TAXI DRIVERS MAGAZINE SPECIALE BERLINALE 2014
DIRETTORE
Vincenzo Patanè Garsia VICE DIRETTRICE
Giorgiana Sabatini CAPOREDATTRICE MAGAZINE
Lucilla Colonna CONCEPT DESIGNER
Gianna Caratelli INVIATI
Maria Cera Emiliano Longobardi Francesca Vantaggiato CAPOREDATTORE SITO WEB
Luca Biscontini UFFICIO STAMPA
Valentina Calabrese WEB MASTER
Daniele Imperiali
CONTATTI e mail: info@taxidrivers.it Facebook: TAXI DRIVERS fan page Arretrati Magazine: http://issuu.com/taxidrivers_magazine
TAXI DRIVERS è dedicata a Delian Hristev (R.I.P.)
In copertina: Ken
Loach
La copertina di Taxi Drivers Magazine è dedicata a Ken Loach, omaggiato alla Berlinale da una standing ovation e dall'Orso d'Oro per la sua carriera registica sempre coerente con l'impegno politico e attenta a raccontare le condizioni di chi lavora e lotta per un mondo migliore. Se due anni fa aveva dovuto rinunciare a ritirare il premio del Torino Film Festival, indignato con il nostro Museo Nazionale del Cinema per le intimidazioni e i maltrattamenti denunciati da alcuni lavoratori esternalizzati, ora a Berlino l'autore di Terra e libertà si è potuto complimentare con i pescatori di Orbetello, protagonisti del documentario italiano I cavalieri della laguna, che descrive un nuovo modo di pescare e produrre cibo nel rispetto dell'ambiente e dei lavoratori. Gli altri premi più ambìti hanno preso la via dell'Oriente, con l'Orso d'Argento all'attrice giapponese Haru Kuroki e col doppio Orso per il miglior film e per la migliore interpretazione maschile assegnati al thriller cinese/hongkonghese Black coal, thin ice. Titolo evocatore di brividi come la temperatura invernale della capitale tedesca, senza che né l'uno né l'altra abbiano particolarmente suggestionato la squadra dei nostri inviati, compatta come sempre e coordinata dal direttore Vincenzo Patanè Garsia, nell'intento di raccontarvi il meglio di ciò che ha offerto il festival. Se volete cominciare dal vero capolavoro, andate a pagina 12...
Lucilla Colonna
Un luogo immaginario e bizzarro, animato da un cast stellare PREMIO DELLA GIURIA
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es Anderson ha aperto il 64mo Festival di Berlino presentando in anteprima mondiale The Grand Budapest Hotel, film che ha richiesto due sale per la proiezione quasi in contemporanea dedicata alla stampa mondiale. Grande partecipazione e attesa, quindi, per l’ottavo film del regista texano accompagnato in conferenza da Ralph Fiennes, Bill Murray, Willem Dafoe, Edward Norton, Saoirse Ronan, Tilda Swinton e Jeff Goldblum. Un cast stellare che non finisce qui, completato dagli assenti Adrien Brody, F. Murray Abraham, Mathieu Amalric, Jude Law, Jason Schwartzman, Tom Wilkinson, Owen Wilson e Tony Revolori. Tanti attori per altrettanti piccoli mondi da amare. Già avvezzo al festival di Berlino dove aveva presentato I Tenenbaum e Le avventure acquatiche di Steve Zissou, Anderson costruisce ancora una volta un nuovo mondo da abitare, un luogo fantastico fatto di magnificenza e decadenza dove si raccontano le avventure del leggendario concierge Gustave H (Fiennes) e del suo fidato Lobby Boy (Revolori). Concierge raffinato con il debole per le attempate, superficiali e rigorosamente bionde signore che frequentano il Gand Budapest Hotel – un albergo di lusso situato nell’immaginaria Zubrowka, arroccata sulle montagne – Gustave ha un affaire con la centenaria Madame D. (Swinton), della cui morte viene successivamente accusato. Dalla sua amante riceve in eredità un preziosissimo dipinto rinascimentale, suscitando l’ira funesta del figlio Dmitri (Brody), il quale corrompe il suo maggiordomo (Amalric). Per incastrare Gustave, assolda uno spietato killer (Dafoe), si spiana la strada e riesce a ottenere l’arresto (messo in atto da un Norton ancora una volta in divisa) di chi ha messo le mani sul suo patrimonio. Un film affollato, pieno zeppo di grandi nomi e altrettanti riferimenti alla realtà, a partire dalla storia che lo ha ispirato. Dietro la sceneggiatura scritta a quattro mani con Hugo Guinness vi è un libro, The World of Yesterday dello scrittore pacifista austriaco Stefan Zweig, che nel 1933 si vide bruciare i suoi scritti dai nazisti. Vi è un amico di Anderson, la cui eccentricità ed eleganza nel parlare hanno ispirato la figura di Gustave. E poi ci sono gli episodi di frontiera, il fascismo / nazismo, poi il comunismo, le guerre, lo sguardo nostalgico verso la belle epoque, la decadenza del Vecchio Continente. Colori irreali, ora acidi ora pastello, movimenti di macchina che seguono i personaggi senza lasciarsi scoraggiare da nessun limite fisico, il tocco fantasioso con cui tutti gli abitanti di questo ennesimo mondo immaginario rendono la storia più vera che mai, definiscono la
THE GRAND BUDAPEST HOTEL Regia: Wes Anderson Nazionalità: Germania, USA Anno: 2014 Durata: 100' Genere: Azione, Commedia cifra stilistica di Anderson, architetto di luoghi inventati e abitabili. I cittadini di Zubrowka – leggi della mente creativa di Anderson – sono esemplari unici e a tutto tondo, definiti da piccoli dettagli che ne custodiscono il passato e sono determinati da una personalità spiccata. Il mondo costruito da Anderson, che nella sua virata fiabesca si attiene rigorosamente al paradigma della coerenza, non si nutre solo di realtà ma attinge voracemente anche al cinema, alle sue strutture e forme narrative. Tecnicamente (gioca con il formato), esteticamente e semanticamente Anderson guarda al passato, inconsciamente quando si parla della meticolosità kubrickiana nella ricostruzione degli ambienti, e volontariamente quando si tratta di scegliere la maniera con cui strappare un sorriso mentre la tragedia è in corso (vedi la comicità affilata di To be or not to be di Lubitsch, o Grand Hotel di Edmund Goulding e The Mortal Storm di Frank Borzage, alcuni dei titoli visionati da Anderson insieme alla sua crew e presi a modello per il suo film). Nel suo cinema di reale finzione Anderson non tralascia di raccontare l’arte della narrazione, affidata all’introduzione dell’Autore (Wilkinson) il quale ci illumina sull’origine dell’ispirazione. Al momento, per il regista di Moonrise Kingdom l’arte della narrazione segue le logiche di una fervida immaginazione che mastica storia e cinema per costruire paesaggi umani bizzarri e veri, anche solo per una battuta. Francesca Vantaggiato
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Mea vulva, mea maxima vulva
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olte le polemiche, di conseguenza alte le aspettative. Nymph()maniac Vol.I è stato presentato oggi alla stampa della Berlinale 2014 in versione integrale, e i 145 minuti di proiezione sono volati. Per rispondere alla domanda che negli ultimi mesi ha attanagliato i fan e non di Lars Von Trier, no, Nymph( )maniac Vol.I non è un film scandalosamente erotico. Forse provocatoriamente misogino nel guardare alla donna come una creatura destinata al peccato, predatrice di uomini vittime del suo potere manipolatore. Nymph( )maniac Vol.I contiene i primi quattro degli otto capitoli del racconto introspettivo di Joe (da adolescente Stacy Martin e Charlotte Gainsbourg da adulta) al suo interlocutore sorprendentemente non giudicante, il vecchio Seligman (Stellan Skarsgård). La passione per la pesca di Seligman innesca la rivelazione della donna trovata ferita per strada e, sulla metafora della pesca – di uomini o pesci – si procede in un parallelismo di tattiche, debolezze da conoscere e sfruttare, astuzie per l’adescamento perfetto. Sui ricordi d’infanzia e della tenera adolescenza si apre la confessione di Joe, nella forma di una ninfomane in erba, bramosa di piacere. Joe rievoca quei momenti nella consapevolezza delle sue colpe, mentre il vecchio saggio, l’Ascoltatore perfetto che non pesa ma interpreta incuriosito la mistura di desiderio e senso di colpa, le porge un specchio privo della cornice moraleggiante in cui ri-vedersi. La caccia al sesso sul treno in corsa – chi fa più sesso vince un sacchetto di caramelle – le ha fatto scoprire il potere di sguardi e sorrisi, e il senso di colpa per l’abuso della forza seduttrice. «The secret ingredient to sex is love», le sussurra all’orecchio la sua migliore amica. La ribelle contro l’amore nel secondo capitolo intitolato Jerôme si innamora lentamente del suo capo (Shia LaBeouf), uno dei suoi primi amanti ritrovato per caso, ossessionata dalle mani che vorrebbe la possedessero come un oggetto della sua quotidianità. Joe è sopraffatta dall’amore che altro non è se non il desiderio arricchito (o impoverito) dalla gelosia. Il dettaglio di un quadro visto a casa di Seligman la riporta ancora una volta indietro nel tempo, all’esperienza con Mrs. H (Uma Thurman), moglie di un amante detestato piombatole in casa dopo aver abbandonato la famiglia. La drammaticità della terza digressione è alleggerita dall’irruzione di una Thurman ispirata e disperata che compie il grottesco, caratterizzazione con cui Lars Von Trier va a nozze. Con i tre figli al seguito, Mrs. H si presenta nella casa dove l’adulterio si è consumato firmando una scena patetica e ilare, asettica emotiva-
NymPH( )mANiAc VOL.i Regia: Lars Von Trier Nazionalità: Danimarca, Germania, Regno Unito, Belgio Anno: 2014 Durata: 145' Genere: Drammatico, Erotico mente per tutti quanti. Il suo sfogo inatteso e singolare contro l’amante assume un tono assertorio, cambiando il registro della scena, quando la verità è pronunciata: Joe è, e si considera, una creatura condannata alla solitudine. Sconosciuto alla nostra ninfomane è l’autore Edgar Allan Poe, il cui libro è sul comodino di Seligman, mentre la morte dello scrittore per delirium tremens è una condizione a lei purtroppo ben nota. Così ha infatti perso l’amato padre, con cui passeggiava nella foresta per contemplare e godere della bellezza degli alberi nudi d’inverno e vestiti di bellissimi abiti verdi in primavera. In questo quarto capitolo Joe si confronta con il panico e la vergogna che l’ha posseduta nell’istante dell’improvvisa lubrificazione davanti al letto di morte del padre. La musica di Bach, l’armonia della musica che si struttura secondo le leggi di Fibonacci, le singolarità intonate in un tutt’uno corale ed equilibrato, sono lo spunto di un’altra metafora erotico-sessuale. Nel quinto capitolo Joe ricorda il coro di amanti uniti in una voce unica e soddisfacente, una triade sessuale dove ciascun vertice recita la propria parte per comporre l’unità armonica: il partner altruista-accudente, quello passionale-predatore e Jerôme, ossia l’amore incontrato ancora una volta per caso. A colei che recitava il «Mea vulva, mea maxima vulva», il primo volume delle confessioni di una giovane ninfomane riserva una scoperta drammatica sul sentire. Desiderio, erotismo, trasgressione, sentimento non sempre si conciliano nell’appagamento. Il battage pubblicitario che gridava al porno d’autore ha avuto oggi la sua smentita, almeno in questa prima parte dedicata all’educazione sentimentale di una ragazza che si autodefinisce ninfomane. Il viaggio narrativo di Joe attraverso la personale ricerca spasmodica della gratificazione al desiderio lussurioso è introspettiva, intellettualizzata e parlata, più che mostrata. A dispetto di critiche e pregiudizi, ‘l’ospite non gradito a Cannes’
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(questo lo slogan sulla maglietta indossata dal regista per il Photo Call dopo aver defezionato la conferenza stampa), insiste sul (non) sentire di una donna con ironia e dialoghi sagaci. Dissacra il senso comune, la morale
classificante e, almeno nei primi 145’, non si appiattisce nell’esibizionismo porno-erotico-masturbante del sesso smanioso. We want more. Francesca Vantaggiato
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L'incapacità di ritrovarsi
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rnold Schönber e Pierrot Lunaire, la sua opera ..più famosa, manifesto dell’espressionismo ..musicale. Il poeta simbolista Albert Giraud scomposto nella traduzione infedele di un testo atono come la musica di cui è il complemento. Un’atmosfera malinconica che cede il passo a visioni allucinate, da Grand Guignol a cui lo stesso Schönber si è ispirato. Pierrot, il protagonista, poeta virtuoso, malinconico e triste eroe, paladino dell’ambiguità, proiettata in smorfie, allucinazioni, dentro un grottesco disvelatore. Bruce LaBruce scrittore, regista, fotografo, sceneggiatore, e il suo cinema miscellaneo tra tecnica-linguaggio artistico indipendente e pornografia gay ha fatto centro. Nello scegliere Schönber e Pierrot per rappresentare questo tempo, dentro una incapacità di ritrovarsi, che è anche sessuale. Raccolto dentro Forum / Expanded della Berlinale (la sezione più elastica, libera e variegata nei formati, nei generi e nelle tematiche), il footage-film sperimentale di Bruce LaBruce, racchiuso in un bianco e nero accecante nelle percezioni umane ed emotive che rafforza, mescola le riprese della sua produzione teatrale Pierrot Lunaire a materiale addizionale girato a Berlino. Una non storia dentro una storia: embrioni visivi atoni accompagnati e legati dalla partitura di Schönber e dal canto di Pierrot. Un canto visivo contemporaneo ironico, satirico, vizioso, inquietante e malinconico: Pierrot è androgino (reso con una perfetta immedesimazione fisica ed emotiva da Susanne Sachsse), donna senza fallo, innamorato disperatamente della sua Columbine. L’inganno che non fa di Pierrot un vero uomo, scoperto dal padre (capitalista) della falsa innocente Columbine, getta Pierrot in una silenziosa disperazione. E nei locali a luci rosse dove maschi improbabili si destreggiano in una lap dance ridicola, l’innamorato matura il suo piano… Evirare e avere ciò che può dargli identità, un’identità posticcia e ridicola nella resa… ma santificatrice, liberatoria. Il queer Pierrot che LaBruce rappresenta, incarna per estensione la più generale perdita di identità che oggi viviamo. Un fuori norma status esistenziale, sempre più compresso dentro regole che fanno fatica ormai a darci ‘sicurezza e appagamento’, anche sessuale. Nelle sovrapposizioni di piani visivi, di interni teatrali ed esterni di un vissuto-finzione, tra stop motion, percezioni da cinema muto, fuggevoli incursioni-deviazioni musicali tecno, eiaculazione, falli penzolanti tenuti in mano stancamente, guardati e desiderati, nell’ironia del macabro dove la ghigliottina del Grand Guignol è simbolicamente accostata all’evirazione, nell´impotenza
PiERROT LUNAiRE Regia: Bruce LaBruce Nazionalità: Canada, Germania Anno: 2013 Durata: 51' Genere: Drammatico di una vera interazione sessuale, LaBruce riesce a trasmetterci tutta la dolcezza e la sofferenza di uno stare al mondo in cui facciamo fatica a ritrovare noi stessi, e l’essenza che incarniamo. Maria Cera
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Un capolavoro ad altezza di bambino PREMIO MIGLIORE REGIA
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lcuni film commuovono, altri divertono. Alcuni raccontano avventure fantastiche, altri piccole ..storie vere. Altri si chiudono in due ore di proiezione, altri si estendono in saghe e capitoli. E poi c’è Boyhood, un film che non si dimentica. La progettualità di Richard Linklater è sorprendente: dal 2002 ha riunito gli stessi attori una volta l’anno per dare continuità al vissuto quotidiano di una famiglia vista con gli occhi del piccolo Mason (Ellar Coltrane), che intanto cresce. Mason Junior ha alle spalle due giovani genitori separati (Patricia Arquette ed Ethan Hawke) e una sorella più grande con cui non sempre le cose filano lisce. Dall’infanzia all’ingresso al college di Mason, la macchina da presa di Linklater sviscera in un lasso temporale di circa 10 anni gioie e dolori di quel percorso chiamato vita. Fedele a un’idea e a una conclusione visualizzata chiaramente sin dal principio, Linklater ha custodito con cura scritti e girato e con dedizione ogni anno ha riaperto il caso confrontandosi con difficoltà produttive e temuti imprevisti (un plausibile abbandono del film da parte di uno dei suoi attori nel corso degli anni, ad esempio, avrebbe fatto saltare l’intero lavoro) per definire le minuzie di una sceneggiatura amata con pazienza. Ad altezza di bambino e con una spiccata sensibilità narrativa, Linklater scrive un commovente romanzo sulle tribolazioni emotive dell’essere figli e genitori, sul conflitto dilaniante e costante fra sano egoismo e l’altruismo più disinteressato. Il mondo adulto osservato con gli occhi di Mason / Linklater è alla ricerca dell’equilibrio tra responsabilità e desideri, si barcamena non sempre con successo tra il dovere verso l’altro e quello verso se stessi. Nel corso degli anni Mason cambia città, casa, scuola, amici, ‘padri’, perché nel frattempo la madre ha ripreso a studiare, poi a lavorare, incontrando solo uomini sbagliati. Mason vorrebbe restare aggrappato alla stessa condizione stabilmente ma intanto il flusso degli eventi e le scelte dei ‘grandi’ lo trasportano verso nuovi approdi e nuovi inizi a cui adattarsi. Mentre il tempo scorre Mason cresce, cambia con riluttanza e con dolore, perché il cambiamento implica la perdita di una parte di sé e l’accoglienza più o meno forzata di nuove condizioni da interpretare e assimilare. In questa giostra che gira senza riposare mai, posizioni di genitori e figli si arroccano attorno al senso di responsabilità, evocato verbalmente dai primi poiché investiti del ruolo di educatori e dai secondi con sguardi supplichevoli che vorrebbero urlare quanto sia gravoso subire le scelte degli adulti. Linklater si era cimentato in un progetto di lungo respiro con i tre appuntamenti Before… girati puntualmente ogni nove anni insieme a Ethan Hawke e Julie Delpie.
BOyHOOD Regia: Richard Linklater Nazionalità: USA Anno: 2013 Durata: 163' Genere: Drammatico L’invecchiamento reale degli attori coincideva con una nuova fase del loro amore e un altro stadio di maturità raggiunto, proprio come succede in Boyhood a Mason che crescendo diventa sempre più riflessivo e saggio, sebbene l’ingenuità di Before… non regga il confronto con la levatura emozionale di Boyhood. Questo linguaggio ibrido di verità temporale e finzione narrativa e la sensibilità e accuratezza del regista texano nel piegarsi psicologicamente all’altezza di bambino commuovono senza riserve, ci trascinano in un pathos soverchiante. Dalla sfumatura di un tono di voce, dal corrucciarsi della fronte e da sorrisi silenziosamente loquaci cogliamo il vasto spettro di emozioni che si scatenano in questa famiglia imperfetta. Si sbaglia, si ferisce, si soffre, si gioisce, ci si ama nonostante tutto e senza drammi stucchevoli. È la vita, ciò che Linklater ci racconta con zelo e onestà tremendi. Francesca Vantaggiato
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Dal romanzo di Nick Hornby
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ul tetto di un grattacielo di Londra, la vigilia del .nuovo anno, si incontrano quattro disperati ..intenzionati a gettarsi prima della mezzanotte. Nessuno di loro si aspettava di trovare altri lassù e la faccenda si complica: quattro individui di generazioni ed esperienze diverse si ritrovano a parlare dei loro problemi. C’è Martin, ex presentatore tv con la carriera distrutta dopo una storia con una minorenne, poi c’è Maureen, casalinga disperata esausta per le continue cure al figlio gravemente disabile, JJ, musicista rock fallito che afferma di avere un cancro al cervello e infine la più giovane, Jesse, disperata per amore. I quattro fanno un patto, cioè quello di rimanere vivi ed insieme fino alla seconda data più spaventosa per i depressi, San Valentino. Questa scelta ovviamente metterà in moto eventi inaspettati con i protagonisti costretti a fare i conti con la propria vita, che forse non è da buttare via senza speranza. Nick Hornby colpisce ancora. Il film è l’adattamento del suo omonimo bestseller ed i tratti distintivi del prolifico autore ci sono tutti. Personaggi inconsueti, tragicomici ai quali l’autore ed in seguito il regista affidano il compito di mettere in scena le complesse ed imprevedibili dinamiche dei rapporti umani, capaci di salvare anche chi, come i protagonisti, è pronto a farla finita per sempre. Un cast affiatato che comprende il veterano Pierce Brosnan, Toni Collette, la più brava e credibile, Aaron Paul (ex star della serie tv Breaking bad) ed Imogen Poots. Il problema della pellicola è la continua ed implicita richiesta fatta al pubblico di sospendere la propria incredulità di fronte ad eventi sfacciatamente improponibili. Se è vero, ed il cinema è pieno di grandi esempi, che i rapporti umani possono essere curativi più di una seduta di terapia, è anche vero che la sceneggiatura passa dal drammatico all’involontariamente comico quando rende i quattro protagonisti delle star della tv o li fa ritirare in un’isola del Mediterraneo. Per rendere la storia unica e più cinematografica l’autore ha messo in moto una serie di eventi che, purtroppo, fanno scadere molto spesso il film nella farsa. Per gli amanti dell’ottimismo a tutti i costi sarà sicuramente un film piacevole ed appassionante, ed il cast è di alto livello, ma per tutti gli altri sarà solo e nient’altro che un viaggio nell’assurdo. Se l’autore avesse aggiunto anche pochi momenti di verità sarebbe stata una pellicola dall’alto potenziale, una vera commedia sui sentimenti, ma la strada scelta è stata un’altra, e i risultati si vedono. Emiliano Longobardi
NON BUTTiAmOci Giù Regia: Pascal Chaumeil Nazionalità: Regno Unito Anno: 2014 Durata: 96' Genere: Drammatico
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La diversità celebrata nella sua demistificazione
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l sesso è una specie di buco nero. L’ho sempre concepito così, e demistificarlo è il primo passo da compiere per coglierne il reale fascino, il mistero. Che il sesso sia il nemico sociale per eccellenza è un dato di fatto, che lo si sia fatto diventare nemico sociale, permettendone un controllo mirato, pure. Il merito di Fucking Different ΧΧΥ, compilation visiva sul trangenderismo resa da filmmakers e protagonisti che lo vivono sulla propria pelle, è soprattutto quello di demistificare. Nel flusso, a tratti discontinuo, di illuminazione di un esistere autentico, che i 7 corti tentano di esprimere, nello stare al mondo per quello che si è, per come si è.Nell’inquietante rivelazione di un doppio attrattivo-repulsivo che coglie chi guarda e ascolta corpi che sprigionano nella realtà dimensioni relegate da sempre al perverso, ad un oltre per i più non praticabile se non immaginativamente o furtivamente, in una doppiezza parallela. A loro è dedicato Fucking Different ΧΧΥ. Ed anche a me e ad altri che quel mondo lo osservano dall’alto del buco nero, senza la voglia di entrarci, o meglio, senza mai averlo percepito come una realtà che coinvolge esseri umani in carne ed ossa, perché relegato ad una fetta di esistenza distante anni luce dalla propria. Alcune percezioni sono evidenti nei contrasti che suscitano, ed è il caso sicuramente di Jesse, intervista che Buck Angel, icona di cultura polare, educatore, filmaker e motivatore, fa ad un transessuale. Qui il livello di doppiezza è reso abilmente, tra una comparazione visiva e parallela di una esibizione masturbatoria rivelata in proporzioni di corpo, e la naturalezza del racconto che Jesse fa di se stessa, distesa sul letto, coperta solo da un lenzuolo. Ci racconta del suo uomo fisso con cui sta da un po’, di come normalmente chi vuole fare sesso con lei non pensa a comprenderla nella propria realtà. Fa sesso con lei e basta. Di come lei ami fare sesso. E questa creatura inquietante che ho davanti, inquietante perché concretizza due ambiti da sempre socialmente scissi (il reale e il perverso), li fa diventare quotidianità, umanità, mi dimostra la demistificazione. Per il resto, Transaction è il più banale nella resa di atti estremi abbastanza stereotipati di fusioni sessuali in coppia, a tre…anche in un sadomaso poco empatico. Julianna Lev, nella forma autofagocitante di un reality, testimonia l’essere transessuale e pornostar in Israele, nella fuga dall’arretrata Jaffa, il ripudio della famiglia, l’abbandono di una figlia che crede Julianna morto. Grind e Grind fa rivivere senza sostanza visiva, dentro un’atmosfera da pura intervista di alcune frequentatrici, lo storico Clit Club, locale lesbo a New York, punto di riferimento negli anni di una libertà sessuale clandestina,
FUcKiNG DiFFERENT XXy Regia: Hans Petter Moland Nazionalità: Norvegia Anno: 2014 Durata: 115' Genere: Azione,Commedia chiuso con l’avvento dell’Aids. Internal body shots cattura (riuscendo nell’intento) in una dimensione borghese di un salotto, identità femminili e maschili nei loro corpi trasformati o semplicemente in una nudità da cui traspare la naturalezza delle propria essenza, una normalità che prescinde da gusti sessuali, o cambi di genere. A woman with a past ci mostra un vecchio poeta transessuale, la sua autoironia nel vivere una condizione dominata dalla solitudine, dall’emarginazione… Anche i transessuali invecchiano… La demistificazione è completa. Maria Cera
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L'Iran patria di un infinito e tragicomico rimando esistenziale
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eza Dormishian, classe 1981, arriva a Berlino dentro Panorama (sezione dedicata a nuovi autori, debutti visivi, sorprese-scoperte) portando con sé una pellicola seppur ancora acerba (suo secondo lungometraggio), carica di tracce variegate, riflesso visivo sociale ed emotivo di un sistema esistenziale (quello iraniano) senza speranza. Asabani Nistam! (I’m Not Angry) ci introduce nella confusione mentale che Navid, giovane curdo di 26 anni sta vivendo. Senza direzione, dopo l’espulsione dall’università durante le proteste a seguito della irregolare rielezione del presidente Mahmud Ahmadinejad nel 2009, non riesce a trovare un lavoro che non sia sfruttato, sottopagato, illegale. L’unica ragione-ossessione che lo tiene in vita ed in Iran è Setareh, giovane e promettente studentessa universitaria di cui è innamorato. Per sposarla, deve dimostrare a suo padre di riuscire a guadagnare abbastanza per permetterle di vivere dignitosamente. E Navid si mette alla ricerca di un lavoro, cozzando in tentativi meschini quanto ridicoli: di fronte a sé, una società alla deriva, nella quale la vita viene vissuta come lotta per sopravvivere. Se non sei un truffatore, un traffichino, uno sfruttatore, non hai speranze. Specie se sei giovane. Ideali, purezza, ingenuità, bellezza, sono banditi. E Navid si fa prescrivere tranquillanti per non reagire a voglie di raptus incontrollabili. Incamera pillole e ripete a se stesso «I’m not angry». La macchina da presa di Reza Dormishian si carica di questo scompiglio psigologico traducendolo in repentini mutamenti di taglio di inquadrature, di cambi di ritmo, tra zoommate improvvise di avvicinamento / allontanamento emotivo, sovrapposizioni di spazio, corpi, forzando la stessa narrazione in digressioni allucinate, paradossi e sogni. Il digitale rende ancora più corposa e vivida la realtà che attraversiamo, e Navid, schiacciato dai propri tentativi infruttuosi, sempre più prostrato da un’immobilità il cui peso diviene insostenibile, esplode in una ribellione che è insieme estremo sacrificio. Un agnello sgozzato, fagocitato da una società terrificatamente in stasi e impermeabile. I’m not angry ha il pregio di una freschezza che spesso implode in se stessa per eccesso di esternazioni, sia visive che narrative. Capace di passare dal ridicolo al macabro con un cinismo che è già maturità di punto di vista.
Maria Cera
ASABANi NiSTAm! (i’m NOT ANGRy) Regia: Reza Dormishian Nazionalità: Iran Anno: 2014 Durata: 110' Genere: Drammatico
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Haru Kuroki è Taki PREMIO MIGLIOR INTERPRETE FEMMINILE
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ôji Yamada non è Yasujirô Ozu, anche se ne trae ispirazione da sempre. The Little House (probabilmente candidato ad un premio all’interno della sezione del Concorso), è una gran bella storia. Con la capacità di raccontarci la vita dentro uno spaccato tanto semplice quanto straordinario negli strati di verità che tocca. Basato sul romanzo di successo di Kyoko Nakajima, ruota attorno alla figura di zia Taki, vecchietta nubile che lascia nelle pagine di quaderno le sue memorie, rivissute dal giovane Takeshi, nipote d’adozione, in una lettura che è flashback visivo, dentro un andar e venire tra presente e passato. Taki , giovane e timida ragazza di provincia, arriva a Tokyo e comincia a lavorare come governante. Dopo poco il caso la introduce nella incantevole piccola casa dalle tegole rosse e nella famiglia Hirai con la quale vivrà un legame di autentica simbiosi, specie con la giovane Tokiko, moglie e madre, di una bellezza totalizzante, che unisce interno ed esterno: una bellezza ed una dolcezza che cattura Taki anche nella complicità che instaura e che imbarazza (e destabilizza) il pudore della giovane. Il massaggio alle gambe che con estrema naturalezza Tokiko le chiede le venga praticato, smuove l’erotismo della giovane Taki, troppo timida ed insicura di se stessa per portarlo in superficie e viverlo. Taki è l’ombra attenta e premurosa della famiglia Hirai, ne segue le vicende con assoluta partecipazione, conservando sempre un riserbo in primis verso se stessa e la propria esistenza, naturalmente sacrificata, anzi vissuta di riflesso in quella degli Hirai: il signor Masaki, che commercializza giocattoli, prototipo dell’uomo d’affari giapponese, poco sensibile, poco attraente, con un senso del dovere da capofamiglia e da patriota. Il piccolo figlio della coppia, che subirà l’avvento della poliomenite, e Tokiko, nelle cui vicende sentimentali Taki non potrà non imbattersi con partecipazione e dolore silenzioso, insieme. Il romantico, sognatore, timido e inetto alla mascolinità giapponese Shoji, disegnatore della linea di giocattoli della ditta di Masaki, non potrà non toccare l’animo di Tokiko. L’amore tra i due sboccerà lentamente, tra remore reciproche e un’arrendevolezza necessaria. Nello sfondo, l’arrivo della seconda guerra mondiale, che taglierà anche il legame di Taki con la famiglia Hirai, e con Tokiko, di cui la giovane porterà dentro il peso di una scelta indispensabile, fatta per amore. Yamada penetra il racconto con una sensibilità e una raffinatezza in primis introspettiva. Dettagli apparentemente insignificanti, ma che intingono dalla vita ritualità quotidiane (pulire la casa, preparare da mangiare, conversare, festeggiare la fine dell’anno, prendere un tè),
THE LiTTLE HOUSE Regia: Yôji Yamada Nazionalità: Giappone Anno: 2014 Durata: 136' Genere: Drammatico universali, così vivide, così maledettamente toccanti. Insieme alla capacità di caratterizzare psicologie, ed è il caso di Taki (interpretata sublimamente dalla giovane Haru Kuroki ), una perla umana di emozioni trattenute, di non detti, di insicurezze, di profondità non aperte. Uno stare fuori dalla vita, vivendo. Peccato che tutto questo venga minato da un meccanismo telenovellante (passatemi questo neologismo), che si ingarbuglia in un finale dove dobbiamo per forza andarci a cercare tutte le chiusure di un cerchio, in collegamenti che gettano solo artificiosità, come calce che ingolfa i pori sentimentali e visivi cosi ben aperti. Del destino di Shoji andato in guerra, arrivando all’invecchiato figlio di Tokiko , ad una verità che deve necessariamente venire aperta fino in fondo. Ozu si sarebbe fermato molto prima. L’uso del flashback pure non aiuta: questo dentro fuori sfilaccia il flusso di empatia, costringendolo a tornare alla realtà, rompersi, in strutture forzate e stranote.
Maria Cera
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Biologia, emozioni ed immanenza in un intreccio seducente
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obert Lepage, artista a 360 gradi, e Pedro Pires, attento agli aspetti psicologici nelle caratterizzazioni da effetti speciali, traducono Lipsynch, riflessioni teatrali-multimediali di Lepage sugli organi corporei quali mappe identitarie ed emotive, nel cinematografico Triptyque presentato dentro la sezione Panorama Special e premiato con Menzione Speciale dalla Giuria Ecumenica. Una pellicola composta e composita, nella quale tre esseri umani si intrecciano nei reciproci vissuti, attraverso il filo rosso organico, intellettuale ed emotivo del cervello. Perno da cui oscillano, sfiorandosi, unendosi e separandosi, malattia, creazione, sentimenti, legami di sangue, arte… la vita. Tre i capitoli falsamente separatori. I personaggi li attraversano nonostante la scissione formale, intrecciandosi in porzioni di vissuto, in scambi emotivi, in riflessioni individuali. Québec: Michelle (la empatica Lise Castonguay) soffre di allucinazioni, sta per uscire dalla casa di cura dove è stata internata. Fragile, ancora oscillante tra due mondi, riprende con fatica la vita nella libreria antiquaria di seconda mano, dentro volumi rari e preziosi da trovare. Là avvertiamo la pienezza del suo mondo interiore, la sua conoscenza letteraria raffinata, la sua acuta sensibilità. La esterna con occhi spiritati ma calmi ad un giovane avventore universitario alla ricerca di un libro per la propria ricerca. Lo scambio è autentico, poche battute ma decisive per non dimenticarsi. Marie (la ipnotica Frédérike Bédard), sua sorella, passa a trovarla da Londra, insieme a Thomas (il denso Hans Piesbergen). Il trittico è composto. Tutti e tre legati dalla mente, in maniera differente ed ipnotica. Thomas è un neurochirurgo affermato, sposato, potenzialmente circondato da sicurezze, in ‘sovradosaggio’ mentale medico e psicologico: il tremore ad una mano di cui soffre da un po’, placato falsamente dall’alcol di cui è ormai schiavo, ed una insofferenza esistenziale che non vede, a cui riesce a dare identità soltanto grazie a Marie… Esplosiva ed intensa cantante jazz, ha un tumore al cervello. La sua eliminazione le comporterà la temporanea inabilità alla parola. È proprio Thomas a rivelarglielo, incontrandola per la prima volta nella veste di medico specialista. Marie, s convolta soprattutto per l´invasione del male nell’organo più importante della sua vita esteriore ed interiore (la voce), si intreccerà alla vita di Thomas in un intervento chirurgico che li unirà indissolubilmente. Per lei, una inaspettata svolta fisica ed emotiva, e per noi che guardiamo una mirabile riflessione sul legame tra la sfera biologica, esistenziale, emozionale. Triptyque ci conduce con una introspezione anche visiva di movimenti di macchina da presa che toccano lo
TRiPTyQUE Regia: Robert Lepage e Pedro Pires Nazionalità: Canada Anno: 2013 Durata: 90' Genere: Drammatico spazio nel quale penetrano in una simbiosi con un invisibile, non solo emotivo. Insieme ad una fotografia di pari effetto, nel granuloso, pastoso, avvolgimento della realtà che imbriglia. L’arte, nella luce della pittura, si affaccia appena, sempre richiamando un immanente, un al- di -là dal quale i tre protagonisti, ciascuno nel proprio denso modo, viene attratto. Ed anche noi. Peccato che alcuni inserimenti strutturali spezzino l’atmosfera, rendendo retorico soprattutto formalmente il flusso visivo che abbiamo davanti. A cominciare dalla divisione in capitoli. Un rigore che forza emotivamente un punto di vista deliziosamente combinato nei simboli narrativi, sentimentali ed organici che Robert Lepage e Pedro Pires hanno scelto per la loro riflessione esistenziale. Maria Cera
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Il nuovo passo del futuro del cinema
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n passo a cui l’occhio non è ancora pronto, una strada che Tsai Ming Liang, tra i pochi cineasti capaci di rappresentare la contemporaneità, e probabilmente il solo veggente sul futuro dello sguardo, sulle nuove prospettive possibili, sui nuovi confini della rappresentazione cinematografica è in grado di compiere ed imporre contro tutto e tutti. Non contro i suoi estimatori francesi, che letteralmente lo coccolano, comprendendo l’indispensabilità – necessità per la sopravvivenza del cinema stesso, di uno sguardo come il suo. Arriva a Berlino Xi You, tappa marsigliese delle lente spedizioni del suo doppio sullo schermo da sempre, l’eroico Lee Kang-sheng trasformatosi in asceta, riuscendo a performare l’imperformabile dentro il tempo filmico. Il suo lentissimo penetrare la realtà di luoghi umani, fisici, con un passo nella sua estrema, folle lentezza, che si carica addosso (insieme all’inconfondibile, accecante, mantella-tunica rossa che lo copre) tutta la cieca corsa, il cieco vivere dell’uomo moderno, impone a chi sta dall’altra parte dello schermo una violenza indubbia. E devo dire che i Tedeschi che hanno affollato la splendida-avveneristica-saturnea Sala 2 dello Zoo Palast, mi hanno sorpresa. Abituata a contare le rese di molti spettatori delle performance visive di Ming Liang (e in generale del suo cinema) anche dopo i primi 5 minuti, i Teutoni hanno resistito quasi tutti fino alla fine. Se per il momento ai più è soltanto la fatica di tenuta di attenzione, di percezione, ad essere avvertita, il frenare un automatico raptus accelerativo–attivo, l’allenamento è indispensabile, perché capace di aprire porte percettive sulla fruizione cinematografica, inimmaginabili. Il monaco rosso si frappone agli ingressi della metropolitana, ai caffè, alla strada battuta da piedi ed automobili, tirando letteralmente il freno a mano a ciò che lo circonda e penetra. A volte non lo individuiamo subito, nelle sempre illuminanti prospettive – inquadrature da cui Ming Liang decide di fissare il pezzo di realtà da attraversare – e specialmente due trasfigurano lo sguardo- la discesa dalle scalette che conducono all’ingresso della metro, in un controluce che irradia e proietta il passo dell’asceta sull’esistere dei passeggeri che salgono e scendono. La piazza capovolta, riflessa a testa in giù nel pavimento vitreo insieme allo stare dei suoi frequentatori (uomini, donne, bambini). Una volta trovato il punto rosso, ne sentiamo il bisogno, quasi venissimo destabilizzati nel non identificare subito la nostra bussola mediatrice di uno svelamento tra chi siamo e cosa possiamo guardare di noi stessi dal di fuori. Lo spazio umano e fisico del nuovo passo del cinema si rivela allo stesso pubblico che rappresenta ed ingloba, lasciandolo interagire, ben
Xi yOU Regia: Tsai Ming Liang Nazionalità: Francia, Taiwan Anno: 2013 Durata: 56' Genere: Documentario, Drammatico sapendo che la macchina da presa è sempre là, quasi ad intimidire- proteggere quel punto rosso che provoca, diverte, offende, lascia indifferente il cammino dell’uomo moderno. Maria Cera
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Un ottimo thriller a tinte vivaci
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ue Importanti ruoli, due personaggi lontani anni luce tra loro, un’unica straordinaria e decis(iv)a interpretazione per Stellan Skarsgård alla 64. Berlinale. Pochi giorni fa volto, corpo e anima di Skarsgård davano vita a Seligman, l’Ascoltatore della ninfomane Joe nel film chiacchierato, atteso e sorprendentemente introspettivo di Lars Von Trier. Il soccorritore di Joe che non giudica ma interpreta scientificamente azioni e colpe private dalla stessa del perdono diventa in questo film Nils, cittadino dell’anno in un paesino della montagna norvegese. Con un trasformismo gestuale, mimico, psicologico, il filantropo positivo si trasforma nel giustiziere della notte, un padre che non accetta le cause ignominiose e false della morte del figlio. Dinanzi all’arrendevolezza della polizia, l’uomo comune, mite, lo straniero integrato appena eletto modello comportamentale della comunità, si converte nel giro di pochi frame in un killer spietato che sceglie la strada della giustizia personale. Questa virata vendicativa e solitaria lo porta direttamente nel quartier generale della droga diviso in due compagini, quella del vegano Count (Pål Sverre Hagen) e quella serba di Papa (Bruno Ganz), accordate su un equilibrio di gestione del territorio che è meglio non turbare. Leggendo la trama così presentata, In Order of Disappearance ha tutte le carte in regola per essere un thriller poliziesco, il solito action movie dove il tragico irrompe nella quotidianità per turbare l’ordine, estirpare il buono e innescare il vendicatore dissociato e addormentato di cui nessuno sospettava. Il film di Hans Petter Moland, una perla del concorso, si ribella alle restrizioni del genere e macchia le lande candide e white di black and red, black come lo humor e red come il sangue che esce a fiotti. Nella policromia dei registri si fa spazio anche il pink, laddove l’insospettabile sentimento diventa detonatore di piccole vendette a sfondo romantico. Il Charles Bronson norvegese è un orso di montagna ligio al dovere che picchia duro contro il nemico, ossia quegli sgherri della droga affiliati al clan di Count, e che con un colpo di fortuna riesce a non farsi eliminare. Count, la caricatura di un duro, dirige una manica di personaggi sgangherati, nei nomi e nei comportamenti, degli assassini dal cuore tenero che potremmo soprannominare Mr. Pink, Mr. Orange, Mr. White, Mr. Brown… Dall’altra parte dello schieramento c’è Papa, il boss serbo old school chiamato all’azione per vendicare il figlio ucciso per sbaglio da Count e attorniato a sua volta da un manipolo di assassini che si sollazzano lanciandosi palle di neve.
iN ORDER OF DiSAPPEARANcE Regia: Hans Petter Moland Nazionalità: Norvegia Anno: 2014 Durata: 115' Genere: Azione, Commedia La morte e la violenza hanno davvero poco di tragico in un film dove si ricorre allo stereotipo solo per poi sberleffarlo. Con le dovute differenze geografiche e di visioni, In Order of Disappearance calca l’onda del migliore Tarantino. Francesca Vantaggiato
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Contro la guerra civile
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iamo all’inizio degli anni Settanta e il conflitto nell’Irlanda del Nord sta raggiungendo livelli da guerra civile. Belfast, l’epicentro degli scontri, è praticamente divisa in due zone controllate una dai protestanti, leali verso il governo inglese, ed una dai cattolici in lotta per l’indipendenza. Agenti sotto copertura, gang di strada e teste calde cercando di perseguire i propri interessi arrivando anche ad uccidere se necessario. La giovane recluta Gary, già padre pure essendo giovanissimo, è inviata lì con il suo plotone, ma non hanno idea del caos che li attende. Durante la prima ronda, Gary viene isolato e lasciato indietro dal proprio gruppo e da quel momento per lui avrà inizio una corsa senza sosta per la salvezza, in una città dove il sangue scorre dietro ogni angolo. Yann Demange, seguendo il classico schema “dal particolare al generale” prende spunto dalla storia di un giovane soldato per parlare della guerra senza fare sconti a nessuno. Attraverso gli occhi di un ragazzo terrorizzato assistiamo agli orrori di un conflitto tra “fratelli” che non ha risparmiato nessuno, neanche i bambini impiegati come avanguardia e come spie da entrambe le fazioni. La pellicola scorre veloce, ed ai numerosi silenzi fanno da contraltare improvvise e sconvolgenti esplosioni di violenza che il regista segue senza tralasciare particolari disturbanti. L’odissea personale di Gary serve a mostrare la futilità di battaglie che si chiudono senza vincitori e la grande forza del film è quella di esporre i fatti senza banalità ma con una grande attenzione ai protagonisti grazie a continui primi piani che mostrano senza sosta la paura, l’incertezza ed il dubbio sui loro volti. Una grande prova per il giovane Jack O’Connell, un attore di notevole talento che porta quasi interamente il peso del film sulle sue spalle. I suoi occhi spaventati e confusi bucano lo schermo e inchiodano lo spettatore alla sedie, portando inconsciamente a fare il tifo per lui. Dal buio della notte all’accecante luce delle esplosioni, mostrando una realtà di paranoia e confusione, ’71 è un’interessante parabola contro la guerra che ha il pregio di un’ottima regia ed un fantastico protagonista.
Emiliano Longobardi
‘71 Regia: Yann Demange Nazionalità: Regno Unito Anno: 2014 Durata: 100' Genere: Drammatico
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Gli occhi dell'amore PREMIO MIGLIOR CONTRIBUTO TECNTICO
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ella città di Nanchino esiste un luogo particolare, un centro massaggi dove viene praticata l’arte del Tui Na seguendo i precetti dell’antichissima medicina cinese. La caratteristica principale però è data dai dipendenti del centro, tutti quanti ciechi o ipovedenti che si affidano al senso del tatto per aiutare uomini e donne che cercano sollievo. Il Dottor Wang, appena arrivato con la sua compagna sembra il più sereno, ma drammi familiari mettono a rischio la sua felicità. Xiao Ma soffre per il desiderio di avere la magnifica Du Hong pur sapendo che per lui è una meta irraggiungibile. Ognuno di loro ha un proprio bagaglio di storie, sentimenti e speranze, che il regista riprende con profondo rispetto ed ammirazione. Non si può rimanere impassibili di fronte alle storie portate sullo schermo dal regista cinese Lou Ye, la determinazione e la forza di chi per sfortuna e per destino non ha il dono della vista sorprende e commuove, ma più che la cecità in sé ciò che appassiona il regista sono le conseguenze che essa ha sull’amore, sulla sua ricerca e sulla vita sentimentale dei massaggiatori. Solo l’amore, totalizzante e pieno può dare soddisfazione a questi individui che hanno l’urgenza e l’ossessione del contatto. Ye non indugia mai nel patetico, non rincorre la lacrima facile ma entra a gamba tesa nel privato dei suoi protagonisti con stile quasi documentaristico. C’è chi ha perso la vista dopo un incidente stradale, chi non l’ha mai avuta dalla nascita e chi ogni giorno vede sparire il mondo intorno a causa di terribili malattie degenerative, ma per ognuno di loro c’è spazio per parlare di amore. Amori nascono all’interno del centro e altrettanti amori sfioriscono con rapidità, fornendo il fulcro narrativo della pellicola, un vero e proprio melodramma senza gli orpelli che di solito accompagnano il genere. Blind Massage è un film riuscito, appassionante e totalizzante come il sentimento di cui parla, quell’amore che da solo può dare senso anche ad una vita incompleta.
Emiliano Longobardi
TUi NA (BLiND mASSAGE) Regia: Lou Ye Nazionalità: Cina Anno: 2014 Durata: 117' Genere: Drammatico
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Carpe diem PREMIO per l’INNOVAZIONE
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urante le prove di una produzione teatrale, un gruppo di attempati attori amatoriali riceve una brutta notizia: al loro caro amico George è stato diagnosticato un cancro terminale che gli lascia solamente sei mesi di vita. Cosa fare per aiutarlo, e soprattutto come confrontarsi con la morte imminente di una persona amata? Due coppie e la sua ex moglie con il nuovo compagno si confrontano per capire come aiutarlo. Saranno soprattutto le donne a lottare per diventare la protagonista dei suoi ultimi giorni, la prescelta che accudisca il casanova George fino alla fine. L’infaticabile Alain Resnais, 92 anni portati in maniera splendida, torna al cinema riprendendo due temi a lui cari, il mondo del teatro e la morte. Con tono lieve e utilizzando la messa in scena di uno spettacolo come filo conduttore, ci troviamo di fronte a del vero e proprio teatro filmato e adattato per il grande schermo, il regista francese mette i suoi protagonisti davanti alle vicissitudini che derivano dal dover convivere con il pensiero della fine. Non vediamo mai George Riley, ma impariamo a conoscerlo dai racconti dei suoi amici, un Don Giovanni amante della vita e del divertimento, un mascalzone che anche in fin di vita alimenta drammi ed equivoci con le sue manipolazioni. Sempre fuori scena e sempre protagonista mentre di fronte alla cinepresa un drappello di fidati amici del regista interpreta il gruppo di attori che cerca di coinvolgere e distrarre George dalla sua malattia. Tra i tanti citiamo i magnifici Sabine Azéma (compagna di Resnais nella vita), André Dussolier, Hippolyte Girardot, Sandrine Kiberlain e Caroline Silhol, che con grande credibilità ci raccontano cosa vuol dire essere anziani avendo ancora tanta voglia di vivere ma poco tempo per farlo a pieno. Le crisi, le gelosie e le rivalità familiari che contrappongono i protagonisti nascono dal diverso modo di affrontare e metabolizzare la fine di ogni individuo. Non c’è tragedia e non c’è pessimismo in questo film, tratto dalla pièce teatrale Life of Riley scritta da Alan Ayckbourn (da cui Resnais aveva già tratto Smoking/No smoking e Cuori) solo tanta amara consapevolezza. Amare, bere e cantare, è questo il titolo del film, un inno alla vita vissuta pienamente e senza rimpianti. Non c’è una maturità felice ed accettata, ma si infrange anche il sogno dell’eterna giovinezza, dunque ciò che rimane è solo la possibilità di sfruttare al meglio i propri anni vivendo ogni singolo giorno con sfrontata allegria.
Emiliano Longobardi
AimER, BOiRE ET cHANTER (LiFE OF RiLEy) Regia: Alain Resnais Nazionalità: Francia Anno: 2014 Durata: 108' Genere: Drammatico
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L’ Orso nero carbone
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MIGLIOR FILM E MIGLIORE INTERPRETAZIONE MASCHILE
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Orso d’Oro è stato annunciato nel disappunto generale. Probabilmente non è stato un Concorso dall’imbarazzo della scelta, come del resto accade spesso al Festival di Berlino, le cui punte di diamante sono da scoprire altrove nelle categorie collaterali. Definita sottotono, la 64. Berlinale ha avuto lustri, lustrini e lustrate come ogni festival che si rispetti, e come tale anche le nomine del cuore di ciascuno, più o meno condivise e puntualmente disattese. Black Coal, Thin Ice di Yi’nan Diao, Orso d’Oro 2014, è un noir classico ambientato nella Cina contemporanea. Non manca niente a questa detective story nera: il poliziotto decaduto impegnato ora in indagini private, ossia l’uomo onesto maltrattato e incattivito dalla vita che l’ha reso un reietto, la ricerca personale di un riscatto e di giustizia, la femme fatale nascosta dietro un angelico volto e l’umile posizione sociale, il crimine che l’ex poliziotto deve risolvere in solitaria affrontando i fantasmi del passato. Nel 1999 corpi lacerati vengono ritrovati nelle cave di carbone, dopo cinque anni delitti simili si ripresentano all’attenzione dell’ex poliziotto. Le indagini private lo portano a una lavanderia dove lavora una ragazza che avrà un ruolo chiave nella cattura del killer. Inutile dire che, tra dolcezza e possesso, la relazione tra i due si spingerà oltre la sola collaborazione investigativa. Il carbone nero e il ghiaccio sottile evocati nel titolo sono la materia del crimine nella cui consistenza si definisce il tema delittuoso e l’essenza del genere che questo film rispetta: nero, sporco è l’omicidio, che tuttavia trova la sua strada anche nella purezza del ghiaccio, affilato e tagliente. Il carbone e il ghiaccio, sporco e grezzo il primo, sottile ed etereo il secondo, sono la metafora del genere dominato dalla brutalità rozza del delitto e dalla salvezza inafferrabile, ma comunque agognata, affidata all’amore. L’ambiente ostile costringe i personaggi a muoversi in uno spazio malato, caotico, violento collocato geograficamente nel nord della Cina, un luogo geografico per niente rassicurante. La Cina emerge nelle angustie di un regista la cui certezza – per sé e per i suoi personaggi – sembra essere la morte che incombe e che non pacifica, che giunge anzi abbattendosi con ferocia impietosa sulle sue miserabili vittime. La desolazione dell’essere umano, la sua solitudine senza soluzione, l’invincibilità dell’ingiustizia e del disordine, della cattiveria e dell’assurdità, la prevaricazione e il trionfo del male dominano il mondo, soprattutto quello di Yi’nan Diao che non intravede spiragli di luce nell’oscurità contemporanea popolata da esseri oramai abbrutiti. Peccato suoni tutto molto più interessante nero su bianco che sul grande schermo. Francesca Vantaggiato
BLAcK cOAL, THiN icE Regia: Yi’nan Diao Nazionalità: Cina Anno: 2014 Durata: 106' Genere: Drammatico
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L’OPINIONE DI TAXI DRIVERS
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ll’indomani di un festival ecco che arrivano pronti i bilanci di ognuno sulla selezione delle pellicole, sulla ..scelta della categoria per ogni film e soprattutto sulla nomina dei vincitori, momento quest’ultimo non privo di perplessità e bersagliato dalle consuete critiche. L’edizione passata ha visto il trionfo della cinematografia italiana, a dire il vero di uno dei pilastri della nostra cinematografia, ossia due registi che insieme diventano una creatura quasi bicentenaria. Se nel 2012 è stata l’Italia dei fratelli Taviani con Cesare deve morire ad avere il suo momento di gloria, il 2014 ha voluto aprire una finestra sull’Oriente assegnando l’Orso d’Oro a Bai rin Yan Huo (Black Coal, Thin Ice) di Diao Ynan, un noir dove gli ingredienti del genere abbandonano i luoghi consueti per stabilirsi in Cina. Echi delittuosi del passato che riaffiorano, una femme fatale che fa da raccordo, un ex poliziotto decaduto, la materia – riportata nel titolo – che assume una valenza criminosa (il ‘carbone nero’ e sporco come l’omicidio e il ‘ghiaccio sottile’ su cui la lama affilata scivola pronta a farsi arma), la città divenuta trappola e luogo di perversione e follia sono gli ingredienti che creano l’atmosfera nera della detective story vincitrice. La giuria presieduta da James Schamus ha amato molto il film cinese perché l’attore protagonista Liao Fan si è aggiudicato anche il premio per la migliore interpretazione maschile. Il verdetto è giunto del tutto inaspettato, soprattutto dopo la visione di Boyhood di Richard Linklater che sembrava aver sbaragliato ogni possibile concorrente e che invece è stato premiato ‘solo’ con l’Orso d’argento alla migliore regia. Il progetto curato pazientemente per circa un decennio da Linklater, il ritratto di una famiglia americana vista con gli occhi del figlio che cresce, è sicuramente il nostro Orso d’Oro. Non capita spesso, purtroppo, di vedere un film maturo e intenso nel catturare il fluire del tempo concentrandosi sull’ordinarietà del quotidiano per riuscire a realizzare un affresco composito sulle intime percezioni dell’individuo, sulla famiglia americana e sugli ultimi dieci anni di storia di un Paese. Anche l’amato e coloratissimo Wes Anderson, tra i big habitué del festival, non viene lasciato a mani vuote e si aggiudica il Gran Premio della Giuria. Una Europa in ginocchio piegata dagli orrori della guerra, in cui la bellezza decade in un’avventura dove con garbo ed eleganza si corre per non cadere vittima dell’intrigo. E poi la carrellata di bislacchi e colorati personaggi/star, finemente caratterizzati per divertire lasciando un retrogusto amarognolo. Questo, e molto altro, è The Grand Budapest Hotel, alla cui grazia e rivisitazione storica nel segno dell’immaginazione andersoniana è spettato il compito di aprire il concorso. Il giapponese The Little House di Yoji Yamada ha vinto meritatamente il premio per la migliore attrice assegnato a Haru Karoki, la domestica di una famiglia benestante che nello scrivere le sue memorie ricorda il segreto custodito per proteggere la donna per cui lavorava. La potenza di questo film dai toni pastello è l’umiltà del punto di vista, affidato allo sguardo di un personaggio piccolo, marginale, testimone di un incontro amoroso non vissuto in prima persona. Yamada dona grandezza cinematografica al sommerso mondo dell’ordinario, mettendo a fuoco i tumulti degli ultimi per immortalare la Grande Storia. Infine la Germania con i suoi ben quattro film in concorso ha ricevuto il Premio alla Sceneggiatura per Kreuzweg, scritto dai fratelli Dietrich e Anna Bruggerman sul martirio di un’adolescente cresciuta in una famiglia di fondamentalisti cattolici e raccontato attraverso le 14 stazioni della Via Crucis. Al novantenne Alain Resnais è andato il premio innovazione
per Aimer, boire et chanter, mentre ad aggiudicarsi L’Orso d’Argento per il miglior contributo tecnico è stato Zeng Jian per la fotografia di Blind massage, premio che ha fatto storcere il naso. Con il consenso dei più ha vinto il premio per la migliore opera prima Güeros di Alonso Ruizpalacios, autore teatrale passato al cinema che nella ratio 4:3 e in bianco e nero ha coraggiosamente costruito un road movie lungo le strade di Città del Messico alla ricerca del cantautore che fece commuovere Bob Dylan. Accanto a un Orso d’Oro debole (si voleva portare l’attenzione sulla Cina?) e poco convincente, ci sono anche i grandi esclusi del festival. Senz’altro il debutto di Yann Demange, ’71, su una Belfast dilaniata dal conflitto dove al protagonista Gary Hook (Jack O’Connell) non resta che correre e diffidare di tutti, e In Order of Disappearence con Stellan Skarsgard, humor brillante e solide interpretazioni, ignorati a torto dalla Giuria.
Francesca Vantaggiato
È
sempre appassionante respirare l’aria del Festival, vivere insieme a centinaia di giornalisti provenienti da tutto il mondo quelle giornate interamente dedicate al cinema in tutte le sue declinazioni. Gli elementi forti del 64. Festival di Berlino sono stati diversi, dall’altissimo numero di star giunte e presentare i proprio lavori alla Berlinale, regalando quell’aria glamour che non guasta mai, passando per la scelta di lavori originali e sorprendenti, fino alla decisione di portare al Palast maestri del cinema europeo come Alain Resnais (in concorso con l’amaro e ironico Life of Riley e Ken Loach, premiato per la sua straordinaria carriera. Il concorso ha visto una serie di ottimi lavori, fra tutti sicuramente il dissacrante In order of disappearence, ingiustamente ignorato dalla giuria mentre avrebbe sicuramente meritato il premio per il miglior attore, Stellan Skarsgard. Ha commosso poi ’71, denuncia sugli orrori delle guerre con una fotografia crepuscolare che lascia il segno, e il cinese Blind massage, analisi sull’amore dal punto di vista dei non vedenti. Fuori dalla competizione è stata forte la delusione per la nuova prova alla regia del divo Clooney The monuments men, interessante storia resa banale e superficiale da un pessimo lavoro di sceneggiatura. Un tema presente spesso in qualsiasi sezione di questo poliedrico festival? Il sesso, studiato, mostrato e nascosto in molti dei lavori presentati; ovviamente parliamo del film scandalo Nymphomaniac di Von Trier, che poi tanto scandalo non era, ma rappresenta comunque un’opera riuscita ed interessante, ma il sesso era anche il fulcro del brasiliano Everything that rises must converge, con le riprese della vita quotidiana di quattro attori a luci rosse, del documentario Vulva 3.0 e del torrido Land of storms. Un Festival dai contenuti interessanti, promosso sotto il profilo artistico e qualitativo, con la richiesta però di osare di più, andando a cercare lavori sperimentali e di spessore che meriterebbero davvero un passaggio sul grande schermo.
Emiliano Longobardi
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