione e con essa il corso della sua vita: andrà a Birmingham, per assumersi le responsabilità di un casuale ‘errore’ (la relazione di una notte durante una trasferta, in cui era ubriaco e vulnerabile) da cui sta nascendo un figlio, non desiderato ma ‘suo’. Le telefonate nella macchina si susseguono a ritmo serrato e lo spettatore rimane col fiato sospeso per sapere cosa succederà: la moglie, i figli, la donna che partorirà quella notte, il datore di lavoro (Bastard è il nome con cui Ivan ha registrato il numero del suo capo sul telefono) ed il collega di Ivan, tutti chiamano ripetutamente, in un’alternanza di vita privata e lavorativa che trascina a poco a poco la vita del protagonista nel caos. Infatti, per non farsi mancare nulla, il povero Ivan Locke è in seri guai lavorativi poiché all’alba del giorno dopo è pre-

vista la più vasta colata di calcestruzzo della sua azienda, alla cui realizzazione Ivan ha lavorato in prima persona e che richiederebbe l’ attenzione e la perizia di un esperto capo cantiere: ma lui non ci sarà, non andrà al lavoro il giorno dopo (per senso di responsabilità impartisce istruzioni al suo vice che obbedisce controvoglia e nel panico), così come non sa se tornerà mai a casa. Ha fatto la sua scelta, giusta o sbagliata che sia. Anche ‘quel’ figlio conoscerà suo padre; Locke non vuole che, come accaduto a lui stesso (il padre lo abbandonò alla nascita, né si fece mai più vedere) un figlio suo nasca senza conoscere il padre, anche se dovrà pagare, per questo, un prezzo molto alto. Senza che accadano eventi esterni eclatanti (giusto qualche sirena o ambulanza che fanno capire come fuori si dipanino altre storie di altre persone), sono le espressioni del magnifico Tom Hardy, unico, bravissimo attore del film (a parte le voci degli altri), in grado di trasmettere emozioni e pathos, senza mai fermare l’automobile, che fende la notte più buia di un uomo qualunque e della sua tragedia personale, mentre in sottofondo suona struggente la musica di Dickon Hinchliffe. Un film che si regge, oltre che sull’interpretazione del protagonista, su una sceneggiatura (originali e credibili i dialoghi) ed una regia perfette, che consacrano Steven Knight (il quale ha parlato di video-installazione per le sue scene notturne, ma tutto è molto naturale) fra quei talentuosi artisti che hanno capito i veri, indispensabili ingredienti del buon cinema.


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WHITE SHADOW Noaz Deshe

2013

: Tanzania

Dall’urgenza di raccontare l‘aberrante realtà del commercio di membra umane per superstizione, nasce questo visionario e cinetico viaggio che il berlinese Noaz Deshe ci fa compiere con la sua opera prima. Gli albini vengono massacrati a colpi di machete nella Tanzania rurale, per essere venduti a pezzi su banchetti di medici stregoni che nutrono della superstizione il possedere amuleti di corpi neri dalla pelle bianca. Alias è un albino di 15 anni che per sfuggire al destino di suo padre, lascia la sua casa e sua madre, tro-

: 115’ vando rifugio e sfruttamento da suo zio in città. Tra soggezione alla malavita, setaccio di discariche e vendita ambulante ai semafori, Alias riesce, con tutta la forza datagli anche dalle parole della mamma, a resistere alle sopraffazioni che subirà. Questa immersione negli inferi è narrata, visivamente, da iperrealismo e alto lirismo: l’occhio viene stordito, spiazzato dai luoghi e dagli avvenimenti che attraversa. Si resta senza fiato, coinvolti fino all’osso in un’atmosfera che annulla quasi i personaggi e l’intreccio della vicenda.


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EASTERN BOYS Robin Campillo

2013

: Francia

Diviso in quattro capitoli: “Sua maestà la strada", "Questa festa di cui sono l’ostaggio", "Ciò che si fabbrica insieme" e "Halt Hotel, segrete e dragoni", la pellicola di Robin Campillo mescola, affascinando, dramma sentimentale, thriller e azione. Gare du Nord, decimo arrondissement parigino, luogo- stazionamento di ragazzi dell’est specie minorenni, che si prostituiscono: un cinquantenne distinto, Daniel (Olivier Rabourdin), punta il bel Marek (Kyrill Emelya-

Drammatico

: 128’

nov) e gli si avvicina…Facendo però l’errore di lasciargli l’indirizzo di casa. Marek si presenta con un gruppo di rapinatori, svuotandogli completamente casa. Ma poi ritorna… Dall’erotismo-pulsione iniziale si passa ad un legame protettivo, quasi paterno, tra i due. Il film poggia soprattutto su di una sceneggiatura efficace e atipica, che indaga il rapporto (nel suo dinamismo) tra corpo e spazio, nello scambio del ruolo di asetticità e vita.


PICCOLA PATRIA Alessandro Rossetto

2013

: Italia

: Docufiction/Drammatico

: 90’

Quella parte che non vorresti vedere di Rita Andreetti Martellante si ripresenta la domanda per tutta la durata del film; perché è così fastidioso e spiazzante venire a contatto con lo spaccato provinciale che Alessandro Rossetto ci presenta, che la prima reazione è stata proprio questa: ma esiste davvero questa parte di Veneto? Esiste davvero un luogo sul territorio italiano che per disperazione, ristrettezze economiche, rapporto con le armi e diffidenza diffusa, è associabile a quel brutto esempio delle periferie degradate americane, che tanto ci impegniamo ad additare? Luisa e Renata sono due giovani che lavorano presso un grande hotel di lusso; sognano di racimolare qualche spicciolo, e pensano che il mezzo più rapido siano i giochi a sfondo sessuale. Il meccanismo gli sfugge di mano e si infilano in un tunnel perverso di ricatti e reazioni efferate. La vicenda si costruisce e dipende, nei rapporti di cause-effetto, dalla diffusa diffidenza dell’altro che ha certi inconfondibili tratti attuali e regionali: alimentato dalla propaganda populista di massa, quella delle feste popolari, dei bar e dell’ombra di vino, l’ideale nazionalista si radica nella parte violenta della mente di alcuni tra i protagonisti, quelli che sembrano aver gettato la spugna col mondo e cercano una spiegazione alla demolizione che li attornia. La follia raggiunge l’apice quando il padre di Luisa scopre la sua relazione con Bilal: un ragazzo estremamente positivo….MA albanese. Piccola patria di Rossetto è obiettivamente una rappresentazione cruda, verista, che il regista non ha cercato di indorare: un vorticoso viaggio, cadenzato da riprese aeree vertiginose, nella faccia scura della

luna nera. La colonna sonora accompagna ogni volo ma senza permetterci di allontanarci troppo dalla dimensione locale, soprattutto per la scelta di includere musica popolare, a volumi imperativi, e con voci un po’ volutamente stridenti e altrettanto modulate una sull’altra. Preda di populismo politico, di razzismo gratuito, questo film è la rappresentazione di come anche il nord soffra degli stessi cancri di cui accusa il sud, e di come questi mali che affliggono la popolazione siano indotti più che virali. Personaggi che nascono come monelli giocosi, seppur discutibilmente giocosi, si macchiano di tradimenti e impulsi violenti, ma senza approdare ad una soluzione: girano su stessi fino alla fine. Fine che non c’è, come se si dovesse prevedere un seguito, o come se, semplicemente, ne si possa attendere l’atto successivo nei fatti di attualità che si leggono sui quotidiani.


i PREMI LEONE D’ORO per il MIGLIOR FILM SACRO GRA di GIANFRANCO ROSI (ITALIA, FRANCIA)

LEONE D’ARGENTO per la MIGLIOR REGIA MISS VIOLENCE di ALEXANDROS AVRANAS (GRECIA)

GRAN PREMIO DELLA GIURIA JIAOYOU (Stray Dogs) di TSAI MING-LIANGU (TAIPEI CINESE, FRANCIA)

COPPA VOLPI per la MIGLIORE INTERPRETAZIONE FEMMINILE ELENA COTTA nel fil VIA CASTELLANA BANDIERA di EMMA DANTE (ITALIA, SVIZZERA, FRANCIA)

COPPA VOLPI per la MIGLIORE INTERPRETAZIONE MASCHILE THEMIS PANOU per MISS VIOLENCE di ALEXANDROS AVRANAS (GRECIA)

PREMIO MARCELLO MASTROIANNI a un giovane attore o attrice emergente TYE SHERIDAN per JOE di DAVID GORDON GREEN (USA)

PREMIO PER LA MIGLIORE SCENEGGIATURA STEVE COOGAN e JEFF POPE per PHILOMENA di STEPHEN FREARS (REGNO UNITO)

PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA DIE FRAU DES POLIZISTEN di PHILIP GRÖNING (GERMANIA)

LEONE D'ORO ALLA CARRIERA 2013 WILLIAM FRIEDKIN

LEONE DEL FUTURO - PREMIO VENEZIA OPERA PRIMA (LUIGI DE LAURENTIIS) WHITE SHADOW di NOAZ DESHE (ITALIA, GERMANIA, TANZANIA)

PREMIO ORIZZONTI PER IL MIGLIOR FILM EASTERN BOYS di ROBIN CAMPILLO (FRANCIA)

PREMIO ORIZZONTI PER LA MIGLIORE REGIA UBERTO PASOLINI per STILL LIFE (REGNO UNITO, ITALIA)

PREMIO SPECIALE DELLA GIURIA ORIZZONTI RUIN di MICHAEL CODY E AMIEL COURTIN-WILSON (AUSTRALIA)

PREMIO SPECIALE ORIZZONTI PER IL CONTENUTO INNOVATIVO MAHI VA GORBEH di SHAHRAM MOKRI (IRAN)

PREMIO ORIZZONTI PER IL MIGLIOR CORTOMETRAGGIO KUSH di SHUBHASHISH BHUTIANI (INDIA)

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INTERVISTA AD ALBA ROHRWACHER di Lucilla Colonna A Venezia 70 per presentare le sue due nuove interpretazioni, Alba è Chiara in Via Castellana Bandiera (recensito fra i film In Concorso a pag. 70) e Stella nel mediometraggio Con il fiato sospeso (pag. 38). Questi sono i ricordi, le emozioni e gli auspici che ha confidato a Taxi Drivers Magazine.

tuose. Il mio auspicio è che non rappresenti un evento, ma diventi un fatto scontato.

Dopo tanti anni e tanti film è tornata a farsi dirigere dall'esigente e severa Emma Dante a cui deve la propria formazione teatrale degli esordi. Come è stato questo nuovo incontro e che segno lascia?

Conosce bene la Mostra del Cinema perchè ci viene da anni e nel 2011 ha fatto parte della Considero Emma un punto di riferimento del mio percorso formativo, un Maestro più che giuria. Cosa pensa del festival? una maestra. E sono felice di essere qui con il È un festival dove è un onore poter parteci- suo primo film, che considero libero, coragpare con un lavoro. È imprevedibile, a volte gioso e innovativo. Per quanto riguarda la sedurissimo. Ogni volta l'emozione è sempre verità, se è accompagnata da intuizioni che grande. Mi è capitato di essere in concorso, hanno del miracoloso, ben venga. Io condiin passato, con film a cui sono molto affezio- vido il suo approccio al lavoro, in cui la discinata, come Il papà di Giovanna di Pupi Avati plina e il rigore si sposano con la dedizione (per il quale l'attrice ha ricevuto il Premio assoluta verso questo mestiere e con un David di Donatello, ndR) e La solitudine dei amore infinito. numeri primi di Saverio Costanzo. Invece, tra i film presentati Fuori Concorso, sono legata Cosa la porta a scegliere di interpretare un in particolare a Sorelle mai e a Io sono film tratto da una storia vera come quello di l'amore. Ma ho ricordi molto forti anche dei Costanza Quatriglio, anche se inizialmente il primi tempi in cui facevo parte del pubblico, progetto contava sulla buona volontà dei erano gli anni in cui frequentavo l'università e partecipanti e solo in seguito ha trovato un venivo da spettatrice. Poi, sono veramente grata a Marco Müller per avermi fatto parte- produttore e un distributore? cipare alla giuria: avere la possibilità di vedere film importanti e poterne discutere con Con il fiato sospeso ha trovato molti ostacoli: persone che fanno questo mestiere è stata era un progetto totalmente autosostenuto ed è nato solo grazie alla determinazione dei un'esperienza profonda e formativa. pochi che ci hanno lavorato insieme a CoSua sorella Alice è una regista esordiente stanza e a me. Io ho creduto a quello in cui insignita del Nastro d'Argento e lei è a Vene- credeva Costanza e il fatto che sia divenuto zia 70 per la presentazione di due film diretti un film capace di porre domande allo spettada registe. Pensa che sia arrivato finalmente il tore, su un tema che era caduto nel silenzio, momento della riscossa per le donne alla significa che è valso la pena farlo. regia? Vuole aggiungere qualcosa per i lettori di Non so se sia arrivato il momento, ma penso Taxi Drivers Magazine? sia giusto che le donne abbiano lo stesso spazio riservato agli uomini. Mi fate notare Quello che posso dire è che Via Castellana che io sono qui con i lavori di due registe Bandiera esce in sala il 19 settembre, spero donne, entrambe personalità forti e talen- che vadano a vederlo e che gli piaccia.


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EMMA DANTE

COSTANZA QUATRIGLIO


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La famiglia del padre-padrone di Vittorio Zenardi

Con questo suo secondo lungometraggio Alexandros Avranas colpisce dritto al cuore passando però prima dallo stomaco. Forte, coraggioso, violento con uno stile asciutto al limite del minimale, il regista greco filma l’archetipo del male, nell’aspetto più subdolo, quello che nasce dentro le mura domestiche. La sequenza iniziale ci catapulta subito nell’inferno costruito ad hoc dal viscido nonno/padre/padrone (Themis Panou). Il più classico dei compleanni in famiglia si trasforma rapidamente in tragedia. La festeggiata, l’undicenne Angeliki (Sissy Toumasi) si butta giù dal balcone e muore, non prima di averci regalato un’inquietante sguardo in macchina con un sorriso stampato sul volto che decifreremo con lo scorrere della pellicola. La macchina da presa inquadra dall’alto in una verticalità rosselliniana il corpo inerme e sanguinante della ragazza mentre a poco a poco accorrono i familiari. Benvenuti nel cinema di Avranas che, seguendo lo stile della “nouvelle vague greca” degli ultimi anni, non fa sconti sul piano della violenza visiva e contenutistica affrontando temi come l’incesto, la pedofilia e l’esercizio del potere. La famiglia è gerarchicamente organizzata dal nonno/padre in modo da annientare le vite dei componenti che devono sottostare in tutto e per tutto al volere del capo. La figlia (Eleni Rossinou) in-

sieme alla madre (Reni Pitaki) paiono assuefatte alle violenze che il padre infigge a loro e non riescono a proteggere nemmeno i componenti più piccoli del nucleo familiare. Una sorta di nausea cresce in noi nel vedere come il viscido protagonista consideri le componenti femminili come corpi da usare o meri oggetti di scambio. Ma quello che il regista riesce a esprimere meglio è la rassegnata accettazione delle vittime, succubi di una forma mentale inculcata con metodica precisione. Proprio a questo riguardo in conferenza stampa Avranas ha sottolineato: «Il padre comanda e stabilisce in che modo la famiglia debba funzionare con metodi che non sono molto diversi da quelli usati per manipolare la società. La violenza più efferata è quella del silenzio. Del non detto». Una chiara critica alla società contemporanea, che finge di non vedere certe situazioni, come fanno nel film gli assistenti sociali. L’uccisione dell’orco pare portare ad una libertà solo apparente che dura lo spazio di un soffio. La sequenza finale, con la madre che in atteggiamento marziale dice di chiudere la porta, che viene inquadrata dall’esterno, segna un neanche tanto metaforico passaggio di consegne. In una sorta di mito circolare di pasoliniana memoria.


MISS VIOLENCE Leone d’Argento per la Miglior Regia e Coppa Volpi a Themis Panou

Alexandros Avranas

2013

: Grecia

: Drammatico

: 99’


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UNDER THE SKIN Jonathan Glazer

2013

: Regno Unito

: Fantascienza

: 107’

Sguardo alieno di Vittorio Zenardi Tratto dal romanzo omonimo di Michel Faber, Under the Skin del regista britannico Jonathan Glazer si basa su una concezione di cinema come esperienza fondata su immagini mentali. Nella sequenza iniziale il dettaglio di un occhio ci fissa: uno sguardo-altro, che scandisce l’intero film. La bella Scarlett Johansson, aliena con fattezze umane, è arrivata sulla terra in cerca di uomini da rapire. Il suo girovagare alla ricerca delle prede viene mostrato in stile road-movie. In conferenza stampa Glazer ha spiegato come ha girato queste scene: «Ho utilizzato otto piccole cineprese nascoste nel furgone, in modo da avere otto angolazioni diverse e poter filmare senza essere visto per dare il più possibile il senso di spontaneità, di reale. Il mio intento era quello di mostrare il mondo con gli occhi di un alieno». La storia lascia molto all’immaginazione che però non si tramuta in mistero rima-

nendo inespressa. Alcune immagini sono comunque di notevole impatto visivo, al limite del cinema sperimentale, come quelle degli uomini che affondano in un mare nero o paiono sgonfiarsi di colpo. Vengono apprezzate anche grazie alla calibrata colonna sonora di Mica Levi che aiuta ad immergersi nell’atmosfera del film. La Johansson nella sua interpretazione anaffettiva rende bene il personaggio (segno di un duro impegno), mettendosi a nudo, e non solo metaforicamente. Nell’incontro con la stampa ha dichiarato: «Lavorare a questo film è stato come una sorta di terapia, è stata un’esperienza molto diversa dai miei film precedenti, ho avuto paura». Il finale dove la protagonista ci mostra finalmente cosa c’è “under the skin” e fissa la sua faccia umana risulta particolarmente riuscito, peccato per il ritmo complessivo che non trasmette la giusta intensità.


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NIGHT MOVES Kelly Reichardt

2013

: USA

: Drammatico

: 112’

Estremismi buoni ed estremismi cattivi di Rita Andreetti La terza giornata di kermesse veneziana ha richiamato sul palcoscenico della sezione In Concorso due prodotti di critica antropologica attuale sulla società americana. Si tratta di Joe di David Gordon Green e Night Moves di Kelly Reichardt. Se poi a questi aggiungiamo il contributo di Schrader, Fuori Concorso con il suo The Canyons, lo spaccato d’oltreoceano inusuale, da nuovi punti di vista, è completo. L’opera di Kelly Reichardt è una storia con un’ascesa e un precipizio: in principio è una dinamica e strutturata indagine, un po’ politica un po’ sociale, sul tema dell’attivismo ecologista; a seguire, collassa nel tentativo di risoluzione thriller, che purtroppo si esaurisce un po’ goffamente. O meglio, si esaurisce in una tragedia dallo stampo un pò retro, velatamente citazionista di Hitchcock, ma che per tempo e luogo non pare del tutto appropriata. Ciononostante, il film ci permette di osservare da vicino quell’interessante coscienza ecologista, talvolta estrema, che guida la vita dei tre protagonisti. Dalle fattorie eco-sostenibili, in fuga dai ritmi borghesi e dal sistema consumista, Josh, Dena e Harmon hanno progettato un’azione plateale nel tentativo di svegliare le masse e sensibilizzarle alla questione dell’esaurimento delle risorse e dell’inquinamento. Il loro obiettivo è quello di far esplodere una diga idroelettrica, un mostro artificiale che ha modificato definitivamente i connotati della zona circostante. Non c’è in loro alcuna volontà di colpire la popolazione, ma qualcosa va storto; a quel punto, i tre si trovano a doversi confrontare con le proprie coscienze, che gridano dall’interno, ciascuna con una intensità differente. Lo spunto più forte offerto da Night Moves, ovviamente, riguarda il limite della legittimità di

certe azioni, volte al bene comune, ma che arrivano a superare il confine del legale, e a volte dell’umano. Altrettanto interessante è il percorso di analisi di quello che sta alle spalle delle motivazioni del gesto: dapprima inteso come una bomba per colpire i potenti e il sistema, ma poi rivisto come un fallimento o addirittura un boomerang pericoloso. Dakota Fanning è Dena, Peter Sarsgaard è Harmon; nei panni di Josh invece, il Jesse Einsberg di The Social Network, qui ben più spento, introverso, quasi monoespressivo. Così pure la musica, che non arriva ad impressionare né per arrangiamento né per presenza, seppure le occasioni per esprimersi non manchino. Night Moves è purtroppo un classico esempio di film a metà, che acchiappa per originalità di spunti, ma poi si abbandona nella ricerca forzata di una classicità risolutiva e narrativa, che stona con la modernità degli eventi. Avvincente, ma poi vinto e trascinato a valle con le acque del fiume.


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L’ ‘altro’ che abita in noi di Maria Cera Mi immergo nella selezione ufficiale già dal vivo da un pezzo, con una pellicola che attendevo. Non solo io, naturalmente. Xavier Dolan è il più giovane regista presente nella storia del concorso ufficiale di Venezia. Canadese (figlio dell’attore Manuel Tadros), enfant prodige del fare (inizia a vedere le prime pellicole a 16 anni e a 18 decide di cominciare a girare film), con già all’attivo tre lungometraggi (il ciclo dell’amore impossibile) prima di arrivare alla prova di maturità a cui ho assistito con Tom à la ferme. Molto determinato (il suo sguardo in conferenza stampa me lo ha rivelato al di là dell’accattivante e penetrante interpretazione resa in veste anche di attore protagonista nel film), con un rigore che è volontà di rendere attraverso il linguaggio cinematografico l’estetica e l’etica del proprio fare arte, ha felicemente spiazzato le valutazioni da acerbo visionario, che il precedente Laurence Anyways (presentato nel 2012 a Cannes in Un certain regards) mi avevano trasmesso. Tom à la ferme si avvale di un’estetica completamente diversa, che annulla, nell’abbracciare un genere (il thriller psicologico), i cliché (sia visivi che di tratteggio dei personaggi) che avevano invece impresso il suo precedente lavoro. Ed è un lungometraggio totalmente autoriale, che si lega appena agli angoli di un thriller e di una psiche da deviazione standardizzata, scavando con straordinaria profondità simbolica, visiva e narrativa nella nevrosi di due esseri che cercano di colmare i rispettivi vuoti. Originata dall’omonima pièce teatrale di Michel Marc Bouchard, con il quale Dolan ha lavorato nella stesura della sceneggiatura, nell’ampliamento della ricostruzione filmica. Folgorato

dallo spettacolo teatrale a cui aveva assistito nel 2011, il giovane regista ha voluto trasformare quel crogiuolo di ambivalenze e implosioni esistenziali che aveva davanti in visione, portando sullo schermo il limbo territoriale e mentale della fattoria e dei meccanismi ancestrali e di sangue, corrosivi fino all’osso delle coscienze di coloro che lo popolano e di chi vi rimane irretito. Il pennarello blu rilascia su un pezzo di carta assorbente la disperazione di una perdita: Tom (Xavier Dolan), giovane creativo pubblicitario, abbraccia, tutta intera (nell’accingersi a raggiungere in auto il luogo dove sarà sepolto il suo compagno), l’espiazione di un vuoto che sente incolmabile. Attraversando il mare verde del Quebec agricolo, placidamente calmo nelle colture, granai, case che accostano il suo passaggio, si lascia alle spalle la città, la propria realtà, dentro il dolore di una vera e propria amputazione subita: l’altra metà strappatagli via per sempre. Assenza: un’apparente mancanza di vita circonda la casa grande ed isolata, assediata come un’isola, insieme alla stalla e ad altri capanni, dai campi. Tom riesce ad entrare e si addormenta in cucina. L’interno è sfatto, lasciato a se stesso. È svegliato dall’arrivo di una donna. Da quel momento il giovane è risucchiato in un luogo, in un tempo, fisico e mentale, del quale assaporerà il fascino ambivalente di una corruzione-contaminazione alimentata dagli stessi suoi componenti: Agathe, la madre e vedova (Lise Roy) completamente anestetizzata nell’impotenza di un ‘vivere di terra’ asfissiante e duro-isolato. Vuota e morta, attaccata alla menzogna su un figlio la cui omosessualità le è stata negata come un marchio aberrante dal quale


TOM À LA FERME Xavier Dolan

2013

: Francia, Canada

preservarla. Il suo protettore/prigioniero è Francis (Pierre-Yves Cardinal), l’altro e unico figlio restatole accanto. Francis piomba addosso a Tom, lo circonda-circuisce con una forza ed una violenza che è insieme fisica e psicologica: lui conosce il segreto del fratello e non vuole che emerga, in nessun modo. Lo tocca, lo stringe, lo schiaffeggia, lo picchia brutalmente: Tom più volte tenta di abbandonare quel luogo, ma non ci riesce. Quella famiglia sembra appartenergli, così come la mungitura della vacche, la nascita di un vitello… Il contatto col sangue, con la terra, lo commuove e lo terrorizza, insieme. L’ambivalenza e la complicità di Francis è una repulsione-attrazione che lo acceca: Tom non riesce a tornare alla realtà, alla consapevolezza di una corrosione ormai irreversibile, per quegli esseri. La abbraccia e la fa propria. Nessuno riesce a dissuaderlo, neppure Shara, chiamata da lui stesso dalla città, ultimo aiuto estremo per riuscire a scappare. Non servirà, nonostante la verità che la giovane donna, lucidamente, le spiattellerà addosso: Tom resta. Andrà via soltanto quando sentirà la violenza di Francis sugli altri, su colui che l’ha, in maniera abominevole, subita. Lo shock di quella scoperta lo risveglierà e lo salverà. Dolan usa la macchina da presa con una in-

Drammatico

: 95’

credibile maturità, attanagliando in maniera sinuosa e prossima i corpi delle due psicologie maschili che interfacciano-si scontrano in una repulsione attrazione ambigua e seducente. Anche in una visione ambientale alternata tra lunghi carrelli, vedute aeree, primissimi piani, variazioni di formato: quadri che accentuano e isolano l’ambiente e i personaggi, alienando e “mentalizzando” i contorni della materia che li contiene. La sceneggiatura, ben scritta nella caratterizzazione dei personaggi e della claustrofobia locale-mentale di madre e figlio, che si aggrappano al nuovo venuto come ad una eco di salvezza, tirandoselo appresso nel loro delirio silenzioso (Agathe), violento e feroce (Francis), struttura la narrazione in un crescendo di tensione e di orrore, la cui scia non si consuma ma rimane come una coda perenne e subdola: quell’ ‘alterità’ da cui sempre rifuggiamo e che respiriamo appena venuti al mondo, anch’essa parte di noi fino alla fine. La musica dell’eccentrico e fine percettore Gabriel Yared, assembla questo magma, potenziando gli effetti percettivi di uno stato mentale. Eccellenti tutti gli interpreti principali, PierreYves Cardinal in testa, diabolico e perverso, impotente nel suo urlo di aiuto che attraverso la sua feroce violenza, esterna.


60

JOE Premio Marcello Mastroianni a Tye Sheridan

David Gordon Green

2013

: USA

: Drammatico

: 117’

Il talento di Nicolas Cage di Vittorio Zenardi Dopo il premio per la miglior regia vinto a Berlino con Prince Avalanche, David Gordon Green si presenta al Lido con Joe, opera stilisticamente ben fatta ma con un mood già ampiamente rivisto. Il regista pone l’accento su quella che in America viene chiamata “White Trash”, gente ai margini della società, culturalmente arretrata e dedita ad alcol e violenza. Le atmosfere ricordano lo splendido Low Tide di Minervini visto lo scorso anno Fuori Concorso e anche Killer Joe di Friedkin. Questa sensazione di calligrafismo viene attenuata dall’ottima interpretazione dei due protagonisti Joe (Nicolas Cage) e Gary (Tye Sheridan), che sono riusciti a rendere credibile l’intera storia con una complicità e intensità davvero notevoli. Ispirato al romanzo di Larry Brown e sceneggiato da Gary Hawkins, il film narra l’incontro fra l’ex detenuto Joe e Gary, quindicenne con un padre violento con cui fare i conti, sempre in equilibrio precario, colto in un momento in cui può diventare buono o cattivo. Il suo percorso si intreccerà con la ricerca interiore di Joe verso una difficile redenzione. La tematica padre/figlio viene affrontata in modo crudo ma onesto mostrando che non sempre è una questione di sangue. Non riuscendo a cambiare la sua vita Joe cercherà di rendere migliore quella del ragazzo, prendendosi cura di lui fino alle estreme conseguenze. In conferenza stampa Nicolas Cage ha parlato del suo modo d’intendere il mestiere dell’attore e del personaggio interpretato nel film, dichiarando: «Non mi piace il termine recitare, io nei miei personaggi cerco

sempre la verità e voglio che questo venga fuori sullo schermo. Non mi sono veramente ubriacato per interpretare il personaggio ma ho cercato un punto di contatto per rendere il tutto reale. Ritengo che Joe non sia un perdente ma una persona coerente con il suo codice d’onore». Sicuramente un’opera che esalta il talento di Cage avvezzo a sporgersi al di fuori dei suoi confini.


61

CHILD OF GOD James Franco

2013

: USA

Drammatico

: 104’

Necrofilia e incomunicabilità di Vittorio Zenardi James Franco porta in concorso un’opera spigolosa e scorretta, un vero e proprio studio sull’attore. Memore della solitudine affrontata nell’interpretazione di Aron Ralston in 127 ore, il regista americano mette alla prova l’ottimo Scott Haze sfidandolo a confrontarsi con i propri limiti. Il film è basato sull’omonimo romanzo di Cormac McCarthy e ispirato a Ed Gein, killer realmente esistito negli anni Cinquanta che ha inoltre ispirato il libro Psycho di Robert Bloch. Una voce narrante ci introduce nella disgraziata vita di Lester Ballard (Scott Haze), antieroe che, rimasto dapprima senza i genitori e poi privato della casa, cercherà di vivere al di fuori dell’ordine sociale, sprofondando esistenzialmente e materialmente al livello di un cavernicolo. Non c’è via d’uscita nella vita di questo personaggio che a poco a poco si abbandona alla degenerazione e al crimine. Franco ha il pregio di accostarci a questa escalation in modo graduale, suscitando in noi una certa simpatia per Laster che sembra vittima di episodi sfavorevoli, fino a poi mostrarcelo in atti di necrofila e violenza gratuita. Il contatto con l’altro può avvenire per Laster solo a favore di oggetti inanimati – si veda il caso dei pupazzi vinti ad una fiera o dei cadaveri. Solo con chi non può giudicarlo in un delirante dialogo a senso unico. La scena del corteggiamento con la ragazza morta divenuta ormai di ghiaccio e la scarica di proiettili ai pupazzi rei di complottare contro di lui sono esemplari in questo senso. E in questa direzione ci spinge anche

il regista che in conferenza stampa ha detto: «Volevo mostrare, in un modo certamente intenso, che cosa significhi volersi disperatamente collegare ad altri esseri umani e non essere capaci di farlo. È stato, questo, il nostro approccio: presentare un uomo desideroso di comunicare con i morti in quanto erano i soli che non l’avrebbero rifiutato». Nel cuore di un selvaggio Tennessee, Franco non ci risparmia niente, mostrandoci Laster intento a defecare, masturbarsi e accoppiarsi con cadaveri, sempre con uno sguardo asettico quasi documentaristico. Per qualcuno può essere troppo ma il regista spiega: «Nella sfera dell’arte un personaggio come Laster può essere utilizzato per studiare ciò che c’è dentro ciascuno di noi».


62

Un commiato? di Rita Andreetti Quando un film di Hayao Miyazaki arriva in sala, il calore dei suoi disegni colorati, delle sue fantasie spettacolari, delle forme che si deformano e diventano sempre qualcosa di più magnifico e impressionante, tutto questo, scalda l’animo delle platee e per quel frangente ci fa volare in alto. Questo perché nei film di Miyazaki non possono certo mancare le macchine volanti: il volo è la sublimazione del sogno, nella bolla fantastica del suo mondo dalle forme gonfie, dalle campiture dense e dal tratto unico e inconfondibile; il volo è anche una componente strutturante la sua infanzia, poiché il padre fabbricava aerei; il volo è letteralmente la forma di commiato scelta dal regista che, al superamento dei trent’anni di carriera, ha deciso di cedere il passo. L’annuncio è stato fatto informalmente a Venezia e verrà seguito in maniera ufficiale da una conferenza stampa a Tokyo nel mese di ottobre. The wind rises, tuttavia, ha qualcosa di reale, come se i fantasiosi voli pindarici di tutti questi anni, lassù nei cieli della fantasia, avessero richiesto una forma di chiusura con un progetto che è tra quelli più sentiti narrativamente e più vicini, appunto, all’intimità del regista. L’ispirazione deriva da un personaggio esistito, Jiro Horikoshi, un ingegnere aeronautico che ha modificato la storia dell’aviazione giapponese con un progetto di velivolo bellico, lo Zero. Nei sogni di bambino e di adulto, Jiro ritrova una guida e un modello professionale, il conte Gianni Caproni, progettista anch’egli, figura cardine nella storia dell’invenzione bellica italiana, negli anni della Prima Guerra.

Jiro è un ragazzo brillante e caparbio, che insegue il suo sogno sin da bambino, quando realizza che a causa della sua miopia non potrà mai pilotare un aereo. La sua parziale privazione gli regala enorme forza per far decollare la sua attività dietro il tavolo da disegno, presso la Mitsubishi, all’inseguimento di un modello di aereo splendido e perfetto. Sebbene il personaggio rimanga il centro emotivo di The wind rises, il contesto storico ha una sua affascinante importanza, in particolare per i vent’anni che transitano attraverso la Prima Guerra Mondiale, il terremoto di Kanto del 1923, la Grande Depressione o il più tardivo fascismo. Il progetto di Jiro è un brillante percorso ingegneristico che muove il Giappone dall’arretratezza tecnologica verso l’evoluzione produttiva e il recupero di competitività industriale. Miyazaki, anche questa volta, è riuscito nell’intento di creare una storia animata per tutti. Una favola meravigliosa dove l’eroe compie un viaggio di crescita e di successo per nulla banale, in un periodo denso di cambiamenti e rivoluzioni, ricco di citazioni letterarie e pure critiche all’operato discutibile della potenza (la guerra con la Cina e il Maciukuò, per citarne alcuni). Il tentativo ostinato di Jiro, che è una vera e propria vocazione di vita per il suo aereo a spina di sgombro, si scontra nella mente del protagonista e del regista stesso, contro la finalità del mezzo: gli intenti malvagi delle creature volanti, che rimangono vincolate all’uso bellico pur nella loro bellezza e meraviglia, battagliano esteticamente con il pacifismo dell’autore e del suo alter ego.


THE WIND RISES Hayao Miyazaki

2013

: Giappone

Animazione

: 126’


THE WIND RISES

Eppure, tutto ciò non sminuisce il valore del protagonista, che pare quasi scollato dalla finalità diretta di quei mezzi, sospeso nell’oblio delle sue visioni e avvolto dall’idillio dell’amore perfetto. In effetti, la vita di Jiro è come fosse una duplice storia d’amore, con il cielo e con Naoko; un incontro predestinato, pare, con il quale Miyazaki vuole mostrare l’assoluta sublimazione del genio di Jiro: la sua capacità di creare si lega indissolubilmente all’amore che riceve da Naoko, come se le esistenze di entrambi si completassero emotivamente e fisicamente nel rapporto di coppia. Questa volta il rapporto raccontato pare così reale, da affrontare la povertà, la malattia, addirittura il contatto fisico e sessuale, avvolto in una densa atmosfera poetica ed emozionale dai tratti tipicamente orientali. Grazie a personaggi abilmente ritratti e caratterizzati, il film include le fasi dell’innamoramento (in un'elegante danza eolica), la sofferenza dissimulata, la rabbia e le lacrime profuse. Curato nel dettaglio il rapporto con l’ingegnere Caproni, mentore e consigliere fantastico, che è non soltanto un omaggio al

Bel Paese (così come il vino che ritorna qua e là), ma un premio alla condotta di vita: Le vent se lève, il faut tenter de vivre, risuona ridondante per tutto il film. Rimarrà poi nel cuore il personaggio di Kurokawa, quell’ingegnere bassetto con i capelli saltellanti, che non può prescindere dall’essere ostinatamente scorbutico, ma non risparmia lacrime e goffe gentilezze per il suo geniale protetto. Nei mondi di Miyazaki, i problemi sembrano banalmente solo quel gradino in più da salire per potersi avvicinare alla perfezione della meta; la sua abilità nel raccontare è imprescindibile dalla rettitudine della cultura giapponese di cui, in questo film, è arrivato a celebrare addirittura il percorso storico. Non credo ci si possa aspettare altrettanto facilmente quel talento nell’esaltare la dignità di storie globali su una identità totalmente nazionale, egregiamente nazionale. Alla storia dell’animazione mondiale, come pure a me, personalmente, mancheranno profondamente tutti i Totoro, le Nausicaa, gli Howl e gli altri figli di questo padre procreatore di fantasia che ci ha cresciuto nei suoi cieli incantati.


65

THE UNKNOWN KNOWN Erol Morris

2013

: USA

: Documentario

: 105’

Lo schermo reale di Vittorio Zenardi Presentato in concorso The Unknown Known, primo documentario dei due in concorso (l’altro è Sacro GRA di Gianfranco Rosi), del pluripremiato Erol Morris, Oscar nel 2003 con The Fog of War. Il documentario, incentrato sulla figura enigmatica e controversa di Donald Rumsfeld, per più di quarant’anni nella stanza dei bottoni americana (dal 1962 anno della sua elezione alla Camera dei Rappresentanti a solo trent’anni fino al 2006), inizia con un gioco di parole: «C’è il noto noto; sono le cose che sappiamo di sapere. C’è il noto ignoto; ovvero ci sono cose che ora sappiamo di non sapere. Ma c’è anche l’ignoto ignoto; sono cose che non sappiamo di non sapere». Si aggiunge anche una quarta combinazione quella dell’”ignoto noto”, cioè le cose che sappiamo di non sapere e che non verranno mai alla luce. Nella lunga intervista faccia a faccia con il regista (che non apparirà mai sullo schermo), lo scrittore/attore Rumsfeld scandisce le tappe più importanti della sua carriera leggendo una scelta dei suoi “fiocchi di neve”, ovvero le decine di migliaia di appunti annotati nel periodo in cui fu membro del Congresso. Si calcola che solo nei suoi ultimi 6 anni di lavoro al Pentagono ne scrisse 20.000. Oltre a far venir fuori il fine stratega, il documentario evidenzia le sue eccezionali doti comunicative, quella capacità di eludere con battute e “colpi di teatro” le domande più insidiose dei giornalisti creando anche un vero e proprio vocabolario del pentagono. Termini come “armi non convenzionali”, “guerriglia” e altri ancora vengono

creati e plasmati per condizionare il nemico, infatti dichiarerà: «Ci sono parole che avvantaggiano e fanno bene al nemico ed altre che servono ad indebolirlo». Mentre viene interrogato sugli scandalosi fatti accaduti nel campo di prigionia di Guantánamo, vengono riproposte le shockanti fotografie che hanno fatto il giro del mondo. Si difenderà parlando di militari fuori controllo non autorizzati da lui, ammetterà solo di aver acconsentito a costrizioni di lieve entità. Dichiarando: «Tutte le generazioni sono false» ammette che la verità non è stata e mai sarà funzionale alle scelte politiche e militari. Prosegue: «Certi fatti accadranno sempre, la guerra sarà sempre necessaria. Dovremmo sempre chiedere aiuto ai nostri ragazzi». Per Rumsfeld non esistono scelte sbagliate in assoluto, ma priorità da soddisfare che comportano sempre un rischio. Non importa se a farne le spese sono giovani vite umane perché questo fa parte del gioco. Un’opera da vedere, anche se Morris non affonda il colpo perdendo l’occasione di mostrare i veri interessi, le incongruenze e i paradossi che stanno dietro alle guerre.


66

Violenza domestica di Vittorio Zenardi

Philip Gröning può essere definito un regista multitasking visto che cura personalmente la produzione, la sceneggiatura, il montaggio e alcuni parti della fotografia. Die Frau des Polizisten parte da tre apparentemente semplici domande: che cosa trasmetti come essere umano? Trasmetti la distruzione che tu hai subito? O trasmetti l’amore che hai provato? Domande semplici con risposte che possono arrivare soltanto dalla vita, strada facendo. Per cercare la nostra personale risposta Gröning ci porta dentro una famiglia all’apparenza normale, formata da una coppia: Uwe (David Zimmerschied) di professione poliziotto e la moglie Christine (Alexandra Finder), che vivono in una cittadina di provincia con la figlia Clara (Pia e Chiara Kleemann). L’opera divisa in cinquantanove capitoli, alcuni della durata di pochi minuti scandisce la quotidianità della famiglia, intervallata da alcuni immagini del protagonista da vecchio, come quella in cui guarda in macchina immerso in un panorama glaciale o ritratto nella propria cucina. Con lo scorrere della pellicola entriamo in un incubo fatto di violenza domestica: Uwe infatti picchia la moglie con inaudita ferocia facendo prevalere la sua parte distruttiva e Christine non sembra riuscire a ribellarsi, come ingabbiata in una sorta di sindrome di Stoccolma. Emblematica la scena in cui dopo aver gridato al marito di lasciarla in pace e di andare via si

prostra ai suoi piedi, implorandolo di restare con lei. Da madre amorevole cerca di fare scudo alla piccola tentando di salvargli l’anima per mantenerla intatta. Il corpo martoriato dai lividi blu ci viene mostrato a poco a poco, quasi con pudore. La macchina da presa indugia sugli ematomi, come disgustata da tanta violenza. Due inquadrature rimangono impresse per la loro forza espressiva e bellezza: quella dei due corpi nudi sul letto, con lui in posizione fetale e lei accanto distesa, ripresi dall’alto, e quella in cui madre e bambina fanno il bagno nella vasca. Quest’ultima, molto suggestiva, è realizzata con uno zoom all’indietro e grazie ad un grandangolo fa sembrare gigante la vasca, tramutandola in una immensa piscina dove la piccola può fare capriole, in una delle rare scene dove Christine appare serena. Un’opera complessa che nella prima ora irrita e disorienta lo spettatore per la sua struttura disconnessa. Arrivati alla fine però il tutto risulta necessario all’economia del racconto. Gröning si dimostra un ottimo direttore di attori dotato di una sua personalissima estetica e cifra stilistica. Un’opera che per essere apprezzata va lasciata sedimentare permettendogli di trovare il suo senso. E chi non dovesse trovarlo non si preoccupi, infatti come ha dichiarato il regista: «È il tema a scegliere come sarà il film, questo e’ un esercizio brechtiano, per vedere come è l’essere umano».


DIE FRAU DES POLIZISTEN Premio Speciale della Giuria

Philip Gröning

2013

: Germania

Drammatico

: 175’


68

Waltz nel mondo Gilliam di Rita Andreetti

Mutevole e carismatico, Christoph Waltz è esattamente uno di quegli attori che cambia le sorti di un film una volta inserito nel cast. È una materia multiforme che si adatta fino al midollo al ruolo che gli viene assegnato, pur se spogliato di qualunque forza reattiva, lasciato preda dell’inettitudine e della passività della vita del personaggio. Waltz è Qohen Leth, un contabile di una ditta dall’occupazione oscura, disilluso dalla vita, in perpetua attesa di una telefonata rivelatrice che sembra non arrivare mai. Eccentrico e pessimista, Qohen vive in una chiesa sconsacrata un pò malmessa, una volta casa di monaci gnostici che, per rispettare il voto di silenzio, l’hanno lasciata preda delle fiamme. Egli si rivolge a se stesso con il pluralis maiestatis e ha serie difficoltà di socializzazione. Il responsabile dell’azienda, Management (Matt Damon), vede in lui un talento nascosto e decide di affidargli una missione impossibile: lo studio del teorema zero. L’incarico mette letteralmente in discussione le convinzioni di Qohen, fino a ribaltare le sua concezione della realtà e dare ragione alla sua personale fuga nell’illusione. Non si può certo dire che Terry Gilliam abbia superato se stesso nella sua ultima opera The Zero Theorem. Tuttavia, il film trasuda un autocitazionismo quasi piacevole (Parnassus, le scimmie e anche Las Vegas), riciclando pure un po’ di fantasy posticcio degli anni Ottanta. Il mondo di Qohen è colorato, gommoso e tecnologico, tanto che

pare una specie di versione Oompa-Loompa del futuro: non sembra così improbabile che Gillian, inglese di adozione, possa essersi ispirato ai mondi fantastici di Roald Dahl e ai suoi personaggi brutti e cattivi, ma mai davvero condannabili (Tilda Swinton, qui irriconoscibile, interpreta una psicanalista che pare più una fattucchiera, ripugnante e sdentata). Ottima la costruzione della scena operata da David Warren ed esilarante sapere che, per vestire i personaggi, si sia ricorsi a tessuti a prezzi stracciati comprati ai mercatini cinesi. Del resto, tutto il film è un’operazione low budget a cui Gilliam non ha voluto cedere, portando a termine il sogno fantascientifico ideato da Pat Rushin. Una venatura critica religiosa rimbalza tra la realtà spiata dalle videocamere e la presenza di un Grande Fratello frainteso: Cristo in croce qui è un corpo decapitato con un obiettivo che registra al posto della testa, e la fede è sinonimo di incoscienza. Tuttavia, sul finale, ci rendiamo conto di come la felicità appartenga al mondo che noi ci costruiamo, alle sensazioni che noi scegliamo di vivere, più che a ciò che ci aspettiamo possa piovere dal cielo: la formula di Qohen è vincente…seppure perdente. Le sue insistenti domande trovano una risposta che è tanto una autoimplosione quanto un'apertura fantastica sull’universo dei sogni. Come a preannunciare una fuga verso l’interno quando l’esterno ci farà sentire troppo controllati per poter sopravvivere serenamente.


THE ZERO THEOREM Terry Gilliam

2013

: Gran Bretagna, USA, Romania

Drammatico

: 107’


70

Dante, Cotta e Rohrwacher: tutte le donne del nostro film-copertina di Elisabetta Colla Il debutto nella direzione cinematografica di Emma Dante, stimata attrice e regista teatrale siciliana, presentato in concorso al 70° Festival di Venezia, parte da buone premesse concettuali e da un interessante spunto metaforico, efficacemente esplicitati dalla stessa Dante, ma non produce sul pubblico l’effetto visivo/complessivo desiderato. Due donne, Rosa e Samira, s’incontrano in una viuzza stretta, quella Via Castellana Bandiera che dà il titolo al film ed all’omonimo romanzo della regista, dove è impossibile per due macchine passare contemporaneamente e nessuna delle due dame vuole cedere il passo all’altra, per l’intera durata del film: quale lettura dare di questa ostinazione? l’immobilismo di un Paese senza via d’uscita? la paralisi cui conduce l’emarginazione? “La vita non ha trama – afferma la regista – e via Castellana Bandiera è un pezzo di vita: il blocco di Rosa è mentale e l’ostruzione del quartiere una questione di principio, chiunque potrebbe superare la barriera ed essere libero ma nessuno lo fa. I legami diventano indissolubili, i patti infrangibili. Da un lato c’è l’entrata nella nassa dove vivono un partito, una società, una famiglia, dall’altro c’è Rosa, il suo amore in bilico e il precipizio in fondo alla via. Cardine è una donna anziana. Samira. Muta. Al di sopra di tutto. Come monolite. Come frangiflutto che si oppone alle correnti. Come geroglifico scalfito nella roccia. La sua tana è l’auto dove si è rifugiata. Per sempre.”

Non si può non constatare, sia pur a malincuore data l’originalità dell’idea, che nel tradurre in immagini le intenzioni, la neo-cineasta sembra finire nello stesso vicolo cieco in cui si fronteggiano le due antagoniste. Infatti, la feroce determinazione con cui l’anziana si oppone al passaggio dell’automobilista che proviene in senso contrario – nel luogo dell’improvvisata sfida – sembra, per così dire, degna di ‘miglior causa’. Non vale a spiegarla l’ampio ventaglio di possibili interpretazioni circa le ragioni del suo comportamento, e ancora meno si comprendono quelle della più giovane rivale. Certo Samira, la capostipite della famiglia di disgraziati (i Calafiore) che fa da coro alla tragedia in atto, ha il compito di preservarne l’identità, arrivando a marcare il territorio con l’orina, alla stregua degli animali. Ma l’improvvido arrivo di Rosa (la stessa Dante), altrettanto testarda ma di estrazione borghese, non sembra costituire una minaccia così pericolosa per l’universo incancrenito di un parentado composto da ‘brutti sporchi e cattivi’. Un ruolo tutto sommato marginale, benché intenso, è poi affidato a Clara, la compagna della protagonista, un’Alba Rorhwacher in versione “punkabbestia” (così viene definita dai rozzi famigli), in realtà un’anima gentile che traduce ciò che vede intorno a sé in bellissimi disegni a carboncino. Nell’operazione si distingue Elena Cotta, che ammanta di ieraticità mista a follia il personaggio di Samira, mentre il piano-sequenza che chiude il film rappresenta una


VIA CASTELLANA BANDIERA Coppa Volpi per la migliore interpretazione femminile a Elena Cotta

Emma Dante

2013

: Italia, Svizzera, Francia

gradita uscita dal clima claustrofobico fino a quel momento imperante: l’interminabile fiumana di abitanti del posto, che accorre a testimoniare il catartico epilogo, lascia sperare nell’esistenza di una forza sotterranea pronta ad erompere in un liberatorio grido di rottura

: Drammatico

: 90’

di schemi precostituiti ed, apparentemente, immutabili. Nonostante la buona prova attoriale del cast maschile, gli uomini del film risultano comprimari su un ‘palcoscenico’ profondamente e dichiaratamente femminile.


72

Il piano sequenza è ritmo politico e visivo dell’utopia-possibilità di convivenza di Maria Cera Amos Gitai torna nel concorso ufficiale facendogli compiere un notevole salto di livello. Si tocca ed assorbe un visivo che è sostanza e forma, nell’unione tra sguardo e parola, alla ricerca di un ritmo. In una contemporaneità nella quale le informazioni sono scandite con una velocità che impedisce qualunque minima effettiva conoscenza, il cinema (così il cineasta in conferenza stampa) deve reinstaurarne il tempo, la comprensione, le contraddizioni su ciò che si racconta, per sondarne l’effettiva realtà- essenza. Ana Arabia è la forma politica filmica di un’utopia (possibile) che Gitai porta avanti da molti anni con il suo cinema: che Israeliani ed Palestinesi possano convivere in pace, venendosi reciprocamente incontro. Il ritmo è politico, lentezza per conoscere…Realizzare una pellicola che unisce significato e forma intorno all’infinita agonia della questione Mediorientale, significa, politicamente, anche rendere visivamente tangibile l’idea che i rapporti non vadano spezzati, ma composti nel reciproco dialogo e nel reciproco ascolto. Ecco il perché del piano sequenza. Precisamente, un piano sequenza di 85 minuti, in formato 1:25. Impossibile da realizzare fino a qualche tempo fa, tecnicamente. La vicenda di pura fiction nella quale entriamo, insieme alla sua protagonista Yael, (la gazzella Yuval Scharf), è alimentata da esistenze realmente vissute, tra cui spicca Ana, donna ebrea deportata in un campo di concentramento, che si innamora e sposa un

Arabo. Ana non c’è più, defunta, ma nel semicerchio al confine tra Jaffa e Bat Yam, in Israele, è rimasta la sua famiglia: il marito, la figlia…Insieme ad altri emarginati Arabi ed Ebrei. Yael è una giovane giornalista venuta ad indagare su questa ‘voce’: attraverserà più volte il semicerchio di mattoni e lamiere (e noi con lei), ascoltando i pezzi di vita e di verità delle persone che lo abitano, dimenticando pian piano ciò che era venuta a fare, immergendosi completamente nella scoperta in primis di un luogo che incanta, pur nella povertà e nella trascuratezza che lo caratterizzano, per l’isolamento e la quiete che contiene (anche nell’apertura inaspettata all’agrumeto-oasi di distacco dalla realtà che si rivela ai nostri occhi), per la semplicità di un costruirsi da sé il proprio habitat (e Gitai ha rimarcato anche una voluta messa in discussione, con la location scelta – da architetto qual è – dell’eccessivo ricorso al design, oggi). E nel racconto dei suoi abitanti, di un passato, le sue tradizioni, i problemi dopo la guerra, le sconfitte personali, i fallimenti, i lutti… Ma anche l’attaccamento a tutti i costi alle proprie radici, all’essenzialità di una vita vissuta con semplicità, con mezzi di sostentamento elementari. Le parole che ascoltiamo penetrano in noi come la coreografia visiva che compiamo insieme alla steadicam che lambisce, accarezza e sosta nell’avamposto dell’utopia, compiendo una danza lenta, sinuosa, con pause, ritorni, ‘circumnavigazioni’. Yael la conduce con una


ANA ARABIA Amos Gitai

2013

: Francia, Israele

grazia e un’attenzione che simboleggiano il lato attivo dell’ascolto, primo essenziale gesto reciproco per qualunque possibile dialogo. L’occhio di Gitai rende il tempo autentico che Israele e Palestina dovrebbero concedersi reciprocamente, in una coesistenza che è quotidianità, semplicità del recupero dell’essen-

Drammatico

: 84’

ziale del vivere. Del senso di umanità comune che racchiude entrambi i popoli. Mio film In Concorso preferito, per l’innovazione di linguaggio che il cineasta israeliano ha portato, concettualmente: una filosofia del tecnicismo filmico che recupera l’umanesimo che il cinema ha perduto.


74

PARKLAND Peter Landesman

2013

: USA

: Drammatico

: 93’

Ancora sul caso JFK di Elisabetta Colla Di un nuovo film sull’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, ad essere sinceri, non si sentiva l’esigenza, forse perché è molto difficile trovare qualcosa di nuovo da dire, tutto – o quasi – è stato sviscerato, analizzato, ipotizzato, in particolare dopo il filmone di Oliver Stone, JFK: un caso ancora aperto, del 1991. La lente usata dal regista Peter Landesman per guardare i tragici fatti avvenuti a Dallas il 22 novembre del 1963, e che costituiscono il nucleo centrale del film Parkland presentato in concorso al 70esimo Festival di Venezia, è quella delle persone comuni: i medici e gli infermieri dell’ospedale Parkland dove venne ricoverato Kennedy dopo l’attentato, che cercano di cambiare il turno per essere con la folla ad applaudire l’arrivo del Presidente e della moglie Jacqueline; il cineamatore che si mette in prima fila per riprendere in 8 millimetri il passaggio festoso di Kennedy e ne filmerà invece la morte in diretta, il fratello di Lee Harvey Oswald (presunto attentatore, morto a due giorni di distanza dalla sua vittima), uomo stimato e padre di famiglia che rimane sgomento quando comprende quale marchio d’infamia ricadrà per sempre su di lui e sui suoi figli; i portantini del cimitero, che si rifiutano di sollevare la bara di Lee Harvey Oswald, in segno di fedeltà a JFK. Il film, prodotto da Tom Hanks, ha un cast ragguardevole, da Marcia Gay Harden (Mystic River, Pollock), nel ruolo dell’infermiera anziana, a Paul Giamatti (Sideways, La versione di Barney), eccezionale nei panni del cineamatore il cui filmato sarà pagato a peso d’oro dai giornalisti, Jeremy Strong, piuttosto ambiguo da somigliare al personaggio

di Lee Harvey Oswald, oltre a Billy Bob Thornton e Jacki Weaver. Anche Zac Efron dà buona prova di sé, interpretando il malcapitato giovane tirocinante, il dottor Jim Carrico, cui viene recapitato (dalla security) il Presidente in fin di vita e dal quale tutti attendevano il miracolo. Il film dunque si lascia vedere, ha un ritmo serrato e tiene lo spettatore piuttosto in tensione, ma è carente nell’approfondimento dei personaggi e nell’affresco complessivo, forse più televisivo che cinematografico.


75

LES TERRASSES Merzak Allouache

2013

: Algeria, Francia

Drammatico

: 91’

Le terrazze dell’anima di Vittorio Zenardi Merzak Allouache autore di Normal! e El taaib, porta al Lido il film Es-Stouh (Les terrasses), cinque storie che si intersecano scandite dall’invito alla preghiera dei Muezzin. Luogo deputato a questi intrecci è il quartiere popolare di Algeri: Bab El-Oued. Nel corso di un’intera giornata su altrettante terrazze la bambina di una famiglia intransigente tenta di avere un rapporto “normale” con lo zio rinchiuso in una gabbia sul tetto per ragioni inconfessate. Il proprietario dell’immobile scompare dopo aver cercato ancora una volta di cacciare un’anziana donna che vive abusivamente sulla terrazza: indaga un ex ufficiale di polizia decisamente singolare. Un gruppo di ragazzi usa il tetto del palazzo come sala prove in vista di un’esibizione musicale, finché sul terrazzo adiacente si consuma il dramma di una giovane donna. Un uomo viene torturato perché non vuole firmare un misterioso documento, sotto l’occhio cinico di qualcuno che gli è in realtà molto vicino, e una piccola troupe televisiva si ritrova nel posto sbagliato nel momento sbagliato. Le terrazze diventano così metafora della complessa e tormentata società algerina. Un paese decadente dove la violenza ha raggiunto i tetti delle sue case, in passato luoghi tranquilli nei quali la gente del vicinato si incontrava e trascorreva il tempo a contemplare la baia, le colline,i l mare. Allouache costruisce una sceneggiatura attenta e convincente che scorre dall’inizio alla fine con buon ritmo. Una storia raccontata sia a livello visivo che narrativo nel migliore dei modi. I personaggi ben calibrati non risultano mai superflui o marginali ma

rendono nel loro complesso la molteplice struttura del soggetto narrato in una sorta di sineddoche. I rapporti umani si logorano con lo scorrere della pellicola. Per il regista algerino sembra non ci sia possibilità di fuga dal proprio destino. Questa mancata redenzione viene espressa a livello estetico con una fotografia color cenere soprattutto quando vengono filmati gli interni, provocando un contrasto visivo forte quando la macchina da presa, in esterno, ci mostra i meravigliosi panorami sul mare ripresi con una fotografia realista. Nell’incontro con i giornalisti il regista ha parlato della sua terra d’origine in evidenza nella sua opera: «In questo momento in cui il mondo arabo è scosso da una serie di crisi senza precedenti, l’Algeria appare invece paradossalmente serena, rivolta verso se stessa, quasi indifferente. Tiene cara la sua nuova pace recuperata dopo un decennio di cruento terrorismo. La realtà, tuttavia, è alquanto diversa».


76

Mappature emotive di un non luogo di identità ritrovate di Maria Cera Una macchina celibe di Renato Nicolini e Le città invisibili di Calvino, i due testi che contengono il parto e lo sviluppo di Sacro Gra, luce italiana in concorso nella selezione ufficiale e a caccia di un meritato premio. Gianfranco Rosi, documentarista indipendente che ha sempre cercato di coniugare racconto del reale e struttura di cinema in una forma che superi la semplice e mera rappresentazione, giunge, con questo doc, “al suo prodotto più completo” (così lui stesso in conferenza stampa). Primo lavoro su commissione che il regista ha accettato di girare non senza remore (specie per una limitazione temporale che non ha mai concesso al fluire del proprio occhio), costola visiva di un progetto più ampio avviato da Nicolò Bassetti, paesaggista urbanista che studia la storia e la complessità di luoghi e territori per valorizzarli in una rinnovata e funzionale (anche alla emotività di chi lo popola) identità. Il Sacro Gra, mappato e girato a piedi per un anno da Bassetti (e ‘compresso’ documentaristicamente dopo altri due anni di lavoro da Rosi), è il monumento stradale di Roma per eccellenza: il saturneo raccordo anulare, limbo-purgatorio di un flusso automobilistico incessante, che alienizza i suoi dintorni, fette di vita nelle quali ritrovare un pezzo di autentica umanità, di un’Italia di cui è possibile parlare in un modo diverso. Dentro panorami da altezze vertiginose per coscienza di mostro urbano che il costruire fagocitante ha prodotto, la macchina da presa ci conduce a terra, nei pezzi paesag-

gistici che compongono il puzzle del raccordo, quasi evanescenti per la singolarità degli incontri in cui ci imbattiamo: dal linguisticamente ipnotico palmologo, intento in una acutissima e raffinata guerra (anche chimica) a sterminare le larve-aliene, divoratrici delle palme della sua oasi, all’indefinibile nobile piemontese impegnato in dissertazioni di spessore, delicate e ironiche nel monolocale assegnatogli, assieme alla figlia, disincantata studentessa universitaria. All’angelo custode barelliere del 118 di Prima Porta, all’anguillaro che vive di pesca accanto al Tevere… e le sorprese delle tipologie umane che scoprirete nella visione (in Italia la pellicola arriva in sala il 26 settembre) non finiscono qui. La capacità narrativa che Rosi compie sta nella sottrazione di informazioni: entriamo in un reale senza codici decifranti se non l’occhio che sceglie e seleziona cosa mostrare, come mostrarlo, evitando saggiamente di indugiare su uno spiare inconcludente. Visivamente, emerge un occhio carico di fascinazione nella raffinatezza dell’uso di una fotografia permeabile all’ambiente che impressiona. La monocromia solare della visione dei fedeli del miracolo è eccelso esempio di un accecamento emotivo. Così come i tagli di inquadrature (negli esterni quasi sempre contornati dal flusso visivo e roboante delle auto in corsa perenne), per nulla scontati, sempre attenti ad una osservazione che è rivelazione, umana e naturalistica. Estetica etica e poetica di un altrove che il Gra diventa. Bravo Rosi.


SACRO GRA Leone d'Oro al Miglior film

Gianfranco Rosi

2013

: Italia

: Documentario

: 93’


78

La superba interpretazione di Judi Dench di Elisabetta Colla

Per buona parte di critica e pubblico l’ultimo lavoro di Stephen Frears, presente in concorso a Venezia 2013, è il film più riuscito della Mostra: una storia solida, fra commozione e denuncia, interpreti di grandissima classe, uno script ‘perfetto’ nel bilanciare serietà e leggerezza, una regia ed un montaggio da cinema di prim’ordine. Tutto al posto giusto, nella giusta misura, un prodotto perfetto, in un certo senso. A questo Frears mancano solo quel graffiare e quello sguardo cinico che hanno caratterizzato tanti dei suoi film, come un sorta di marchio di fabbrica. Ma forse la maturità, dell’uomo e del regista, significano anche questo: un sottile cambio di registro, che evidenzia, senza clamore né retorica (ed il rischio era alto) punti di vista differenti, pur mantenendo una buona dose di ironia e laicità. Basato su una storia vera, quella di Philomena Lee, una ragazza irlandese giovanissima, costretta dalle suore a dare in adozione il figlio di un casuale ‘peccato’ (non era prevista in generale, tantomeno per le ragazze, alcuna forma di educazione sessuale) a facoltosi americani senza figli, il film segue le tracce dell’ormai anziana signora la quale, aiutata nell’indagine da un ex-politico (silurato dal governo Blair) ed ex-giornalista a caccia di ‘storie di vita vissuta’, decide di partire per gli States alla ricerca del figlio Anthony, per conoscerne l’identità, la vita, la storia di bambino adottato. Da un lato aspira al suo perdono (benché la poveretta non avesse alcuna scelta dato che, per riscattare il bambino, era necessario pagare un alto prezzo in sterline), dall’altro sogna di ve-

derne il volto, di sapere se abbia mai desiderato conoscere le sue origini, l’Irlanda, la sua vera madre. Nel ruolo della protagonista Philomena, una donna semplice ma curiosa – che legge romanzi d’appendice, ringrazia uno per uno gli addetti degli hotel e si entusiasma per tutto – una superba Judi Dench (ma diciamo la verità, lei, questa stupenda attrice britannica oggi settantottenne, è sempre ‘oltre’, non c’è film in cui la sua recitazione tagliente, dalle mille sfaccettature, non spicchi su tutte le altre), capace di rendere autentica ogni emozione del suo personaggio: la sofferenza, il dubbio, l’ansia, il ripensamento, il desiderio di verità, il perdono. La Dench ha tra l’altro potuto incontrare la vera Philomena, oggi ottantenne, e conoscere di persona la sua storia. Sarà proprio questa madre ferita e sensibile, Philomena, una volta scoperta l’oltraggiosa ingiustizia subita da lei e dal figlio (ritrovato tramite banche dati e subito perduto: una brillante carriera in politica, una morte prematura di AIDS), ad opera di suore prive di cuore e di scrupoli – che mascherano viltà, menzogna e scarsa compassione dietro ai riti formali del tè coi pasticcini – a compiere un gesto di superiorità morale, di fede autentica e nobiltà d’animo. Steve Coogan (anche sceneggiatore, insieme a Jeff Pope, e produttore del film) non sfigura certo accanto alla Dench nel vestire i panni dell’ex giornalista della BBC, Martin Sixsmith, depresso ed amareggiato dal suo passato ed in cerca di nuova identità, che si coinvolge nel caso ‘Philomena Lee’ dapprima senza troppa convinzione, ma appas-


PHILOMENA Premio per la Miglior sceneggiatura a Steve Coogan e Jeff Pope

Stephen Frears

2013

: Gran Bretagna, Francia, USA

sionandosi poi alla storia ed all’umanità di quest’anziana e deliziosa signora ed alle sconvolgenti rivelazioni che ne conseguono. Dietro la commedia, infatti, si nasconde il dramma di tante ragazze madri costrette dall’ala più bigotta e retrograda (oltre che crudele, nello specifico) della chiesa cattolica, qui rappresentata dalle suore irlandesi, che strappava i figli alle ragazze madri per darli in adozione in cambio di ingenti somme (tema già affrontato in

: Commedia/Drammatico

: 94’

altri film di ambito ‘conventuale’). Riuscirà dunque Philomena ad equiparare o superare il successo di The Queen, con cui Frears nel 2006 ha sbancato i box-office, e mietuto premi in tutto il mondo anche grazie all’interpretazione dell’attrice Helen Mirren? I numeri ce li ha tutti, ed il film segna davvero da un lato un grande ritorno, dall’altro una nuova fase, dell’arte cinematografica di Stephen Frears.


80

Garrel e la sua umanità di ‘eletti’ nella farsa emotiva e stilistica dei sentimenti di Maria Cera

Philippe Garrel porta in concorso con La Jalousie una mistificazione estetica ed etica. L’autobiografismo che connota le sue pellicole, in questa storia si lega alla voglia di affidare al figlio Louis l’incarnazione del padre del regista a trent’anni, riservando a se stesso il ruolo biografico naturale ma invertito nella sessualità: quello della figlia piccola Charlotte (anche nell’empatica simpatia verso l’amante del padre, pur venendo sostanzialmente cresciuta soltanto dalla madre). Nell’interpretare suo nonno, nella relazione che ebbe con un’altra donna, Louis (e noi con lui) vive la propria esperienza d’amore nelle false certezze, contraddizioni, abbandono e naturale ‘rielaborazione’ di perdita. Attraversando questo ciclo universale (imperniato attorno al sentimento lato di gelosia, vissuto-rielaborato da Louis e da altri personaggi di questo racconto), Philippe Garrel inganna i suoi spettatori dentro una messa in scena elitaria innanzitutto nei corpi, e quasi contemporaneamente, negli atteggiamenti. Tutto è portato ad un livello esasperatamente superiore e artificiale: dall’ineffabile fisicità di Anna Mouglalis, eletta a prototipo di grazia e di amore (e ci mancherebbe, data la sua estetica fisica), a un vivere artistico che non viene per niente colto, neppure nel sacrificio economico che il campare di teatro a tutti i costi comporta. Nulla ha

reale spessore, neppure simbolico. La nouvelle vague, reincarnata pure fotograficamente in un bianco e nero rassicurante, è solo apparentemente presente, rivelandosi un bastione completamente inattuale, anche solo formalmente. Quanto all’aspetto ‘etico’ della riflessione garreliana è anch’esso da ‘selezione naturale’: compreso l’opportunismo di una scelta borghese di abbandono, celata da un (tutto da dimostrare) soffocamento interiore. Ridicoli e offensivi al tempo stesso, i proclami di libertà nella dissociazione tra amore e attrazione. La mistica della fedeltà tramite reciproca confessione delle rispettive infedeltà, che Anna Mouglalis infila concettualmente in una discussione con Louis in modo così sufficiente e supponente, irrita e infastidisce. L’unica nota che vale la pena di essere evidenziata (ed è su questo che avrebbe dovuto spingere Garrel per fornire un quadro rappresentativo capace di combinare realtà e ‘filosofia esistenziale’) è l’effettiva capacità di raccontare le persone nelle loro fisiologie e caratteristiche emotive, facendole semplicemente espandere nella pura quotidianità: emblematica la scena della sosta su una panchina a mangiare le noccioline. Louis, la sua amica sorella e la piccola Charlotte riescono ad essere finalmente autentici, abbandonando quel livello di autoreferenzialità che in


LA JALOUSIE Philippe Garrel

2013

tutto il film comprime i personaggi in un’artificiosità da ‘eletti’, sterile. L’unica che mantiene intatta questa ‘grazia naturalistica’, la piccola Charlotte, che riflette la varietà di una personalità infantile anche e specie nelle cattiverie

: Francia

Drammatico

: 77’

emotive che riserva alla sua madre naturale, sola a prendersi realmente cura di lei. Una credibile ‘piccola canaglia’ (data la personificazione con il regista, la sovrapposizione di definizione tra i due è un dato di fatto).


82

Mission impossible anni '70 di Elisabetta Colla

Non sarà un caso che l’incredibile impresa on the road dell’australiana Robyn Davidson, quella di percorrere a piedi 2700 km nel deserto del west Australia con 4 cammelli ed un cane fino a raggiungere l’Oceano Indiano, sia stata compiuta negli anni Settanta, quando ogni avventura sembrava possibile ed il desiderio di ‘andare oltre’ superava barriere oggi apparentemente invalicabili. È questo il cuore del bel lungometraggio Tracks, del regista John Curran, americano ma naturalizzato in Australia, tratto dal libro omonimo della Davidson: un film sul viaggio, sulla solitudine, sulla ricerca di significato della propria vita, in relazione alla natura che ci circonda. “Negli anni Settanta - afferma la Davidson (63 anni), presente a Venezia per il lancio del film – i giovani erano in grado di fare cose straordinarie, spingersi al limite di ogni esperienza personale: io ero alla ricerca di me stessa e desideravo un lungo periodo di solitudine per rimettere insieme la mia personalità”. Il padre della Davidson aveva già attraversato in solitaria il deserto e la madre si era suicidata quando lei aveva 11 anni, così Robyn cresce con la zia, frequenta alcuni contesti ambientalisti e studia Zoologia ma, ad un certo punto, tutto le sembra poco autentico, anche l’autocommiserarsi del suo sesso, della sua classe sociale e dei suoi coetanei: mette a punto un itinerario ed inizia a cercare cammelli, condizione sine qua non della buona riuscita del viaggio. È qui l’avvio del film, quando la Davidson, interpretata con grande coinvolgimento da Mia Wasikowska (ricordate la candida

Alice di Tim Burton?), attrice apparentemente troppo giovane e delicata per uno sforzo così arduo – ma anche la protagonista reale lo sembrava -, sbarca ad Alice Springs e comincia il suo apprendistato come domatrice di cammelli presso loschi figuri e brave persone. Dopo due anni è pronta, ha lavorato sodo ed ottenuto in cambio un paio di cammelli ed un fucile, ma non è sufficiente. Per ovviare ai costi necessari all’impresa Mia/Robyn accetta, a malincuore, di lasciarsi fotografare una tantum da un fotografo del National Geographic, Rick Smolan, e di scrivere un articolo per la rivista. Nel corso dell’estenuante e fantastica traversata di 9 mesi con i suoi amati cammelli – Bubs, Dookie, Zeleika e Golia - e con l’inseparabile cane nero Diggity, la protagonista incontra ogni sorta di difficoltà (cammelli selvaggi, serpenti velenosi, giornalisti molesti che la attendono nelle tappe più raggiungibili, piaghe da sole sul corpo e vesciche ai piedi), tutte ripagate dalla indescrivibile bellezza di paesaggi potenti e sempre diversi, dall’amore per i suoi animali superiore a quello per molti esseri umani (“posso avere a che fare con i maiali, ma le persone gentili mi spiazzano”), al senso impagabile di libertà ed emancipazione che solo il deserto (a chi gli sopravvive) sa dare. Non mancano i momenti bui e di profonda solitudine, nei quali la ‘signora dei cammelli’, così la chiameranno tutti dopo la pubblicazione delle sue foto, conosce il cedimento e cerca un contatto umano: avrà infatti una relazione col fotografo Rick Smolan


TRACKS John Curran

2013

: Australia

(del tutto funzionale alla situazione, almeno così nel film) ed un incontro di profonda e rispettosa intesa con alcuni anziani aborigeni che saranno le sue guide nelle terre ‘sacre’, dove una donna sola non sarebbe potuta entrare. Nei titoli di testa compare anche una scritta di scuse, qualora con immagini o voci, siano stati offesi indigeni, pur se oggi defunti: tali rispetto ed attenzione fanno onore al regista,

: Drammatico

: 110’

che si pone in linea con grandi cineasti quali Peter Weir e Rolf De Heer, sempre sensibili al tema degli aborigeni. La Wasikowska, che sembra sia stata così toccata dal suo personaggio da tornare a vivere in Australia, non si risparmia e trova nella sua interpretazione quella giusta miscela di diffidenza e dolcezza che, insieme alla stupenda fotografia, convincerà anche il pubblico più esigente di ogni età.


84

Elogio della lentezza e del cinema di Maria Cera Tsai Ming liang è uno dei cineasti più innovatori di questa contemporaneità visiva così confusa, sterile, che non fa fare all’occhio nessun passo avanti in una rivelazione (il saper guardare) dal cinema alla vita. Una contemporaneità che non si è mai vista allo specchio, capace (anche nel visivo) solo di correre, stordendosi. Stray dogs è il ritorno (forse ultimo, anche se il cineasta taiwanese con la solita ironia che lo contraddistingue affida al caso, al destino, il poter continuare a realizzare lungometraggi – mai creati per sistema, ma unicamente partoriti da sue necessità interiori), dopo quattro anni, ad una versione visiva lunga. L’arco di tempo che ha preceduto la realizzazione di Stray Dogs, Ming liang l’ha speso anche dentro Walker: riflessione sulla percezione di Hong Kong, uno dei simboli del capitalismo asiatico, attraverso l’incedere di un monaco che la percorre, dando ‘senso e verità’ allo spazio circostante. Nella sezione Orizzonti della scorsa edizione ha sottoposto al pubblico Diamond sutra, esperimento visivo che coniugava spiritualismo, modernità e senso del tempo in una lentissima, estenuante, camminata di 20 minuti dell’attore feticcio, stessa ‘ratio’ del cinema di Tsai Ming liang: Lee Kang-sheng. Perché il visivo di questo cineasta, nella chiave di volta anche della sua estrema lentezza, cattura-ferma-isola e fa guardare come se fosse la prima volta, tutto quello che l’umanità perde e consuma nella sua folle corsa, compreso se stessa e ciò che è diventata. Stray dogs è l’inseguimento-pedinamento di un uomo e dei suoi due figli, anime

vaganti ai margini di una Taipei moderna. Lui (Lee Kang-sheng), cartello-umano di un’agenzia immobiliare per appartamenti di lusso, è impalato di giorno in un punto della città, lasciandosi attraversare da traffico, perturbazioni metereologiche ed umanità. I piccoli girovagano tra bosco, fiume, centri commerciali… Un edificio abbandonato, il bunker-casa dove di notte i tre si ritirano: una zanzariera che circonda il letto, il confine poetico tra esterno e interno, amarezze, disillusioni, allegria, sogni e speranze. Nella non storia a cui assistiamo, ogni scena è una rivelazione. Un’umanità malata, fin dentro le sue costruzioni architettoniche (tema caro alla cinematografia di Ming liang sin dai suoi primi lungometraggi) fredde e claustrofobiche, nicchie-loculi dove l’uomo si barrica e si nasconde. Tale aspetto emerge qui ancora più pregnante: sembra di stare sottoterra, isolati dal mondo, ispezionando assieme alla macchina da presa le pareti del rifugio della micro famiglia spezzata (incapace di ricomporsi insieme ad una figura femminile costante), segnate ‘artisticamente’ dall’umidità. Tracce di un logoramento-decadenza anche urbana di un uomo sempre più alieno, sempre più degradato, nella modernità, allo stato brado della propria incoscienza. Nel quadro della macchina da presa Tsai Ming liang racchiude-isola-dilata, con capacità compositiva visiva e rivelatrice atipica ed acuta, pezzi di modernità umana, naturale ed urbana… Una trasfigurazione shockante: dal banco frigo di un ipermercato ad un lavatoio pubblico, a primissimi piani lasciati fluire dall’esistere dello straordinario Lee Kang-


STRAY DOGS Gran premio della giuria

Tsai Ming liang

2013

: Francia, Taiwan

sheng, a forme urbane, spazi naturali attraversati e non da uomini o animali… Percepiamo, nell’occhio che comprime, stilizza, penetra (grazie anche al verismo fotografico del direttore della fotografia Liao Peng-Jung), scorre, si ferma, corpi ed anime sole, vagabondi esistenziali smarriti in mancanze da colmare, invano. L’affrancamento da bisogni superflui neppure

: Drammatico

: 138’

pare liberare l’uomo… In Stray Dogs, i cani randagi che dividono il bassofondo-stabile dei protagonisti «Sono gli esseri più liberi, da cui imparare…» (così il regista). Ma c’è bisogno di un nuovo uomo, che ricominci a pensare in funzione dei suoi reali bisogni: i ‘cani randagi umani’ sono ancora pochi, oggi.

FILMATI DELL’ARCHIVIO STORICO ISTITUTO LUCE CINECITTÀ Tutte le proiezioni della Settantesima Edizione della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia sono state precedute da alcuni brevi filmati dell’Archivio Storico Istituto Luce Cinecittà, relativi alla Mostra di Venezia nel corso degli anni, dai primi anni Trenta fino ai primi anni Settanta, dedicati all’anniversario del Festival ed ai tanti attori, attrici, personaggi illustri, che sono passati al Lido di Venezia negli anni: da Orson Welles a Roberto Rossellini, da Burt Lancaster ad Anna Magnani, e mille altri. Non mancano purtroppo anche filmati con esponenti del Terzo Reich, o con altri politici di ogni colore o bandiera, ma ciò a testimonianza di quanto la Mostra di Venezia sia stata calata nella storia dei suoi tempi, allora come oggi.


86

L'INTREPIDO Gianni Amelio

2013

Il titolo, che richiama un coraggio senza limiti, Gianni Amelio lo affida ad un eroe da buio contemporaneo. Antonio Pane (Antonio Albanese) consuma (in una Milano asettica e dissociata) la sua vita rimpiazzando i lavori degli altri: spazzino, muratore, pescivendolo, tranviere… Sostituto per chi ha altro da fare ‘in quel momento’ e deve cedere la propria occupazione. Ogni giorno, il nostro Intrepido indossa un ottimismo innato, e sfida ‘camaleonticamente’ la vita. Sorriso stampato sul volto, non da stolto ma da certezza interiore non capita dal figlio musicista solitario (Gabriele Rendina), e ‘stonata’ per la giovane donna (Livia Rossi), che cerca

: USA

: Commedia

: 104’

di aiutare in un concorso e che diventerà l’unica creatura umana frequentabile nel condividere un panino al bar. Un Chaplin moderno, l’Intrepido, ma la cui oscillazione tra realtà e momenti ‘fiabeschifumettistici’ non è sorretta da una solida sceneggiatura. Tante, troppe cose, messe in pentola e Antonio Albanese forzato in atteggiamenti poco empatici, non naturali. Scarsa fiducia del regista nell’affidare un ruolo in cui Albanese, se lasciato più a suo agio, non avrebbe saputo rendere al meglio questo spaccato umano? A giudicare dal risultato della pellicola, sembrerebbe il contrario.


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