Squarci di Settima Arte (seconda parte)

Page 1


TAXI DRIVERS MAGAZINE Storia del cinema (seconda parte)

DIRETToRE

Vincenzo Patanè Garsia VIcE DIRETTRIcE

Giorgiana Sabatini cAPoREDATTRIcE MAGAZINE

Lucilla colonna

coNcEPT DESIGNER

Gianna caratelli

HA coLLABoRATo A QUESTo NUMERo:

Stefano oddi

cAPoREDATToRE SITo WEB

Luca Biscontini UFFIcIo STAMPA

Valentina calabrese Domiziana Ferrari WEB MASTER

Daniele Imperiali

coNTATTI e mail: info@taxidrivers.it Facebook: TAXI DRIVERS Arretrati Magazine: http://issuu.com/taxidrivers_magazine

TAXI DRIVERS è dedicata a Delian Hristev (R.I.P.)

In copertina: Robert De Niro in Taxi Driver di Martin Scorsese, 1976


Ecco la seconda e ultima parte di Squarci di Settima Arte. Stefano Oddi, con passione e maestrìa, ci conduce per mano attraverso i titoli migliori della storia del cinema mondiale: uno dei più bei viaggi che mente (e, naturalmente, occhio) possa concepire. Alla fine della rivista troverete il calendario del nuovo anno, oggetto che con nostra grande soddisfazione è ormai diventato un cult per tutti i cinefili, dedicato stavolta al protagonista dell’opera di Martin Scorsese da noi maggiormente amata e sul quale Oddi, a pagina 27, si esprime così: “Uno dei più grandi antieroi della storia del cinema, deciso a combattere la sua insonnia perenne trasportando in taxi i corpi marci di una squallida metropoli tardo-novecentesca come il traghettatore dantesco trascinava le anime dei dannati oltre l’Acheronte”. Buon anno con Taxidrivers Magazine

Lucilla Colonna

4

LA NOuVELLE VAguE E IL cINEMA MODERNO

19

LA NEW HOLLYWOOD FRA LIBERTà E SPAESAMENTO

34

IL gRANDE cINEMA ITALIANO POST-BOOM

55

IL gRANDE cINEMA D'AuTORE (L'EuROPA)

68

IL gRANDE cINEMA D'AuTORE (VERSO EST)

81

SuL cONcETTO POSTMODERNO NEL cINEMA STATuNITENSE


LA NOUVELLE VAGUE E IL CINEMA MODERNO

F

4

rançois Truffaut, figura di riferimento della rivoluzione dei modi di fare e intendere il cinema sviluppatasi in Francia alla fine degli anni ’50, sosteneva di appartenere “a una generazione di cineasti che hanno deciso di fare film dopo aver visto Quarto potere”. Riferimento che si sostanzia come un’evidente sineddoche, una vera e propria parte per il tutto, che fa dell’imprescindibile capolavoro di Orson Welles il più paradigmatico depositario di un’operazione di svecchiamento della settima arte, delle sue tecniche, delle sue tendenze, fatta propria in seguito -e con modalità per certi versi opposte al barocchismo compositivo del cineasta americano- dai neorealisti italiani, altro punto di riferimento insostituibile per gli autori francesi della Nouvelle Vague, la cui filmografia si sostanzierà in generale come un tentativo scopertamente eversivo e distruttivo teso a far deflagrare gli stilemi del cinema classico hollywoodiano, la sua tendenza all’ingabbiamento di prodotti artistici all’interno di dinamiche commerciali e industriali, lo strapotere dei tycoon e con esso la soffocante rigidità in cui era costretto il lavoro del regista. Al posto dei canoni costrittivi del montaggio invisibile, i registi della “nuova onda francese” privilegiavano la libertà del pianosequenza; alla logica tradizionale del campo/controcampo sostituivano l’epifanizzazione casuale prodotta da una macchina mobile, alle storie rigidamente concatenate in cui tutto era riconducibile a uno schema azione-reazione opponevano strutture narrative inusuali in cui il racconto poteva anche trasformarsi in un mero pretesto, sfruttato per mettere in

luce uno stile pienamente moderno, cioè posteriore al classico, ad esso drasticamente opposto, capace di ringiovanire un’arte che a sessantacinque anni dalla sua nascita già risultava carica di minacciose sclerosi. Il fenomeno Nouvelle Vague appare però decisamente incomprensibile se non letto in relazione al fermento inquieto e febbrile delle nuove generazioni ferocemente critiche contro la questione d’Algeria o alla trasformazione dell’intero mondo culturale che proprio in Francia trovava il suo polo di riferimento. La fine degli anni ’50 fu caratterizzata infatti dalla nascita di quella costellazione di esperienze letterarie partorite da autori come Marguerite Duras o Alain Robbe-Grillet, riconducibili sotto il nome di Nouveau Roman o Ecole du Regard, tese verso l’orizzonte dell’antiromanzo, caratterizzate da un rigetto pressoché totale del concetto di personaggio o di psicologia del personaggio, da un'attenzione fotografica alle cose, agli oggetti e ai dettagli, imperniate su schemi narrativi oscuri e criptici, su percorsi diegetici privi di senso apparente, tesi a rappresentare la condizione dell’individuo nella società contemporanea, il suo disorientamento all’interno di una civiltà industriale, tecnologica, sottomessa allo strapotere della macchina, dell’oggetto e della merce, non a caso centri nodali quando non unici di una narrazione svincolata dalle azioni umane. Tale propensione al superamento dei canoni estetici tradizionali fu ripresa anche dai cineasti della Nouvelle Vague in cui però l’interesse alla condizione dell’individuo moderno veniva reso attra-

Quarto potere (Citizen Kane), Orson Welles, 1941



www.taxidrivers.it

6

verso una discesa concreta nelle strade, nei territori del vissuto sociale, alla ricerca di quello “splendore del vero” filtrato dalla lezione neorealista. Al “cinema di papà”, confezionato con cura per perseguire la “bella immagine retorica”, l’impostazione luministica tradizionale, il colore morbido e flou, registi come Godard, Rohmer e Truffaut opposero un cinema-verité libero di girare per i veri ambienti di cui tratta come si trattasse di un cinegiornale, fondato sul celebre concetto di Alexandre Astruc di camera-stylo (cinepresapenna), cioè di macchina da presa flessibile e rapida, capace di lavorare per annotazioni rapide e di tradurre visivamente il mondo mentale del regista attraverso le immagini (al pari della scrittura per l’autore letterario). Altra nozione fondante della Nouvelle Vague era quella della politique des auteurs, una sorta di “criterio dell’autorialità” capace di innalzare definitivamente il cinema al livello di arte -e non di mero intrattenimento industriale- e basato sull’idea di una perfetta coincidenza tra film e regista, come se il prodotto audiovisivo creato non fosse altro che un’emanazione, mediata dalla cinepresa, del suo modo di intendere il mondo. Una simile concezione della settima arte derivava ovviamente dall’attaccamento reverenziale, carico di tinte di natura quasi metafisica, dei giovani cineasti che diedero vita al movimento nei confronti del cinema stesso. Truffaut, Godard, Rohmer, Rivette, Chabrol e tutti gli altri registi riconducibile all’orizzonte tecnico-ideologico della Nouvelle Vague, erano prima di tutto cinefili incalliti, formatisi tra i sedili della Cinemateque Française, dove avevano avuto modo di maturare una coscienza critica -prima che pratica- del cinema (spesso soprattutto delle opere di autori lontani dai canoni classici -come il già citato Wellese pertanto osteggiate dai grandi circuiti distributivi), affinata in seguito attraverso quel perfetto tirocinio professionalizzante costituito dai famosi Cahiers du cinema, Cahiers du Cinéma

rivista di cinema tuttora in commercio fondata da André Bazin, attorno alla cui figura i futuri cineasti fecero della loro infinita passione un lavoro. Proprio nella redazione di quelle gloriose pagine, i grandi autori del cinema francese crearono un polo rivoluzionario potentissimo, veicolando gli ideali fondativi di un nuovo cinema a cui effettivamente riuscirono a dar vita già dalla fine degli anni ’50. Ora, per le solite annose ragioni di spazio, il mio progetto di sintesi si ritrova di fronte a un bivio: lavorare su frammenti minimi e prodigarmi in un elenco indifferenziato e compilativo dei film di tutti gli autori storicamente ricondotti alla Nouvelle Vague oppure scegliere e sacrificare, illustrando il senso complessivo di un’esperienza estetica imprescindibile per la storia del cinema attraverso un numero drasticamente esiguo di opere. Ritenendo sterile, inutilmente nominalistico oltre che concretamente impossibile, riassumere in poche pagine le filmografie estremamente floride di autori come -cito a titolo di esempio- Chabrol o Godard (più di cinquanta film ciascuno), seguirò la seconda via e -come ho già fatto nell’episodio dedicato a Hitchcocksceglierò cinque titoli imprescindibili, capaci di illuminare la drastica rottura inaugurata dalla Nouvelle Vague, il punto di non ritorno decisivo da essa segnato nella definizione di quell’orientamento rivoluzionario e innovante della settima arte accademicamente e storicamente conosciuto come cinema moderno. I primi tre titoli risalgono allo stesso anno, il 1959, momento storico in cui il fenomeno Nouvelle Vague passa concretamente dalle pagine dei Cahiers du Cinema alla dimensione pratica della celluloide. Si tratta di Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard, I quattrocento colpi di François Truffaut e Hiroshima mon amour di Alain Resnais. Si tratta di tre straordinari capolavori, tre eventi che segnarono storicamente una cesura to-



www.taxidrivers.it

8

tale nei modi di intendere la settima arte. Il film di Godard, forse in modo più evidente degli altri due, si pone in aperta e palese opposizione nei confronti degli stilemi claustrofobici del cinema classico, sistematicamente ribaltati uno dopo l’altro. Bastano le primissime scene del film a dare esempio di questa palese pratica decostruttiva. Il film si apre con il dettaglio di un giornale, in un richiamo velato a quel mondo dei mass media che costituirà un leitmotiv del cinema di Godard. Poco dopo il giornale si abbassa e appare Michel Poiccard (Jean Paul Belmondo) in primo piano. Già in apertura il cineasta rinnega lo schema classico di costruzione geografica dello spazio, improntata come noto sulla rappresentazione totale dello luogo d’azione e sul progressivo avvicinamento alle figure umane. Il francese comincia dal particolare, negando una visione completa del luogo diegetico, in un tentativo di disorientamento spettatoriale che si protrarrà per l’intera pellicola. Per di più il personaggio di Michel evidenzia la sua natura meramente finzionale, reiterando il gesto tipico di Humprey Bogart (il passaggio del pollice sopra le labbra), in una citazione al cinema classico intesa come omaggio a un modello estetico sorpassato, che non c’è o per lo meno non dovrà esserci più, una sorta di saluto affezionato. Subito dopo, Michel ruba un’automobile e s’invola verso Parigi. Nel breve viaggio, l’uomo è ripreso principalmente dal sedile posteriore, di tre quarti, anomalia evidentissima rispetto alla tradizione classica che poneva la macchina da presa in modo da cogliere i piani ravvicinati e frontali dei suoi personaggi. Un altro scarto si produce pochi secondi dopo la partenza quando il protagonista, di punto in bianco, si volta direttamente verso la cinepresa -stavolta posta sul sedile di fianco al suo e, rivolgendosi direttamente allo spettatore, dice “Se non vi piace il mare, se non vi piace la montagna, se non vi piace la città: andate a quel

paese”. Una violazione imperdonabile per il cinema classico qui utilizzata per segnalare un’avvenuta trasformazione e per testimoniare la libertà del regista rispetto alle restringenti convenzioni produttive. Ancora qualche secondo e Godard illustra tutta la sterminata specificità del nuovo cinema a cui intende dar vita: Michel è inseguito da due motorette della polizia, la sua macchina si ferma in un vicolo e un agente lo raggiunge. L’uomo afferra la pistola e uccide l’agente. Fin qui non ci sarebbe nulla di ambiguo o particolarmente rivoluzionario: il fatto è che Godard illustra con dettagli ravvicinati i muscoli tesi del braccio di Michel, si prolunga fino alla mano che carica il colpo ma salta proprio il momento culminante, mostrando direttamente il poliziotto che cade a terra morto. Una stessa azione viene spezzata in più inquadrature, nella connessione delle quali Godard sbaglia volontariamente i raccordi, producendo un effetto di salto, in un’operazione comunemente definita jump cut. Procedimento che peraltro il regista francese utilizza in modo evidentemente anti-classico anche a livello narrativo e diegetico: mancando l’evento principale (lo sparo) e relegandolo al fuori campo, Godard impone una nuova logica narrativa non più fondata su una successione di nuclei forti, che escludano gli elementi accessori e di scarsa rilevanza ma esattamente sul rovesciamento di tale dicotomia. Il cineasta propone una vera e propria “epifanizzazione dell’irrilevante” (usando le parole dello studioso Paolo Bertetto), ovvero una sottolineatura visiva e narrativa di momenti non funzionali all’evoluzione del racconto cinematografico. Si pensi alla successiva e famosissima scena all’Hotel de Suede in cui per quasi 23 minuti Godard riprende le conversazioni di scarso interesse tra Michel e l’amata Patricia, non curandosi peraltro della logica ferrea del campo e controcampo e posizionando a caso la macchina da presa,

Fino all’ultimo respiro (À bout de souffle), Jean-Luc Godard, 1960



www.taxidrivers.it tra brevi inquadrature fisse e long takes di diversa lunghezza, in modo da riprendere i personaggi nella loro spontaneità quotidiana e da sublimare quella vorace fame di realismo, quell’esigenza di fissare il divenire eletta a missione principale della Nouvelle Vague, molto legata ai temi di libertà e nulla propri dell’esistenzialismo novecentesco.

10

Se con Fino all’ultimo respiro, la matrice rivoluzionaria della “nuova onda francese” si palesa già nei primissimi istanti attraverso un poderoso apparato tecnicoformale dominato da un’ansia potente e intransigente di nuovo, Truffaut costruisce il suo I quattrocento colpi in modo meno intensamente programmatico, veicolando il suo ideale di libertà estetica attraverso la diegesi e soprattutto per mezzo del piccolo protagonista Antoine Doinel (quel Jean-Pierre Leaud a cui il regista dedicherà una serie di film che ne descriveranno la crescita, un caso unico nella storia del cinema), bambino ribelle, inquieto e irrequieto, con una madre civetta, un padre distratto, un amico fedele, l’abitudine di marinare la scuola e il sogno innocente di vedere il mare. La trasgressione formale che costella il film di Godard viene profondamente minimizzata da Truffaut, tradotta nell’uso frequente di long take e nell’abolizione della logica rigorosa del campo e controcampo all’interno della scena del colloquio di Antoine con la psicologa del riformatorio in cui il ragazzo viene spedito per il furto di una macchina da scrivere. In quest’occasione, Truffaut non si prodiga nel mostrare le due controparti della conversazione ma al contrario si focalizza sul solo ragazzino, evocando la presenza della donna attraverso la sole voice off, in modo da rafforzare l’identificazione dello spettatore con il suo protagonista. Ma è probabilmente nel finale che il regista parigino rappresenta al massimo grado la natura moderna e svincolata dal

passato del nuovo cinema di cui I quattrocento colpi si pone come ideale paradigma. Antoine fugge dal riformatorio e si prodiga in una corsa lunga quanto simbolica e liberatoria. Giunto su una spiaggia, la macchina da presa lo riprende dall’alto come un piccolo punticino nella distesa sabbiosa e a poco a poco gli si avvicina, fino a bloccarsi nel fermo immagine più famoso della storia, che lo ritrae in mezza figura, stagliato su un mare che profuma tanto di libertà. Quella di un nuovo cinema. Di altra natura l’apporto dato da Alain Resnais alla rivoluzionaria ondata cinematografica sviluppatasi in Francia alla fine degli anni ’50. Il cineasta di Vannes infatti non fu mai una solida parte integrante del movimento ma piuttosto lo attraversò tangenzialmente, contribuendo però in modo comunque nettissimo alla trasformazione del linguaggio cinematografico che proprio quel movimento si proponeva di mettere in atto. Resnais coniugò una ricerca formale originale, fondata sul movimento incessante della cinepresa, realizzato attraverso continue carrellate, a una sperimentazione incessante sulle forme del racconto. Le strutture diegetiche canoniche, in Resnais, cedono il posto a modalità narrative permeate dell’influsso del modernismo letterario. La linearità spazio-temporale nei suoi film viene stravolta a favore di organismi filmici basati sulla giustapposizione di presente e passato, vita e ricordo o addirittura sull’acronia ovvero l’indistricabile fusione di piani temporali che rende impossibile riconoscere un presente solido a cui ancorarsi. A volte il punto di partenza delle sue storie può non essere affatto un criterio narratologico ma un teorema scientifico -come accade in Mon oncle d’Amerique, che si costituisce come dimostrazione della tesi sui comportamenti umani dello scienziato oltre che co-sceneggiatore Henri Laborito la logica imprevedibile del caso, del

I 400 colpi (Les Quatre Cents Coups), François Truffaut, 1959



www.taxidrivers.it

12

gioco degli scacchi, propria del dittico Smoking/No smoking, giocati sulla logica del “se invece”, due film speculari in cui la direzione di un racconto iniziale cambia in relazione alla scelta della casalinga protagonista di accendersi una sigaretta. Il film più paradigmatico di questa sua tendenza alla rimodellazione delle strutture del racconto è senza dubbio il suo lungometraggio d’esordio Hiroshima mon amour, improntato sull’impossibile storia nata tra un’attrice francese e un architetto giapponese. Rinchiusi in un amore privo di futuro, entrambi ripercorrono il proprio passato: l’uomo ricorda il terribile episodio della bomba atomica, la donna il tragico amore che consumò durante la guerra con un soldato tedesco ucciso davanti ai suoi occhi nella natia Nevers. L’analisi del passato conduce a una riappropriazione del presente, alla necessità di comprendere che la vita deve andare avanti. Hiroshima mon amour è in questo senso la voce di una coscienza collettiva, basata sul rimpianto, il ricordo, la necessità di sopravvivere nella perdita generalizzata e sulla consapevolezza della dura ricostruzione -interiore ed esterioredi uomini e nazioni. Il tema della memoria - ripercorso parallelamente attraverso i ricordi dei protagonisti e i momenti documentari fatti di immagini di repertorio e panoramiche su musei di rovine- si connette a quello apocalittico della bomba già esplosa, all’interno di una prosa cinematografica nuovissima, fatta di ripetizioni e di voci over, di un ritmo quasi ipnotizzante nel quale si immerge un poetico caos visivo fatto di frammenti di ricordi, avvenimenti vissuti o immaginati, legati in modo più simile alla realtà sensibile che non all’ordine e alla regolarità della narrazione classica. Ben più criptico è invece il successivo L’anno scorso a Marienbad sceneggiato da Alain Robbe-Grillet e non a caso profondamente influenzato dai caratteri costituitivi del Nouveau Roman.

Ambientato in una villa lussuosa, il film ruota intorno all’incontro tra un uomo e una donna che, innamoratisi, decidono di fuggire l’indomani. Quest’incontro però viene reiterato su piani temporali differenti, in spazi sempre nuovi e attraverso prospettive di volta in volta differenti. L’incontro è già avvenuto, sta avvenendo o deve avvenire? I vari incontri rappresentati sono reali o si propongono soltanto come proiezioni mentali dei protagonisti? Fanno forse capo a realtà oniriche, virtuali, ipotetiche? Questo affascinante senso di confusione che fa del film una sorta di INLAND EMPIRE (David Lynch, 2005) degli anni ’60, questa imprevedibilità sostanziale che pone un parallelo tra la casualità di una struttura filmica tutta da decidere e decifrare e quella del gioco dei fiammiferi che funge da leitmotiv alla narrazione, è immersa in una regia dominata da lente carrellate funeree e ieratiche, accompagnate da una voce off che in certe occasioni aderisce al protagonista, in altre si dà come essenza sonora disincarnata. Una voce che al contrario dei canoni classici sembra divertirsi a descrivere eventi differenti da quelli che appaiono sullo schermo, come a testimoniare la definitiva perdita di un senso univoco e totalizzante del reale, più che mai mosaico sfaccettato e multiprospettico in cui appaiono diverse alternative d’esistenza e differenti modi dell’essere. Così i protagonisti a tratti possono sembrare figurine di cartapesta immobili e privi di psicologia, in linea con l’abolizione del personaggio proposta da Robbe-Grillet, e in altre occasioni possono assumere dei ritratti concreti e approfonditi. Giungiamo infine al 1962 per prendere in considerazione un capolavoro di solito scarsamente citato e ben poco considerato. è un piccolo film di appena 28 minuti, scritto e diretto da Chris Marker, pseudonimo di Christian François Bouche-Villeneuve, autore estremamente

Hiroshima mon amour, Alain Resnais, 1959



www.taxidrivers.it

14

prolifico, audace sperimentatore strettamente connesso alla rivoluzione dei modi di fare cinema della Nouvelle Vague e profondamente influenzato dalla riflessione sulla memoria portata avanti dall’amico Alain Resnais. Il film in questione è La jetée, opera di fantascienza carica di fascino ed evocazioni, fondata su quel tema -già caro a scrittori come Welles e Verne- del viaggio nel tempo, per mezzo del quale alcuni scienziati di un futuro post-atomico in cui l’umanità è costretta ad abitare il sottosuolo, inviano nel passato cavie umane con il compito di recuperare risorse utili alla sopravvivenza del genere umano decimato e di ripopolare la superficie terrestre. Gli esperimenti non vanno come dovrebbero: il viaggio nel tempo conduce alla follia o alla morte. Un giorno, gli scienziati -figure che ricordano i medici nazisti all’interno di un mondo concentrazionario com’è la società sotterranea del film, in un rifiorire del trauma della Shoah, rimosso per tutti gli anni ’50- scelgono come cavia un uomo dotato di un grande potenza immaginativa, segnato in profondità da un’immagine di infanzia, quella di una rampa d’aeroporto (la jetée del titolo), del volto di una giovane donna e della caduta straziata di un uomo. Se la sinossi vi ricorda qualcosa e sapete per certo di non aver mai visto La jetée, sappiate che nel 1996 Terry Gilliam s’ispirò al capolavoro di Marker per il suo -altrettanto magnifico- L’esercito delle dodici scimmie. Ma al di là del racconto, imperniato sul quel tema del ricordo e del tempo che si rivelerà caratteristico dell’intera opera di Marker, La jetée si pone come film imprescindibile per la logica ristrutturante del linguaggio cinematografico messa in atto dalla Nouvelle Vague, per la sua capacità -più unica che rara- di superare in modo pressoché totale la natura cinematica della settima arte, di annullare cioè quello che già nel 1895, al momento della sua comparsa, sembrava costiLa jetée, Chris Marker, 1962

tuirne lo specifico: il movimento. Il cortometraggio di Marker è infatti composto di sole immagini fotografiche e dunque fisse (solo per una brevissima successione di inquadrature, più o meno a metà del racconto, si dà l’illusione di movimento): una contraddizione vivente per un evento cinematografico, tanto che l’autore nei titoli di testa parla di photo-roman, un genere per sua natura più legato alla letteratura (contaminata dalla fotografia) che al cinema stesso. Un rovesciamento di statuto, una problematizzazione nella definizione ontologica dell’opera ovviamente da ricondurre al tentativo eversivo e straniante di riplasmare il cinema e i suoi linguaggi, di svincolarsi dalle gabbie della classicità per approdare al moderno. In questo senso va letto inoltre il segmento filmico in cui l’uomo del futuro e la donna incontrata nel passato si ritrovano di fronte a un “tronco di una sequoia ricoperto di date storiche”, indicatore temporale attraverso cui il protagonista rivela la sua appartenenza a un punto diverso dalla catena degli eventi, ben più lontano, in un omaggio palese alla scena -praticamente identica ma costruita a parti rovesciate- de La donna che visse due volte di Alfred Hitchcock che -come abbiamo avuto modo di notare nell’episodio a lui dedicato- nella sua complessità di evocazioni, simboli e pratiche autoriflessive si poneva già come preludio a un tipo di cinema adulto, moderno, svincolato dalle rigide implicazioni classiciste. Prima di chiudere questo episodio, mi concedo una piccola divagazione, spostando l’orizzonte di riflessione dalle pellicole dei giovani turchi dei Cahiers du Cinema a un autore totalmente svincolato dal circuito dei registi Nouvelle Vague, dai quali lo divide peraltro uno scarto anagrafico di più di trent’anni. Un autore inclassificabile e per questo difficilmente inseribile in una rubrica che tende a circoscrivere la storia del cinema



www.taxidrivers.it

16 12

per macro-blocchi di senso. Un francese ovviamente che includo brevemente in appendice di questo articolo, dimostrando la mia debolezza nei suoi confronti. Si tratta di Robert Bresson, attivo già dagli anni ’40, fautore di un cinema della modernità ben prima della -comunque imprescindibile- rivoluzione di Godard & Co. Un cineasta capace di tagliare i ponti con la ricchezza di un cinema costruito per guidare per mano lo spettatore nella comprensione delle vicende per affermare -in un totale rovesciamento di tendenza- un’ideale di arte minimalista, aperta sul mistero inconoscibile del mondo, improntata sul criterio dell’impossibilità di una spiegazione fenomenica del reale e per questo costruita per sottrazione. Di scenografie, di dialoghi, perfino di recitazione (i suoi interpreti venivano chiamati “modelli”, non attori). Secondo Bresson infatti tutti questi “paraventi” -così definiva gli elementi filmici- ostacolerebbero la costruzione -da parte del pubblico- di una comprensione personale, di una riflessione meditata e soggettiva sul mistero del creato. Il cinema del cineasta francese si sostanzia come un’inquieta e sofferta indagine sul male del mondo, conducibile senza differenze di sorta attraverso gli occhi di un asino (Au hasard Balthazar) o quelli di una ragazzina costretta a negare la propria infanzia per salvaguardarsi da una realtà morbosa e opprimente (Mouchette). è anche un percorso indefinito di ricerca delle tracce di dio o dei suoi opposti, del bene e del male (Diario di un curato di campagna, Il diavolo probabilmente) spesso dirottato nella definitiva affermazione di una supremazia del caso sulle vicende umane, della logica alogica per cui le vent souffle où il veut, sottotitolo dello strepitoso Un condannato a morte è fuggito.

FILMOGRAFIA COMPLETA Come già detto, a causa della straordinaria prolificità di alcuni autori (il solo Godard ha realizzato -e continua a realizzare- più di 100 film), vi rinviamo per le filmografie degli autori citati agli schedari dell’Internet Movies Database.

Jean-Luc Godard: www.imdb.com/name/nm0000419 François Truffaut: www.imdb.com/name/nm0000076 Eric Rohmer: www.imdb.com/name/nm0006445 Claude Chabrol: www.imdb.com/name/nm0001031 Jacques Rivette: www.imdb.com/name/nm0729626 Chris Marker: www.imdb.com/name/nm0003408 Robert Bresson: www.imdb.com/name/nm0000975

Un condannato a morte è fuggito, Robert Bresson, 1956




LA NEW HOLLYWOOD FRA LIBERTÀ E SPAESAMENTO ‘

’’C

era follia in ogni direzione, ad .ogni ora, potevi sprizzare scintille dovunque, c’era una fantastica, universale, sensazione che qualsiasi cosa facessimo fosse giusta, che stessimo vincendo. E quello, credo, era il nostro appiglio, quel senso di inevitabile vittoria contro le forze del vecchio e del male, non in senso violento o cattivo, non ne avevamo bisogno, la nostra energia avrebbe semplicemente prevalso, avevamo tutto lo slancio, cavalcavamo la cresta di un’altissima e meravigliosa onda. E ora, meno di cinque anni dopo, potevi andare su una ripida collina di Las Vegas e, se guardavi ad ovest, e con il tipo giusto di occhi, potevi quasi vedere il segno dell’acqua alta, quel punto, dove l’onda infine si è infranta ed è tornata indietro”. Mi servo inopinatamente di Terry Gilliam e di un monologo di uno dei suoi film più noti (Paura e delirio a Las Vegas, 1998) o quanto meno di quello in cui il folle regista naturalizzato britannico definisce una volta per tutte l’ambiguo e sfaccettato rapporto con la sua patria America, per tentare di introdurre quella cesura epocale nella storia del cinema statunitense (e non solo) conosciuta come New Hollywood, storicamente ricordata come definitivo momento di innesto del concetto di regista-autore all’interno dello studio system e -va da sé- di massima celebrazione della libertà espressiva del Foto in alto: Foto in basso:

cineasta all’interno delle gabbie costrittive imposte dai produttori, per la prima volta saggiamente concordi nel chinare il capo di fronte a una rigogliosa generazione di interpreti di un mutato stato socioculturale. Una stagione cinematografica caratterizzata da un’insuperata freschezza di temi e motivi oltre che da un numero sterminato di capolavori imprescindibili, tutti compresi tra gli ultimi fuochi degli anni ’60 e i primi degli ’80. Il mio obiettivo, in questa difficile e breve ricognizione, è quello di abbattere le sclerotizzate posizioni teoriche fondate sullo stereotipo che fa della New Hollywood soltanto il rigurgito made in USA di quel folgorante rinnovamento dei modi di fare cinema instaurato in Europa prima dal neorealismo italiano e poi dalla Nouvelle Vague francese. Senza trascurare il decisivo apporto costituito dalle due scuole europee, cercherò di definire la specificità propriamente americana di questa cruciale pagina di storia del cinema (e in questo, ahimé, dovrò escludere dalla trattazione autori magistrali che pure sono stati parte integrante di quel rinnovamento) dimostrando come le opere di autori del calibro di Martin Scorsese, Hal Ashby, Francis Ford Coppola, John Cassavetes (…) costituiscano l’evoluzione spontanea di una parabola che il cinema americano aveva preso a tracciare già in precedenza grazie a cineasti come John Huston e Arthur

The Whiz Kids: Scorcese, Spielberg, Lucas, Coppola, di Annie Leibovitz, 1996 Francis Ford Coppola, Martin Scorsese, Steven Spielberg e George Lucas, quattro pilastri della New Hollywood, nel 2007

19


www.taxidrivers.it Penn, oltre che il riflesso più rigoroso di un sentire collettivo irrimediabilmente connesso alla questione del Vietnam e della Guerra Fredda, agli ideali del Sessantotto e soprattutto permeato dalle inquietudini e dallo spaesamento esistenziale che il loro crollo -connesso al trauma delle guerre sporche- produrrà nel tessuto sociale a stelle e strisce.

20

Se dovessimo ricominciare da dove avevamo lasciato il panorama statunitense (monografie a parte), cioè a quegli anni ’50 che videro i primi segnali forti di erosione dell’immaginario classico, non basterebbe un saggio per indagare la capacità straordinaria di autori come Elia Kazan o Don Siegel di illuminare attraverso film come La valle dell’Eden o L’invasione degli ultracorpi i segnali più evidenti di un turbamento sofferto e malcelato sotto troppi strati di pelle. L’inquietudine della guerra fredda, del maccartismo, della perdita di orientamento di una nazione che dopo la vittoria della Seconda Guerra Mondiale si ritrovava invischiata nell’orrore delle guerre di speculazione e perdeva quel posto di riguardo nella scacchiera internazionale, considerato all’unanimità il seggio dei “giusti”. Il cinema classico e la sua logica conchiusa e rigorosa, positivisticamente fondata su un punto di vista -quello statunitense- limpido e privo di scorie cominciò a sfibrarsi subito dopo il conflitto mondiale e lo spaesamento dell’intera nazione trovò una perfetta forma di espressione nelle nuove generazioni di interpreti uscite dal celebre Actor Studio, fondato da Kazan. Parlo di Marlon Brando e Paul Newman ma soprattutto di Marilyn Monroe, Montgomery Clift e James Dean, anti-divi entrati nella mitologia tradizionale del cinema con i loro personaggi senza regole né padri, intimamente dissestati, colti in momenti di turbinio esistenziale e incapaci di adattarsi al mondo e alle sue regole. Si pensi ai ribelli senza causa di James Dean, alle

pose accartocciate, tese a costruire una corazza dalla durezza del mondo circostante, di film come Gioventù bruciata ma soprattutto il mai abbastanza citato La valle dell’Eden oppure ai magnifici e sfrontati loser di Paul Newman tra il selvaggio west revisionista del Penn di Furia selvaggia e la prigione-riformatorio di Rosenberg di Nick mano fredda. Nomi e titoli di valore inestimabile a cui purtroppo non possiamo concedere lo spazio che meritano ma che -pure attraverso queste brevi citazioni- ci aiutano a comprendere come i fermenti innovanti e anticlassici propri della New Hollywood costituiscano un prosieguo coerente di alcune premesse che il cinema statunitense aveva attivato da tempo e non -o almeno non soltanto- un mero travaso da un contesto alieno e lontano come quello europeo. Certo è che quelli che tra la fine degli anni ’40 e i primi ’60 erano scossoni palpitanti e febbrili di narrazioni che mantenevano -seppur con fatica - un’impostazione rigorosamente classica, con l’avvento della New Hollywood divennero le ossessioni strutturanti e i leitmotiv tematici totalizzanti di un cinema profondamente riplasmato da registi finalmente liberi di dar voce alle proprie esigenze, ai ritmi di una realtà radicalmente trasformata nel corpo e nella mente dalle battaglie per i diritti civili, dalla morte di Kennedy, dallo scoppio della Guerra in Vietnam e dalle implicazioni di quel gigantesco movimento di rifondazione culturale comunemente ricordato come Sessantotto. Nel momento in cui i tycoon hollywoodiani concessero carta bianca ai propri registi, tentando un cambio di rotta che potesse ovviare al crollo di pubblico causato dalla proliferazione degli schermi televisivi, l’America viveva quello slancio utopico, innovante e profondamente critico così magnificamente descritto dal monologo del film di Gilliam che apre l’articolo. L’ardore feroce contro la guerra sporca condotta senza morale nel


www.taxidrivers.it sud-est Asiatico fungeva da bandiera di un movimento che professava una riorganizzazione della società a partire da un concetto di aggregazione, solidarietà e uguaglianza, da una tensione solare e visionaria verso un futuro ripulito dai fantasmi della discriminazione e della guerra, da un progetto di svecchiamento radicale orientato alla distruzione della società borghese e capitalista e con essa delle ipocrisie bigotte e tradizionaliste. Ma l’incapacità di tradurre queste nobili aspirazioni in concreti programmi di riforma causò la deflagrazione del movimento e il sorgere di un sentimento generalizzato di spaesamento esistenziale, accompagnato da una malinconica e pessimistica riflessione sulla definitiva perdita di una purezza nazionale non più recuperabile e da una rilettura critica globale della storia della nazione più potente del mondo. Da questo contesto trovarono linfa vitale i film della New Hollywood, permeati da uno scoppiettante e sfacciato anelito libertario che li portava a trattare temi scottanti (sesso, droga, malavita), ripresi con uno stile fresco e nuovo, tutto aderente alla realtà ruvida della strada, a rigettare il classico happy end per documentare il flusso energico e vibrante del vivere senza freni. Oppure magistralmente costruiti come affreschi infernali di una nazione allo sbando, del cammino privo di punti di riferimento di reduci, vedove, uomini e donne sole, della fine di un’era. O spesso programmaticamente orientati a minare lo statuto sacrale dei padri fondatori per riscrivere -e ribaltare- l’epopea di conquista del west selvaggio come atroce e sanguinoso atto di distruzione, genocidio del diverso (e non come gloriosa vittoria della civiltà sulla barbarie). Il western in questo senso tornò alla ribalta come genere prediletto di molti cineasti, principale veicolo di riflessione sulle antiche e ineliminabili radici del male costituitivo di un popolo da sempre macchiato di sangue, di solito attraverso l’arma

sprezzante dell’ironia. Il film con cui la storiografia tradizionale è solita far coincidere l’inizio della New Hollywood è Il laureato di Mike Nichols, uscito nel 1967, giocato sul rapporto amoroso che si crea tra un giovane Dustin Hoffman e la prorompente e ben più matura Mrs. Robinson, prima che il neo-laureato s’innamori della figlia di questa e con lei coroni il suo sogno d’amore. Una parabola sentimentale che scardina con vivida potenza il tabù della sessualità -peraltro adultera, riflettendo con prepotenza sull’isolamento, la solitudine e l’incomunicabilità tra generazioni sulle note di Simon & Garfunkel e imponendosi anche come percorso simbolico, allegoria del cinema made in USA (Hoffman) che attratto dal fascino maturo del cinema classico (la signora Robinson) preferisce tuttavia tuffarsi nella freschezza e nel nuovo (Elaine), distruggendo tutti i simboli arcaici di un ordine tradizionale e passatista (il protagonista rapisce Elaine proprio nel momento del suo matrimonio, usando la croce come strumento per sbarrare la porta della chiesa) per orientarsi al futuro costituito appunto dalla New Hollywood. Lo stesso anno esce un altro film-monumento della New Wave statunitense, il celebre Gangster story di Arthur Penn, incentrato sulle scorribande della -veramente esistita- coppia di fuorilegge Bonnie e Clyde, profondamente influenzato dai dettami della Nouvelle Vague francese, in primis da Godard e dai suoi Fino all’ultimo respiro e Il bandito delle ore 11 e capace di influenzare a sua volta molte generazioni di cineasti. Uno dei suoi meriti principali fu peraltro quello di tracciare gli stilemi costituitivi del cosiddetto film on the road, un sottogenere essenziale e paradigmatico per l’esperienza eversiva costituita dalla New Hollywood. Elementi come la strada, il viaggio, la sosta, l’incontro che infatti si ponevano come suoi leitmotiv principali permettevano di trasformare il viaggio

21



www.taxidrivers.it fisico in itinerario di indagine e riscoperta del proprio sé, percorso attraverso cui placare la propria instabilità e insofferenza, riflesso del proprio disagio interiore, motivo e fine stesso dell’andare e non cammino verso una meta determinata. Il viaggio dei protagonisti della New Hollywood attraverso gli scenari lussureggianti o desolati dell’America post ’68 si poneva prima di tutto come esplorazione dei propri confini, inquieta ricerca di una stabilità intima e personale, unico antidoto al disorientamento morale prodotto dalla perdita di purezza di una nazione, appagamento, tensione utopica verso quella libertà totale e assoluta professata dai movimenti giovanili che facevano sentire la propria voce in tutto il paese. In questo senso va intesa la tragicomica e nostalgica odissea dell’Ultima corvé di Ashby, in cui due sottufficiali (uno è Jack Nicholson) conducono un giovane e disadattato marinaio nella prigione dove dovrà passare otto anni della sua giovinezza per il solo torto di aver rubato 40 miseri dollari a un’associazione in qualche modo legata all’ammiraglio capo. Il viaggio funge da itinerario iniziatico per il ragazzo a cui i due maggiori di buon cuore concedono un po’ di divertimento mentre si pone come momento di riflessione sull’ingloriosa e cupa ingiustizia del vivere per i due protagonisti. Una dimensione a metà tra eterno vagare e “andare alfieriano” assume invece il ritorno a casa di Jack Nicholson -interprete feticcio dell’ondata rivoluzionarianei Cinque pezzi facili di Bob Rafelson, uno dei personaggi più sofferti e interessanti della straordinaria decade cinematografica statunitense, costretto a tornare in famiglia a causa della malattia di un padre con cui non parla da anni prima di rivelarsi irrimediabilmente insofferente alla possibilità di legarsi a qualsiasi impegno. Il finale epico, con la fuga in camion verso una meta che non ci è dato decifrare, rappresenta forse al massimo Easy Rider, Dennis Hopper, 1969

grado il concetto sopracitato di disorientamento esistenziale e l’ideale di viaggio come meta stessa del vagare, puro momento di pacificazione estraneo da regole e contingenze. Ben più decostruttivo e straniante è invece il percorso on the road in cui si avventurano i giovani ribelli catatonici di Malick nel folgorante esordio costituito da La rabbia giovane, uno dei film più antimitici mai realizzati, tutto incentrato su una coppia silenziosa che semina morte in modo gratuito tra le brulle e desertiche lande americane (sulla scia del già citato Gangster story), teso a evidenziare, attraverso il vagare privo di schemi dei protagonisti, la totale assurdità della violenza, la banalità del male, l’archetipica, barbara e atavica natura dell’uomo, drammaticamente opposta alla bellezza di un creato indifferente alle questioni di chi lo abita. Dicotomia che sarà determinante in tutte le pellicole realizzate dal cineasta di Waco, strutturante anche del successivo I giorni del cielo, spietato quanto magnifico scandaglio della grettezza umana ambientato in una vasta piantagione di grano del Texas di inizio Novecento e canto del cigno della New Wave americana. Ma è forse l’indimenticabile Easy rider di Dennis Hopper l’on the road che illustra in modo più limpido e diretto i fermenti paradigmatici della cultura sessantottina e insieme il loro scontro drammatico con una realtà incapace di percepirli. I due protagonisti che attraversano in motocicletta l’America, predicando la necessità di essere liberi in tutti i modi possibili, il valore della solidarietà umana e il potere visionario ed evasivo della droga, infatti, cozzano con un universo incapace di comprendere l’altro da sé, un mondo ipocrita e volgare in cui “parlare di libertà ed essere liberi sono due cose diverse”, abitato da persone che “ti parlano, e ti parlano, e ti riparlano di questa famosa libertà individuale; ma quando vedono un individuo veramente libero, allora hanno

23


www.taxidrivers.it paura”. Talmente tanta da sparare a vista su un reietto ancora capace di sognare un mondo migliore, mentre esala l’ultimo respiro di fianco a una moto che prende fuoco. E insieme a lei, è il sogno americano a svanire nelle nebbie di un tempo e di una purezza che non esistono più.

24

A pervadere i capolavori della New Hollywood c’è infatti soprattutto un profondo senso di perdita. La malinconica e ineliminabile consapevolezza della fine di un’era. Di un tempo. Di un apice ormai irraggiungibile. E con essi, la testarda pretesa di sfidare l’avido corso del tempo da parte di protagonisti impauriti, delusi, incapaci di accettare l’età adulta, le responsabilità, segretamente ostinati a riallacciarsi a quell’ideale di purezza costituito dalla fanciullezza, dalla gioventù. Paradigmatici a questo proposito tre titoli giganteschi come L’ultimo spettacolo di Peter Bogdanovich, Un mercoledì da leoni di John Milius e Mariti di John Cassavetes. Se nel primo la perdita della giovinezza dei protagonisti (tra i quali un giovanissimo Jeff Bridges) e il crollo dei propositi di purezza di una nazione risucchiata nell’abominio della Guerra di Corea vengono raccontati attraverso il filtro narrativo della chiusura di un vecchio cinema di paese (che, in un’operazione palesemente metaforica, propone come ultimo spettacolo Il fiume rosso di Hawks -assoluto caposaldo della classicità- come a segnalare la fine di una stagione artistica e l’inizio di una nuova), in Mariti Cassavetes racconta il nostalgico scontro con la morte di tre amici di mezz’età che, stretti da un legame viscerale e sconvolti dalla scomparsa del loro migliore amico, si lasciano alle spalle per qualche giorno la quotidianità familiare e partono alla ricerca di una giovinezza di cui non scovano più le tracce. Paragonato all’Ulisse di Joyce per la sua struttura antianeddotica da epica dell’irrilevante e risolto com’è nelle colossali e strazianti interpretazioni dei tre

attori (John Cassavetes, Ben Gazzara e Peter Falk), Mariti è probabilmente uno dei meno celebrati e più potentemente allarmanti saggi sul disagio esistenziale, figlio di quella straordinaria capacità del suo regista di scandagliare l’abisso dei propri personaggi all’interno di narrazioni impregnate di banale quotidianità (si pensi agli esordi o al magistrale Una moglie). Non meno imponente, infine, il film sopracitato di Milius, di nuovo giocato sulla storia di un’amicizia virile temporalmente scandita in quattro tempi attraverso quei punti di svolta costituiti dalle grandi mareggiate alle quali i protagonisti surfisti dedicano la propria esistenza. In questo senso, Un mercoledì da leoni (orribile titolo italiano che tenta di rendere l’originale Big Wednesday) traduce su pellicola il significato più viscerale delle cavalcate d’onda, illustrando magnificamente il senso di libertà, la necessità di sospensione, il bisogno di svincolarsi dalle contingenze storiche che in esse si nasconde, fondendo coraggiosamente l’anima più profonda del surf con i temi propri della New Hollywood. Nella sua composizione rigorosamente imperniata sulla malinconia del tempo andato, sull’ineliminabile tensione verso l’utopia di purezza di una generazione e una nazione si configura, inoltre, come un western marino crepuscolare e definitivo sulla fine di un’era, su un passaggio di testimone che è individuale e insieme collettivo. Ma la New Hollywood fu anche -e forse soprattutto- un tentativo di riflettere in modo critico sulla storia d’America, una rivendicazione di libertà tesa a svincolarsi dalle sclerotizzate e tradizionali letture della genesi di una nazione, a capovolgere di segno il senso e gli ideali che soggiacevano a quella conquista del West fino a quel momento disegnata come trionfo della civiltà bianca sulla barbarie indigena, del bene sul male.


www.taxidrivers.it Tale dicotomia fu problematizzata, dissolta, quando non ribaltata del tutto. In questo senso, il western fu il genere più colpito da un’ondata di revisionismo che gli donò nuova linfa vitale. Si pensi alle ambientazioni invernali e diseroicizzate di Altman nei Compari o all’analisi rigorosa delle culture amerinde, ostili alla civilizzazione ma non demoniche o inferiori, del magnifico Corvo rosso non avrai il mio scalpo di Pollack. Un’analisi quasi etnografica che ha forse nel Piccolo grande uomo di Arthur Penn il suo apice di poesia. La storia è quella di un longevo centenario che racconta la sua avventurosa vita a un giornalista: strappato dalla sua famiglia da bambino e accolto da un gruppo di Cheyenne, vive sospeso tra le ipocrisie della civiltà bianca e il bucolico e primitivo stile di vita degli indiani, tra la gretta e avida corsa al potere e al denaro dei coloni e il magico e ciclico incedere delle stagioni del “popolo degli uomini”. Qui, la contrapposizione storica tra bianchi e pellerossa viene sconvolta e ribaltata: l’America viene descritta come una nazione nata dal genocidio di una popolazione liricamente convinta del fatto che “ogni cosa sia viva” e che “tutto è immutabile, in eterno”, dal sangue innocente di fratelli distrutti dal bianco che “crede che tutto sia mortale, le pietre, la terra, gli animali, anche gli uomini, anche quelli del suo popolo. E più una cosa è viva, più i bianchi fanno di tutto per distruggerla”. Al posto della razionalità illuminante, alle radici degli Stati Uniti viene ricondotto l’odio, l’intolleranza, una subdola, ipocrita e smisurata avidità, il male. E in questo senso vanno interpretati i western carichi di violenza di un autore come Sam Peckinpah, per il quale inondare di sangue le proprie pellicole (Il mucchio selvaggio, Voglio la testa di Garcia, Pat Garrett & Billy the Kid) non coincide con una mera ricerca di un effetto scontato e scioccante bensì con una quanto mai intensa riflessione su quel

male gratuito e inspiegabile che -come un archetipo generativo- permea la storia degli Stati Uniti, sin dalla sua genesi, esplodendo come in un freudiano ritorno del rimosso nelle praterie metropolitane che pure affollano la produzione degli anni ’70. I drammi urbani epifanizzati con le macchine a spalla nei veri quartieri delle capitali americane che proprio con la New Hollywood giunsero a un apice dolente e universale di perfezione drammaturgica, infatti, vanno interpretati come trasfigurazione presentificante di una riflessione sull’anima nera di una nazione che proprio nel western revisionista del tempo aveva trovato la sua genesi. Molti cineasti statunitensi presero a scandagliare con occhio lucido e disincantato le situazioni delle comunità di outsider che il dibattito sessantottino aveva posto al centro dell’opinione pubblica. Così, in Panico a Needle Park Schatzberg indaga in modo impietoso la vita di Bobby, tossico di eroina interpretato da Al Pacino, uno dei volti simbolo della New Hollywood: poliziotto incaricato di indagare su un killer di omosessuali e portato a interrogarsi sul proprio stesso orientamento nel magnifico Cruising di Friedkin, il celebre agente Serpico nell’omonimo film di Lumet, il ladro nevrotico ed esagitato di Quel pomeriggio di un giorno da cani (ancora Lumet) che svaligia una banca per pagare al suo compagno transessuale un’operazione per il cambio di sesso. Senza dimenticare il Michael Corleone dei due (tre con quello del 1990) celeberrimi episodi della saga del Padrino di Coppola, affresco storico di una famiglia mafiosa statunitense di origini siciliane, analizzata con precisione sociologica chirurgica e capace di far scuola ai successivi capisaldi del genere. E proprio il mondo criminale costituisce l’universo più consono a mettere in atto quell’estetica negativa propria del miglior cinema statunitense degli anni ’70. Film come Il braccio violento della legge

25



www.taxidrivers.it di William Friedkin, Chinatown di Roman Polanski, Il maratoneta di John Schlesinger, quelli dedicati al celebre ispettore Henry Callaghan di Clint Eastwood, spesso definiti con la formula di “drammi metropolitani”, costituiscono insieme come fossero un unico grande film- una riflessione compiuta e pessimista sul male, sulla disperata consapevolezza di un mondo -l’America- che ha smarrito la propria morale. In quest’ambito però i vertici estetici più elevati sono raggiunti dall’opera di Martin Scorsese, capace di unire l’analisi rigorosa di tale frattura insanabile nel tessuto sociale con la discesa incontrollata -e insuperata in termini di approfondimento e complessità- negli abissi della mente deviata dei propri protagonisti, in particolare del feticcio Robert De Niro, capace nel suo maniacale perfezionismo di vestire i panni di personaggi disadattati e dominati da qualcosa di morboso, sempre in bilico tra un equilibrio instabile e i picchi di follia che esplodono -a vari livelli- come una sorta di riattualizzata “furia omerica”: dal Johnny Boy di Mean streets, ribelle ma codardo membro di una cosca criminale newyorkese, al Jake La Motta di Toro scatenato, campione mondiale dei pesi medi oltre che marito paranoico, geloso, violento, specchio di un’inquietudine più ampia e radicata, passando per il Travis Bickle di Taxi Driver, reduce dal Vietnam incapace di recuperare un contatto equilibrato con il reale. Uno dei più grandi antieroi della storia del cinema, deciso a combattere la sua insonnia perenne trasportando in taxi i corpi marci di una squallida metropoli tardo-novecentesca come il traghettatore dantesco trascinava le anime dei dannati oltre l’Acheronte, in quello che è il film più paradigmatico dell’opera di Martin Scorsese. C’è, infatti, in questa pellicola estrema e capitale tutta l’anima del regista newyorkese: l’occhio sociologico, spietato e penetrante rivolto all’America; l’indagine inquieta e rigorosa sul male, sulla sua

origine, la sua evoluzione, i suoi connotati, le sue forme; l’esplorazione muta della nevrosi che del male è la principale manifestazione; la presa di coscienza della fine dell’innocenza, dell’inevitabilità dell’alienazione, della solitudine, dell’incomunicabilità in un mondo gretto, malato, selvaggio; la prepotente e cupa dimensione religiosa, che avvolge la New York di celluloide, trasformandola in un inferno d’asfalto “in attesa di un diluvio universale che ripulirà le strade una volta per sempre”. Dalla sua postazione privilegiata, Travis osserva i dettagli di una realtà che pare disgregarsi sotto il peso dell’immondizia, concreta e morale, della civiltà occidentale. I soffitti rigonfi, le candele smozzate, i sedili sporchi di sangue e sperma, la vernice incrostata e cadente delle pareti imbrattate, la bruttezza porosa e ammuffita dei corpi e dei volti: tutto -accentuato com’è dalla fotografia iperrealistica di Michael Chapman- pare trasudare l’orrore e la decadenza di un mondo che attende solo la sua fine. Questo viaggio dritto negli angoli più reconditi e aberranti dell’America va di pari passo con uno scandaglio che penetra sempre più a fondo l’anima nera del protagonista, il suo disagio esistenziale, la sua malattia morbosa, la condanna obbligata all’alienazione, all’isolamento e all’incomunicabilità che tanto lo avvicina agli infimi eroi di Dostoevskij (“La solitudine mi ha perseguitato per tutta la vita, dappertutto. Nei bar, in macchina, per la strada, nei negozi, dappertutto. Non c’è scampo: sono nato per essere solo”). Tutto questo all’interno di un’opera che è indubbiamente il manifesto più esemplare dell’ansia rinnovatrice della New Hollywood intera. E nello stesso tempo il più solido esempio di come ogni evoluzione verso il futuro sia necessariamente anche un ritorno al passato. Così, non è un caso che Travis, nella sua definitiva, sanguinosa e apocalittica vendetta, si rapi la testa, assumendo i tratti degli antichi

Il piccolo grande uomo (Little Big Man),Arthur Penn, 1970

27



www.taxidrivers.it indiani d’America, dei quali rievoca i gesti tipici e le pratiche ritualistiche: l’attenzione dedicata alla costruzione di marchingegni da adattare alle armi, l’allenamento fisico, il sacrale rogo di fiori morti nel lavabo. Solo allora, ancora più outsider e simbolicamente vicino a quella purezza che il Nuovo Mondo ha perduto, dà vita al diluvio universale capace di ripulire le coscienze. Se i colpi delle sue armi macellano fisicamente le carni dei disgustosi avventori della piccola Iris, il gesto scattoso e malato della pistola che il reietto reduce dal Vietnam puntualmente imita con la mano diventa l’indice simbolico di una volontà di distruzione che si abbatte contro tutti i valori della società occidentale. Il dito di Travis punta gli uomini, le donne, i politici, la scatola della televisione (poi rovesciata e distrutta in una scena di pregnante e nitido simbolismo), persino lo schermo cinematografico. Come a dire che quella necessaria ondata deve travolgere la stessa tradizione filmica, quella che Scorsese riplasma, rifacendosi alle lezioni degli antecedenti Cassavetes e Godard. Ancora il nuovo attraverso il vecchio. E nel finale, un Travis moribondo punta quella pistola immaginaria alla sua testa, con le gocce di sangue che cadono ritmicamente dal dito teso. La purezza della vecchia America ha sconfitto l’orrore della nuova. Ma perchè sia possibile ricominciare da zero, il sangue versato va lavato a prezzo della propria vita. Al primo piano di un emaciato, strepitoso De Niro segue allora il movimento delle labbra che simulano un’esplosione. Più che uno sparo, un nuovo big bang. E infine la guerra. Il cinema americano rinnovato degli anni ’70 non poteva non scontrarsi con il fantasma del Vietnam, con quell’inferno privo di regole in cui “accusare un uomo di omicidio […] era come fare contravvenzioni per eccesso di velocità alla 500 miglia di Indianapolis”, Taxi Driver, Martin Scorsese, 1976

il laboratorio in cui migliaia di americani sfogarono quel surplus di odio e violenza mal soffocato da duecento anni di civilizzazione. Il Vietnam si pose come la nuova frontiera e gli indigeni si sostituirono ai pellerossa. E se nel 1970 Altman affrontò la questione (quella, però, della Guerra di Corea) sfruttando l’arma dell’ironia, dissacrando con vigore mai visto prima l’esercito statunitense in M*A*S*H (acronimo che indica il Mobile Army Surgical Hospital di cui la pellicola narra le grottesche disavventure), sarà tra ’78 e ’79 che il cinema made in USA darà vita a due dei più straordinari vertici del cinema bellico, accantonando il registro comico di Altman per riflettere con tragica e spietata consapevolezza sulle profonde e insanabili lacerazioni causate dalla guerra nell’animo umano, utilizzando il filtro del Vietnam come matrice di una riflessione universale sull’uomo e sul male. Iniziamo con Apocalypse now (1979), il capolavoro definitivo e totale di Coppola, folle, disturbante, schizofrenico e allucinato animale filmico che traspone il Cuore di tenebra di Conrad -uno dei più grandi romanzi del primo ‘900- nella giungla cambogiana, raccontando la missione segreta del capitano Willard, incaricato di risalire il fiume Nung ed eliminare il colonnello Kurtz, disertore da tempo, innalzatosi al livello di semidio tra le popolazioni locali. Il viaggio su acqua della piccola truppa affidata al Willard di Martin Sheen perde a poco a poco le proprie coordinate topografiche, costituendosi in modo sempre più netto come itinerario verso il cuore nero dell’anima umana. In fin dei conti -premettendo che ogni definizione risulta riduttiva se spesa nei confronti di un’opera d’arte di tale levatura- Apocalypse now si sostanzia come una disperata riflessione sull’uomo e la sua pretesa ontologica di essere razionale, sul fondo atavico, barbaro e oscuro che ogni essere vivente conserva nell’anima (“Dobbiamo ucciderli, incene-

29



www.taxidrivers.it rirli, un maiale dopo l’altro, un villaggio dopo l’altro, un esercito dopo l’altro. E mi chiamano assassino. Come si chiama questo? Quando gli assassini accusano un assassino?), sulla natura del potere, sulla capacità di giudicarsi e giudicare, sull’assurdità sconsiderata e priva di senso di ogni conflitto (“Noi addestriamo dei giovani a scaricare napalm sulla gente, ma i loro comandanti non gli permettono di scrivere “cazzo” sui loro aerei perché è una parola oscena.”), sulle modalità di condotta individuale in situazioni estreme (“Era un modo particolare che avevamo qui di vivere con noi stessi: li facevamo a brandelli con una mitragliatrice, poi gli davamo un cerotto.”) e in fondo sul capitalismo statunitense, sull’orrore di un mondo bipolare, sulla minaccia nucleare. Il tutto in un’atmosfera rarefatta e da incubo, satura di sequenze da antologia. Si pensi soltanto al Kurtz di Marlon Brando, personaggio epico e marchiato a fuoco nell’empireo della settima arte: il divo hollywoodiano si chiuse in una palafitta per una settimana e ne uscì rasato senza aver letto una sola riga di copione. Accettò la parte propostagli da Coppola obbligandolo a riprenderlo soltanto al buio o per contrasti di luce in modo da evocare un’essenza più che mostrare una presenza. E le sue osservazioni sull’orrore del vivere, la sua voce over che recita i versi degli Uomini vuoti di Eliot o la scena finale in cui si offre al machete di Willard mentre fuori, tra i fuochi della festa un bue viene sacrificato (momento ripreso da più angolazioni in una citazione evidentissima a Ejzenstein) restano, ancora oggi, alcuni dei momenti più evocativi, complessi e straordinari che il cinema abbia mai prodotto. Lontano dagli echi allucinati e distorti dell’opera di Coppola ma ad essa equiparabile per potenza e rilevanza storica è senza dubbio Il cacciatore, sterminato capolavoro di Michael Cimino di un anno precedente, imperniato sull’amicizia

fraterna di tre operai (De Niro, Walken, Savage) di un’acciaieria della Pennsylvania e organizzato drammaturgicamente intorno a grandi blocchi narrativi, più o meno temporalmente distanti: il matrimonio, la caccia al cervo, il Vietnam, il ritorno a casa (…). In modo più lineare di Coppola con Apocalypse now, Cimino elabora una tragica e inquietante parabola sugli effetti della guerra sulla psiche umana. Non è un caso che la sezione dedicata al Vietnam costituisca il centro della pellicola e sia decisamente breve (il che ha spesso fatto interrogare gli studiosi sulla sua natura di film bellico: fondamentalmente -a mio avviso- si tratta -come nei migliori casi- più che di un film di guerra, di un film sulla guerra, sui suoi effetti, la sua assurdità, il suo orrore), quasi tutta risolta nell’epica e celeberrima sequenza in cui i tre amici, catturati dai vietcong, si vedono costretti a fronteggiarsi l’uno contro l’altro nella terrificante prova della roulette russa. La lunga, cerimoniale e toccante sequenza del matrimonio che la precede, affiancata a quella della caccia al cervo e a poche altre, tutte tese a illustrare la serenità del gruppo di amici in una cittadina lontana dal chiassoso mormorio delle grandi metropoli e l’equilibrio morale dei protagonisti per cui nella caccia si deve “contare su un colpo solo” perché “il cervo non ha il fucile, deve essere preso con un colpo solo. Altrimenti non è leale” funge da tragico contrappunto prima alle scioccanti immagini della giungla vietnamita e successivamente alla terza macro-sezione della pellicola, che illustra l’impossibile riadattamento esistenziale che segue al trauma indicibile dell’aver camminato di fianco e dentro la morte. L’epilogo, in questo senso, con i protagonisti seduti intorno a un tavolo a guerra finita, consapevoli della drammatica certezza che non c’è più spazio per la purezza, più tempo per ricordare “le montagne” o “come sono diversi gli alberi”, e intenti a intonare

Apocalypse Now, Francis Ford Coppola, 1979

31


www.taxidrivers.it God bless America funge da vero e proprio epitaffio funebre. Per un amico. Per l’innocenza di un mondo perduto. Per la fine di un’ondata nostalgica e rivoluzionaria che proprio due anni dopo, in seguito al disastro commerciale del magnifico e maledetto I cancelli del cielo dello stesso Cimino, s’infrangerà a riva, chiudendo per sempre la migliore stagione del cinema statunitense.

32

FILMOGRAFIA PARZIALE Nick mano fredda (Cool Hand Luke), Stuart Rosenberg (1967) Gangster Story (Bonnie and Clyde), Arthur Penn (1967) Il Laureato (The Graduate), Mike Nichols (1967) Senza un attimo di tregua (Point Blank), John Boorman (1967) Ciao America! (Greetings), Brian De Palma (1968) Rosemary’s Baby (id.), Roman Polanski (1968) Volti (Faces), John Cassavetes (1968) Easy Rider (id.), Dennis Hopper (1969) Un uomo da marciapiede (Midnight Cowboy), John Schlesinger (1969) Prendi i soldi e scappa (Take the Money and Run), Woody Allen (1969) Il mucchio selvaggio (The Wild Bunch), Sam Peckinpah (1969) Butch Cassidy (Butch Cassidy and the Sundance Kid), George Roy Hill (1969) Non si uccidono così anche i cavalli? (They Shoot Horses, Don’t They?), Sidney Pollack (1969) M*A*S*H (id.), Robert Altman (1970) Soldato blu (Soldier Blue), Ralph Nelson (1970) Cinque pezzi facili (Five Easy Pieces), Bob Rafelson (1970) Piccolo grande uomo (Little Big Man), Arthur Penn (1970) Mariti (Husbands), John Cassavetes (1970) Panico a Needle Park (Panic in Needle Park), Jerry Schatzberg (1971) I compari (McCabe and Mrs. Miller), Robert Altman (1971) Strada a doppia corsia (Two-Lane Blacktop) (1972), Monte Hellman L’ultimo spettacolo (The Last Picture Show), Peter Bogdanovich (1971) Il braccio violento della legge (French connection), William Friedkin (1971) Ispettore Callaghan: il caso “Scorpio” è tuo!! (Dirty Harry), Don Siegel (1971) Harold e Maude (Harold and Maude), Hal


www.taxidrivers.it Ashby (1971) Cane di paglia (Straw Dogs), Sam Peckinpah (1971) Cabaret (id.), Bob Fosse (1972) Città amara (Fat City), John Huston (1972) Corvo rosso non avrai il mio scalpo (Jeremiah Johnson), Sidney Pollack (1972) Il padrino (The Godfather), Francis Ford Coppola (1972) Il re dei giardini di Marvin (The King of Marvin Gardens), Bob Rafelson (1972) Papillon (id.), Franklin J. Schaffner (1973) American Graffiti (id.), George Lucas (1973) La rabbia giovane (Badlands), Terrence Malick (1973) Dillinger (id.), John Milius (1973) L’ultima corvé (The Last Detail), Hal Ashby (1973) Mean Streets – Domenica in chiesa, lunedì all’inferno (Mean Streets), Martin Scorsese (1973) Pat Garrett & Billy the Kid (id.), Sam Peckinpah (1973) Serpico (id. ), Sidney Lumet (1973) Le due sorelle (Sisters), Brian De Palma (1973) L’esorcista (The Exorcist), William Friedkin (1973) La stangata (The Sting), George Roy Hill (1973) Alice non abita più qui (Alice Doesn’t Live Here Anymore), Martin Scorsese Una calibro 20 per lo specialista (Thunderbolt and Lightfoot), Michael Cimino (1974) Chinatown (id.), Roman Polanski (1974) La conversazione (The Conversation), Francis Ford Coppola (1974) Il padrino – Parte II (The Godfather Part II), Francis Ford Coppola (1974) Voglio la testa di Garcia (Bring Me the Head of Alfredo Garcia), Sam Peckinpah (1974) Sugarland Express (id.), Steven Spielberg (1974) Una moglie (A Woman Under the Influence), John Cassavetes (1974) I tre giorni del condor (Three Days of the

Condor), Sydney Pollack (1975) Qualcuno volò sul nido del cuculo (One Flew Over the Cuckoo’s Nest), Milos Forman (1975) Quel pomeriggio di un giorno da cani (Dog Day Afternoon), Sidney Lumet (1975) Lo squalo (Jaws), Steven Spielberg (1975) Nashville (id.), Robert Altman (1975) Il vento e il leone (The Wind and the Lion), John Milius (1975) Tutti gli uomini del presidente (All the President’s Men), Alan J. Pakula (1976) Carrie, lo sguardo di Satana (Carrie), Brian De Palma (1976) Taxi Driver (id.), Martin Scorsese (1976) Io e Annie (Annie Hall), Woody Allen (1977) Incontri ravvicinati del terzo tipo (Close Encounters of the Third Kind), Steven Spielberg (1977) New York, New York (id.), Martin Scorsese (1977) Guerre Stellari (Star Wars), George Lucas (1977) Tornando a casa (Coming Home), Hal Ashby (1978) I giorni del cielo (Days of Heaven), Terrence Malick (1978) Il cacciatore (The Deer Hunter), Michael Cimino (1978) Una donna tutta sola (An Unmarried Woman), Paul Mazursky (1978) Halloween (id.), John Carpenter (1978) Un mercoledì da leoni (Big Wednesday), John Milius (1978) All That Jazz (id.), Bob Fosse (1979) Apocalypse Now (id.), Francis Ford Coppola (1979) Oltre il giardino (Being There), Hal Ashby (1979) Kramer contro Kramer (Kramer vs. Kramer), Robert Benton (1979) Manhattan (id.), Woody Allen (1979) Cruising (id.), William Friedkin (1980) I cancelli del cielo (Heaven’s Gate), Michael Cimino (1980)

33


IL GRANDE CINEMA ITALIANO POST-BOOM

D

34

opo le due rapide incursioni nel cinema nostrano dedicate rispettivamente al neorealismo e al meraviglioso trittico costituito da Visconti, Fellini e Antonioni, il nostro cammino vira per l’ultima volta verso l’Italia, nel tentativo di descrivere e celebrare l’ultima grande stagione della cinematografia tricolore, la mareggiata definitiva prima dell’urto e della secca. Prima di iniziare, voglio sottolineare che illuminare il periodo che dal ’60 distende le sue propaggini fino agli anni ’80 (prolungandosi spesso decisamente oltre o arrestandosi a volte molto prima) non costituisce di certo un pretesto per gettare discredito sullo stato attuale del cinema italiano -dominato da un’invidiabile rosa di nomi- quanto semmai sull’assenza di apertura al futuro che lo domina e soprattutto sulla pressione ingombrante di un contesto ormai privo di quel fervore culturale coraggioso e testardo che aveva costituito il solido terreno di appoggio per le grandi prospettive autoriali -e non- nate tra la fine degli anni ’50 e l’inizio del decennio successivo. Proprio un anno dopo quel 1960 che, con la vittoria a Cannes de La dolce vita e L’avventura e il trionfo morale a Venezia di Rocco e i suoi fratelli, pose in modo totale e definitivo il cinema italiano sul punto più alto dell’empireo internazionale della settima arte, una nuova generazione di cineasti segnò il simbolico passaggio di testimone con quella precedente (che in ogni caso continuerà -come abbiamo già avuto modo di vedere -a sfornare capolavori per almeno due decenni) grazie all’esordio sulle scene di Pier Paolo Pasolini, artista totale, intellet-

tuale di lungimiranza rara, in generale una delle menti più brillanti del Novecento italiano, ovviamente orientato a far della pellicola solo uno dei possibili sistemi di analisi della contemporaneità all’interno di un’opera eterogenea e vastissima in grado di fondere il cinema con la letteratura, la critica militante e la saggistica con la poesia. Un circuito sterminato del quale non potrò indagare la complessità globale, impegnandomi però a chiamarlo in causa -quando necessario- attraverso brevi riferimenti intertestuali, sempre connessi a quel nostro orizzonte di riferimento costituito dal cinema. Accattone e Mamma Roma, le due opere di esordio di Pasolini, portavano alla luce lo scandaglio del sottoproletariato romano in cui l’autore friulano si era già prodigato con i suoi primi romanzi Ragazzi di vita e Una vita violenta. Ma l’intento pasoliniano era ben distante da quel tentativo di ripercorrere con coscienza mutata l’atteggiamento neorealista a cui spesso i suoi primi lavori sono accostati, e da connettere più che altro a un’ideale di poetica che costituirà l’asse portante della sua intera filmografia. L’attenzione nei confronti degli strati sociali più bassi e disagiati infatti non va connessa a quell’ansia rosselliniana di documentare una realtà in crisi, tesa verso il rinnovamento e la speranza di un futuro più roseo. Gli sconfitti di Pasolini restano (quasi) sempre tali e la realtà nella quale sono rinchiusi senza via di scampo non è connessa a un anelito di rifondazione. Il regista tenta piuttosto di documentare il disordinato slancio di

Salò o le 120 giornate di Sodoma, Pier Paolo Pasolini, 1975



www.taxidrivers.it

36

vitalità -opposto alla strutturante razionalità borghese- che anima le classi basse della popolazione, di fotografare con rigore e candore i ripetitivi e non pianificati ritmi di chi non possiede che la propria corporeità. I due film illuminano inoltre l’indistricabile intreccio tra sacro e profano di cui il cinema pasoliniano è intimamente pervaso, attraverso il pedinamento esistenziale dei due poveri cristi interpretati da Franco Citti e Anna Magnani, in un percorso di graduale avvicinamento alla figura cristologica tout court avvenuta prima con La ricotta (episodio del film collettivo Ro.Go.Pa.G.) in cui un sottoproletario veste i panni di Gesù di Nazareth in un film in costume e muore in croce a causa di un’abbuffata di ricotta, poi con il magistrale Il vangelo secondo Matteo, che rompe la tradizionale iconografia cattolica della sacra figura e mette in scena un figlio di dio carico di titubanze, incertezze, tutto umano nella sua ineliminabile corporeità, e infine con Uccellacci e uccellini in cui la riflessione socio-politica sulla sinistra italiana post-Togliatti si mescola a un episodio religioso che proietta i protagonisti (Totò e Ninetto Davoli) nei panni di due monaci francescani dediti al compito arduo di evangelizzare i volatili. Nell’ultima metà del decennio ’60, Pasolini alterna il dittico di film ispirati alla tragedia greca (Edipo Re e Medea) con quello aperto a un ritratto feroce e dissacrante della classe borghese costituito da Teorema e Porcile, operando in ogni pellicola un melange quanto mai affascinante dei propri leitmotiv. Paradigmatico a questo proposito è il magnifico Edipo re in cui il regista friulano ribalta la prospettiva tradizionale di “dramma della conoscenza” e trasla la tragedia sofoclea nei termini propriamente personali di ricerca di una purezza assoluta, non contaminata dalla razionalità borghese, di un’ignoranza ingenua e arcaica che sostituisce all’intelletto una fisicità selvaggia, irriflessiva e impulsiva. L’Edipo di Citti

si propone come un’eroe anti-intellettuale, caratterizzato da un netto offuscamento della dimensione razionale -rispetto a Sofocle- e viceversa viene analizzato nelle sue pulsioni inconsce, nei suoi tic corporei che emergono in una natura arcaica e tutta fisica. Una dicotomia tra corporale e razionale che pervade anche Medea, anch’esso prodotto di una rilettura rispetto all’originale euripideo, tesa com’è a mettere in primo piano lo scontro fra culture, ovvero il contrasto tra quella primitiva, magica e sacrale di Medea e quella moderna, razionale e borghese (nel suo formarsi) di Giasone in un film evidentemente fondato sulla logica del doppio, del duplice, della dicotomia oppositiva tra due mondi in antitesi -quello greco pragmatico, razionalista, desacralizzato, dominato dalla parola e basato su una temporalità lineare e quello dominato dal sacro e caratterizzato da un tempo ciclico (riflesso in immagini curvilinee, oblique e circolari) della Colchide. Profondamente intrisa delle ossessioni pasoliniane risulterà non a caso la scena del contatto archetipico, quella in cui le due polarità si trovano a contatto: l’innamoramento avviene in un tempio e scaturisce senza scambio dialogico, senza parole. Questa scena esplicita al massimo la pasoliniana “sfiducia nel Logos”, la sua aspirazione a un cinema non verbale basato su fisicità, onirismo, forza barbarica che sublimi la nostalgia per uno stato prelinguistico e prerazionale (per lo stesso motivo nei primi film usa il dialetto, sentito come più vicino alla sacralità della comunicazione arcaica) Quest’attenzione per la letteratura (non solo teatrale), riplasmata in concordanza con le propri personali ossessioni, plasma anche quella trilogia della vita che prende il via nel 1971 con Il Decameron e continua fino al 1974 con I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte e che nella sua totalità si propone di nuovo- come un’esaltazione dell’esi-


www.taxidrivers.it stenza nelle sue componenti gioiose, carnali, legate al gioco, al divertimento, all’appagamento delle passioni, al sesso e al cibo. In pratica una celebrazione della vita nelle sue componenti istintuali e anti-razionali, un’esistenza bucolica e agreste che Pasolini riteneva ancora esistente nel Meridione, capace di preservare attraverso il ritmo ciclico e sospeso del proprio incedere quell’innocente, eterogenea e poliglotta molteplicità italiana minacciata dal livellante consumismo mediatico e televisivo. Nel 1975, comprendendo in modo rassegnato e definitivo che quello stupro culturale ormai in atto aveva raggiunto un punto di non ritorno, che quella vitalità istintiva e legata ai ritmi quieti della natura e il complesso agglomerato di tradizioni, linguaggi e saperi locali, eco di un mondo puro e arcaico, non potevano sopravvivere in un mondo mass-mediale capace di omogeneizzare e narcotizzare su larga scala un’intera nazione, Pasolini abiurò la trilogia della vita e progettò il suo controcanto nella mai conclusa trilogia della morte di cui riuscì a realizzare solo il primo capitolo, il celebre Salò o le 120 giornate di Sodoma, nato ancora una volta dall’adattamento di un’opera letteraria (Le 120 giornate di Sodoma di De Sade) nel tragico contesto della Repubblica di Salò durante la Seconda Guerra Mondiale. Organizzato in quattro parti, in un crescendo terrificante di violenza e disgusto, il film descrive le sevizie perfettamente pianificate da quattro “signori” a un gruppo di giovani italiani, ritratti in uno stato di totale annientamento psichico, come lobotomizzati da uno stile di vita irrimediabilmente teso all’isolamento, all’autismo e alla sottomissione nei confronti di un sistema di potere invisibile e privo di volto. Il capolavoro di Pasolini si costituiva -tra le altre cose- come l’agghiacciante metafora di un paese seviziato da quel terribile e onnipervasivo strumento di controllo costituito dalla televisione, responsabile di un’uniformazione gene-

ralizzata e di una progressiva perdita di identità, corporeità e vitalità. L’accoglienza fu devastante e la valenza allegorica e profondamente lungimirante della pellicola non venne compresa. Fu aperto un procedimento penale nei confronti del produttore Alberto Grimaldi e si diede il via a un’odissea che terminò solo nel 1991. A cui Pasolini non poté assistere: nella notte tra il 1° e il 2 novembre del 1975 fu barbaramente ucciso a Ostia, privando l’Italia di una delle più grandi personalità artistiche e intellettuali del secolo scorso. “Debitore della lezione pasoliniana” -anche a causa di una diffusa tradizione accademica che li vuole apparentati artisticamente- è un epiteto con cui viene spesso erroneamente etichettato il cinema di Bernardo Bertolucci, soprattutto in virtù di quell’esordio al lungometraggio costituito da La commare secca, scritto dallo stesso Pasolini e imperniato sulle vicende di alcuni rappresentanti della Roma popolare analizzate da un tutore della legge alla ricerca dell’omicida di una prostituta. In realtà più che l’attenzione propriamente pasoliniana per la vitalità sottoproletaria o per l’analisi sociale del mondo invisibile degli sconfitti della periferia romana, Bertolucci struttura il suo esordio attraverso una struttura insolita basata sul progressivo susseguirsi dei flashback dei sospettati, che rispondono alle domande di un maresciallo mai mostrato in campo, raccontando da punti di vista drasticamente diversi un arco di tempo molto limitato. Un pattern narrativo che non può che richiamare alla mente Rashomon il celebre capolavoro di Akira Kurosawa leggibile come un’interrogazione rigorosa sui concetti incerti e labili di verità e realtà, che già nel 1950 si poneva come imprescindibile punto di riferimento per la modernità filmica. Sin dall’inizio della sua carriera dunque, e a dispetto delle accuse di pasolinismo che sorsero all’epoca, Bertolucci si fa

37


www.taxidrivers.it

38

latore di un progetto cinematografico propriamente personale. Da intellettuale cinephile, amante del cinema -soprattutto francese- a lui contemporaneo e dunque attratto dalla rivoluzione operata dalla Nouvelle Vague nei modi di fare e intendere la settima arte, il regista parmense si svincola dalle claustrofobiche etichette estetiche che potevano derivare dal suo legame professionale con Pasolini (a cui aveva fatto da aiuto-regista per Accattone) e plasma il suo cinema sui modelli del nascente cinema moderno (francese e -nel caso della Commare secca- giapponese) proponendosi immediatamente come il più internazionale degli autori italiani, lontano dalla “fame di realtà” o dall’analisi sociale propria di Pasolini o del cinema politico di autori come Francesco Rosi ed Elio Petri e altrettanto distante dalla tendenza onirica e simbolista di un Fellini. Nel suo sforzo di narrare lo sterminato quanto instabile spettro dell’animo umano, di penetrare la psiche e il sentire di personaggi in crisi, coinvolti in cambiamenti drastici di fronte ai quali si rivelano impotenti, nel suo procedere per dicotomie, giustapponendo l’immensità della Storia, la grandezza accerchiante degli eventi collettivi con l’altrettanto abissale profondità della quotidianità individuale, Bertolucci si pone come uno dei massimi esponenti italiani del modernismo cinematografico, in questo senso accostabile -se proprio è necessario far similitudini- più che a Pasolini a cineasti come Michelangelo Antonioni -che come abbiamo avuto modo di notare nell’episodio a lui dedicato è per eccellenza il cantore nostrano del “moderno” e insieme l’autore italiano più “europeo”- o al Rossellini di Stromboli, Europa ’51 e Viaggio in Italia, tutti film imperniati capaci di evidenziare il guado modernista da un occhio vigile su un mondo da ricostruire a uno immerso nelle anime dilaniate dei personaggi della Bergman.

Un cinema dunque proiettato nel lacerato e perennemente instabile limbo di un intimo nascostamente influenzato dalle grandi pagine di una Storia inafferrabile, nella sfera inquieta e devastata degli umori personali: dalle contraddizioni del Trintignant fascista che ne Il conformista fa dell’apparenza il suo principio ispiratore e in un mondo in cui “tutti vorrebbero sembrare diversi dagli altri” decide di somigliare a tutti, alle tensioni, le passioni e i turbamenti che animano una fattoria emiliana descritta nella sua evoluzione durante la prima metà del XX secolo nel fluviale e straordinario Novecento; dal morboso, gelido e insieme appassionato legame che unisce (e divide a fasi alterne) una madre sola e un figlio eroinomane ne La luna, al complesso itinerario di crisi e rinascita amorosa di una coppia inglese strappata all’algido conformismo britannico e immersa nelle sterminate e pulsanti distese africane de Il tè nel deserto. Senza dimenticare il film che probabilmente resta l’apice e il paradigma più esemplare del cinema moderno di Bernardo Bertolucci, la pellicola che più evidenzia quei caratteri di rottura, anticonformismo e innovazione che già la Nouvelle Vague aveva fissato come criteri di riferimento di un’arte rinnovata. Un opera-spartiacque, spesso ricordata esclusivamente per il clamore mediatico e la serie di scandali a cui ha dato -e ahimé continua a dare- vita e in realtà imprescindibile per la straordinaria -e raramente eguagliata nella storia del nostro cinema- capacità di proporre un canone cinematografico nuovo, diverso, animato da un’intrinseca volontà di ribellione strutturante allo stesso modo strutture e contenuti, tecnica e tematiche. Si tratta ovviamente di Ultimo tango a Parigi, capolavoro torbido e burrascoso, passionale ed esasperato, condannato a più riprese dalla censura che ne ordinò il rogo prima di riscattarlo quindici anni più tardi. A far nascere la contesa fu il carattere decisamente peculiare della pellicola

Ultimo tango a Parigi, Bernardo Bertolucci, 1972



www.taxidrivers.it

40

che si apre con un rapporto sessuale tra due sconosciuti e prosegue su una lunghezza d’onda fortemente improntata alla carnalità, con un picco raggiunto in una scena di sodomizzazione con l’uso del burro. Come per tutte le grandi opere, ovviamente, a un’accoglienza piuttosto dura seguì presto una rivalutazione che fece giustizia, riconoscendole pieno statuto artistico. Fu la critica americana Pauline Kell a riscontrare per prima la grandezza del film di Bertolucci, definendolo sul New Yorker “the most liberating movie ever made”, evidenziando non solo il carattere liberatorio della narrazione che, coraggiosamente, sfatava il tabù del sesso e lo confermava come immancabile -ma fino ad allora sempre aggirata, nel cinemacomponente della relazione amorosa, ma soprattutto la forte carica di libertà e ribellione che il film opponeva alle sclerosi della classicità cinematografica, al canonico sistema dei generi e all’ipocrisia dei valori sociali precostituiti. Tale liberazione che Ultimo tango attua nei confronti delle strutture narrative tradizionali appare evidente già a un’analisi superficiale della trama. L’intreccio è praticamente inesistente, mancano nodi problematici, ostacoli, tutto si risolve nel complesso dei rapporti -amorosi e non- che legano i protagonisti tra loro e con altri comprimari: più che di fronte a una storia (nel senso hollywoodiano di percorso narrativo caratterizzato da un’evoluzione fenomenologica governata da legami causali), siamo di fronte a una situazione. Gli stessi personaggi diventano presenze prive di nome (quel che Roland Barthes definiva “resto prezioso”, ultimo depositario di individualità) e si fanno portatori di psicologie complesse, spesso indecifrabili come il cinema della modernità vuole. Spariscono, in Ultimo tango, anche la chiarezza e l’invisibilità del cinema tradizionale; la regia di Bertolucci si fa sentire attraverso movimenti azzardati e immotivati, i particolari vengono

spesso offuscati, nascosti (frequente l’espediente di riprendere oggetti o persone attraverso la superficie di finestre o vetrate deformanti), la macchina da presa si disinteressa in più occasioni dei personaggi, adagiandosi a caso su porte o elementi d’arredo, la musica rabbiosa e dissonante violenta le immagini più che accompagnarle. Una simile libertà anticonformista prende d’assalto la stessa struttura della love story tradizionale. Il romanticismo lascia spazio alla fisicità barbarica: i due amanti si incontrano per la prima volta in un cesso pubblico, poi in un locale vuoto e spoglio che diventerà una gabbia amorosa estranea allo scorrere del tempo e delle cose. Le presentazioni, i rituali, tutto scompare. L’amore inizia dal sesso e si configura come sublimazione di due corpi anonimi in una sola essenza, come rapporto eterno capace di estraniarsi dal flusso della storia (“Non abbiamo bisogno di nomi qui dentro. Dimenticheremo tutto ciò che sappiamo, tutto. Cose, persone, gli altri, tutto ciò che siamo stati. Gli amici, la casa. Dobbiamo dimenticare ogni cosa”). Proprio a questa esigenza di sovvertire i canoni della classica love story va ricondotto il personaggio di Tom (interpretato da Jean-Pierre Leaud, non a caso volto simbolo della Nouvelle Vague francese), regista e fidanzato di Jeanne che cerca di filmare una “storia d’amore pop”, classica nella sua banalità affrettata e priva della tensione che caratterizza quella tra la stessa ragazza e Paul, con tanto di baci alla stazione del treno, passeggiate romantiche e gioiosi preparativi per il matrimonio. Bertolucci fa di questa “relazione pop” il contraltare attraverso cui deridere e stigmatizzare le banalità della love story hollywoodiana. Esemplare a questo proposito la scena a prima vista insignificante- del rapido litigio consumato da Jeanne e Tom sulla banchina del metrò, rappresentazione ironica di una crisi amorosa che sfocia negli schiaffi e subito si risolve pacifica-


www.taxidrivers.it mente, e metafora ironica dell’inconcludente banalità del cinema commerciale. Diversamente viene concepita la storia di Paul e Jeanne che, nonostante riesca a palesare in modo quasi palpabile la potenza del sentimento, ha tutto per essere anticonvenzionale. Dai modi in cui evolve e alla voluta anonimia di chi la vive, dal topo che infesta il letto degli amanti al celebre ultimo tango che, lungi dal costituirsi come danza della passione, finisce per diventare un balletto sgangherato e ubriaco. L’ultimo carattere che aiuta a plasmare il film sotto il segno dell’anticonformismo è, infine, la vibrante vena critica che si scaglia animosamente contro tutti le istituzioni-cardine della società occidentale: dalla religione al potere bellico (“Tutte le uniformi sono merda”), dall’infanzia (“I bambini sono peggio dei grandi: fanno la spia, non sanno ammirare che l’autorità, si vendono per una caramella”) alla famiglia (“Santa famiglia, sacrario di buoni cittadini, dove i bambini sono torturati finché non dicono la prima bugia, dove la volontà è spezzata dalla repressione, la libertà è assassinata dall’egoismo”). In questo senso, l’albergo-bordello che Paul gestisce e nel quale conserva la salma di una moglie adultera dalla quale non riesce a separarsi, diventa l’oscuro simulacro di tutti i mali di una società che rotola: puttane, drogati, spacciatori. La volontà di rottura, libertà e ribellione che anima Ultimo tango a Parigi, dunque, è ben più profonda di quanto molta critica ha pensato di segnalare, individuando banalmente tutto lo spietato spirito antiautoritario del film nel presunto pansessualismo che pare animarlo. Per chi scrive, il carattere anticonformista del capolavoro di Bertolucci continua a stare soprattutto nella capacità -mai più espressa in modo così intenso- di rappresentare lo stato di grazia dell’amore in modo nuovo, vero, tramite l’attrito ruvido di due corpi sconosciuti in una casa vuota

e attraverso quella domanda pronunciata dall’indimenticabile Paul di Marlon Brando (“Andrò a comprare un porco e ti farò scopare da quel porco, ti farò vomitare addosso da quel porco e ti farò ingoiare il suo vomito. Poi scannerò quel porco mentre ti sta scopando e poi ti farò annusare le sue budella mentre sta morendo. Lo faresti tutto questo per me?”) seguita dalla celebre risposta della Jeanne di Maria Schneider (“Sì, lo farò. E di più anche”). Ma la fortuna del cinema italiano del boom economico fu fatta anche e soprattutto da quell’eterogeneo complesso di opere e registi che attraverso il filtro della leggerezza ironica e appassionata si propose di illustrare le contraddizioni dell’Italietta che si faceva potenza industriale o più universalmente il ritmico oscillare dell’esistenza tra vita e morte, paradiso e inferno. Un orientamento inizialmente poco compreso ma successivamente riabilitato tra le luminose vette del grande cinema italiano sotto la macro-categoria di “commedia all’italiana”, nata dalle ceneri del neorealismo rosa di De Sica e Zavattini, abile nel fondere il dato umano e sociale con una tendenza ironica se non propriamente visionaria, e portata ai suoi vertici da autori straordinari come Mario Monicelli, Dino Risi, Pietro Germi ed Ettore Scola dei quali purtroppo non potremo che ripercorrere in modo rapido e incompleto le folgoranti carriere, rinviandovi alle filmografie integrali elencate a fine articolo per riscoprire il fascino delle loro magnifiche opere. Nel suo complesso, la commedia all’italiana si mosse in modo trasversale, abbracciando generi e stili sempre differenti, mantenendo però come punto di riferimento insostituibile lo scandaglio della società italiana dal dopoguerra agli anni ’70, componendo forse l’affresco più sincero, dolorosamente affezionato e affettuosamente critico di una nazione

41


www.taxidrivers.it

42

che, sotto la superficie di una conquistata modernità capitalistica, conservava le radici stantie di una mentalità incapace di stare al passo coi tempi, di un divario mai sanato tra nord e sud. I film ricollocabili nell’orizzonte della grande commedia all’italiana si fecero coraggiosi interpreti di tutti gli spinosi interrogativi dell’Italia post-boom economico e spesso aprirono le danze per un dibattito che accoglieva in sé le più disparate facce dell’opinione pubblica, instillandosi in modo definitivo nella memoria collettiva di un paese in crescita. è al 1958, con l’uscita de I soliti ignoti, che viene fatta risalire la nascita di questo “genere” propriamente italiano, in cui la commedia abbandona i toni caricaturali e “da varietà” e i personaggi svestono la classica caratterizzazione teatrale da “maschera comica”, trasformandosi in gente comune, colta all’interno di una diegesi che si fa specchio di una contemporaneità in bilico tra vecchio e nuovo, tradizione e condizionamenti culturali esterni. La stessa scelta di Monicelli di far convivere sul set un’ormai leggendaria icona del comico come Totò e tutta quella serie di giovani interpreti tra cui Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman, Renato Salvatori- che della nuova ondata del cinema italiano diventeranno i protagonisti assoluti, segna metaforicamente un passaggio forte e programmatico, una transizione rigorosa da un vecchio modo a uno nuovo e frizzantemente attuale di fare commedia. Ma se il capolavoro di Monicelli, incentrato sull’organizzazione e la realizzazione di un furto da parte di un esiguo gruppetto di delinquentelli romani, segna la genesi della commedia all’italiana, la denominazione di questa macro-categoria filmica tutta italica viene desunto a posteriori dal Divorzio all’italiana di Pietro Germi, che attraverso una struttura propriamente riferibile al genere comico, riflette -come farà Pasolini nel suo straordinario documentario Comizi d’amoreDillinger è morto, Marco Ferreri, 1969

sulla scottante questione della legge sul divorzio -che in Italia arriverà solo nel 1970- e su quella altrettanto assurda del delitto d’onore, aggredendo attraverso il filtro del sarcasmo l’arretratezza legislativa italiana ed enfatizzando su celluloide il divario di mentalità che separa nord e sud. D’altronde i temi della famiglia, dell’adulterio, della sessualità si costituiscono come leitmotiv fissi della commedia all’italiana, attraversando trasversalmente opere come Romanzo popolare di Monicelli, Sedotta e abbandonata di Germi, Dramma della gelosia e Brutti, sporchi e cattivi di Ettore Scola, Io la conoscevo bene di Antonio Pietrangeli; spesso connessi a una sbandierata critica alle istituzioni, alla difficoltà di emergere all’interno di un mondo senza scrupoli dominato da corruzione, cinismo e arrivismo perfettamente raffigurato in opere come Una vita difficile di Dino Risi o Il medico della mutua di Luigi Zampa, entrambi imperniati sulla figura gigiona del mitico Alberto Sordi, volto-cardine del cinema italiano di quegli anni. Un altro carattere fortemente innovante del nuovo filone cinematografico è inoltre l’irruzione -nell’universo della commediadella morte, legata alla nostalgia di un mondo scomparso, alla malinconia di un’era passata, alla tragica consapevolezza dell’inevitabile scorrere del tempo e degli affetti. Tutti elementi tematici la cui “densità” si potenzia e cresce in modo quasi proporzionale al passare degli anni. Da momento isolato, spesso collocato in chiusura, nei film degli anni ’50 e ’60 come Il sorpasso di Dino Risi o La grande guerra e L’armata Brancaleone di Monicelli, la morte si trasforma in un fantasma invisibile e strisciante, capace di strutturare l’intero flusso filmico caricandolo di note tragiche, impregnate di rimpianto, nostalgia e dolore, nelle pellicole più tarde (anni ’70 e ’80) tra le quali è impossibile non citare quel meraviglioso affresco di un trentennio italiano che è



www.taxidrivers.it C’eravamo tanto amati di Scola oltre che Un borghese piccolo piccolo e il dittico di Amici miei di Monicelli, veri e propri canti del cigno in cui il dramma finisce inevitabilmente e definitivamente per prevalere sulla leggerezza, in un riflesso della mutata condizione storico-sociale in cui la saturazione delle contraddizioni del boom, giunta a un punto di non ritorno, ha frantumato in modo tragico le speranze in un futuro di crescita, instaurando la consapevolezza di un’inevitabile -e ahimé tuttora visibile- regressione.

44

Riepilogando la complessa poliedricità del grande cinema italiano post-boom economico -un percorso il mio, lo ammetto, programmaticamente costellato di imperdonabili ma necessarie esclusioni (da Ermanno Olmi al sottostimato Mauro Bolognini, da Valerio Zurlini a Marco Bellocchio)- è impossibile non dedicare qualche riga al più controverso e anticonvenzionale autore nostrano che la storia ricordi, nato artisticamente sotto i dettami della commedia all’italiana, viziati però dai miasmi vibranti di una poetica personalissima, condizionata fortemente dai principi delle filosofie pessimiste e vagamente accostabile a quella di Luis Buñuel. Sto parlando di Marco Ferreri, cineasta acclamato dalla critica europea e odiatissimo in patria, cantore privilegiato del male di vivere, della disumanizzazione operata dalle società capitalistiche, dell’alienazione provocata da uno stile di vita consumistico, e dissacratore di tutti i valori della civiltà occidentale e borghese. Sin da quell’esordio italiano costituito da L’ape regina infatti Ferreri si opera nel lanciare violente e feroci bordate contro l’istituzione ecclesiastica, gli incomprensibili dettami morali del cattolicesimo ma soprattutto nell’irridere con un sarcasmo che sfocia nella tragedia lo stato di coppia, il matrimonio e in generale le relazioni umane, dichiarando con la didascalia che apre il film di voler rappresen-

tare “in chiave paradossale e satirica quanto squallida è una vita matrimoniale deviata da una volgare ed egoistica concezione del piacere e da un formalismo bigotto, frutto di una interpretazione del tutto superficiale ed esteriore dei solidi ed immutabili principi della morale e della religione”. Insomma, un’affermazione chiara e programmatica dell’impossibilità della relazione tra sessi e più universalmente tra esseri umani che pervade con forza distruttiva tutta la sua filmografia. Si pensi alla Deneuve de La cagna che sveste i panni dell’amante di un Mastroianni alienato -unico abitante di un’isola deserta- e si degrada al ruolo di vero e proprio animale domestico oppure al Tognazzi meschino e arrivista de La donna scimmia che sposa un’orfana ricoperta di peli per sfruttarla come fenomeno da baraccone, senza dimenticare il Depardieu dell’Ultima donna, che nell’evirarsi con un coltello elettrico nega la possibilità di formazione di un nucleo familiare oppure quello di Ciao maschio, padre privo di valori che preferisce prendersi cura di una piccola scimmia piuttosto che di sua figlia. Fino, ovviamente, a quel vertice apocalittico rappresentato da Il seme dell’uomo, costruito come (il raro caso riuscito di) fantascienza distopica minimalista, in cui gli ultimi esseri umani sopravvissuti a un’ignota catastrofe si ritrovano a dover ripopolare una terra che nel finale si sgretola sotto i loro piedi, negando la possibilità di continuazione della specie. Eppure è probabilmente con La grande abbuffata e soprattutto Dillinger è morto che Ferreri mette a punto una vera e propria sintesi della sua riflessione disperata e nichilista sull’esistere. Con il primo, il regista milanese si lega concettualmente al Salò pasoliniano, e opera una sorta di ripresa variata e traslata alla contemporaneità di alcuni spunti delle 120 giornate di Sodoma di Sade, mettendo in scena la storia di quattro ricchi borghesi che decidono di porre fine alla propria noiosa


www.taxidrivers.it vita, ritirandosi in una villa per mangiare fino alla morte. I 130 minuti di pellicola si trasformano così nella successione di un catalogo disturbante e demonicamente liturgico di eccessi corporali: lo stile di vita borghese viene ridotto dal regista a un’inquietante e sgradevole progressione di funzioni elementari, l’esistenza viene evidenziata nelle sue componenti scatologiche e contemporaneamente la società dei consumi -di cui i quattro protagonisti sono i perfetti depositari- viene riletta come una spirale marcia e difettosa, inevitabilmente tendente all’insofferenza, al suicidio, all’autodistruzione. Con Dillinger (di tre anni precedente) la stessa apocalissi dell’uomo e del suo mondo viene professata nei modi di un film che rasenta lo sperimentale, con la macchina che bracca per 95 minuti i movimenti inutili e annoiati di un ingegnere industriale quasi sempre solo sulla scena, perso tra gli oggetti insignificanti di un’abitazione che si fa sineddoche del generalizzato universo consumista, passivamente subordinato al rumore assordante della televisione (che annuncia, appunto, la morte di Dillinger) e al flusso luminoso di un proiettore che duplica le immagini della sua vita, in un riferimento alla disgregazione (e dunque confusione) identitaria causata da un mondo dominato da una smodata proliferazione di immagini virtuali. Un “happening notturno sulla nevrosi” (come lo definisce Morandini) che racconta una realtà malata da cui -come testimonia il disperato finale che vede il protagonista salire su una nave diretta verso un orizzonte palesemente fittizionon è più possibile scappare. Altro nome imprescindibile del grande cinema italiano sviluppatosi a partire dal 1960 è poi ovviamente quello di Sergio Leone, cineasta leggendario entrato di diritto non solo nella storia della settima arte ma in generale in quella del costume

grazie a una filmografia compatta ma decisamente esigua, costituita da appena sei film (se si escludono i due -decisamente meno interessanti- peplum che accettò di dirigere a inizio carriera), tutti diventati nel giro di mezzo secolo cult insostituibili, marchiati a fuoco nella mente e nel cuore di ogni cinefilo e omaggiati a più riprese da generazioni di cineasti. Se il cinema di Bertolucci -insieme a quello di Antonioni- costituiva l’anelito italiano alla modernità europea, quello di Leone si dà nella sua globalità come un atto ancor più fondativo e -insieme- distruttivo, capace cioè di superare le istanze del modernismo per porsi come punto di partenza di quella postmodernità (la cui definizione rigorosa resta tuttora un nodo teorico controverso, sfaccettato e fin troppo abusato di cui ci occuperemo nell’ultimo episodio del nostro viaggio) che si dà come orizzonte estetico di esistenza della maggior parte del cinema contemporaneo. I caratteri di mescolanza, revisionismo e citazione propri di tanto cinema odierno sono presenti in nuce già nei celeberrimi episodi della trilogia del dollaro leoniana. Il silenzioso protagonista interpretato in tutti e tre i film da un giovane Clint Eastwood (che proprio a Leone deve la sua ascesa folgorante) si presenta come un uomo senza nome, come un antieroe su cui grava un ego ingombrante e opportunista, incapace di scegliere una posizione univoca tra l’emisfero dei buoni e quello dei cattivi e libero anzi di muoversi a suo piacimento in un West selvaggio che galleggia nel sangue (secondo una linea revisionista già percorsa da Peckinpah), tra sterminati deserti della morte e territori di frontiera che non valgono più per sé stessi ma come omaggi citanti espliciti a un genere morente o ad altri universi artistici e diegetici (si pensi solo a Per un pugno di dollari che si costituisce come un volontario remake de La sfida del samurai di Kurosawa). Una tendenza che si

45


www.taxidrivers.it

46

amplifica in Giù la testa ma soprattutto nel magnifico C’era una volta il West, ultima decostruzione possibile del mito della frontiera, canto del cigno del western propriamente detto oltre che nostalgica, citante e rassegnata riflessione sulla fine di un’era (anche cinematografica). Ma è senza dubbio con il colossale e definitivo C’era una volta in America che il progetto leoniano si articola in tutta la sua potenza e lungimiranza. Con i suoi duecentoventi minuti (diventati duecentoquaranta con la versione restaurata del 2011) di scene girate in tre stati (USA, Italia e Francia), le centinaia di comparse e un progetto di lavoro decennale (la leggenda vuole che nel 1984 Robert De Niro fece coniare una serie di medagliette ironiche con su scritto “Complimenti, siete sopravvissuti alla lavorazione di C’era una volta in America!”), l’ultimo -e più grande- film di Leone mette fine a un’era della storia del cinema e, come una cicatrice mai rimarginata, decreta l’adozione di una nuova coscienza estetica, imponendosi nell’immaginario collettivo come una delle più rilevanti opere cinematografiche mai realizzate. In effetti, l’unico termine in grado di racchiudere tra i ticchettii di una tastiera la grandezza di C’era una volta in America è la sua ineffabilità. L’operatestamento di Sergio Leone rifugge da ogni giudizio di sorta, dalla soggettività di ogni interpretazione, per porsi al di sopra di una qualsiasi scala di valori. Si tratta di un film-evento o di un film-vita, capace di ricatalogare su celluloide l’intera esperienza artistica ed esistenziale del grande maestro romano (“Questo film sono io. Non sarebbe stato lo stesso se l’avessi girato a quarant’anni perché è un film sulla memoria, sulla solitudine, la morte e il tempo che passa”), in grado di esibire un immenso compendio alla cultura -cinematografica e non- dell’intero XX secolo e allo stesso tempo di fungere da indispensabile chiave di volta per la

nascita di quel “cinema postmoderno” che proprio oggi si esprime ai suoi livelli più alti. Una mistione di omaggio al passato e inevitabile propensione al futuro, dunque. Dialettica questa, che riecheggia e si amplifica a livello diegetico all’interno della stessa narrazione filmica. In C’era una volta in America, infatti, i tempi già dilatati dei precedenti C’era una volta il West e Giù la testa (tradizionalmente accomunati con l’ultimo film di Leone in un’ipotetica trilogia del tempo) si sfaldano del tutto, si aggrovigliano in una matassa complessa come i meccanismi della memoria, si spostano e ritornano su sè stessi dimostrando come nulla è mai ciò che sembra. Più che riferirvisi indirettamente, C’era una volta in America incarna materialmente il tempo con la sua vertigine. Lo fa attraverso la stessa struttura narrativa: l’epopea gangster di Noodles, Max, Patsy e Cockeye si sviluppa in una cronologia impazzita e labirintica che fa esplodere ogni riferimento sicuro in un gioco di scatole cinesi in cui il presente sembra cessare di esistere. Le stesse indimenticabili sequenze, i dialoghi o più semplicemente gli oggetti di scena sottolineano la rilevanza dell’elemento tempo, quella del ricordo e del rimorso, capaci di diventare protagonisti assoluti ancor prima di quelli in carne ed ossa. Così gli orologi ricorrono nelle scene iniziali con un’intensità magnetica e le fotografie costituiscono il leitmotiv ricorrente dell’angusto locale di Fat Moe (“Cosa hai fatto in tutti questi anni?”; “Sono andato a letto presto.” ). I primi o i primissimi piani, così peculiari del cinema di Leone, incanalano negli occhi il peso del ricordo e per tutta la durata del film, diventano gli strumenti delegati a preannunciare i salti temporali. E proprio in questa struttura cronologica, vorticosa e slabbrata, uniformata dall’indimenticabile colonna sonora – una delle migliori mai realizzate- di Ennio Morricone (che collaborò a tutti i film di Leone, esclusi i peplum), il regista romano fa

C’era una volta in America (Once Upon a Time in America), Sergio Leone, 1984



www.taxidrivers.it

48

rinascere una New York scomparsa e riporta alla luce cinquant’anni di storia americana. Ispirandosi al romanzo semiautobiografico del gangster Harry Grey (all’anagrafe David Aaronson), Leone evoca Proust e costella il film di riferimenti alla psicanalisi di Freud (“Corri Noodles, che mamma ti vuole!”), guardando nel frattempo alla grande storia del cinema passato (“Guardare C’era una volta in America è stato come aprire un’enciclopedia sul cinema” dirà Tarantino molti anni dopo la sua uscita) e facendo convergere nel suo fluviale e testamentario affresco le strutture temporali frante e rielaborate dal ritmo soggetto della memoria del Quarto potere di Orson Welles, dell’8½ di Fellini, passando per quelle dell’Alba tragica di Marcel Carnè o di Hiroshima mon amour di Alain Resnais. Il tutto senza perder di vista la propria personalissima vena autoriale, coronata in quella tensione epica -e quasi biblica- di cui colora alcune scene pressochè indimenticabili tra bambini mai cresciuti e poliziotti corrotti, violenza che si fa valere a suon di piombo, ingordigia, asfalto, soprusi sessuali, vecchi teatri di ombre e fumerie d’oppio. Proprio in una fumeria d’oppio il film si apre ed esattamente nella stessa finisce, chiudendo circolarmente sull’inquadratura dall’alto di un sorriso drogato ed eterno del protagonista Noodles. è proprio quel sorriso a frantumare di nuovo il puzzle intricato che poco prima lo spettatore sembrava aver definitivamente ricostruito una volta per tutte. La scena finale getta perciò un alone di mistero sull’intero significato della pellicola e la apre a nuove infinite interpretazioni, compresa quella di non averne nessuna davvero oggettiva. Ed è esattamente la strada del finale aperto quella che il maestro Leone sembra suggerire, salvo poi ricordare il curioso aneddoto per il quale, dopo la sera della prima nel 1984, alla richiesta di chiarimenti di uno spettatore entusiasta, il regista rispose fermamente “Vede, il film

inizia e finisce in una fumeria. Quindi potrebbe anche essere che tutta la vicenda non sia stata altro che una…”. Lo spettatore lo pregò di non continuare, preferendo cullarsi nella speranza della veridicità di tutta la vicenda, così carica di valori morali e simbolici. E in ogni caso, qualunque sia la nostra personalissima interpretazione, il valore epocale della pellicola di Leone sta prima di tutto nell’aver proposto un nuovo modo di fare cinema: rifiutando la linearità consequenziale (ripristinata nella prima edizione americana, che tagliò inoltre quasi due ore di girato e non a caso fece flop), adeguando la narrazione all’incantato ritmo della memoria, facendo dell’omaggio e della citazione delle strutture discorsive di riconosciuta rilevanza estetica, ponendo per la prima volta la molteplicità, il potenziale e non più l’essere e la presenza univoca (di matrice positivistica) come orizzonte dell’essere al mondo, il maestro romano pose di fatto le basi per la (quasi) totalità della produzione autoriale contemporanea, autodecorandosi inevitabilmente come primo regista postmoderno della storia. Cioè come padre fondatore di un cinema che riflette il disordine meticcio del nostro mondo mass-mediale, dominato da una sempre più incontrollata frammentazione delle identità causata dalla moltiplicazione virtuale dell’esistenza su più livelli, e di conseguenza riproduce l’impossibilità di percepire la realtà attraverso un punto di vista unitario. Di un’arte in cui è sostanziale la proliferazione di temporalità differenti e convergenti come di chiavi di lettura innumerevoli, prive di gerarchie e di una qualsiasi possibilità di soluzione. In questo senso C’era una volta in America si propone come archetipo primo del cinema contemporaneo, modello di riferimento a cui non è affatto difficile accostare opere a prima vista lontane anni luce per generi e temi trattati. Le strategie di fondo di un film come Pulp Fiction o, traslando l’argomentazione su


www.taxidrivers.it un territorio quanto mai distante dal cinema tarantiniano, Mulholland Dr. sono ancora legate con un indelebile filo rosso all’ultimo straordinario capolavoro di Sergio Leone che morì cinque anni dopo l’uscita di tale opera totale in cui aveva concentrato tutto il suo essere. “Mangio e penso al film, cammino e penso al film, vado al cinema e non vedo il film ma vedo il mio…non ho mai visto De Niro sul set ma sempre il mio Noodles”.

FILMOGRAFIA PARZIALE PIER PAOLO PASOLINI Accattone (1961) Mamma Roma (1962) La ricotta (1963) La rabbia (1963) Comizi d’amore (1964) Il Vangelo secondo Matteo (1964) Uccellacci e uccellini (1965) Edipo re (1967) Teorema (1968) Porcile (1968-1969) Medea (1969) Il Decameron (1971) I racconti di Canterbury (1972) Il fiore delle Mille e una notte (1974) Salò o le 120 giornate di Sodoma (1975) BERNARDO BERTOLUCCI La commare secca (1962) Prima della rivoluzione (1964) Partner (1968) Il conformista (1970) Strategia del ragno (1970) Ultimo tango a Parigi (1972) Novecento (1976) La luna (1979) La tragedia di un uomo ridicolo (1981) L’ultimo imperatore (The Last Emperor) (1987) Il tè nel deserto (The Sheltering Sky) (1990) Piccolo Buddha (Little Buddha) (1993) Io ballo da sola (Stealing Beauty) (1996) L’assedio (Besieged) (1998) I sognatori (The Dreamers) (2003) Io e te (2012) SERGIO LEONE Il colosso di Rodi (1961) Per un pugno di dollari (1964) Per qualche dollaro in più (1965) Il buono, il brutto, il cattivo (1966) C’era una volta il West (1968) Giù la testa (1971) C’era una volta in America (1984)

49


www.taxidrivers.it

50

MARIO MONICELLI I ragazzi della via Paal (1935) Pioggia d’estate (1937) Totò cerca casa (1949) Al diavolo la celebrità (1949) è arrivato il cavaliere (1950) Vita da cani (1950) Totò e i re di Roma (1951) Guardie e ladri (1951) Totò e le donne (1952) Le infedeli (1953) Proibito (1954) Un eroe dei nostri tempi (1955) Totò e Carolina (1955) Donatella (1956) Il medico e lo stregone (1957) Padri e figli (1957) I soliti ignoti (1958) Lettere dei condannati a morte (1959) La grande guerra (1959) Risate di gioia (1960) Boccaccio ’70 (1962) – episodio Renzo e Luciana I compagni (1963) Alta infedeltà (1964) – episodio Gente moderna Casanova ’70 (1965) Le fate (1966) – episodio Fata Armenia L’armata Brancaleone (1966) La ragazza con la pistola (1968) Capriccio all’italiana (1968) – episodio La bambinaia Toh, è morta la nonna! (1969) Le coppie (1970) – episodio Il frigorifero Brancaleone alle crociate (1970) La mortadella (1971) Vogliamo i colonnelli (1973) Romanzo popolare (1974) Amici miei (1975) Caro Michele (1976) Signore e signori, buonanotte (1976) Un borghese piccolo piccolo (1977) I nuovi mostri (1977) Viaggio con Anita (1979) Temporale Rosy (1980) Camera d’albergo (1981) Il marchese del Grillo (1981) Amici miei – Atto II (1982) Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno (1984)

Le due vite di Mattia Pascal (1985) Speriamo che sia femmina (1986) I picari (1988) Il male oscuro (1990) Rossini! Rossini! (1991) Parenti serpenti (1992) Cari fottutissimi amici (1994) Facciamo paradiso (1995) Panni sporchi (1999) Le rose del deserto (2006) DINO RISI Vacanze col gangster (1951) Il viale della speranza (1953) L’amore in città – episodio Paradiso per 4 ore (1953) Il segno di Venere (1955) Pane, amore e… (1955) Poveri ma belli (1957) La nonna Sabella (1957) Belle ma povere (1957) Il vedovo (1959) Poveri milionari (1959) Venezia, la luna e tu (1959) Il mattatore (1959) Un amore a Roma (1960) A porte chiuse (1961) Una vita difficile (1961) Il sorpasso (1962) Il successo (1963) La marcia su Roma (1963) Il giovedì (1963) I mostri (1963) Le bambole – episodio La telefonata (1965) Il gaucho (1965) I complessi – episodio Una giornata decisiva (1965) L’ombrellone (1966) I nostri mariti – episodio Il marito di Attilia (1966) Operazione San Gennaro (1966) Il tigre (1967) Straziami, ma di baci saziami (1968) Il profeta (1968) Vedo nudo (1969) Il giovane normale (1969) La moglie del prete (1971) Noi donne siamo fatte così (1971)


www.taxidrivers.it In nome del popolo italiano (1971) Mordi e fuggi (1973) Sessomatto (1973) Profumo di donna (1974) Telefoni bianchi (1976) Anima persa (1977) La stanza del vescovo (1977) I nuovi mostri – episodi Con i saluti degli amici, Tantum ergo, Pornodiva, Mammina e mammone e Senza parole (1977) Primo amore (1978) Caro papà (1979) Sono fotogenico (1980) Fantasma d’amore (1981) Sesso e volentieri (1982) …e la vita continua (1984) (TV) Dagobert (1984) Scemo di guerra (1985) Il commissario Lo Gatto (1986) Teresa (1987) PIETRO GERMI Il testimone (1946) Gioventù perduta (1947) In nome della legge (1948) Il cammino della speranza (1950) La città si difende (1951) Il brigante di Tacca del Lupo (1952) La presidentessa (1952) Gelosia (1953) Amori di mezzo secolo (1954) Il ferroviere (1956) L’uomo di paglia (1958) Un maledetto imbroglio (1959) Divorzio all’italiana (1961) Sedotta e abbandonata (1964) Signore & signori (1966) L’immorale (1967) Serafino (1968) Le castagne sono buone (1970) Alfredo, Alfredo (1972) ELIO PETRI L’assassino (1961) I giorni contati (1962) Il maestro di Vigevano (1963) Alta infedeltà, episodio Peccato nel pomeriggio (1964) La decima vittima (1965)

A ciascuno il suo (1967) Un tranquillo posto di campagna (1968) Ipotesi in Documenti su Giuseppe Pinelli (1970) Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto (1970) La classe operaia va in paradiso (1971) La proprietà non è più un furto (1973) Todo modo (1976) Le mani sporche (1978) Le buone notizie (1979) FRANCESCO ROSI Kean – Genio e sregolatezza, co-regia con Vittorio Gassman (1956) La sfida (1958) I magliari (1959) Salvatore Giuliano (1962) Le mani sulla città (1963) Il momento della verità (1964) C’era una volta… (1967) Uomini contro (1970) Il caso Mattei (1972) Lucky Luciano (1973) Cadaveri eccellenti (1976) Cristo si è fermato a Eboli (1979) Tre fratelli (1981) Carmen (1984) Cronaca di una morte annunciata (1987) Dimenticare Palermo (1990) Diario napoletano (1992) La tregua (1997) ETTORE SCOLA Se permettete parliamo di donne (1964) La congiuntura (1965) L’arcidiavolo (1966) Riusciranno i nostri eroi a ritrovare l’amico misteriosamente scomparso in Africa? (1968) Il commissario Pepe (1969) Dramma della gelosia – Tutti i particolari in cronaca (1970) Permette? Rocco Papaleo (1971) La più bella serata della mia vita (1972) Trevico-Torino – Viaggio nel Fiat-Nam (1973) C’eravamo tanto amati (1974) Brutti, sporchi e cattivi (1976)

51


www.taxidrivers.it Signore e signori, buonanotte (1976) Una giornata particolare (1977) I nuovi mostri (1977) – episodi L’uccellino della Val Padana, Il sospetto, Hostaria, Come una regina, Cittadino esemplare, Sequestro di persona cara ed Elogio funebre La terrazza (1980) Passione d’amore (1981) Il mondo nuovo (La Nuit de Varennes) (1982) Ballando ballando (1983) Maccheroni (1985) La famiglia (1987) Splendor (1989) Che ora è? (1989) Il viaggio di Capitan Fracassa (1990) Mario, Maria e Mario (1993) Romanzo di un giovane povero (1995) La cena (1998) Concorrenza sleale (2001) Gente di Roma (2003) Che strano chiamarsi Federico (2013)

52

MARCO FERRERI El pisito (1958) co-regia di Isidoro Ferry Los chicos (1959) La carrozzella (1960) Le italiane e l’amore – episodio L’infedeltà coniugale (1961) Una storia moderna (1963) Controsesso – episodio Il professore (1964) La donna scimmia (1964) Oggi, domani e dopodomani – episodio L’uomo dei 5 palloni (1965) Marcia nuziale (1965) Corrida! – documentario (1966) L’harem (1967) Dillinger è morto (1969) Il seme dell’uomo (1969) L’udienza (1971) La cagna (1972) La grande abbuffata (1973) Non toccare la donna bianca (1974) L’ultima donna (1976) Ciao maschio (1978) Chiedo asilo (1979)

Storie di ordinaria follia (1981) Storia di Piera (1983) Il futuro è donna (1984) I Love You (1986) Come sono buoni i bianchi (1988) Il banchetto di Platone (1989) La casa del sorriso (1991) La carne (1991) Diario di un vizio (1993) Nitrato d’argento (1996) ERMANNO OLMI Il tempo si è fermato (1958) Il posto (1961) I fidanzati (1963) E venne un uomo (1965) Un certo giorno (1969) Durante l’estate (1971) La circostanza (1974) L’albero degli zoccoli (1978) Camminacammina (1982) Lunga vita alla signora! (1987) La leggenda del santo bevitore (1988) Il segreto del bosco vecchio (1993) Il mestiere delle armi (2001) Cantando dietro i paraventi (2003) Tickets (2005) – co-regia con Abbas Kiarostami e Ken Loach Centochiodi (2007) Il villaggio di cartone (2011) MAURO BOLOGNINI Ci troviamo in galleria (1953) I cavalieri della regina (1954) La vena d’oro (1955) Gli innamorati (1955) Guardia, guardia scelta, brigadiere e maresciallo (1956) Marisa la civetta (1957) Giovani mariti (1958) Arrangiatevi! (1959) La notte brava (1959) Il bell’Antonio (1960) La giornata balorda (1961) La viaccia (1961) Agostino (1962) Senilità (1962) La corruzione (1963) Madamigella di Maupin (1966)


www.taxidrivers.it Arabella (1967) L’assoluto naturale (1969) Un bellissimo novembre (1969) Metello (1970) Bubù (1971) Imputazione di omicidio per uno studente (1972) Libera, amore mio… (1973) Fatti di gente perbene (1974) Per le antiche scale (1975) L’eredità Ferramonti (1976) Gran bollito (1977) La storia vera della signora delle camelie (1981) La venexiana (1986) Mosca addio (1987) La villa del venerdì (1991) VALERIO ZURLINI Le ragazze di San Frediano (1954) Estate violenta (1959) La ragazza con la valigia (1961) Cronaca familiare (1962) Il paradiso all’ombra delle spade Le soldatesse (1965) Seduto alla sua destra (1968) Come, quando, perché (1969) terminato dopo la morte di Antonio Pietrangeli I gabbiani d’inverno o l’inverno sull’Adriatico (1972) La prima notte di quiete (1972) Il deserto dei tartari (1976) MARCO BELLOCCHIO I pugni in tasca (1965) La Cina è vicina (1967) Nel nome del padre (1972) Sbatti il mostro in prima pagina (1972) Marcia trionfale (1976) Salto nel vuoto (1980) Vacanze in Val Trebbia (1980) Gli occhi, la bocca (1982) Enrico IV (1984) Diavolo in corpo (1986) La visione del sabba (1988) La condanna (1991) Il sogno della farfalla (1994) Il principe di Homburg (1996) La balia (1999) L’affresco (2000)

Elena (2002) Appunti per un film su Zio Vania (2002) L’ora di religione (2002) Buongiorno, notte (2003) Il regista di matrimoni (2006) Sorelle (2006) Vincere (2009) Sorelle Mai (2010) Bella addormentata (2012)

53



IL GRANDE CINEMA D'AUTORE (L'EUROPA)

C

apitoli come questo -e quello che verrà- mettono a dura prova la pazienza, la mente e il cuore di chi scrive. Ancor più che negli episodi dedicati a Hitchcock e alla Nouvelle Vague (in cui tentai di raccontare due mondi sterminati attraverso il riferimento a soli cinque film) qui sarò costretto a estremizzare il doloroso strumento della sintesi come il supplizio del sacrificio. Mi propongo infatti di raccontare lo sfaccettato -oltre che illimitato- scenario del grande cinema europeo che seguì le rivoluzioni linguistico-estetiche del neorealismo e della Nouvelle Vague francese. Nel momento della pianificazione di una simile operazione, mi si sono aperte davanti due ipotesi: ragionare per eccesso e procedere in pratica con un elenco infinito di nomi e titoli che avrebbe rischiato di risultare astratto, noioso e tremendamente prolisso oppure lavorare seguendo un duro e arduo criterio di selezione, impegnandomi in modo crudele e divorante a illuminare la poetica di ogni regista attraverso un solo film -arrischiandomi a scegliere spesso non il più universalmente acclamato ma un titolo meno noto ma che in misura netta riesca comunque a fungere da compendio a una precisa visione del mondo e del cinema- o a volte, ancor più radicalmente, a parlare di un unico rappresentante per nazione. Da questo compendio europeo in miniatura ho volontariamente escluso i cineasti francofoni (avendo già dedicato alla Francia cinematografica del dopoguerra un episodio integrale di Squarci di Settima Arte) scartando -non senza provare più d’una stretta al cuore- autori giganteschi

del calibro dei francesi Bertrand Tavernier, Jacques Tati, Claude Lanzmann, Maurice Pialat, Agnes Varda, Jean-Marie Straub e Danièle Huillet e della belga Chantal Akerman. Mi sono dedicato invece allo spagnolo Luis Buñuel, ai due maggiori esponenti del Nuovo Cinema tedesco e a quello più paradigmatico del Free Cinema inglese, allo svedese Ingmar Bergman, al binomio di nomi -a mio avviso- più esemplarmente indicativi del grande rinnovamento cinematografico sviluppatosi nella Polonia della seconda metà del secolo e infine al greco Theodoros Angelopoulos. Tutte scelte durissime che hanno comportato altrettante esclusioni -lo ammetto- imperdonabili (che di volta in volta mi impegnerò quanto meno a citare). Tutti cineasti straordinari che meriterebbero un’ampia e approfondita monografia ma che nello spazio ridotto di questa rubrica non posso che celebrare scegliendo -ancor più dolorosamente- un solo film a testa. Cominciamo dunque da Luis Buñuel, nato nel 1900 in Aragona ma costretto ad operare tra Francia, Messico e Stati Uniti a causa della dittatura franchista. Padre del surrealismo cinematografico e autore -insieme a Salvador Dalì- delle due opere che più tradizionalmente vengono associate a tale orientamento (gli straordinari Un chien andalou e L’age d’or), Buñuel si caratterizza sin dagli esordi come una personalità straordinariamente eversiva, libera e irriverente, estranea a qualsiasi moda o corrente cinematografica dai confini troppo netti (perfino il suo “essere surrealista” è permeato da istanze propriamente soggettive) e portatrice, per

Il fascino discreto della borghesia, Luis Buñuel, 1972

55


www.taxidrivers.it

56

converso, di una visione unica e profondamente personale, fondata su un anelito antiborghese e anticlericale, su uno sforzo sempre costante di scavalcare i confini angusti e sclerotizzati della narrazione tradizionale per giungere a forme ibride, capaci di sezionare la lineare teleologia del quotidiano e mescidarla con le discese a picco negli oscuri orizzonti dell’inconscio e del desiderio. Il film che più dettagliatamente illustra l’esplosiva e affascinante poliedricità della sua opera è -in questo caso- anche il più universalmente noto, complice pure quella vittoria agli Oscar che Buñuel commentò in modo frizzantemente sarcastico, confermando la sua idiosincrasia nei confronti di ogni riduzione dell’arte a uno schema stupidamente passatista: “Si trattava di un voto perfettamente democratico. Certo, il risultato è imprevedibile perché a votare sono 2.500 idioti, tra i quali c’è pure, per esempio, l’assistente figurinista dello studio, che ha diritto al voto come gli altri.” Sto parlando ovviamente de Il fascino discreto della borghesia, compendio assoluto del cinema buñueliano, raccoglitore massimo della sua concezione del cinema. E in realtà dell’esistenza tout court. Nel raccogliere in un unico contenitore tutte le sue ossessioni più care, Buñuel opta per una struttura a tre livelli, liberi di intersecarsi in modo ambiguo nel corso della narrazione e capaci in questo modo di problematizzare le rigide barriere tra i diversi livelli di realtà con cui lo spettatore è abitualmente costretto a confrontarsi. Il primo è il piano narrativo per eccellenza e racconta -in un registro che unisce ragione e contraddizione, logica e incredulità- la storia di un gruppo di borghesi benestanti e ipocritamente eleganti che tentano ripetutamente di organizzare un pranzo che per varie ragioni non riesce ad avere mai luogo. L’impossibilità di mangiare, reiterata plurimamente nel corso della pellicola, si configura come

cifra simbolica di pariniana memoria e pare attestare la tensione infinita della borghesia verso il soddisfacimento dei bisogni primari, perennemente bloccata da una vanagloriosa e innaturale smania di rispettare le regole non scritte del sociale, dettate dal potere di istituzioni senza volto. Come contraltare di questo leitmotiv del “mancato banchetto” si sommano però le “esistenze celate” dei vari protagonisti che dietro a una scorza di rispettabilità e onore nascondono delle “vite parallele” meschine (il caso più esemplare è quello del protagonista, ambasciatore zelante e nel contempo ligio organizzatore di un traffico di droga clandestino). Il secondo livello filmico porta a un grado di intensità maggiore l’irriverente satira dell’ipocrita, grottesco e alogico way of life borghese. Si tratta del gruppo di sequenze oniriche che costellano il film -sostituendosi come nulla fosse al normale flusso del quotidiano e confermando la propria natura di “sogno” soltanto in un secondo momento- nelle quali tutte le pulsioni azzerate nel primo livello riemergono in modo sfacciato e irrefrenabile, in una sorta di esplorazione capillare di un inconscio troppo a lungo represso. Il terzo livello filmico, infine, è quello che presenta i caratteri di massima ambiguità e si apre invece a una procedura affascinante di infinitizzazione del senso. Parlo ovviamente della serie di sequenze mute che intervallano il flusso filmico ripetutamente in cui i sei protagonisti camminano senza sosta (e senza proferire una parola) su una strada vuota, circondata su entrambi i lati da prati verdi. Qui il potere di suggestione aumenta a dismisura, l’atmosfera onirica si fa sempre più penetrante, accrescendo in modo vorticoso il valore “surrealista” (quanto meno nel senso più letterale) dell’immagine, che con la sua cadenza reiterata e ipnotizzante supera l’orizzonte del fenomenico per aprirsi a uno stato cono-


www.taxidrivers.it scitivo “oltre” la realtà (sur-realtà) in cui veglia e sogno sono entrambe presenti e si conciliano in modo armonico e profondo. Una successione di sequenze che si dà dunque come momento di sublimazione (narrativa e simbolica) dei due livelli diegetici precedenti, interpretata di volta in volta in modo drasticamente diverso: ora come una sorta di metaforico pellegrinaggio della borghesia all’interno di sé stessa, dei propri riti e delle proprie insensate convinzioni; ora come la rappresentazione più rigorosa nel suo minimalismo- dell’eterna erranza dell’uomo moderno alla ricerca del piacere e della soddisfazione del desiderio; spesso addirittura attraverso un’ottica meta-cinematografica che vede nel cammino eterno dei protagonisti uno specchio del percorso degli spettatori alla ricerca del senso all’interno della labirintica struttura dell’universo messo in scena dal regista. Dopo Buñuel, il nostro itinerario approda alla Germania divisa del dopoguerra, dominata da una frizzante ansia di rinascita culturale che culminò in ambito cinematografico alla nascita del cosiddetto Nuovo Cinema tedesco, a partire dalla pubblicazione del noto Manifesto di Oberhausen, una dichiarazione sottoscritta da un gruppo di giovani cineasti riuniti in occasione dell’annuale rassegna cinematografica nota come Internationale Kurzfilmtage, in cui si denunciava lo stato di immobilismo e stallo inesorabile in cui riversava il cinema tedesco e si proponeva la nascita di una cinematografia libera da condizionamenti culturali e commerciali, capace di rinnovarsi a partire dalle innovazioni tecniche e tematiche introdotte dal Neorealismo italiano, dalla Nouvelle Vague francese come dalle lezioni imprescindibili del cinema classico hollywoodiano e dell’Espressionismo tedesco degli anni ’20. Una stagione cinematografica di tale rilevanza meriterebbe da sola un approfondimento perso-

nale e capace di delineare in modo onnicomprensivo le sue anime. Nello spazio ridotto in cui mi trovo a scrivere sarò costretto a escludere cineasti del calibro di Edgar Reitz, Wim Wenders, Margarethe von Trotta e Alexander Kluge, per soffermarmi su due capolavori -stavolta non i più conosciuti, anzi probabilmente i meno ricordati- dei due autori che a mio avviso rappresentano gli assoluti imprescindibili del cinema tedesco della seconda metà del Novecento: Werner Herzog e Rainer Werner Fassbinder. Il primo si costituisce nell’immaginario contemporaneo come uno dei massimi cineasti viventi, con una filmografia sterminata caratterizzata da una continua alternanza tra fiction e documentario. Alternanza in realtà ambigua e a detta dello stesso Herzog inesistente (“Non faccio una chiara distinzione tra di essi. Sono tutti film.”) poiché tutti i suoi film di fiction sembrano essere sottomessi a una spinta implacabile verso la fattualità concreta del reale e per converso molti dei suoi “documentari” paiono orientati a un’irrinunciabile anelito verso la poesia o ciò che per sua natura esula dal reale (la fantascienza, ad esempio). Tutti i suoi film, in ogni caso, sembrano confermare il suo legame indistricabile con la propria cultura, della quale si dà -almeno cinematograficamente- come testimone più paradigmatico. Ogni sua pellicola è fondata su una riflessione drasticamente pessimista sulla natura dell’uomo e del creato, il cui rapporto non può essere che letto come una continua operazione di sopraffazione del secondo sul primo. I suoi protagonisti si configurano generalmente come degli outsider (per quanto il regista ammetta che “I miei personaggi sembrano degli outsider, ma è il resto ad essere outsider.”), banditi dal sociale o incapaci di integrarvisi in modo coerente, sottomessi alla potenza distruttrice, beffarda e indomabile della natura o a quella ancor più gretta del sociale o delle forze inconsce che dominano il loro Ego

57



www.taxidrivers.it devastato, che della natura non sono che i riflessi imperfetti e (ancor più) brutali. Tutti caratteri profondamente connessi con la storia recente di un pensiero -quello tedesco- improntato su una visione pessimista del mondo, passando dal nichilismo estremo di Nietzsche a quella sua prima e più rigorosa concretizzazione cinematografica costituita dall’Espressionismo, serbatoio di realtà defigurate e distorte, assoggettate allo sguardo di un potere soverchiante e privo di volto (che lo stesso Herzog citerà esplicitamente col suo Nosferatu, rifacimento dell’omonimo film di Murnau e a detta del regista collegamento cercato e voluto tra il grande cinema tedesco del passato e il cosiddetto “nuovo cinema tedesco”). In una filmografia compatta e quanto mai coerente come quella di Herzog, scegliere un film come specchio di un pensiero è particolarmente difficile. Come già detto sopra, la mia scelta è dettata più che altro dalla volontà di render omaggio a un capolavoro raramente ricordato nelle -frequenti- ricognizioni dell’opera del cineasta tedesco. Si tratta di Woyzeck, tratto dall’omonimo dramma teatrale di Georg Büchner (altra connessione con la cultura tedesca), cronaca della disperata discesa verso la follia di un povero soldato (il sempre magistrale Klaus Kinski, attore feticcio di Herzog), costretto per guadagnarsi da vivere e sostenere la sua compagna infedele e il (di lei) figlio illegittimo, a far da cavia per gli esperimenti di un medico senza scrupoli. I 75 minuti di pellicola costituiscono un nerissimo trascorso attraverso l’umiliazione, la beffa, l’odio e l’orrore di un’umanità incapace di assistere e tutta ripiegata nel sottomettere il più debole, nel subordinare meschinamente chi -nella sua innocente voglia di vivere, amare ed essere amato- non trova altro che smarrimento e follia. Appena più semplice è stata la scelta del film per Fassbinder, nonostante anche la

sua -prolifica- filmografia sia densissima di capolavori. Nella selezione ha influito drasticamente -come per Herzog- la volontà di dar voce a un tassello imprescindibile, eppure odiatissimo e in alcune occasioni totalmente demonizzato, dell’opera del cineasta tedesco. A questa motivazione però si è affiancata la celebre e strenua operazione di difesa messa in atto da Marcel Carné in occasione della cerimonia di premiazione della 39ª Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia dove il film fu presentato. Il maestro francese disse: “Come Presidente della Giuria non sono riuscito a convincere i miei colleghi a premiare il film Querelle di Rainer Werner Fassbinder. Sono stato il solo a difenderlo. Tuttavia continuo a credere che l’ultima opera di Fassbinder, che lo si voglia o no, che la si deplori o no, avrà un giorno il suo posto nella storia del cinema.” Ho voluto così, nel mio piccolo, dare a Querelle de Brest un posto d’onore nella mia storia del cinema, riconoscendo il suo valore nei termini di summa rigorosa dell’opera di uno dei più grandi cineasti europei di sempre. Il film si configura come il viaggio interiore del protagonista Querelle alla ricerca della propria identità (sessuale ed esistenziale) tra i bassifondi di una città portuale riprodotta con uno stile volutamente antirealistico (tutto è girato in teatro di posa e allestito seguendo la lezione espressionista e barocca) dominata dal vizio, dalla morte, dalla perdita di valori ma non immune ai percorsi del sentimento così profondamente tipici dei film di Fassbinder, impegnato sin dall’inizio della sua carriera in un programmatico lavoro di rifondazione dei parametri del melodramma alla Douglas Sirk, teso ad accogliere negli schemi narrativi del genere le sospensioni ieratiche del tempo vissuto e ad annullare i problematici paletti della censura hollywoodiana, aprendosi agli amori omosessuali, alla liberazione della corporeità, alle dinamiche del transgender

Querelle de Brest, Rainer Werner Fassbinder, 1982

59


www.taxidrivers.it

60 62

(tutti elementi oggi ripresi esplicitamente da un regista come Almodovar). In Querelle de Brest, ultimo film del regista, questa operazione trova la sua sublimazione definitiva: come Kubrick in Arancia meccanica si proponeva di rendere l’ultraviolenza -intesa come un impeto troppo eccessivo per rappresentarlo attraverso la realtà quotidianarompendo l’equilibrio del mondano e della rappresentazione e riproducendo il mondo come un universo artificiale, ipersemiotizzato, distaccato da ogni contatto con la natura; allo stesso modo Fassbinder, giunto al suo film definitivo, decide di rappresentare il corpo e la passione -ossessioni cardine di tutti i suoi film- nei termini di alterità talmente forti rispetto al quotidiano da richiedere l’invenzione di nuovi modi di raccontare e produrre immagini. Da qui nasce l’esigenza di un universo diegetico palesemente finto, in cui la forza spropositata della fisicità barbarica scardini il naturalismo della rappresentazione, per esprimersi in un agglomerato in cui tutto è citazione (è innegabile che Querelle trasudi di tutti i lasciti più imponenti della cultura tedesca, da Brecht all’Espressionismo). In questo senso, dunque, il sole finto, i tetti di cartapesta, la recitazione spesso- straniata, gli ambienti immersi nell’arancio falsante delle luci di posa, le didascalie nere su fondo bianco che continuamente spezzano il ritmo diegetico -ovvero tutti gli elementi che i detrattori considerarono alla stregua di paraventi carichi di manierismo incapaci di celare un vuoto di ispirazione- costituiscono in realtà l’ultimo e più estremo risultato di un’estetica (quella di Fassbinder) da sempre fondata sull’eccedenza del corpo, del sesso (come del senso) e del melodramma stesso (da sempre considerato genere “eccessivo”), ormai incapaci di restare intrappolati nella datità nuda del reale e obbligati per esprimersi a defigurarlo, destrutturarlo in tutte le sue componenti, fino a condurlo alla brucia-

tura estrema, al frame bianco che interrompe il flusso e lascia alla scrittura il compito di dire ancora. In Inghilterra gli anni ’60 coincisero con una drastica trasformazione storicoculturale, causata in primo luogo dallo sgretolamento dello storico impero coloniale britannico o meglio dalla sua trasformazione in quell’immenso circuito finanziario fatto di legami commerciali chiamato Commonwealth. L’avvento del neocapitalismo scosse le coscienze, dando vita a un cambiamento epocale che coinvolse ogni settore della sfera pubblica: dall’industria alla moda, dalla meccanica di precisione alla musica, dalla pittura al cinema. Come in Germania, una giovane generazione di registi e sceneggiatori influenzati dall’esperienza della Nouvelle Vague francese, espressero in un manifesto la loro esigenza di un cinema rinnovato, capace di affrontare la realtà con occhio lucido e disincantato, fondato “sulla fede nella libertà, sull’importanza della gente comune e del valore della quotidianità”. Questi i temi fondanti del Free Cinema che si andò costituendo in primo luogo come un’operazione di totale rottura col passato, tesa a sostituire i “drammi dei quartieri alti” del cinema tradizionale con i cosiddetti kitchen stink plays, letteralmente i “racconti che puzzano di cucina”, imperniati sulla quotidianità ripetitiva e soffocante di proletari, operai o piccoli borghesi, sul loro inglese sporco e popolare (il cockney). Soprattutto scandagli di un’impotenza, ritratti di piccoli uomini che lottano per emergere dal degrado fumoso e rassegnato della provincia, affreschi dolorosamente affettuosi di un’Inghilterra incazzata (gli autori di questo nuovo cinema furono non a caso chiamati Angry young men). Proprio per questo, forse, le scelte più logiche e adeguate a descrivere una simile stagione sarebbero state il Look back in anger di Tony Richardson (scritto da John Osbourne) o Sabato


www.taxidrivers.it sera, domenica mattina di Karel Reisz, pienamente pervasi dei caratteri citati nell’analisi generale sopra condotta del nuovo cinema inglese. Eppure, essendo -come già specificato- il Free Cinema prima di tutto una rivendicazione di libertà nei confronti del passato, la mia preferenza non poteva che cadere su Se… di Lindsay Anderson, grottesco e ironico affresco di una nazione in trasformazione, condotto attraverso il filtro di una prestigiosa scuola privata descritta nei termini di un carcere militare, in cui le ridicole usanze borghesi e le assurde regole di disciplina dettate da un conservatorismo bigottamente fondato sulle istituzioni ecclesiastiche e militari favoriscono la crescita dei fermenti di ribellione dei rappresentanti di una gioventù nuova e libera. Lindsay Anderson attacca alla radice -come Buñuel- l’ipocrita e sadica coscienza borghese dei suoi tempi, non solo facendola crollare sotto i colpi di fucile dei suoi protagonisti in quello che è uno dei finali più crudelmente liberatori della storia ma anche costruendo il film come una struttura ibrida e sospesa tra realtà e immaginario. Per rispondere al conformismo raggelante e livellante del mondo borghese rappresentato in scena (uno dei professori ammette a chiare lettere che “il collegio è simbolo di molte cose: cameratismo, integrità nei pubblici uffici, alto livello nel mondo televisivo e dello spettacolo, generosi sacrifici nelle nostre guerre. Certo, alcune nostre usanze sono ridicole e si potrebbe dire che noi siamo borghesi ma una gran parte della popolazione si sta apprestando a divenire borghese e molti valori della classe borghese sono valori di cui la nazione non può fare a meno.”) Anderson sfrutta la carta del surreale, contaminando il tessuto narrativo di piccole ma straordinarie parentesi di stordente e magnifica visionarietà. Così ai rigidi e codificati ritmi del collegio seguono le tanto aspirate scene di accesa carnalità (stigmatizzate da un’istituzione rigorosa-

mente controllata dal potere vescovile), le fughe in moto, le esplosioni di inaudita violenza contro un potere ormai logoro oppure la scoperta di passaggi nascosti, di porte e cunicoli invisibili, capaci di condurre in mondi diversi, nascosti, forse migliori. Procedendo con il nostro excursus verso nord, entriamo inesorabilmente in territorio scandinavo e ci scontriamo ancor più inesorabilmente con il cinema di Ingmar Bergman, il maggiore esponente -insieme al nostro Michelangelo Antonionidi quel cinema moderno fatto di sospensioni silenziose, tempi morti, studi di personalità di accecante rigore psicologico. Come per Herzog, comprendere il cinema di Bergman significa addentrarsi nelle radici di una regione, nelle strutture di pensiero di un mondo di cui i film non sono che manifestazione contingente. Dire dell’opera di Bergman significa in fondo riferirsi alla messa in scena di una filosofia negativa costruita a partire da Kierkegaard, un pensiero della crisi che si pone come superamento drammatico ma definitivo dell’idealismo hegeliano. Se Hegel infatti riconosceva l’esistenza della sintesi, di un elemento cioè in grado di conciliare gli opposti, Kierkegaard (e come lui Nietzsche, Schopenauer e Heiddeger) imponeva il principio dell’aut aut (l’uno o l’altro), eliminando la possibilità della sintesi e riconducendo l’esistenza nell’orizzonte univoco del conflitto e della crisi. E dunque a ben guardare una matrice kierkegaardiana permea l’intero cinema di Bergman, costantemente teso a spostare l’attenzione diegetica dal mondano all’intimo, dall’azione narrativa alla spoliazione esistenziale, sempre condotta attraverso un ossessivo uso del primo piano, inteso come strumento ideale per scandagliare la complessità, la crisi, il conflitto interiore che caratterizza ognuno dei suoi fragili personaggi, soprattutto femminili.

61



www.taxidrivers.it Inoltre il pensiero di Kierkegaard viene riletto dal regista svedese attraverso il filtro della propria esperienza personale. Figlio di un severo pastore protestante, continuamente attraversato da profonde crisi, la fede di Bergman prese a vacillare sin dalla giovane età. Questo lo condusse a traslare nelle sue opere un senso di religiosità inquieta e quanto mai problematica, un tentativo disperato di ricerca teso verso un Dio vago, non più inteso come una sorta di cupola capace di racchiudere e sanare i conflitti ma come conflitto esso stesso, scontro perenne tra esser(ci) e non-esser(ci). In una filmografia talmente sterminata, gigantesca e compatta, comunque, scegliere un film non può che configurarsi come un atto soggettivo. Nel mio caso, nonostante consideri (forse) Persona il più alto risultato del regista e -contemporaneamente- porti nel cuore quell’immenso atto d’amore costituito da Il posto delle fragole, ho deciso di orientarmi verso Sussurri e grida che per molti aspetti si presenta come la summa più programmatica dell’itinerario bergmaniano, l’apice assoluto di quel rigore registico fatto di una simmetria raggelante, di un simbolismo che si manifesta -qui, come archetipicamente- nella datità pura del colore, della penetrante discesa nel groviglio frastagliato dell’animo femminile, dell’uso del primo piano nei termini di strumento di spoliazione esistenziale. Sussurri e grida si presenta infatti come un dramma familiare in interni, dominato dalle tonalità vivide del bianco e del rosso -i riferimenti più immediati dei temi della purezza e della passione- tutto giocato, in un ritmo che oscilla continuamente tra presente e passato, sui rapporti di amore e odio, affetto caloroso e gelido rigetto che si consumano tra una donna in fin di vita, le sue due sorelle tornate nella casa paterna per assisterla e la sua affettuosa cameriera, dolorosamente legata a lei come una madre. Qui più che mai l’azione risulta congelata e la diegesi si

concentra totalmente nella complessità interiore delle protagoniste, nelle non raccontabili sacche di memoria nascoste a forza dietro agli sguardi posati, ai volti statici, incapaci -da soli- di suggerire stati d’animo e perciò scavati con forza penetrante da una macchina da presa che gli si pianta di fronte e sembra fissarli a sua volta, erodendo il timore di esprimersi e mostrando allo spettatore i segreti sussurrati e le grida taciute. Il conflitto e la crisi, uniti a una riflessione quanto mai radicale sui più oscuri anfratti dell’essere, sull’orrore dell’inesplicabile quotidiano e a un concetto dell’esistere come disordine, caos generalizzato è la struttura che fa da perno al cinema di Andrzej Żuławski, uno dei maggiori esponenti del nuovo cinema nato in Polonia a partire dalla fine degli anni ’50, di sicuro l’interprete più controverso -e per questo duramente osteggiato- del fervore culturale che permeò la Repubblica Popolare di Polonia nel secondo dopoguerra. L’opera che meglio esprime l’essenza del cinema zulawskiano è Sul globo d’argento, film maledetto iniziato nel 1977, bloccato in corso d’opera dalla repressiva censura di matrice filo-sovietica e terminato nel 1988, mozzato di due ore e mezza rispetto al progetto originario, con l’inserimento di un commento dello stessa regista che illustra a voce il contenuto delle scene mancanti. Il film -anche in questa veste incompleta- si presenta come un’opera incredibilmente singolare, impossibile da paragonare a qualsiasi altra, un’esperienza estetica e visiva unica e devastante, annichilente, disturbante per ogni spettatore che prestandosi alla visione non può che disimparare a giudicare secondo categorie convenzionali, lasciandosi risucchiare da un abisso straordinariamente denso di suggestioni. Sul globo d’argento pulsa da ogni fotogramma l’insofferenza estrema di Żuławski nei confronti dell’opprimente

Sul globo d’argento (Na srebrnym globie), Andrzej Zulawski, 1988

63


www.taxidrivers.it

64

clima politico dell’epoca (che lo costrinse a stabilirsi in Francia) e di riflesso la sua concezione dell’esistenza come caos ciclico e reiterato, come male, sopraffazione eterna. Insinuandosi nell’orizzonte fantascientifico, il regista polacco racconta la storia di un gruppo di astronauti che sbarcano sulla Luna e creano una nuova civiltà, realizzando una sorta di diario visivo della loro esperienza, attraverso un occhio meccanico attraverso il quale vediamo tutta la prima parte del film e che in seguito spediscono sulla Terra. Nella seconda parte di quest’opera fluviale un nuovo astronauta, Marek, raggiunge “il globo d’argento” e, accolto come un Messia, s’impegna per liberare la civiltà lunare dal terribile pericolo rappresentato dagli Shern, sorta di demoni dall’aspetto mostruoso che non rappresentano altro che il lato oscuro dell’umano, il doppio, l’altro necessariamente connaturato a noi stessi. Nel finale però anche per la civiltà lunare, si ripete il ciclo cristologico e il Messia Marek viene crocifisso su una spiaggia che pare richiamare l’antinferno dantesco. Non c’è speranza vera o presunta di redenzione o di rinascita per l’uomo. Sul globo d’argento è un eterno ritorno in cui tutto si ripete immutabile, in cui la tragedia imperfetta dell’uomo si avviluppa su sé stessa e si ripresenta identica, priva di variazione. Il viaggio interplanetario non coincide con la genesi di una nuova umanità, capace di apprendere dai propri errori e di godere delle proprie conquiste: la rinascita della civiltà riconduce al caos primordiale, a forme di vita ataviche e barbare. La ragione cessa di esistere e lascia il posto a un farneticare incessante. Se il 2001 di Kubrick (a cui spesso quest’opera è stata affiancata per il potere di suggestione) si costituiva come l’odissea del silenzio, Sul globo d’argento si dà come epopea dell’esplosione indifferenziata del suono, del grido, della parola, quasi sempre indicibile, oscura, impenetrabile. E ai monologhi filosofici e

criptici di cui il film si compone quasi interamente, si affiancano i movimenti magmatici dei corpi (e di una macchina da presa quanto mai mobile), i loro contorcimenti inquietanti, unici possibili significanti del caos primordiale, reiterato, eterno che per Żuławski si costituisce come l’orizzonte stesso del vivere, personale e collettivo. Esemplari a questo proposito le parole finali che gettano un ponte tra l’antropogonia lunare e il vivere sociale: “Nel frattempo il piccolo dramma di questo film e il grande e speriamo onorabile dramma della nostra vita, continueranno ad intrecciarsi in un mosaico comune di voli di successo e di atterraggi di emergenza. Il mio nome è Andrzej Żuławski, e sono il regista del film Sul Globo d’Argento”. Su connotati estetici diversi muove l’opera di Krzysztof Kieślowski, altro straordinario regista polacco la cui scelta ha condotto all’esclusione necessaria di nomi pressoché imprescindibili (da Andrej Wajda a Roman Polanski, passando per Andrzej Munk, Krzysztof Zanussi, Jerzy Skolimowski e Wojciech Has). Il suo cinema si propone prima di ogni altra cosa come un rigoroso scandaglio interiore di uomini e donne posti di fronte a laceranti dilemmi esistenziali, aprendosi in questo senso a spaccati di profondità psicologica impressionante dell’uomo tout court, coniugati a una riflessione sofferta e mai risolta sulla presenza/assenza del divino e sulla natura del caso. In questo senso, l’opera più drasticamente esemplare del suo universo filmico non può che essere il Decalogo, serie di 10 mediometraggi prodotti per la televisione polacca scritti insieme al suo fidato collaboratore Krzysztof Piesiewicz, intesa come reinterpretazione laica dei dieci comandamenti biblici. Ogni tassello di questo fluviale e -da intendere comeunico capolavoro è imperniato sulla “straordinaria” quotidianità di protagonisti


www.taxidrivers.it epifanizzati in momenti di crisi. C’è un senso di vita spiata, di intimità colta nella sua datità più nuda e sincera, come testimonia il personaggio -sottomesso a una mai conclusa attività interpretativa- del testimone silenzioso che compare in scena (in 8 film su 10) per pochi secondi e, senza dir nulla, rivolge lo sguardo ai personaggi e alla macchina da presa, interpellando direttamente lo spettatore, chiamandolo in causa in quanto possibile referente di una situazione non solo drammatizzata ma concretamente tangibile perché estendibile a ognuno di noi. In questo ineguagliato affresco esistenziale, ovviamente, il riferimento ai comandamenti è spesso labile, ironico o rovesciato di segno. Può così accadere che la celebrazione della vigilia di natale diventi il momento privilegiato per la “traversata notturna di una Varsavia invernale e livida” tra “ospedali, pronto soccorso, polizia, carceri per alcolizzati” (Morandini) in compagnia di un vecchio amore da salvare e attraverso cui salvarsi. Oppure che la collezione di francobolli che un intero quartiere si contende in modo acerrimo costituisca il mezzo attraverso cui due fratelli si riscoprano l’uno in relazione all’altro, stretti testa contro testa, tornati come d’incanto in quello spazio liminale dell’infanzia, in cui non contano più i problemi dei grandi, dove “in pratica non c’è più nulla di importante” e si può essere ancora abbastanza ingenui da pensare a come sarebbe bello “se davvero tutto il resto non esistesse”. Chiudo questo piccolo itinerario nell’affascinante interzona del cinema d’autore europeo, scendendo nei Balcani e omaggiando il cineasta che -forse- ne ha rappresentato lo spirito in modo più netto e radicale. Sto parlando del greco Theo Angelopoulos, cantore privilegiato della propria nazione e portavoce di un cinema in grado di sublimare il tempo e insieme la sua vertigine. Attraverso il ritmo ipnotico, il valore quasi sacrale del silenzio e la lentezza esasperante di pellicole che

fanno del piano-sequenza -spesso lunghissimo- la propria cifra stilistica dominante (quasi al pari di uno Jancsó, altro straordinario cineasta -ungherese- al quale ho dovuto rinunciare), Angelopoulos mira a penetrare l’essenza stessa del tempo vissuto fino a coglierne l’intimo paradosso, il suo continuo e perpetuo riavvolgimento. Filmando il suo flusso silenzioso, il regista greco giunge a (con)fondere la Storia con il Mito, gli anfratti memoriali con la fattualità del vivere. Da questo punto di vista, il suo apice non può che essere il fluviale -e praticamente sconosciuto- La recita, affresco collettivo che mette su celluloide un quindicennio di storia greca (dal ’39 al ’52), evidenziando il passaggio tra due dittature: da quella di Metaxas, nel ’36, a quella di Papagos, separate da alcune tappe fondamentali come l’intervento italiano e britannico, l’occupazione nazista, la lotta partigiana. Insieme, il film segue le vicende di una compagnia teatrale itinerante che propone di città in città il dramma erotico Golfo la pastorella. Un gruppo di protagonisti che replica -in una sorta di struttura a scatole cinesi- gli eventi dell’Orestea eschilea: dal tradimento del capofamiglia perpetrato da una moglie infedele e dal suo amante, all’uccisione dei due traditori per mano del figlio Oreste (coadiuvato dalla sorella Elettra). In questo senso, la Storia greca si mescola, e spesso si sovrappone, al mito degli Atridi all’interno di una struttura drammaturgica che si propone probabilmente come il più alto risultato -almeno nella seconda metà del Novecento- di applicazione cinematografica dell’epica di Brecht ovvero -molto sinteticamente- una concezione dell’opera teatrale -e per estensione narrativa- fondata sul rigetto del concetto di immedesimazione spettatoriale (che secondo il tedesco condurrebbe a una passività sterile dello spettatore) e sull’applicazione di un nuovo tipo di drammaturgia in cui la rottura della quarta parete (con gli attori che si rivolgono direttamente all’uditorio) e

65


www.taxidrivers.it

66 11

della linearità diegetica (Brecht prediligeva strutture narrative spezzate, in cui una scena seguiva la precedente secondo rapporti temporali liberi, spostando ad esempio la linea dell’azione anche di molti anni) produceva un coinvolgimento attivo del pubblico, costretto a riflettere, a saturare i buchi neri del narrato e dunque ad impiegare la propria intelligenza interpretativa. La recita si compone non a caso come una successione di blocchi isolati in un autonomo “gioco” spazio-temporale in cui lo spettatore è continuamente chiamato in causa per metter ordine (e il più delle volte, se appassionato, a rivedere più di una volta la pellicola). A questa confusione, si aggiungono la frequente sovrapposizione di registri e livelli narrativi (la Storia, la compagnia itinerante e gli Atridi) e i momenti in cui il flusso narrativo si interrompe e gli attori, rompendo momentaneamente la regola non scritta della verosimiglianza, si rivolgono direttamente alla macchina da presa, raccontando alcuni frammenti della propria vicenda esistenziale. Tali espedienti -oltre che frutto di una programmatica volontà di applicare Brecht al cinema- si danno come strumenti imprescindibili per una lettura in chiave pessimista della storia greca, narrata come un eterno susseguirsi di pratiche di dominio e sopraffazione (in un parallelo interessante con il sopracitato Sul globo d’argento che però parla -come visto- con una “lingua” decisamente diversa). Il continuo riverberarsi su sé stesso del tempo non è altro che la concretizzazione filmica dell’eterno ritorno nietzschiano. Non è un caso che il film inizi e finisca con la stessa inquadratura, quella dei teatranti fermi di fronte alla stazione del treno, tornati di nuovo in paese. Ma se all’inizio una voce over -riconducibile, eisenteiniamente parlando, all’intero gruppo- dichiara in un tono da diario di bordo: “Autunno del ’52: siamo tornati a Eghion”, nel finale claustrofobicamente chiuso nello stesso luogo, la

medesima voce si smentisce, dicendo: “Autunno del ’36: siamo tornati a Eghion”, annullando così la speranza utopica di una rinascita dalle proprie ceneri e annunciando invece la ripetizione di una storia tragica a cui lo spettatore ha già assistito.


www.taxidrivers.it FILMOGRAFIA COMPLETA A causa della grande prolificità di molti registi e al fine di fornire uno spettro più ampio possibile di titoli, vi rinviamo per le filmografie agli schedari dell’Internet Movies Database.

Chantal Akerman www.imdb.com/name/nm0001901 Edgar Reitz www.imdb.com/name/nm0718671 Wim Wenders www.imdb.com/name/nm0000694

Luis Buñuel www.imdb.com/name/nm0000320 Werner Herzog www.imdb.com/name/nm0001348 Rainer Werner Fassbinder www.imdb.com/name/nm0001202 Lindsay Anderson www.imdb.com/name/nm0000755 Ingmar Bergman www.imdb.com/name/nm0000005 Andrzej Żuławski www.imdb.com/name/nm095855 Krzysztof Kieślowski www.imdb.com/name/nm0001425 Theodoros Angelopoulos www.imdb.com/name/nm0000766 Bertrand Tavernier www.imdb.com/name/nm0851724 Jacques Tati www.imdb.com/name/nm0004244 Claude Lanzmann www.imdb.com/name/nm0487351 Maurice Pialat www.imdb.com/name/nm0681207 Agnes Varda www.imdb.com/name/nm0889513 Jean-MarieStraub e Danièle Huillet www.imdb.com/name/nm0833708

Margarethe vonTrotta www.imdb.com/name/nm0903137 Alexander Kluge www.imdb.com/name/nm0460176 Tony Richardson www.imdb.com/name/nm0724798 Karel Reisz www.imdb.com/name/nm0718554 Andrej Wajda www.imdb.com/name/nm0906667 Roman Polanski www.imdb.com/name/nm0000591 Andrzej Munk www.imdb.com/name/nm0612914 Krzysztof Zanussi www.imdb.com/name/nm0953130 Jerzy Skolimowski www.imdb.com/name/nm0804592 Wojciech Has www.imdb.com/name/nm0367860 Miklos Jancso www.imdb.com/name/nm0417352

67


IL GRANDE CINEMA D'AUTORE (VERSO EST)

S

68 11

e l’impresa di riassumere la poliedricità del grande cinema europeo attraverso un numero incredibilmente esiguo di titoli era stata quanto mai difficoltosa, quella che mi accingo a compiere in questo penultimo capitolo forza i limiti della mia -scarsa- capacità di selezione, virandoli verso un apice estremo. Seguirò lo stesso criterio della volta precedente -in linea di massima, un solo film per regista- ma mi imporrò, diversamente dallo scorso capitolo, un tetto massimo di nomi: solo cinque. La ragione è più semplice di quanto sembri: di fronte allo sterminato -e finora inesplorato all’interno di Squarci di Settima Arte- territorio delle cinematografie dell’Est, sarebbe fin troppo facile prodigarsi in liste infinite e fin troppo comodo strizzare un occhio da una parte e dall’altra, rischiando di perdersi in un poco approfondito e dunque sterile ventaglio di titoli e nomi. Rischiando magari, nonostante le dovute accortezze, di omettere altrettanti imprescindibili a causa della (senza dubbio) incompleta conoscenza di tale vastissimo e affascinante mondo da parte di chi scrive. Dunque solo cinque registi, in un andirivieni (nel tempo e nello spazio) confuso e asimmetrico che tenterà di esplorare i caratteri peculiari di estetiche cinematografiche drasticamente diverse da quelle finora esplorate eppure capaci a volte di prenderle a modello o più spesso di influenzarle in modo radicale e incontrovertibile. Muovendomi verso est, non posso che iniziare la mia ricognizione a partire dalla (fu) Unione Sovietica dalla quale, vista la Stalker, Andrej Tarkovskij, 1979

sua sterminata estensione (e polivalenza) geografica e culturale, pescherò eccezionalmente due autori, strutturalmente diversi per la natura strettamente ontologica della loro arte eppure incredibilmente simili dal punto di vista delle suggestioni a cui danno vita. Il primo nome è quasi scontato, vista la sua rilevanza imprescindibile all’interno della storia del cinema moderno oltre alle numerose voci autorevoli strenuamente attive a porlo in modo insindacabile come il più grande cineasta mai esistito. Si tratta ovviamente di Andrej Tarkovskij, poeta del cinema, creatore di un unicum artistico di insuperata potenza capace di unire una mai più raggiunta attenzione pittorica nei confronti dell’immagine (in generale, la fotografia dei film del regista sovietico si dà come un apice tuttora difficile da eguagliare) a una riflessione di profondità inaudita sul contemporaneo, capace di trascendere i particolarismi topografici e nazionali per porsi a un livello universale. Il tutto arricchito da un simbolismo diffuso di matrice poetica che rende i suoi capolavori dotati di una complessità di echi e richiami che tende -come in poesia- all’arricchimento infinito del senso e dai retaggi di una cultura sterminata che dalla pittura sfocia nella letteratura e nella grande tradizione musicale. Il celebre ritmo contemplativo, ieratico, sacrale dei film di Tarkovskij che trova nel piano-sequenza la sua cifra stilistica più rigorosa, l’insistenza quasi ossessiva sul valore del silenzio, il ricorrere dei dettagli, dei simboli spesso svincolati dal flusso narrativo, etichettati dai detrattori come tasselli di un’opera fastidiosamente



www.taxidrivers.it

70 11

vuota, autoreferenziale e formalista, si pongono in realtà come gli unici possibili significanti di una riflessione quanto mai universalizzante (e quanto mai attuale) sul mondo contemporaneo. Nell’era della meccanizzazione dell’esistenza, della sopraffazione del naturale all’artificiale, dell’esplosione incontrollata del rumore (delle fabbriche, delle automobili, della tecnologia, degli schermi televisivi e oggi- informatici), della proliferazione del vacuo e del materiale, della sottomissione dell’uomo al Tempo (padrone), Tarkovskij propone un’arte che descriva l’utopia ormai irraggiungibile del silenzio del mondo, che sublimi in sé l’ideale umano di riscoprire il Tempo come possibilità e non come urgenza. Tutte le creazioni tarkovskiane proiettano il pubblico in un non-luogo astratto dalle dinamiche del mondo, in cui il tempo scorre in modo diverso e in cui questa differenza permette ai personaggi di dedicarsi a sé stessi, di scoprirsi. Una ricerca che conduce sempre a uno scacco insanabile, all’impossibilità di trascendere da quel rumore del mondo che ci ha risucchiati definitivamente. In questo senso, l’opera che ho scelto di analizzare all’interno di un panorama che contempla solo ed esclusivamente capolavori assolutamente imprescindibili è Stalker, perché a mio avviso è quella che meglio incarna tutto il senso della riflessione del cineasta sovietico. Il film, tratto dal romanzo di fantascienza Picnic sul ciglio della strada dei fratelli Arkadij e Boris Strugackij, è -come accade in quasi tutta la produzione tarkovskiana- la storia di un viaggio verso un’oltre dominato da leggi fisiche differenti da quelle che regolano la vita sulla Terra, e come tale capace di produrre negli uomini che lo attraversano una capacità nuova e differente di riflettere su di sé. Lo stalker del titolo è un individuo incaricato di condurre degli uomini caratteriz-

zati da una certa profondità di spirito nella Zona, un luogo circondato da una cortina di ferro e salvaguardato da drappelli militari (variamente interpretato dagli studiosi specializzati secondo un’ottica politica, sociale, metafisica), all’interno della quale è ubicata una stanza in cui è possibile vedere esauditi i propri desideri più reconditi. Il film racconta della penetrazione in questo spazio alieno (si sussurra in più occasioni che abbia acquisito i propri poteri in seguito alla caduta di un meteorite) dello stalker, di uno scrittore e di un professore, i due poli del sapere umano -artistico l’uno, scientifico l’altro- che passo dopo passo fanno emergere la propria terranea e inconscia somiglianza. All’interno della Zona si assiste più che mai all’emergere di una spazio-temporalità altra, svincolata dal pragmatismo che domina le vicende umane e aperta invece al mistero, all’inconoscibile, all’impossibilità di spiegare e replicare, a un legame più archetipico e recondito con la Natura che pare -a detta dello stalker stesso- rispondere agli stimoli di chi calca il proprio suolo. Il percorso all’interno della Zona dei tre personaggi ormai tragicamente corrotti dal materialismo delle società globalizzate si dà dunque in prima istanza come bagno purificatore, come itinerario teso a rovesciare drasticamente le priorità dell’uomo contemporaneo: all’attenzione per le Cose, la Zona sostituisce quella per il Sé, alla disumanizzante velocità delle macchine impazzite, la lentezza quasi sacrale del viaggio all’interno del proprio Io, alla razionalità borghese la tensione all’inconoscibile, all’inesplicabile, cioè all’arte. In pratica, anche a una prima lettura, Stalker si dà definitivamente come arte totale che si interroga su sé stessa, sul proprio posto in un mondo privo di tempo, sul proprio eco salvifico, troppo spesso inascoltato. Non è un caso che in più di un’occasione i personaggi si domandino “Che senso ha stare qui?” o


www.taxidrivers.it che in uno dei momenti più liricamente accesi, lo Scrittore interviene in modo fermo in un discorso sul senso della vita e -quasi facendosi portavoce dell’autoreammette: “Tutta questa vostra tecnologia, tutte queste fabbriche e marchingegni, e tutto questo agitarsi affannosa- mente per poter lavorare di meno e mangiare di più: non sono che stampelle, protesi. L’umanità invece esiste per creare. Per creare opere d’arte. Questa perlomeno è disinteressata, a differenza di tutte le altre azioni umane”. Un percorso di spoliazione e (re)iniziazione che tuttavia rivela tutta la sua fallibilità. Nel finale, infatti, i protagonisti abbandono la Zona senza accedere alla Stanza dei Desideri e ritornano alla meschina e dolorosa bassezza del mondo esattamente come erano partiti, solo più consapevoli della propria personale incapacità di prescindere dalle categorie disumanizzanti del mondo contemporaneo. In questo senso, lo stalker, disperato del fallimento della sua missione, si pone come novello Messia che all’interno di una ciclica e disperata ripetitività del Tutto, di nuovo non è riuscito a salvare la sua umanità, di cui i due “apostoli” sono evidentemente una sineddoche (“Sapeste come sono stanco. E si sentono anche intellettuali questi scrittori, professori. Non credono più a niente, l’organo con il quale crediamo gli si è atrofizzato. Dio mio che gente, hanno gli occhi vuoti. Pensano soltanto a come tenere alto il loro prezzo, a come vendersi più cari, a farsi pagare tutto, anche ogni moto dell’anima […] la gente così può credere a qualcosa? […] nessuno crede più, non soltanto quei due, nessuno, chi posso portare là?”). Un’interpretazione cristologica che peraltro condurrebbe il capolavoro di Tarkovskij su binari straordinariamente prossimi a quelli di Sul globo d’argento di Zulawski, altro film di una ricchezza e una complessità inesauribili di cui abbiamo parlato nello scorso capitolo. Eppure, parlando di Stalker in un oriz-

zonte intertestuale, non posso prescindere dall’evidente affinità che il film condivide con quello che ancora oggidopo quasi cinquant’anni viene considerato il più alto risultato raggiunto dal cinema di fantascienza (e non solo) -2001: Odissea nello Spazio- minando alla radice lo storico pregiudizio critico che vuole in Solaris (altro straordinario capolavoro di Tarkovskij) “la risposta sovietica al 2001 kubrickiano”. Ancor più che il precedente Solaris infatti, Stalker si propone come un viaggio verso un ignoto che a poco a poco finisce per coincidere con la propria interiorità e inoltre, sposando l’interpretazione cristologica di cui sopra, Stalker si propone insieme come odissea dell’eterna erranza ma soprattutto dell’eterno ritorno. In modo più netto di Solaris, inoltre, Stalker riprende i motivi fondamentali della sopraffazione del meccanico sull’umano così strutturale del 2001 kubrickiano e, come questo, si organizza in una forma-labirinto che si dia come “struttura delle strutture”, opera aperta e irriducibile all’univocità di una lettura oggettiva bensì come -riprendendo ciò che Kubrick disse a proposito del suo capolavoro- “un’esperienza visiva, che aggiri la comprensione per penetrare con il suo contenuto emotivo direttamente nell’inconscio”. Andando più in profondità, poi, è l’analisi congiunta dei due -straordinari- finali a suggellare la serie di comunanze formali e contenutistiche sopra indicate e a rivendicare una definitiva analogia tra questi due imprescindibili della settima arte. Come noto 2001 si chiude con l’immagine dell’inquietante quanto affascinante Star Child che lentamente ruota su sé stesso fino a guardare direttamente in macchina, come a rivendicare la necessità di uno sguardo nuovo del cinema e insieme a riferire al suo pubblico di impegnarsi a guardare il mondo con occhi nuovi, diversi. Anche Stalker si chiude sul primo piano ravvicinato di un rappresentante dell’infanzia, la figlia del protagoni-

71


www.taxidrivers.it

72 11

sta, che con il volto poggiato sul tavolo, spinge con la forza del pensiero due bicchieri e una bottiglia lungo la sua liscia superficie. L’interpretazione di questa ultima sequenza è legata a un brevissimo frammento della prima parte del film nel quale lo Scrittore, prima di entrare nella Zona, afferma a chiare lettere che “la telecinesi non esiste”. Tarkovskij oppone a quella breve -e dimenticabile- battuta di dialogo capace di incarnare in sé tutta la disillusione di un mondo che ha perso la fede nell’inconoscibile, nell’inesplicabile e nell’arte che ne è manifestazione, un finale in cui la telecinesi ha effettivamente luogo -coronata in sottofondo dalla forza dell’Inno alla gioia di Beethoven che suggella la rinascita dello sguardoponendosi in tal senso come una splendida quanto criptica elegia del valore dell’inspiegabile artistico e -al pari di 2001- come un disperato e commovente appello rivolto al pubblico, a cui prega di superare le limitanti, materialistiche e opprimenti limitazioni del nostro mondo meccanizzato per imparare a guardare le cose attraverso una meraviglia antica, primordiale, disinteressata. Quella dell’arte. L’altro regista sovietico che mi propongo di omaggiare in questo penultimo capitolo appartiene a una particolare interzona della settima arte alla quale finora non mi sono mai avvicinato: l’animazione. E di questa rappresenta -a detta di un numero sterminato di addetti ai lavori- uno dei massimi maestri, se non il più grande in assoluto. Parlo ovviamente di Yuri Norstein, personalità fondamentale per il processo di evoluzione -e rivoluzione- che investì le produzioni animate sovietiche a partire dalla fine degli anni ’60. Prima di quella data, anche l’animazione -come qualsiasi prodotto culturale- era infatti rigidamente sottoposto a una forte attività censoria e questo comportava l’obbligo -per i cineasti- di realizzare opere di tono infantile, Rashomon, Akira Kurosawa, 1950

dalle trame semplici e i contenuti ottimistici, depurate da qualsiasi traccia che potesse rinviare -seppur labilmente- a sottotesti politici o addirittura rivoluzionari. Fu proprio Yuri Norstein a forzare per primo i limiti di tale sistema produttivo, cominciando a proporre sin dalla fine degli anni ’60 brevi film animati, dominati da temi rivolti a un pubblico anche e soprattutto adulto e caratterizzati da una forsennata sperimentazione creativa che rinviava ai maestri delle arti figurative russe o agli esperimenti di montaggio di un cineasta come Ejzenstein, dando vita di fatto a una nuova estetica del film animato, capace di innalzare finalmente tale forma cinematografica al pieno statuto di opera d’arte e di conferire a lui stesso l’etichetta di “poeta” dell’animazione russa. E per illuminare la grandezza della sua opera non potevo che scegliere il suo film più ambizioso e quello che con i suoi 28 minuti di durata costituisce il suo lavoro più lungo. Si tratta de Il racconto dei racconti, nominato a Los Angeles e Zagabria il “miglior film animato di tutti i tempi”, che già dal titolo si pone come “struttura di tutte le strutture” e “storia di tutte le storie”. A differenza dei precedenti -meravigliosiLa Volpe e la Lepre, L’Airone e la Gru o Il Riccio nella Nebbia, nei quali il regista russo attingeva allo sterminato patrimonio delle antiche fiabe russe, giungendo a utilizzare come personaggi animali antropomorfi attraverso cui illuminare in modo indiretto difetti, indecisioni e angosce di un popolo e di una nazione, con Il racconto dei racconti la narrazione classica imperniata su una rigida logica causale viene abolita per lasciar spazio al flusso incantato della memoria, individuale e collettiva. In questo senso, Norstein giunge al suo vertice sperimentale, adagiando il ritmo diegetico sul procedimento modernista dello stream of consciousness, e realizza un capolavoro di potenza e lirismo tutt’oggi insuperati nel campo dell’animazione che si nutre



www.taxidrivers.it

74 11

della lezione di Tarkovskij e in particolar modo del suo Specchio, nel quale il cineasta di cui poco fa abbiamo parlato ricostruisce in modo analogico i propri ricordi, alternandoli a simbolismi spesso tesi a mettere in scena momenti decisivi della storia russa e sequenze oniriche. Allo stesso modo si comporta Norstein nel suo Racconto dei racconti, imperniato sulla ricorrente figura di un animale -stavolta un lupo- che pare guardare, immaginare e rievocare passo dopo passo un mondo abbandonato da tempo, forse una sineddoche dell’infanzia perduta, vero e proprio leitmotiv del film. In questo senso, i 28 minuti in cui si snoda questo poetico e visionario cortometraggio sembrano porsi come la successione asimmetrica, alogica e atemporale delle immagini di un tempo perduto, apparentemente cancellato dallo scorrere delle primavere ma sempre pronto a ritornare. Si passa così dalle atmosfere sospese e oniriche dei sogni infantili, dominati da mostri carezzevoli che saltano la corda con allegre bambinette, alle ninnananne stonate; dai lenti balli di coppia sulle note soffuse di un tango polacco, all’orrore della guerra, del fronte, della morte (resa con immagini di rara intensità); dalle immagini del focolare, del calore domestico a quelle della neve che stende il suo velo e a poco a poco minaccia tragicamente di far scomparire una mela, leggibile in un parallelo con lo slittino del Quarto potere di Welles come la traccia recondita dell’innocenza, il dolce archetipo dell’infanzia, della fusione panica col tutto. Quello che Angelopoulos avrebbe chiamato “il primo sguardo”. Dopo i paesi sovietici, il mio discorso vira momentaneamente verso l’estremo Oriente e approda in Giappone, territorio quasi sacro -cinematograficamente parlando- per il numero di nomi a dir poco imponenti che conta tra le sue fila. A questo proposito, è necessario premet-

tere che è assolutamente impossibile tratteggiare con cura lo straordinario fervore cinematografico che animò il Giappone della seconda metà del ‘900 senza delineare i profili di almeno una decina di cineasti e che il fatto che la mia scelta sia caduta su Akira Kurosawa non implica necessariamente l’idea di una superiorità della sua opera rispetto a quella di un Mizoguchi, di un Ichikawa o -spingendosi verso la successiva generazione di autori della cosiddetta nouvelle vague giapponese- di un Oshima. Ho scelto Kurosawa perché più di ogni altro regista ha dimostrato di saper coniugare una consapevolezza estetica del proprio mezzo straordinariamente avanzata con una capacità raramente eguagliata di parlare a tutti, di raggiungere le masse. Ho scelto Kurosawa per la sua inarrivabile capacità di fondere arte e spettacolo, poesia e azione, autorialità pura e anelito universalizzante, all’interno di un continuum incredibilmente vasto e vario, sfaccettato e multiforme. E nel tentativo di illustrare quanto il suo lavoro sia riuscito a influenzare in modo drastico la storia del cinema, fino a dirottare la sua traiettoria verso altri, diversissimi lidi, ho deciso di fare un piccolo passo indietro rispetto al canone temporale utilizzato finora per Tarkovskij e Norstein per tornare all’esatta metà del secolo scorso: a quel 1950 che vide la comparsa di quel capolavoro imprescindibile e destinato a modificare i caratteri del cinema d’arte mondiale di nome Rashomon, identificabile come film sulla multiformità del Tutto, sull’impossibilità di cogliere l’univocità del reale, sull’assenza della verità. Un’opera capace di condensare decenni di sperimentazione estetica, di farsi portavoce cinetico delle conquiste raggiunte dalle avanguardie storiche come il Cubismo. Con Rashomon, Kurosawa rende il senso di multiprospettivismo, di frammentazione e di relativismo a cui autori come Picasso e Braque diedero forma,


www.taxidrivers.it decostruendo il reale nei suoi innumerevoli possibili punti di vista, annullando di fatto il concetto positivistico di una realtà univoca e instaurando un regime ontologico ben più problematico, fondato su un’idea di essere come potenzialità, configurazione tra le altre configurazioni. Il regista giapponese trasferì tali premesse estetiche e filosofiche nell’orizzonte del cinema, costruendo semplicemente un’avvincente “storia di interpretazioni contrastanti”. Lo scenario di Rashomon è quello del Giappone Heian (era compresa tra l’VIII e il XII secolo): due uomini che tentano di ripararsi dalla pioggia battente iniziano una conversazione. Uno dei due dichiara di aver assistito a un processo giudiziario, del quale riporta tutte le testimonianze. Il motivo del contendere è lo stupro di una ragazza e l’uccisione del suo marito samurai avvenuti per mano di un brigante ma le versioni fornite dai vari personaggi cozzano l’una contro l’altra, divergono di scarti netti e non giungono a restituire una visione definitiva e oggettiva dell’accaduto, esattamente come accadeva nel già citato Quarto potere. Nel finale lo stesso racconto del narratore diventa passibile di interpretazione e lo spettatore arriva a chiedersi se non si tratti semplicemente di un racconto fittizio, di un’affabulazione con cui il personaggio che racconta ha intrattenuto per un’ora e mezza il personaggio che ascolta. In una sorta di raddoppiamento del gioco filmico e della figura del regista che per lo stesso arco di tempo ha tenuto lo spettatore incollato alle poltrone. In questo senso, Rashomon mette in atto quelle pratiche di autoriflessività, metacinema, distruzione dell’ordine causale dell’azione e di quel principio di linearità e univocità del senso propria del cinema (e in generale della narrativa) tradizionale e sua sostituzione con una struttura aperta e duttile, capace di fungere da modello non solo per le nouvelle vague che dieci anni dopo avrebbero cominciato a proliferare in

Europa ma anche per quel cinema postmoderno che Leone e in generale un certo cinema americano avrebbero inaugurato a cavallo tra ’80 e ’90. Dal Giappone all’India, da Kurosawa a Satyajit Ray, da Rashomon alla cosiddetta trilogia di Apu, il trittico di film che descrive la crescita -dall’infanzia alla paternità- di un giovane nato in una famiglia di bramani nell’India degli anni ’20 e ’30 del Novecento. All’interno di un circuito altamente canonizzato come il cinema classico indiano, costituito da trame appiattite su contrasti stereotipati, Ray si mosse prima di tutto in qualità di giovane cinefilo e istituì uno dei più importanti cineclub indiani, nel quale imparò a conoscere il grande cinema d’autore europeo e statunitense. Lavorò a fianco di Renoir prima e a Londra poi, città in cui vide per la prima volta Ladri di biciclette di De Sica, in seguito al quale leggenda narra- decise di diventare regista. E in effetti il debito che emerge dal cinema di Ray e in particolare i tre film di quella trilogia di Apu (Il lamento sul sentiero, Aparajito e Il mondo di Apu) che esportò per prima il suo nome in tutto il mondo, nei confronti del neorealismo italiano è pressoché innegabile. Non si tratta soltanto di assonanze produttive, legate ai bassi o bassissimi budget con cui il regista indiano si trovò a lavorare soprattutto sul primo tassello della trilogia, né esclusivamente della volontà tutta rosselliniana di vivisezionare il reale, cogliendolo nella sua fattualità più immediata, riprendendo in esterni e lavorando con attori non professionisti o di quella zavattiniana di pedinare i propri personaggi nella loro piccola, insignificante eppure carica di pregnanza- quotidianità. Ciò che davvero lega a doppio filo il cinema di Satyajit Ray all’estetica neorealista è una comune tensione alla modernità, una forma artistica differente da quella propria della narrazione tradizionale che il filosofo e teorico del cinema

75


www.taxidrivers.it

76 11

Gilles Deleuze definiva immagine-tempo, una costruzione capace di emancipare l’immagine stessa da qualsiasi subordinazione di tipo narrativo e in questo senso in grado di porsi come spartiacque definitivo tra un “prima” e un “dopo”. Mentre prima tutto era in funzione dell’azione, l’immagine di Ray sprigiona il tempo, aprendosi agli “ambienti vuoti”, agli “spazi qualsiasi”, alle lunghe attese. Una nuova immagine che fa riferimento a visioni del mondo alternative a quella classica -rigorosamente imperniata sul principio causale- in cui il tempo, appunto, può seguire una linea spezzata, un percorso circolare, senza essere più strutturato in relazione a un fine (narrativo) a cui tendere. Se nel cinema classico la realtà era pienamente comprensibile perché adagiata su un tempo fluido e fortemente direzionato verso uno scopo, nel cinema neorealista o in quello di Ray che ne è figlio, il mondo appare sempre una forma vaga e ambigua, che si carica di tutte le incertezze, le titubanze e le sospensioni del tempo vissuto. Se quello della Hollywood classica si costituiva come un cinema d’azione, in un film come Il lamento sul sentiero, che segue passo dopo passo le esistenze umili e monotone di una famiglia indiana scandite dai ritmi alternamente pacati o forsennati della natura, indugiando su sacche antianeddotiche e momenti di pura descrizione, la stessa azione lascia il testimone a “situazioni puramente ottiche e sonore”, in cui i personaggi diventano entità passive che sembrano subirla senza poter reagire, più consegnati a una visione che impegnati in un’azione mentre luoghi e oggetti -sui quali non a caso Ray indugia spesso e volentieri con campi lunghissimi o viceversa dettagli molto ravvicinati- che popolano le inquadrature assumono valore per sé stessi e non più in relazione alla figura (ormai decentrata) del personaggio, che si disperde nell’ambiente, si presenta in opposizione ad esso o dimo-

stra una totale e perpetua estraneità. Il tassello finale di questo capitolo ci conduce infine al limitare del Novecento e all’alba del nuovo millennio -gettando in qualche modo un ponte temporale per quello che sarà l’ultimo pezzo di Squarci di Settima Arte- e ci proietta in Iran, nazione che già dalla fine degli anni ’60 ha opposto all’opprimente clima politico, una temperie artistico-culturale di intensità raramente eguagliate. La voce più eminente in campo cinematografico di tale furore creativo è senza dubbio Abbas Kiarostami, tuttora attivo (e considerato all’unanimità uno tra i maggiori cineasti viventi), latore di un’estetica dell’immagine in movimento che concilia un minimalismo stilistico molto simile al neorealismo e all’opera del sopracitato Satyajit Ray con uno scandaglio rigoroso della condizione socio-politica del proprio paese, una lezione morale dai connotati universalizzanti con una riflessione metacinematografica tesa a evidenziare le potenzialità del mezzo, le sue aporie e contraddizioni, il suo potere onnipervasivo, la condizione spettatoriale. In tutti i suoi film, il cineasta iraniano racconta il contatto solidale tra esseri umani, l’imprescindibile necessità dell’Altro che li domina, racchiudendo spesso i suoi protagonisti nello spazio angusto e ristretto dell’abitacolo di un’automobile -vero e proprio leitmotiv ricorrente del suo cinema con tanto di apice estremo in Dieci, totalmente girato all’interno di una macchina- spazio fisico e simbolico, unico luogo in cui -a detta dello stesso regista- è possibile “mettere insieme generazioni e realtà diverse” libere finalmente di “parlare tra loro in modo intimo e deprivato di sovrastrutture”. Un’elegia della solidarietà a cui Kiarostami unisce un’incessante ricerca sul cinema e le sue strutture. E una filmografia estremamente omogenea costantemente dominata da silenzi, tempi dilatati, pause, ellissi e caselle vuote, rigorosamente imperniata su un principio autoriflessivo che chiama

Il sapore della ciliegia (Ta'm-e gīlās), Abbas Kiarostami, 1997



www.taxidrivers.it

78 11

in causa quesiti teorici di estremo interesse come il principio di finzione, la posizione dello spettatore e la potenza di suggestione smisurata prodotta dalle immagini di celluloide sulla psicologia umana. Proprio per questa straordinaria omogeneità di strutture e contenuti (oltre che per il valore di un’opera che praticamente contiene solo capolavori) con Kiarostami potrei pescare a caso da un bussolotto uno dei suoi film e scegliere quello come raccourci microscopique della sua poetica. Potrei ma non voglio. Mi affido al cuore e scelgo Il sapore della ciliegia, quello che per primo mi ha fatto innamorare del suo cinema. Un’opera potentissima nel suo spoglio realismo, disperata nel suo bisogno di vita, poetico e leggero nonostante gli aridi paesaggi bruciati dal sole in cui la vicenda si sviluppa. La storia si propone come un on the road anomalo: il protagonista inteso a suicidarsi, gira con la sua automobile per la polverosa periferia di Teheran alla ricerca di qualcuno che sia disposto, dietro retribuzione, a sotterrare il suo corpo. Ogni personaggio incontrato si fa racconto simbolico della nazione iraniana, sineddoche di un popolo, tassello di un affresco sociale che via via si compone. E ogni incontro sublima quella necessità dell’Altro che il cinema di Abbas Kiarostami ha sempre narrato. Il protagonista che tenta disperatamente di scovare “un aiuto a morire”, cerca in verità una voce che lo salvi, un compagno anonimo che gli ricordi perché la sua vita vale la pena di essere vissuta. E dopo il finale sospeso, il regista chiude il film con un epilogo straniante in cui si passa di netto dalla notte alla luce del giorno, dalla finzione alla verità: nello stesso luogo in cui il protagonista si era recato per riflettere definitivamente sul suo suicidio ora troviamo Kiarostami intento a dare direttive alla sua troupe, ai tecnici, alle comparse, agli operatori, ammettendo che “le riprese sono finite”.

A trionfare è di nuovo il senso più intimo e assoluto dell’arte totale del cineasta iraniano: il senso di profonda e intensissima contaminazione tra arte e vita. è in quella scena finale, infatti, che questo rigoroso assunto giunge alla sua massima realizzazione: dopo che il film è diventato vita, scavando nell’intensità psicologica del protagonista minuto dopo minuto -in un’aderenza (non totale ma) sorprendente tra storia e racconto- la vita torna al suo stadio di arte, finzione, cinema.


www.taxidrivers.it FILMOGRAFIA COMPLETA Per la filmografia degli autori vi rinviamo agli schedari dell’Internet Movie Database Andrej Tarkovskij www.imdb.com/name/nm0001789 Yuri Norstein www.imdb.com/name/nm0635956 Akira Kurosawa www.imdb.com/name/nm0000041 Satyajit Ray www.imdb.com/name/nm0006249 Abbas Kiarostami www.imdb.com/name/nm0452102 Yasujiro Ozu www.imdb.com/name/nm0452102 Kenji Mizoguchi www.imdb.com/name/nm0003226 Kon Ichikawa www.imdb.com/name/nm0406728 Kaneto Shindo www.imdb.com/name/nm0793881 Masaki Kobayashi www.imdb.com/name/nm0462030 Nagisa Ōshima www.imdb.com/name/nm0651915 Shōhei Imamura www.imdb.com/name/nm0408076 Hiroshi Teshigahara www.imdb.com/name/nm0856267

79



SuL cONcETTO POSTMODERNO NEL cINEMA STATuNITENSE

C

on quest’ultimo capitolo arriviamo alle soglie del terzo millennio (e oltre), a quel coacervo di stili e tendenze solitamente racchiuse nell’etichetta di cinema postmoderno, che analizzerò -per ragioni di semplicità descrittiva- nel solo contesto del cinema di produzione statunitense, chiarendo sin da subito però che quanto segue non si propone affatto come un catalogo esauriente di nomi e titoli del grande cinema contemporaneo (che per ovvie ragioni viene realizzato anche -e anzi soprattutto- fuori dai confini americani). Per orientarci in un percorso di analisi così estremamente frastagliato ed eterogeneo, occorrerà prima di tutto illustrare brevemente l’ambito teorico riguardante la postmodernità tout court, impresa tutt’altro che semplice data la mancanza di una definizione onnicomprensiva che possa delimitarla, l’assenza di marche temporali rigorose e il mare di posizioni critiche antitetiche che da un lato rigettano totalmente l’idea dell’esistenza di un “periodo” o “stile” postmoderno e dall’altro rivendicano quello stesso concetto come uno status culturale proprio della contemporaneità, nato da una rottura totale col passato. Il postmodernismo si manifesta, in sintesi, come un nodo teorico controverso, sfaccettato e fin troppo abusato, da cui è difficile isolare dati oggettivi. Letteralmente il termine “postmoderno”

sta ad indicare un senso di posteriorità nei confronti del moderno e quindi del passato. Proprio partendo da questo concetto, Gianni Canova e Fredric Jameson sono giunti a valutare la postmodernità soprattutto come un atto distruttivo di ciò che è stato e perciò come una dominante culturale contemporanea rivolta al sovvertimento della forma moderna e alla presa di coscienza della fine di un’era dominata socialmente da rigore e razionalità e artisticamente dai grandi racconti e dalla grande Storia Decisamente calzanti a questo proposito, le parole della studiosa Isabel Cristina Pinedo che la postmodernità come “an unstable one in which traditional (dichotomous) categories break down [ ], institutions fall into question, enlightment narratives collapse, the inevitability of progress crumbles, and the master status of the universal (male, white, monied, heterosexual) subject deteriorates”. Dunque, in estrema sintesi, se il pensiero modernista, di cui sono espressione ad esempio le correnti del realismo e del positivismo, si fondava sui concetti di sistematicità ordinata, interezza, oggettività, razionalità e progresso; il postmodernismo, che ad esso si contrappone, si configura come un panorama sfaccettato e multiprospettico basato sugli antitetici caratteri di mutevolezza, eclettismo, relativismo, soggettivismo, polidimensionalità e nichilismo pessimi-

Le iene (Reservoir Dogs), Quentin Tarantino, 1992

81


www.taxidrivers.it

82 11

stico. Tutti questi caratteri di rottura riflettono il nuovo orientamento che le società globalizzate del mondo occidentale assumono a partire dagli anni ’60 e in particolare l’influenza, a dir poco prolifica, che la crescita incontrollata dei media (dalla televisione agli odierni I-Phone) ha avuto su questa trasformazione. La proliferazione tecnologica di schermi, infatti, dà vita non solo alle realtà simulazionali e virtuali “da social-network” ma anche all’ansia di apparire, alla mercificazione del corpo e alla spettacolarizzazione delle merci, in parole povere a quella realtà-simulacro descritta da Jean Baudrillard e intesa come “significante privo di significato”. Se a tutto questo aggiungiamo i limiti alla conoscenza umana posti dalle nuove scoperte scientifiche, è facile comprendere il generalizzato disorientamento dell’uomo contemporaneo e dunque l’impossibilità di perseguire la tendenza propria del positivismo ottocentesco di concepire una realtà oggettiva, univoca e solida. Il postmodernismo, in pratica, ha ormai a che fare con un mondo non conoscibile in modo definitivo, pieno com’è di rappresentazioni di secondo livello, immagini di immagini, vite artificiali. Da ciò seguono quei caratteri di perdita di interezza, frammentazione e soggettività che lo contraddistinguono, che impregnano ovviamente anche le manifestazioni artistiche odierne: dall’architettura al teatro, dalla letteratura al cinema. Orientativamente, si comincia a parlare di cinema postmoderno più o meno con venti anni di ritardo rispetto alla letteratura, nel nido della quale l’etichetta sorge già negli anni ’60 in seguito alla pubblicazione di Comma 22 di Joseph Heller, The Sot-Weed Factor di John Barth e V. di Thomas Pynchon, forse il massimo esponente della postmodernità letteraria, espressa in modo mirabile nel suo capolavoro L’arcobaleno della gravità (1973).

I primi veri sintomi di un cambiamento in ambito cinematografico compaiono nei primi anni ’80 con film come Blow out e Omicidio a luci rosse, entrambi firmati da Brian De Palma. Si tratta di pellicole fondate su un tentativo quasi ludico di mettere in scena la finzione che soggiace al meccanismo cinematografico, di thriller innervati di un apparato citante apertamente sbandierato (Omicidio a luci rosse è un omaggio palese al cinema di Hitchcock come Blow out lo è sin dal titolo al Blow up di Antonioni) che sostituisce alla natura “sacrale” della fonte citata un gusto beffardo per il gioco, per il divertimento, una sorta di attitudine a non prendersi sul serio. è comunque nel 1984, con l’uscita dell’ultimo incommensurabile capolavoro di Sergio Leone, C’era una volta in America, che si assiste a una rottura forte e decisiva. Se Quarto potere si costituiva come una sorta di rampa di lancio per il fermento innovante che porterà alle nouvelles vagues del cinema moderno (opposto al cinema classico), C’era una volta in America per la prima volta pare dar vita a una summa degli elementi più caratterizzanti della postmodernità, facendo scuola a un numero sterminato di autori contemporanei. Come abbiamo avuto modo di notare il famoso gangstermovie di Leone, nel raccontare una storia di amicizia e tradimento, di amore e piombo, di redenzione e morte opta per una struttura narrativa complessa, labirintica, enigmatica, caratterizzata da una confusa frammentazione spazio-temporale che tocca il suo apice nel tanto dibattuto finale. Com’è noto (chi non ha visto il film è invitato a saltare a piè pari quanto segue) la pellicola si chiude con un ambiguo ritorno a una delle scene iniziali: Noodles dopo aver visto i cadaveri degli amici si ritira nel teatro delle ombre cinese e fuma dell’oppio. L’inquadratura finale, con la macchina da presa che lo riprende dall’alto, sdraiato, e arriva fino al primo piano, lo mostra prima


www.taxidrivers.it decisamente stordito, finché il suo volto non si scioglie in una risata liberatoria. Facile credere che tutta la vicenda messa in scena sia dunque il risultato di una fusione tra un sogno allucinato di Noodles stordito dall’oppio e le sue memorie di gioventù. è altrettanto facile rifiutare di crederlo, elencando tutti gli elementi che confuterebbero una simile teoria. Leone non offre nessuna possibilità di soluzione e preferisce lasciare aperti tutti gli interrogativi, senza risolverli. Un’operazione programmatica che pare riflettere in modo evidente l’ odierna impossibilità di comprendere la complessità del reale attraverso un unico discorso conoscitivo, insomma a quella che Jean-François Lyotard -uno dei massimi teorici della condizione postmoderna- chiama “la fine delle grandi narrazioni”. In questo senso il cinema sembra attivare numerose dinamiche testuali e narrative per riflettere attraverso le immagini e i suoni, l’avvenuta dispersione di un senso univoco del reale. Di fronte a un mondo fatto di attimi disgiunti, slegati, sempre appartenenti a diversi ordini di realtà (umana, artificiale, virtuale) la narrazione cinematografica postmoderna assume come principio basilare il tracollo della causalità -elemento collante del cinema classico e moderno, nel quale al massimo essa si sfibrava senza mai svanire del tutto- sostituita da forme di organizzazione che riflettono invece le modalità di orientamento delle nostre società contemporanee, fondate ormai sui sistemi informatici e sulla forma che principalmente li caratterizza: il database, un deposito virtuale in cui vengono accatastati elementi sempre diversi non secondo legami logico-causali bensì attraverso il “metodo” (a-logico) dell’accumulo indifferenziato. Un sistema del genere non può che allontanarsi dai concetti positivisti di interezza e sistematicità e, al contrario, accogliere quelli po-

stmoderni di mescolanza, frammentazione e rifiuto della gerarchia, della teleologia e della linearità. L’elemento più facilmente ravvisabile all’interno dei film postmoderni è proprio quello della frammentazione, che poi è strettamente connesso alla perdita di linearità. Il tempo narrativo risulta decisamente problematizzato, spezzato in frammenti più o meno rilevanti. La connessione di questi brandelli di una narrazione esplosa, che obbliga lo spettatore a risvegliare la propria capacità interpretativa per saturare le lacune non mostrate, non segue sempre un’ordine logico o cronologico. Immagini del presente, flashback, flashforward, pensieri, idee, sogni, inserti totalmente estranei al normale flusso del discorso si susseguono in modo accumulativo, poiché il regista non si cura più di dare un senso lineare e consequenziale a ciò che mostra e presenta dunque segmenti slegati, isolati o riconducibili a un piano narrativo compiuto solo a posteriori secondo una strategia senza dubbio già utilizzata da molto precedente cinema d’autore ma che oggi si carica di suggestioni differenti, sempre più legate alla progressiva perdita della possibilità di leggere il reale secondo un criterio univoco, a quella heideggerriana concezione di mondo come “immagine” o a quella nietzschiana di “realtà” come “favola” o “simulacro”. Proprio su questa strategia si fondano capolavori del calibro di Mulholland Dr. o -ancor più radicalmente- Inland Empire in cui David Lynch porta ad un vertice estremo la propria riflessione sull’infinitizzazione delle forme del reale, sulla sostituzione del concetto positivistico di “essere come presenza” a quello ben più radicato nella contemporaneità di “essere come potenzialità” in cui la dimensione che tutti noi tentiamo oggettivamente di etichettare come “reale” si costituisce solo una delle possibili forme dell’esistenza, specie nell’era in cui il

83



www.taxidrivers.it

virtuale ha moltiplicato in modo esponenziale i “modi dell’essere al mondo. Su binari in qualche modo simili si muove il misconosciuto e sottostimato Io non sono qui di Todd Haynes (che sarebbe il caso di analizzare in modo congiunto insieme al recente capolavoro del francese Leos Carax Holy Motors). Il film si propone come una -non ufficiale- biografia del celebre cantautore Bob Dylan ma esplora l’esistenza dell’icona musicale statunitense in modo estremamente singolare: le fasi della vita del poliedrico artista vengono ripercorse attraverso sei differenti personaggi, sei narrazioni alternate ma prive di reali soluzioni di continuità, all’interno di un caleidoscopio esplosivo, delirante e magico, un flusso musicale debordante di citazioni cinefile (prima fra tutte quella all’8½ felliniano) che oltrepassa le frontiere della razza (uno dei personaggi deputati a rappresentare Dylan è un bambino di colore, immerso in un’esistenza errabonda che richiama le fantomatiche avventurose biografie che lo stesso cantante creò per circondarsi di un’aura leggendaria), del gender (in uno dei frammenti che compone il film, il portavoce di Dylan è l’androgina rock star Jude Quinn, interpretata da una donna, Cate Blanchett) e dei generi (dalla love story si passa al film in bianconero in stile Fellini, fino a giungere al western dominato dalla figura di un invecchiato Billy the Kid, riferimento alla partecipazione di Dylan al noto film di Peckinpah). Più che un tentativo di rinnovare le potenzialità di quel (sotto)genere costituito dal biopic, Haynes realizza con Io non sono qui una riflessione quanto mai lucida sul concetto di individualità ai tempi del web 2.0 ovvero nell’era della moltiplicazione infinita delle possibilità di essere in modo diverso, della proliferazione delle identità individuali e delle esistenze potenziali aperta da quell’interzona trans-culturale, trans-razziale e trans-gender in perenne Io non sono qui, Todd Haynes, 2007

espansione costituita dal virtuale. Sempre su una linea d’azione improntata alla frammentazione temporale si muovono poi i primi tre film di Alejandro Gonzales Iñárritu che in particolare in 21 grammi sembra pescare a caso da una botola frammenti di tre storie separate realizzando un collage di esistenze confuso e suggestivo e molti di quelli di Quentin Tarantino (dal caos claustrofobico de Le iene a quello trans-culturale di Kill Bill passando per il frullato pop di Pulp Fiction) che uniscono a questo spezzettamento acronologico, una tensione ludica irrefrenabile che comporta una strutturante mescolanza tra livelli di cultura antitetici e una pratica quasi feticista orientata alla citazione indifferenziata. Il crollo della linearità consequenziale conduce spesso e volentieri a strutture narrative volutamente atipiche, come quella circolare di Strade perdute o de L’esercito delle dodici scimmie, quelle ambiguamente sospese tra sogno, veglia e ricordo di film come Se mi lasci ti cancello, Il ladro di orchidee, del tuttora inedito in Italia Synecdoche, New York o del cult Fight Club, quella che -genialmente- alterna la vita del protagonista scrittore con le proiezioni pirandelliane dei suoi romanzi di Harry a pezzi o quella totalmente rovesciata di Memento. In questi universi filmici frammentati, inoltre, spesso scompaiono totalmente anche dei precisi scopi o obbiettivi della narrazione. Il classico finale catartico viene sostituito da un finale aperto o addirittura viene del tutto eliminato, lasciando spazio a un “non-finale” che non coincide con il termine del momento della fruizione. è il caso di alcuni film di Sofia Coppola (Lost in translation o Somewhere) in cui tale assenza di un termine ultimo riflette l’odierno crollo di valori forti, suggerito anche da narrazioni spesso appiattite, in cui ogni frammento, in un sistema privo di gerarchie, ha lo

85


www.taxidrivers.it stesso peso del successivo e l’introspezione psicologica si riduce progressivamente fino a trasformare i personaggi in macchiette di colore (paradigmatica di questa operazione è l’opera di Tarantino). Manca la profondità, soppiantata da una sorta di pessimismo esistenziale, dal nichilismo e dalla stanchezza di un narrato che sembra procedere per inerzia o per puro caso come in alcuni film dei fratelli Coen: dal cult Il grande Lebowski agli straordinari quanto sottostimati Fratello dove sei? o Burn after reading.

86 11

Alla scomparsa della profondità si lega spesso l’avvento di una tensione carnevalesca, tutta tesa alla rappresentazione ironica, all’assurdo, alla volontà di negare, sconvolgendolo dall’interno, qualsiasi tipo di ordine precostituito. Riconducibile poi a questa esigenza di distruzione è la tendenza, ancora postmoderna, alla revisione dei generi e sotto-generi narrativi, realizzata attraverso l’artificio di mostrare apertamente le loro convenzioni per minarle dall’interno o metterle in ridicolo. Si pensi a quel mirabile esempio di western crepuscolare caratterizzato da Gli spietati di Clint Eastwood, fatto di donne che si fanno mandanti di un omicidio e cowboy che piangono disperati dopo un assassinio, a Quei bravi ragazzi, un atipico ed epocale gangster-movie che, pur mantenendo la violenza iperrealista tipica di Scorsese e del genere, si trasforma in un affresco antropologico che offre più attenzione alle tradizioni familiari dei boss mafiosi che non agli efferati omicidi o a quel magnifico esperimento di rilettura contemporanea del melodramma compiuto da Todd Haynes con Lontano dal paradiso, in cui i motivi di Douglas Sirk classico maestro del genere- vengono ripresi in modo critico, svincolati da quella necessità di censura che il cinema statunitense imponeva all’epoca ed esposti nella loro cruda datità.

Impossibile, in tema di revisionismo, non citare inoltre un film come I segreti di Brokeback Mountain di Ang Lee, etichettato sin dall’uscita in modo improprio come la storia d’amore omosessuale tra due cowboy, nata sulle montagne del Big Horn e capace di proseguire, celata ai più, nel corso degli anni. Innanzitutto, il film del regista taiwanese si propone come uno dei rari prodotti cinematografici realmente capaci di fare dell’omosessualità una vera e propria forma del testo e non un mero oggetto-contenuto, accostandosi idealmente in questo senso a quel Querelle de Brest di Fassbinder (già trattato nel decimo capitolo) che pure tanto ne è distante a livello narrativo. L’amore “contro natura” (termine che specifico per evitare qualsiasi tipo di controversia- utilizzo in modo assolutamente non discriminante) che del film è tema giunge a plasmare l’intera forma testuale. Come in Fassbinder “l’eccesso del corpo” di Querelle finiva per decostruire la realtà diegetica, tramutandola in un teatro di cartapesta con tanto di sole finto, in Brokeback Mountain la forza prepotente del sentimento che lega i due uomini (la tagline all’epoca dell’uscita del film era inaspettatamente adatta a descriverne anche l’apparato formale: “L’amore è una forza della natura”) giunge a forzare drasticamente i limiti dei generi di cui il film si compone. In primo luogo: il western. Del genere americano per eccellenza Lee non salva che la natura incontaminata e selvaggia dei monti del Big Horn, stupendamente fotografata da Rodrigo Prieto, resa nei modi di un microcosmo a sé stante, un “luogo sospeso al di sopra delle cose di tutti i giorni” (tanto per citare lo splendido omonimo racconto di Annie Proulx da cui il film è tratto) ed estraneo allo scorrere del tempo, un non-luogo in cui l’amicizia virile così tipica del western può finalmente sfociare nella sublimazione fisica tante volte solo vagheggiata da Ford e Hawks e ora mostrata in tutto il suo


www.taxidrivers.it potere dirompente, senza la necessità di aggirare una soffocante censura. Nelle mani di Ang Lee Brokeback Mountain si trasforma nell’ultimo western possibile, definitivamente spogliato dai tratti costituitivi di un genere ormai dirottato verso il viale del tramonto. Non è un caso che nella prima parte della pellicola prima Ennis compaia nell’atto di detergersi il corpo totalmente nudo con il solo cappello indosso, poi Jack -nella mattina che segue alla prima unionevenga ripreso vestito dei soli stivali, intento a lavare i propri vestiti sulla riva di un fiume. Cappello e stivali, metonimici richiami a un genere che non c’è più. E l’elemento dell’acqua, elemento simbolo di rinnovamento, strumento attraverso cui sciacquare via le minacciose sclerosi della tradizione. E a ben guardare, l’altro grande genere che Brokeback Mountain tenta di decostruire è il cosiddetto romance, il melodramma romantico. In alcuni rapidi e coincisi scambi di battute tra i due protagonisti (il più esemplare è il primo scambiato dopo il rapporto sessuale: “Io non sono così!” / “Nemmeno io!” che ricalca la prosa cruda e scarna della Proulx in cui suonava invece come: “Mica sono un finocchio”/ “Neanch’io, mai capitato prima. Riguarda solo noi!”) pare evidente l’esigenza di superare la dicotomia universale uomo-donna per dare rappresentazione di un sentimento non necessariamente omosessuale ma asessuato, svincolato cioè non dal sesso ma dalla connotazione di genere (maschio o femmina), in cui il rapporto fisico è la sublimazione di un contatto quintessenziale tra due essenze e capace in tal senso di esprimere “the greatness of love itself” (queste le parole utilizzate dallo stesso Ang Lee in occasione della consegna dell’Oscar alla regia), un amore svincolato cioè dalle classiche categorie oppositive, il cui superamento secondo l’affermazione sopra riportata di Isabel Cristina Pinedo costituirebbe uno dei

caratteri più rilevanti del guado dal moderno al postmoderno. Un altro carattere dominante del cinema contemporaneo solitamente definito “postmoderno” è, infine, quello della mescolanza: il melange barocco tra forme, linguaggi, immagini che tanto caratterizza ad esempio l’opera di autori come Terry Gilliam, Baz Luhrmann e ancora Quentin Tarantino in cui colto e kitsch, cultura alta e spazzatura pop giungono a una fusione priva di scorie. Qui si coglie forse in modo più netto l’assonanza tra le sopracitate strutturedatabase caratterizzanti i nostri sistemi informatici e le forme del cinema contemporaneo. Nel momento in cui le nostre strutture di pensiero tendono ad assimilare in modo sempre più netto le logiche del computer -tese a mescolare dati diversissimi in una condizione di prossimità relativa- le forme artistiche si comporteranno di conseguenza, facendo della mescolanza indifferenziata di stili e contenuti il modo di esistere dell’intero testo. Così nel suo La leggenda del Re Pescatore Gilliam fa convivere armoniosamente il Medioevo con la New York verticalizzata, il Sacro Graal con le vasche a idromassaggio, i cavalieri crociati con i disk-jockey radiofonici mentre Tarantino in Kill Bill si permette di mescolare il bianconero con il colore e i personaggi in carne ed ossa con l’animazione, già messi in vera e propria interazione nel magistrale Chi ha incastrato Roger Rabbit di Robert Zemeckis. Essendo fondato su tale pastiche, inoltre, il cinema postmoderno non può non annoverare tra i suoi elementi peculiari quello della citazione. Essa agisce, spesso in modo anonimo per lo spettatore medio, a tutti i livelli della narrazione (di nuovo il cinema di costituisce un esempio lampante) e chiama in causa elementi e testi della cultura passata senza gerarchie di provenienza. Il citazionismo postmoderno riprende elementi dal cinema stesso come dalla letteratura,

87



www.taxidrivers.it dalla pittura e dal videoclip, dalle pubblicità e dalla televisione, fino ad affondare nei più infimi sottoprodotti della società capitalistica (e non solo). Questa tendenza alla citazione ibrida e frammentaria, sciolta da ogni gesto critico, trasforma inoltre l’opera d’arte postmoderna in un museo, un inventario dove tutto il passato si rifà presente, omogeneizzandosi. Un passato presentificato e riciclabile dove Godard può trovarsi in mezzo a una battaglia di cappa e spada (si pensi di nuovo al dittico Kill Bill di Quentin Tarantino), i dipinti di Bosch possono incontrare l’Alice di Lewis Carroll (ciò che accade nell’opera di un autore come Gilliam) e il racconto corale alla Altman può arrivare ad accogliere surreali e inspiegabili piogge di rane (il caso di Magnolia di Paul Thomas Anderson). Prima di chiudere, mi preme ricordare di nuovo quanto l’ambito teorico del postmoderno sia incredibilmente ampio e quanto dunque questo capitolo non costituisca che un accenno, o meglio un primo approccio -peraltro estremamente superficiale- a un argomento così denso di suggestioni. 89

Magnolia, Paul Thomas Anderson, 1999


www.taxidrivers.it FILMOGRAFIA PARZIALE A causa dell’impossibilità di tracciare una definizione univoca di un vero e proprio stile postmoderno, la lista di nomi che segue va intesa più come un orizzonte di ricerca che come un catalogo esauriente. Tale lista comprende solo cineasti americani (o che hanno lavorato in USA), tralasciando dunque volontariamente -operazione in linea con la natura dell’intero articolo- nomi europei e orientali storicamente riconducibili al cinema postmoderno e non meno determinanti di quelli qui citati (John Woo, Park Chan-wook, Wong Kar-Wai, Leos Carax, Emir Kusturica, Lars von Trier e almeno una parte dell’opera di autori come Michael Haneke, Pedro Almodovar o i fratelli Dardenne…). Tra i nomi citati inoltre alcuni meriterebbero un capitolo a sé di questa rubrica per indagare sulla complessità di opere sempre in bilico tra classicità e postmodernismo (Clint Eastwood, i Coen, Martin Scorsese o James Gray su tutti). BRIAN DE PALMA www.imdb.com/name/nm0000361 QUENTIN TARANTINO www.imdb.com/name/nm0000233 PAUL THOMAS ANDERSON www.imdb.com/name/nm0000759 JOEL ED ETHAN COEN www.imdb.com/name/nm0001054 DAVID FINCHER www.imdb.com/name/nm0000399 BAZ LUHRMANN www.imdb.com/name/nm0525303

90 11

TODD HAYNES www.imdb.com/name/nm0001331 DAVID LYNCH www.imdb.com/name/nm0000186 TERRY GILLIAM www.imdb.com/name/nm0000416 SOFIA COPPOLA www.imdb.com/name/nm0001068 MARTIN SCORSESE www.imdb.com/name/nm0000217 CLINT EASTWOOD www.imdb.com/name/nm0000142

CHARLIE KAUFMAN www.imdb.com/name/nm0442109 JAMES GRAY www.imdb.com/name/nm0336695 STEVEN SODERBERGH http://www.imdb.com/name/nm0001752 BERT ZEMECKIS www.imdb.com/name/nm0000709 WOODY ALLEN /www.imdb.com/name/nm0000095 CHRISTOPHER NOLAN (Inghilterra) www.imdb.com/name/nm0634240 ANG LEE (Taiwan) www.imdb.com/name/nm0000487 PAUL VERHOEVEN (Olanda) www.imdb.com/name/nm0000682 DAVID CRONENBERG (Canada) www.imdb.com/name/nm0000343 ALEJANDRO GONZALES IÑARRITU (Messico) www.imdb.com/name/nm0327944 MICHEL GONDRY (Francia) www.imdb.com/name/nm0327273

SPIKE JONZE www.imdb.com/name/nm0005069 Ringrazio tutti coloro che hanno supportato il mio lavoro seguendo la rubrica di Taxi Drivers da cui è nato questo numero di Taxidrivers Magazine. E spero con tutto il cuore che i piccoli squarci di settima arte che di volta in volta ho cercato di descrivere abbiano costituito per i cinefili uno strumento di riflessione utile oltre che un modo alternativo per riaffondare in nomi e titoli già conosciuti e amati e per i curiosi che proprio di recente hanno scoperto questa passione, un utile trampolino -traballante e incerto senz’altro- per tuffarsi in quell’immenso mare di immagini, voci, parole, suoni ed emozioni che è il cinema. Un abbraccio caloroso a tutti. E a presto.

Stefano Oddi



s c o d / e n i z a g a m _ s r e v i r d i x a t / m o c . u u s s i / / : p t ht


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.