Speciale Cannes 2014

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TAXI DRIVERS MAGAZINE SPECIALE CANNES 2014

DIRETTORE

Vincenzo Patanè Garsia VICE DIRETTRICE

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Lucilla Colonna CONCEPT DESIGNER

Gianna Caratelli INVIATE

Maria Cera Elisabetta Colla Anna Quaranta Francesca Vantaggiato CAPOREDATTORE SITO WEB

Luca Biscontini UFFICIO STAMPA

Valentina Calabrese WEB MASTER

Daniele Imperiali

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TAXI DRIVERS è dedicata a Delian Hristev (R.I.P.)

In copertina: Marcello

Mastroianni


Jane Campion

Un'edizione indimenticabile questa 67ma, con un red carpet lunghissimo e così sfavillante di star da far girare la testa anche a Marcello Mastroianni, occhieggiante dalla locandina del Festival (e dalla nostra copertina). Lo spettacolo comincia già scorrendo i nomi dei giurati: da Sofia Coppola a Gael Garcìa Bernal, da Willem Dafoe a Nicolas Winding Refn. E Jane Campion, che passa alla storia del Festival come prima regista donna Presidente di giuria. La regia femminile consegue un altro importante traguardo con l'assegnazione del Grand Prix a Le meraviglie di Alice Rohrwacher, interpretato fra gli altri dalla sorella Alba (cui abbiamo dedicato copertina e intervista nello Speciale Venezia 70). Immaginiamo quanto sia stata difficile l'elezione della Palma d'Oro, vista la presenza in concorso di autori come Jean-Luc Godard, David Cronenberg, Mike Leigh e i Dardenne. Ma alla fine, il premio più ambito è andato al turco Winter sleep di Nuri Bilge Ceylan, il quale lo ha dedicato ai giovani connazionali che recentemente hanno lottato, anche a costo della vita, per la libertà

Lucilla Colonna


LEVIATHAN PREMIO MIGLIOR SCENEGGIATURA

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n una piccola cittadina nel nord della Russia situata sul Mare di Barents, Kolia si scontra con il potere locale. Il sindaco vuole impossessarsi della terra su cui è localizzata la casa dove Kolia conduce una vita frugale con la giovane moglie Lilya e il figlio Roma, nato dal precedente matrimonio. Per difendersi, Kolia ricorre all’aiuto del determinato avvocato Dmitri, suo amico di vecchia data. Inutile dire che il sindaco ricorrerà a tutti i mezzi, alla coercizione fisica e psicologica per accaparrarsi la posta in gioco. A Cannes, il Leviathan scritto a quattro mani da Oleg Negin e Andrey Zvyagintsev ha ricevuto il Premio alla sceneggiatura, una scrittura complessa sulla progressiva degenerazione delle tensioni tra le parti diretta lentamente e inesorabilmente verso il compimento di un sopruso per mano dello Stato. Il Leviathan del titolo richiama la creatura mostruosa nominata dal filosofo Thomas Hobbes per identificare la rinuncia (di parte) della libertà individuale in nome di un bene più grande, la società, con il fine di assicurarsi sicurezza sociale e di evitare “la guerra di tutti contro tutti”. Ma il Leviathan secondo le Sacre Scritture è il mostro biblico per eccellenza, è Satana. Azzardando un’ipotesi basata sull’ambiguità semantica del nome “Leviathan”, non sarebbe del tutto folle sovrapporre lo Stato a Satana e spazzare via il dubbio della dicotomia. Per Zvyagintsev, “così come tutti noi nasciamo marchiati dal peccato originale, allo stesso modo nasciamo tutti in uno ‘stato’. Il potere spirituale dello stato sull’uomo non conosce limiti”. Leviathan è una delle tante storie eleggibili per raccontare lo status quo in Russia e, cinematograficamente parlando, è tante cose. La condizione dell’essere umano è al centro del discorso: l’uomo dilaniato dal conflitto, diviso tra il sé e la comunità, tra libertà e asservimento, tra giustizia morale e giustizia legale. Va da sé che la giustizia dello stato tradisca spesso il patto con il cittadino macchiandosi di corruzione e omissione di tutela. Nella scena del tribunale, Zvyagintsev ci obbliga ad ascoltare l’interminabile sentenza pronunciata come fosse una filastrocca e senza mai prendere fiato dal giudice. È il potere giudiziario a tuonare inumano su Kolia per sopraffarlo. Il potere è declinato in varie forme ma ha il risultato comune di soggiogare l’individuo, in questo caso un uomo umile colpevole di aver costruito una casa su un terreno appetitoso per i politicanti locali. Da un punto di vista strettamente cinematografico, Leviathan mescola tanti ingredienti di generi diversi, tant’è che inquadrarlo in un’unica categoria risulta fuorviante e limitante. C’è tanto black humor, ma definirlo commedia nera non si può; il delitto e il mistero intorno

Regia: Andrei Zvyagintsev Nazionalità: Russia Anno: 2014 Durata: 130' Genere: Drammatico ad esso ne farebbero un noir, ma l’assassinio è ‘solo’ l’esecuzione violenta del potere sul singolo; potrebbe essere un political thriller, ma l’intervento della politica si inscrive in un discorso più ampio e filosofico. Certo è che la contestualizzazione in terra russa è condizione necessaria e sufficiente all’evolversi degli eventi. La Russia, con la sua spiritualità, il suo tormentoso rapporto con il sacro, con la messa in discussione della giustezza del potere è la protagonista silenziosa e coercitiva della storia. Personaggi primari e secondari hanno tutti la stessa attenzione. Ad eccezione delle figure rappresentanti la Chiesa Ortodossa e la politica/potere, che hanno una connotazione nettamente negativa, ognuno vive a modo suo e secondo le circostanze il conflitto tra bene e male. Kolia è l’eroe tragico, il ‘figlio di Dio’ capace di risolvere nel perdono le offese ricevute ma impotente dinanzi al destino di oppressione deciso per lui dagli uomini. Il film russo in questione, degno membro di una geografia cinematografica socio-politicamente intricata e greve, è un’allegoria desolata della condizione umana davvero coraggiosa. Francesca Vantaggiato



FOXCATCHER PREMIO MIGLIOR REGIA

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ella bizzarria, e spesso della follia, dei miliardari americani sono piene le cronache. Una delle più incredibili vicende, realmente accadute, a conferma di tale assunto è quella raccontata nel lungometraggio in concorso Foxcatcher, del regista statunitense Bennett Miller – vincitore del Premio per la Miglior Regia alla 67esima edizione del Festival di Cannes – dove il miliardario e mecenate John Dupont (interpretato da un repulsivo e bravissimo Steve Carell), erede di una famiglia di ricchi cacciatori di volpi e di un vero e proprio impero finanziario, appassionato di wrestler e succube della madre ottuagenaria (una malinconica ed evanescente Vanessa Redgrave), portò fino alle estreme conseguenze la sua schizofrenia e le sue frustrazioni. La vera storia dei fratelli Mark e David Schultz, entrambi campioni olimpionici di lotta nel 1984, affiatati nella vita e nel lavoro ma caratterialmente molto diversi, e del loro incontro ‘fatale’ con il filantropo/paranoide Dupont, viene messa in scena dal regista in maniera cupa ed asciutta, creando un’atmosfera rarefatta e a tratti lugubre, che prelude alla tragedia. L’America del patriottismo esasperato e delle occasioni insperate, dello sport come occasione

Regia: Bennett Miller Nazionalità: USA Anno: 2014 Durata: 130' Genere: Drammatico di riscatto, della famiglia come perno del bene e del male, è raccontata con grande maestria, psicologica e tecnica, da Miller – premio Oscar nel 2006 per Truman Capote. “Volevo che nel film ci fossero molte cose non dette – ha affermato il regista – e nascoste, cosicchè lo spettatore potesse affinare la propria sensibilità ed addentrarsi nel film come in un viaggio, dove ci sono altri elementi da scoprire oltre a quelli visibili dall’esterno”. Il magnifico lavoro di preparazione, anche atletica, svolto sui due protagonisti, Channing Tatum e Mark Ruffalo, si riflette sull’intensità dei personaggi e delle relazioni, e sullo sguardo d’insieme, complesso e sfaccettato. L’intero film è stato girato in Pennsylvania. Elisabetta Colla



THE SALT OF THE EARTH U

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no sposalizio senza precedenti, quello fra il regista e fotografo tedesco Wim Wenders, autore capace di influenzare intere generazioni con film cult entrati nella storia del cinema eppure in grado di mantenere intatto il suo sguardo appassionato e solidale con la condizione umana ed il suo cammino, ed il brasiliano Sebastiao Salgado, uno dei fotografi più importanti di tutti i tempi, viaggiatore indefesso alla ricerca dell’uomo e della sua relazione con la natura fin nei meandri più remoti della Terra, ecologista ed attento alla sofferenza dei popoli come pochi altri. Dall’incontro quasi casuale (Wenders aveva nel suo studio due foto di Salgado che lo avevano profondamente colpito ma solo cinque anni fa ha avuto l’occasione di conoscerlo) di questi due ‘giganti’ nasce il documentario, presentato nella sezione Un Certain Regard come un vero e proprio avvenimento. Wenders accompagna con grande riservatezza la storia personale e professionale di Salgado: dalle proteste giovanili agli studi di Economia, all’incontro con Leila Wanik, la donna che per 50 anni gli è stata vicina nella vita e nel lavoro, ed alla nascita dei due figli, fino alla scoperta della sua vera, grande passione, la fotografia. I servizi di Salgado, ed i suoi viaggi nei cinque continenti, da quel momento inarrestabili, evolvono in un lavoro febbrile, rigorosamente in bianco e nero, dove le immagini della miseria e del dolore, dell’abiezione e della bellezza, s’intrecciano col desiderio di

Regia: Wim Wenders/Sebastiao Salgado Nazionalità: Francia/Brasile Anno: 2014 Durata: 100' Genere: Drammatico prossimità del fotografo a popoli ed individui, laddove carestie, stragi e guerre fratricide sembrano non lasciare speranza per le generazioni attuali e future. Il documentario è stato presentato da Wenders insieme al figlio maggiore di Sebastiao, Juliano Ribeiro Salgado, che ha seguito il padre nei suoi ultimi viaggi alla scoperta del Pianeta, utili per conoscere davvero un genitore quasi sempre assente, e che ne raccoglie oggi l’eredità spirituale (benché il padre sia vivente). Molto interessante la scoperta del lato meno noto di Salgado, quello ecologista, che lo ha spinto a ripopolare l’habitat di una grande tenuta di famiglia per poi donarla allo Stato. La bellezza struggente e bruciante delle immagini fotografiche del documentario, accompagnate dalla sapiente sceneggiatura di Wenders, entra in profondità nelle viscere della terra, attraversando l’iter dello spessore umano e professionale di Salgado, fino alla sua ultima esposizione, Genesi, che rappresenta la consolazione dei mille volti della natura e la possibilità di rinascita, oltre ogni tragedia. Elisabetta Colla



LE MERAVIGLIE GRAND PRIx

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lice Rohrwacher aveva esordito al lungometraggio di finzione con Corpo Celeste, un’esplorazione autoriale e indipendente vista con gli occhi dell’adolescente Marta sulle miserie e il bigottismo di una Calabria remota devastata dalla speculazione edilizia e chiusa nel fervore religioso. Nel 2011 il debutto della regista italiana allora trentenne avveniva proprio a Cannes nella sezione collaterale Quinzaine des réalisateurs. A distanza di 3 anni, Alice torna sulla croisette a competere per la Palma d’Oro assegnata dalla giuria presieduta da Jane Campion per portare a casa il Grand Prix. Non male per la giovane autrice dall’occhio documentaristico e il cuore indipendente. Altro scorcio di periferie umane, altro jingle grottesco. Ne Le Meraviglie il coro di “Mi sintonizzo con Dio/ è la frequenza giusta” (Corpo Celeste) viene sostituito da T’appartengo (di Ambra Angiolini) che ingenuamente la sorellina di Gelsomina le canta per emulare in chiave teen-pop immaturi sentimenti d’amore. Gelsomina (Maria Alexandra Lungu) vive con i genitori e le 3 sorelline in campagna. La sua è una famiglia di apicoltori, i genitori (Alba Rorwacher, Sam Louwick) parlano in francese quando non vogliono farsi capire e ogni tanto anche in tedesco. La vita di Gelsomina è scandita dai ritmi della natura e dal lavoro che il burbero padre le assegna. Un giorno una troupe televisiva irrompe nella sua quotidianità e instilla nella laboriosa ragazza il desiderio di partecipare alla trasmissione condotta da Milly Catena (Monica Bellucci). È l’estate dei sogni di Gelsomina, del tempo di esplorare il mondo, di scoprire la città e le meraviglie del mondo, ma anche delle prime palpitazioni amorose con l’arrivo di Martin (Luis Huilca Logroño), un ragazzo con dei precedenti penali ora obbligato a seguire un programma di reinserimento. Tutti i membri di questa famiglia un po’ hippie un po’ utopica sognano il proprio paese delle meraviglie: il capofamiglia spera scherzosamente (?) in un figlio maschio e in un mondo integro e autosufficiente dove non tutto si può comprare, la madre di tenere unita nell’amore una famiglia a maggioranza rosa, Martin di essere libero, Gelsomina di vivere, di respirare a pieni polmoni e di assaporare il gusto agrodolce della sua età. Un’età tutt’altro che felice, fatta di sogni negati e conflitti famigliari, soprattutto con un padre anarchico e autoritario come il suo, che urla invece di parlare e pensa di fare felice le sue donne regalando loro un cammello. Un’età dove si sperimentano le prime e dolorose ingiustizie, l’ansia di compiacere i genitori e il rammarico per averli delusi, la volontà cieca di essere il figlio perfetto a costo di trascurare la spensieratezza di alcuni gesti per giudicarsi sempre colpevoli.

Regia: Alice Rohrwacher Nazionalità: Italia Anno: 2014 Durata: 111' Genere: Drammatico Con lo sguardo di Gelsomina la Rohrwacher osserva un mondo bucolico fatto di lotta, di resistenza ma anche di assoggettamento ingenuo a logiche di mercato per niente lungimiranti. Il paese delle meraviglie millantato da un programma televisivo kitsch e posticcio, e offerto a concorrenti che si prestano a travestimenti imbarazzanti, non esiste. La realtà è la natura con le sue stagioni, le api e il pregiato miele, i prodotti della terra coltivata con rispetto. La meraviglia è il numero con le api di Gelsomina, addomesticatrice degli insetti dal nettare d’oro, presentato insieme al suo nuovo amico-compagno Martin, capace di un fischio ipnotico. Con la fine dell’estate un’altra stagione bussa alle porte e chiede a Gelsomina di essere vissuta. Per la famiglia autarchica e dissociata della ragazza non c’è posto e accoglienza nella società contemporanea. La notte del concorso, con il suo grottesco e incapace modo di preservare la ruralità, ha presto rivelato la sua natura effimera, ha manifestato le false promesse e le illusioni disattese, generando disordini e obbligando la famiglia di Gelsomina a riformulare nuovi ordini. Tutti si preparano alla nuova stagione, il padre-padrone rivedendo la sua posizione autoritaria in chiave amorevole, e Gelsomina riconciliandosi con lui per restargli accanto fino al momento del naturale distacco. Francesca Vantaggiato



THESE FINAL HOURS P

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resentato alla Quinzaine Des Realisateurs il primo lungometraggio dell’australiano Zak Hilditch, nato nel 1980 a Perth, nella parte Ovest dell’Australia; il film, girato con un budget molto basso, è stato realizzato grazie al contributo dello Screen Australian Springboard, come spiega emozionato durante l’incontro con il pubblico. Che cosa faresti se fosse il tuo ultimo giorno sulla Terra? Il film nasce da questa domanda e dall’esigenza del regista di indagare sull’amore e sulla morte; una tempesta di fuoco sta per abbattersi sull’Australia, dopo aver bruciato l’Europa, l’America, l’Asia e l’Africa; James (Nathan Philips) dopo aver lasciato da sola la sua innamorata Zoe (Jessica De Gouw) tenta di raggiungere la compagna ufficiale Vicky (Kathryn Beck), per abbracciarla l’ultima volta; durante il viaggio si imbatte nella piccola Rose (Angourie Rice), alla ricerca del padre. Il viaggio che James e Rose compiono insieme, inseguendo il tempo che sta per finire e ritrovare le persone care, è molto doloroso: James scoprirà che sua sorella con il marito e le tre figlie si sono suicidati per non aspettare la catastrofe e che anche il papà di Rose ha fatto la stessa fine; si renderà conto di quanto gli esseri umani, in situazioni esasperate, possano diventare feroci ed egoisti al punto tale da pensare solo a sé stessi, al proprio piacere personale e, quel che è peggio, senza badare alla sofferenza seminata in giro. Il film indaga, senza andare troppo a fondo, anche sul concetto di Dio, attraverso il punto di vista di James, scettico, e quello della piccola Rose che riporta il pensiero di credente del padre; la tensione viene stemperata grazie alla voce della Radio, che come unico mezzo di comunicazione di massa nel film si fa portavoce di quello che sta accadendo, ma senza il sensazionalismo che avrebbero la televisione e i social media. Sembra quasi una metafora dei tempi moderni questa “fine del mondo” rappresentata dal regista australiano: ci sono quelli come James, come Zoe e come Rose che continuano ad interrogarsi sulla fine, sul male che hanno fatto e che avrebbero potuto evitare e su quanto ancora ci sarebbe da vivere; e poi c’è un gruppo, piuttosto nutrito, che preferisce non pensare e perdersi nella superficialità delle cose, perché così è più facile restare a galla. Hilditch usa l’escamotage narrativo della catastrofe imminente per esasperare gli stati d’animo dei personaggi e spingerli a fare gesti estremi che in situazioni di normalità non commetterebbero; Zoe, James e Rose restano sé stessi, questo non li salverà, ma nel breve tempo che resta avranno una maggiore consapevolezza

Regia: Zak Hilditch Nazionalità: Australia Anno: 2013 Durata: 86' Genere: Drammatico di sé; questo dal punto di vista della storia consente ai personaggi una maturazione che passa per un percorso doloroso ma inevitabile. Ed è proprio questo percorso e la maturazione dei personaggi nel corso della storia che conducono per mano lo spettatore al finale catastrofico, con naturalezza, come se fosse l’unico finale possibile; ecco perché These Final Hours non è il solito film sulla fine del mondo, esplorato più volte dal cinema in salsa horror e in salsa fantascientifica. Anna Quaranta



MANGE TES MORTS A

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cclamatissima la proiezione di Mange Tes Morts del cineasta francese Jean-Charles Hue, classe 1968, che ha presentato il suo film insieme a tutto il cast, nella sezione Quinzaine Des Realisateurs concepita proprio nel 1968, durante i giorni caldi del Maggio Francese. Il film segue il filo conduttore della produzione di Hue, che dai primi anni zero racconta le storie del mondo gitano attraverso vari cortometraggi; nel 2009 gira Carne Viva, primo lungometraggio mentre nel 2011 esce La BM du Seigneur, ambientata nella comunità nomade degli Yèniche, nel nord della Francia, nel quale riprende le avventure della famiglia Dorkel (alcuni dei quali interpreti quasi nei panni di sé stessi in Mange Tes Mortes). All’interno di una comunità nomade riappare Fred (Frédéric Dorkel), dopo essere stato in prigione per quindici anni per via dei furti continui; Fred, dopo la scomparsa del padre si era sentito responsabile nei confronti della madre e dei fratelli più piccoli, Michael (Michael Dauber) e il più giovane, Jason (Jason Dorkel); il suo ritorno crea tensioni all’interno del nucleo familiare e sociale, il cui sostentamento è legato al furto, principalmente di ferro e rame. La voglia di riscatto da parte di

Regia: Jean-Charles Hue Nazionalità: Francia Anno: 2013 Durata: 94' Genere: Drammatico Fred, il desiderio degli altri di prevalere su di lui, che nonostante la lontananza è considerato un capo carismatico, e la voglia di Jason di farsi riconoscere tra gli adulti affiorano piano piano dopo i convenevoli e i saluti di bentornato. Questo intreccio di sentimenti e passioni alimenta il racconto di Hue, che riesce a rendere una tensione crescente, supportata anche dalla presa diretta e dallo stile quasi documentaristico del film; il regista si fa narratore extra-diegetico, completamente esterno alla storia, che osserva lo svolgersi degli avvenimenti e l’intricarsi dei sentimenti che li muovono, arrivando fin nelle pieghe più nascoste dell’anima e in ogni piccolo gesto, a testimoniare la sua autentica conoscenza della comunità nomade. Anna Quaranta



LES COMBATTANTS E

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silarante e pungente il primo lungometraggio .del regista e sceneggiatore Thomas Cailley, .Les Combattants, scritto a quattro mani con Claude Le Pape si aggiudica i tre premi della sezione della Quinzaine: il Label Europa Cinemas, il premio SACD (Société Des Auteurs et Compositeurs Dramatiques e l’Art Cinema Award. È curiosa la versione inglese del titolo Love At First Sight, che richiama l’amore che fa fatica ad esprimersi, tra i due giovani protagonisti, Arnaud (Kevin Azais) e Madeleine (Adele Haenel); in effetti prima di trovarsi dovranno combattere per la sopravvivenza. Non è un film di guerra: nasce come commedia, Arnaud, invaghitosi di Madeleine, per starle accanto si iscrive insieme a lei ad un corso di sopravvivenza organizzato dall’esercito. Madeleine trascorre le sue giornate a prepararsi per la fine del mondo, sottoponendosi a prove fisiche estenuanti, mangiando frullato di pesce crudo e tenendosi lontana da qualsiasi emozione e divertimento; il suo sguardo cinico e apocalittico annienta qualsiasi cosa bella, perché pare sia destinata a finire in un momento imprecisato. In realtà la giovane ha forse paura di godere pienamente delle gioie della vita e Arnaud riesce in qualche modo a spronarla e farla uscire dal guscio che si è creata. I due ragazzi decidono di lasciare il campo di addestramento e si ritrovano per qualche giorno a mettere in pratica quello che è stato loro insegnato, ma senza che la sopravvivenza diventi lo scopo fondamentale della loro esistenza. Quando Madeleine inizia a soffrire per disturbi allo stomaco, Arnaud la porta al villaggio più vicino in cerca di aiuto e da questo punto in poi il film subisce un cambio di genere: si innesca una catastrofe dovuta ad un incendio che riporterà Arnaud e Madeleine a casa, a riprendere possesso delle proprie vite, lasciandoci con un interrogativo: l’incendio è stato causato da un mozzicone di sigaretta o dall’esigenza degli alberi di ritrovare un equilibrio, in una foresta dove non c’era più spazio? Qualunque sia la risposta, i problemi ambientali (e sociali e politici) fanno parte della nostra vita ma non possono essere tutta la nostra vita e ad arrotolarsi intorno ad essi si rischia di non vivere. Si ritrovano in questo film alcune similarità con Queen and Country di John Boorman: il rigido sistema militare viene messo alla berlina in chiave parodistica (e questo si può estendere a tutte le organizzazioni rigide e gerarchiche): il fatto di prepararsi ad una guerra o ad una catastrofe seguendo schemi esercitazioni che probabilmente saranno inutili; i superiori che non vogliono menti pensanti ma soltanto meri esecutori degli ordini (ed è

Regia: Thomas Cailley Nazionalità: Francia Anno: 2014 Durata: 98' Genere: Drammatico questa la vera catastrofe!). Ad un livello più profondo e psicologico si può osservare come agiscono i principi del Maschile e del Femminile, che sono presenti negli uomini e nelle donne, in misura diversa; Arnaud è un giovane uomo protettivo e deciso pronto a dare sicurezza a Madeleine, assecondandola ma soltanto per condurla alla ragione che sembra aver perso; Madeleine cerca in tutti i modi di reprimere il suo Femminile, perché questo la porterebbe ad aprirsi al mondo e ad essere accogliente e soprattutto a chiedere aiuto; cerca in tutti i modi di rifugiarsi nel Maschile, fallendo nell’impresa. Madeleine vorrebbe salvarsi da sola, bastare a sé stessa, essere autosufficiente ma imparerà che ci si salva almeno in due, dandosi la possibilità reciproca di aiutarsi per il piacere di farlo. Anna Quaranta



THE OWNERS U

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na luce ‘da lume di candela’ getta tra le pareti scarne e in muratura un naturalismo realistico (bucolico) che immediatamente cattura l’atmosfera di povertà rurale, autentica, spietata. E la mente corre ai Mangiatori di patate di Van Gogh, anzi l’olfatto. Ho sentito in quella inquadratura tutto l’odore di ambienti di terra, di vita dura, essenziale, ma anche ‘pura’ nella lotta per la sopravvivenza che traspare. The Owners, terza pellicola del giovane regista kazako Adilkhan Yerzhanov (classe 1982), presentata nella selezione ufficiale e in sessione speciale, è un crudo e metaforico racconto dell’aberrazione politico-umanosociale adulta, che ingurgita senza pietà e con una freddezza abominevole, il senso di giustizia, innocenza, idealismo, immaginazione degli adolescenti e del loro gestire la sopravvivenza, nell’impatto con le regole cieche e animalesche di uno Stato ferino organizzato. La realtà rurale kazaka è il terreno migliore per questa rappresentazione, sia nella poverta’ che la caratterizza che negli ‘strascichi di regime’ (tra retaggi di dittatura nel dialogo sordo con le istituzioni e la rabbia di una condizione economica in cui si è caduti, di mera sussistenza). John, Erbol ed Aliya, sono tre giovani orfani venuti dalla città per rimpossessarsi di una vecchia, misera, piccola casa dentro un remoto villaggio, appartenuta alla madre morta da poco. La casa è però occupata da anni da una famiglia il cui pater bestialissimo è legato nel sangue al capo del distretto. La presa di possesso da parte dei tre giovani della loro legittima proprietà, con tanto di carte alla mano, verrà contrastata con estrema spietatezza e cinismo: impossibile sottrarsi ad un inevitabile quanto assurdo e abominevole annientamento fisico, che colpirà i tre fratelli al ritmo di un lento supplizio, logorante e terribile nel loro tentativo di affidarsi alla protezione e alla giustizia di una struttura sociale-umana essa stessa carnefice. Su questo canovaccio Adilkhan Yerzhanov interviene con un occhio e un’immaginazione capaci di fissare con poesia e ironia dell’assurdo, crudelissima, il contrasto tra la inumana realtà nella quale i tre giovani sono costretti a lottare per sopravvivere e la loro innocenza, nell’avere ancora la capacità di sorprendersi, di coltivare ideali, di creare poesia e bellezza da piccole cose, anche dall’orrore. Loro, i tre ancora umani, non assuefatti e non addormentati da ingiustizia, violenza, brutalità esistenziale… E bastano davvero pochi oggetti ad Adilkhan Yerzhanov per trasformare quello che ci circonda in un cantico soprannaturale, per certi versi. Con l’occhio all’arte, inserita in molti ambienti di cruda durezza estetica ed umana, nel semplice dipinto vangoghiano

Regia: Adilkhan Yerzhanov Nazionalità: Kazakistan Anno: 2014 Durata: 93' Genere: Drammatico appeso al muro o sulla copertina di quaderno: flebile speranza di rinnovamento della specie o semplicemente condensazione di due piani (realtà e sua trasfigurazione), in un raffronto doppio e crudele tra vita vera e rappresentazione. O all’uso poetico di oggetti comuni: anche dentro la più nuda povertà e disillusione, si può ancora ballare, sognare, fantasticare. La particolare sensibilità dell’occhio di Yerzhanov rivela illuminazioni in una fotografia capace di caricarsi addosso odori e atmosfere, così come di trasfigurare nella dimensione del sogno microcosmi di reale (una pozza d’acqua, la parete di una stanza, esterni di paesaggio umano e naturale che si staccano e muovono come bassorilievi). Peccato soltanto che dall’aspetto caricaturale di cui il clan degli occupanti-abitanti del villaggio è dipinto emerga un clichè di idiotizzare nell’abbigliamento o dentro connotazioni fisiche grossolane, creando un paradosso a volte troppo lontano dall’origine geografica e ambientale dei protagonisti. In molti momenti, invece, siamo partecipi di uno stato di angosciosa impotenza ed ineluttabilità, marcato proprio da esasperato no sense, o peggio ancora, da una benevolenza nemica crudelissima. Maria Cera



STILL THE WATER N

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atura e società che si annodano in una danza simbiotica e ineluttabile, vita e morte che si susseguono in un ciclo infinito e inspiegabile. Still the Water della giapponese Naomi Kawase inizia con la ripresa del mare in tempesta e poi, dopo uno stacco, della quiete che ne segue. È la natura che si esprime tumultuosa. Un anziano sgozza un capretto secondo il suo rituale meticoloso e freddo. La natura e l’uomo convivono nell’armonico equilibrio tra lotta e pace sull’isola giapponese di Amami-Oshima, dove il perpetrarsi delle tradizioni non si arresta, proprio come accade agli eventi naturali, perpetui e continui. Durante i festeggiamenti nella notte di luna piena in agosto, il sedicenne Kaito scopre un cadavere in acqua. Lui, da sempre spaventato del mare perché “vivo”, viene turbato dalla tragedia. Nel frattempo procedono le indagini sul caso – che la regista accantonerà presto – e Kaito ritorna alla sua quotidianità fatta di una madre sempre assente per lavoro e una fidanzata, Kyoko, con cui passa i pomeriggi in giro in bicicletta. Kaito e Kyoko sono vivi, i loro cuori pulsano di emozioni diverse e vivide e vivono avvolti da sentimenti contraddittori propri della loro età. Entrambi vivi più che mai si confrontano con la morte, per lui arrivata a turbarlo con quel corpo tatuato visto galleggiare in mare, per lei ad affliggerla con la morte imminente della madre sciamana. Mentre un amore vede i primi albori, una vita si spegne serena trascinandosi il dolore di chi resta e non comprende. Secondo i ritmi e le credenze della cultura giapponese, Kawase immortala uno scorcio esistenziale, appassionato senza dubbio, incisivo e puntuale in alcuni momenti,

Regia: Naomi Kawase Nazionalità: Giappone Anno: 2014 Durata: 110' Genere: Drammatico ingenuo e claudicante in altri. Tenera ed amabile è la storia d’amore tra i due ragazzi, insieme impegnati a capire il mistero della morte e della vita, o dell’amore, dolcemente impacciati nell’esprimere i sentimenti e nell’approccio fisico ed emotivo all’altro. Kaito e Kyoko sono costretti ad elaborare l’assenza delle figure materne nella loro vita, lui perché sua madre ha egoisticamente impegnato le sue energie nel ricostruirsi all’indomani della rottura col marito, lei perché la sensibilità speciale di sua madre l’ha elevata a uno stato superiore allontanandola da lei. Probabilmente ingenue risultano le soluzioni narrative e visive che mostrano l’incidenza delle donne nella vita dei figli. O forse la percezione di efficacia nel catturare il mistero dell’esistenza nel flusso degli eventi selezionati è sottesa a un sostrato culturale locale lontano. Al di là delle aride disquisizioni sul perché dell’inserimento di un film così rarefatto e poetico (anche se spesso la poesia suscita un sorriso e non un pensiero) nel Concorso Ufficiale a Cannes, rimane la bellezza di un racconto sull’educazione sentimentale di due adolescenti e la brutalità degli eventi mortiferi osservati con i loro giovani occhi ancora incapaci di arrendersi alla forza e ineluttabilità della natura. Francesca Vantaggiato



QUEEN AND COUNTRY J

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ohn Boorman, grande “vecchio” del cinema inglese, che esordì nel 1967 con Point Blank, torna con un film sulla guerra e sulla vita militare; Queen and Country è raccontato per la prima parte attraverso la commedia (parodistica, quanto basta) per toccare le punte del dramma, sia dei personaggi, che dell’ Impero britannico della giovane Elisabetta II, che dovrà prendere atto dell’indipendenza delle sue ex-colonie. Il film racconta la storia di Bill (Callum Turner), un ragazzo di 18 anni che vive con la sua famiglia in un’isoletta su un fiume, dal nome evocativo di Sphynx, Sfinge, in attesa (neanche troppo) della chiamata alle armi che lo terrà lontano dall’affetto dei suoi cari per almeno un paio d’anni; siamo al tempo della guerra di Corea, in piena guerra fredda, e il rischio di partire e ritrovarsi a combattere a fianco degli americani contro il regime comunista della Corea del Nord è alto. Bill riesce a scamparla e trova una sistemazione nell’esercito prima come insegnante dattilografo e poi nell’addestramento delle giovani leve in partenza per la guerra. Durante le lezioni traspare la sua visione contro la guerra (in Corea c’è una guerra che si chiama Fredda e anche se sentirete il freddo gli americani non vi proteggeranno) e la vita militare. Attraverso il punto di vista di Bill, Boorman non risparmierà le critiche al patriottismo inglese, alla Corona e alla politica coloniale (in una delle battute del film viene citata la rivolta dei Mau Mau che si combattè in Kenya contro gli inglesi per il raggiungimento dell’indipendenza); l’unico punto debole del film è proprio questo: il personaggio di Bill addestra i giovani pronti a partire per la guerra ma lui la guerra non l’ha mai fatta e vive ovattato all’interno di un sistema che ripudia ma che al tempo stesso lo sta facendo diventare uomo. In caserma Bill stringe amicizia con Percy (Caleb Landry Jones); dapprima goliardico e ridanciano, il loro rapporto deve passare attraverso la cattiveria gratuita, l’ottusità e il doppiogiochismo dei colleghi e superiori, per rinsaldarsi, non senza qualche dolore. Anche l’iniziazione sentimentale di Bill nei due anni di vita militare è piuttosto ricca, attraversata da figure femminili molto diverse tra loro: Bill è innamorato di Ophelia (Tamsin Egerton), ragazza ricca ed elegante, tormentata e indecisa se lasciare un amante maturo; nel frattempo è insidiato dalla ragazza di Percy, personaggio all’apparenza marginale ma che si fa strada con modi di fare civettuoli e interessati; anche la madre e la sorella di Bill occupano una posizione importante nel suo mondo femminile; la prima, libera, amante dell’avventura e della vita è l’alter ego sia di Ophelia, perché aperta al mondo e alle persone che della fidanzata di Percy, perché agisce senza secondi

Regia: John Boorman Nazionalità: Irlanda/GB/Romania/Franci Anno: 2014 Durata: 115' Genere: Drammatico fini; la seconda, donna matura e posata, aveva vissuto una storia d’amore con un vicino di casa, durante la guerra, e Bill sembra portarsi nel bagaglio di vita di giovane uomo il fatto di non aver mai perdonato alla madre il tradimento. Accolto calorosamente dal pubblico, dopo la proiezione, Boorman presenta la sua “vecchia guardia”, i suoi collaboratori dal 1967 e la giovane generazione di attori che ha diretto nel film e risponde brillantemente alle domande del pubblico che toccano i temi più disparati; c’è chi si complimenta con lui per questo “piccolo capolavoro” -che in effetti rappresenta una sorta di commedia umana dove sono presenti sentimenti e archetipi che si intrecciano con la stessa forza che li muove nella realtà; e chi gli chiede dell’elemento “acqua”, presente in ogni suo film, sebbene molto diversi l’uno dall’altro, a cui risponde -sorpreso- che ha rischiato di annegare quando aveva 12 anni mentre nuotava nel fiume e quell’esperienza lo ha da sempre ispirato. Ringrazia per la domanda di stampo politico rivolta da una signora del pubblico, interessata a capire le dinamiche che hanno reso possibile una co-produzione europea (Irlanda, Gran Bretagna, Romania e Francia), auspicando, con le elezioni europee alle porte, esempi del genere anche in altri campi. Boorman spiega che la co-produzione si è resa necessaria per un discorso finanziario; fare un film costa molto e quella di mettere in campo professionalità dei diversi Paesi d’Europa può essere una nuova strada, foriera di nuovi stimoli. L’esperienza di Queen and Country è un risultato importante anche da questo punto di vista. Anna Quaranta



RELATOS SALVAJES

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uanto compressi e pronti ad esplodere siamo… tutti noi, occidentali e civilizzati… Relatos Salvajes dell’argentino Damián Szifrón, prima pellicola del concorso ufficiale in cui mi imbatto, addensa nella forma del racconto visivo breve, storie di ‘straordinaria follia’. Alcune ben compiute sia visivamente che narrativamente, altre un po’ meno. La commedia ‘nera’, limbo dentro il quale il regista si muove da un pregresso televisivo e cinematografico che gli ha fruttato attenzione, premi e riconoscimenti, sviscera tutte le frustrazioni, impotenze, rabbie latenti, miste ad un innato (e mai sopito del tutto) stato di natura dei protagonisti, portati all’esasperazione – grottesca fino a un certo punto – da situazioni apparentemente normali, ma che in realtà non lo sono per niente. O meglio: nelle quali l’umanità galleggia quotidianamente in una assuefazione drammatica e non reagente. Relatos Salvajes è nato da una stessa frustrazione del regista, bloccato nel dar concretezza realizzativa ai propri progetti. Per gettarla fuori, ha iniziato a scrivere piccole storie, tutte accomunate dal catartico effetto prodotto dal ‘perdere il controllo’. Un atto liberatorio che fa terra bruciata attorno ad ognuno degli umani coinvolti, portando in chiara luce la gabbia nella quale siamo contenuti. Che sia una volontà di potenza-prevaricazione innescata da un mero ostacolo al sorpasso su una strada deserta, la ‘kafkiana catena di montaggio’ della rimozione auto, refrattaria alla più palese delle eccezioni (l’assenza di una striscia gialla, solo giustificabile senso anche economico di rimozione), la macchia di un tradimento mescolata agli invitati del proprio matrimonio, la presa d’atto della incommensurabile potenza della corruzione, i nostri umanissimi personaggi vengono risvegliati da un torpore, da una cecità più o meno conscia, esplodendo in comiche e tragiche - tanto realistiche quanto paradossali – reazioni. Pellicola leggera, di alta fattura tecnica, specie in alcuni episodi dove la macchina da presa riesce ad esprimere, in concomitanza all’emotività dei protagonisti, quel vorticoso, confusionario, altalenante, disincantato sguardo, presa di coscienza, risveglio. Il racconto più riuscito in questo senso è la scoperta della novella sposa (una emotivamente poliedrica esplosiva Érica Rivas), in pieno festeggiamento di nozze, del tradimento di suo marito. Tutto è incastrato mirabilmente e in simbiosi, attraversando una normale e felice ritualità, nella quale la disillusione comincia a far capolino sempre più, fino a rivelarsi nella sua totalità, seguendo un’esplosione originale nella resa, che non si ferma in questo caso a ‘raccogliere i pezzi a terra’, ma li ricompone in una riconciliazione dove

Regia: Damián Szifrón Nazionalità: Argentina/Spagna Anno: 2013 Durata: 122' Genere: Drammatico per la prima volta si conosce (e si accetta) veramente l’altra metà con cui si è deciso di vivere. Se Damián Szifrón fosse riuscito ad applicare una struttura del genere a tutte le sue piccole novelle visive, la pellicola nel complesso sarebbe stata indubbiamente più matura ed affascinante. Non basta esplodere, se si ritorna a quello che si era o si termina la vita. Maria Cera



PIÙ BUIO DI MEZZANOTTE S

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ebastiano Riso, catanese classe 1983, al suo primo film scelto per La Semaine De La Critique al festival di Cannes, racconta una storia di luci e ombre; la luce di chi vede tutto perfettamente chiaro e definito, e l’ombra di chi sente dentro di sé un modo di essere che difficilmente la società potrebbe accettare. Partiamo dalla seconda parte o poco più. L’abbraccio straziante tra il giovane protagonista Davide (Davide Capone) e la madre (interpretata da un’intensa Micaela Ramazzotti) fa emozionare, commuove all’improvviso, scioglie la tensione accumulata fino a quel punto della storia. Catania, estate di un anno imprecisato, a prima vista gli anni Ottanta, ma televisori (sintonizzati sul meteo) e telefoni cellulari ci riportano ai nostri giorni. Davide ha quattordici anni e cerca di scoprire la propria sessualità di nascosto dal padre, rigido e ottuso (Vincenzo Amato), ha tappezzato la vecchia soffitta di specchi attraverso i quali trasformarsi e re-inventarsi e contemplarsi, libero di essere se stesso. Colleziona vestiti e accessori da donna, poster di personalità androgine come David Bowie e conserva 45 giri in vinile, uno in particolare, Amore Stella di Donatella Rettore (“io, che sono niente nullità chissà che dio diventerei se in quel che vivi fossi anch’io se quel che fai fosse un po’ mio”). Dopo l’ennesimo scontro con il padre scappa di casa e si unisce ad un gruppo di amici che diventano la sua nuova famiglia; tra gli altri ci sono Meriliv Morlov (Sebastian Gimelli Morosini), transessuale, schietta e materna al tempo stesso, e La Rettore (Giovanni Gulizia) che deve fare i conti, come Davide dell’incomprensione della sua famiglia. Si innamora di un ragazzo bello e tenebroso, amante del suo protettore (interpretato da Pippo Delbono), e nel frattempo cerca di guadagnarsi da vivere vivendo di piccoli furti, sempre alla ricerca di un posto dove trascorrere la notte, fino al giorno in cui, alla ricerca di soldi o qualcosa da mangiare, si imbatte in sua madre. E la storia riparte da lì, lasciandoci per un attimo sospesi: Davide tornerà a casa con sua madre o proseguirà per la sua strada? In tutti e due i casi sarebbe costretto al compromesso, di un padre che non lo accetta o di un protettore che lo vuole iniziare al mestiere più antico del mondo. Curiosamente il personaggio del padre e quello del protettore sono vestiti di bianco, come anche il proprietario del cinema porno disposto a pagare Davide e La Rettore in cambio di favori sessuali, per poi tornare a casa e fare il bravo marito; bianca è la fotografia (curata da Pietro Basso) sia nelle scene di vita familiare di Davide, che in chiesa insieme a sua nonna (Lucia Sardo), che insieme al protettore, tutti i momenti in cui

Regia: Sebastiano Riso Nazionalità: Italia Anno: 2014 Durata: 94' Genere: Drammatico qualcuno sembra volergli dare una collocazione; in contrasto con la luce cupa soffusa notturna, fino a diventare buio, di chi sta cercando di affermare la propria identità. La fotografia crea inoltre un gioco di luci ed ombre che abbozzano e lasciano intuire, senza rivelare in maniera esplicita, le scene di sesso. Il contrasto tra la luce e il buio, tra l’identificazione in un genere che la società riconosce e l’identificazione in un genere (o in un non-genere) che la società, accecata da quella luce bianca e rassicurante, si ostina a non voler vedere, si scatena nell’urlo finale di Davide, dopo essere stato salvato da un tentativo di suicidio commesso davanti a suo padre; nonostante abbia tentato di tagliarsi la gola e non abbia le forze per parlare, guardandosi ancora una volta dentro e scoprendo di non avere altra strada che quella della propria difficile e ostacolata affermazione, urla con tutta la forza che ha in corpo per farsi sentire e squarciare quel buio, più buio di mezzanotte. Anna Quaranta



WINTER SLEEP PALMA d’ORO

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a Turchia nell’isolamento geografico e psicologico che porta a fare i conti con se stessi, dentro atmosfere che richiamano Bergman e Cechov, è la Palma d’Oro 2014. Nuri Bilge Ceylan e il suo Winter Sleep esterna in un racconto visivo di oltre 3 ore il dramma personale di Aydin (Aluk Bilginer), attore in pensione proprietario di un piccolo hotel (Othello) e di alcune costruzioni in pietra, sperduti nel paesaggio rurale dell’Anatolia centrale. Luogo senza tempo, nel quale Aydin, come un signorotto locale coltiva la sua vanità tra potere economico ed intellettuale. Vive con la sua giovane e bella moglie Nihal (Melissa Sozen) e sua sorella Necla, fresca di divorzio, e contraltare dialettico del fratello. Aydin, nel suo piccolo studio progetta libri sul teatro, ascolta se stesso ed esterna il proprio cinismo cieco ed

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Regia: Nuri Bilge Ceylan Nazionalità: Turchia Anno: 2014 Durata: 196' Genere: Drammatico apparentemente inattaccabile… Il lancio di un sasso contro il vetro della sua jeep da parte di un ragazzino assumerà il senso simbolico di una rottura del plastico, egoistico, 'intoccabile' mondo che si è costruito attorno. L’improvvisa presa di coscienza della ‘ribellione psicologica’ della sua amata moglie, e la concreta possibilità di perderla, riveleranno ad Aydin il vero volto di se stesso…



WHEN ANIMALS DREAM «

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stato un lungo viaggio dalla Danimarca fino a qui»: così Jonas Alexander Arnby presenta in anteprima alla Semaine De La Critique del Festival di Cannes, “in onda” all’Espace Miramar della Croisette, il suo When Animals Dream, un film di protesta, che dipinge il ritratto di due donne forti che si ribellano alla comunità. In un piccolo villaggio di pescatori della Danimarca si consuma il dramma familiare di Marie (Sonia Suhl) e di sua madre (Sonja Ritcher); alla giovane iniziano a formarsi delle eruzioni cutanee, che poco hanno a che vedere con un problema di “superficie”: durante il film si assiste a mutazioni che la rendono feroce e aggressiva come un lupo, disturbo del quale anche sua madre aveva sofferto. La donna sembra completamente assente, inerme, assistita dalle cure del marito e della figlia. E se il primo ha contribuito a questo suo stato vegetativo, consentendo al medico di somministrarle dei potenti sedativi, Marie non riesce ad accettare la situazione. Quando si accorge che anche a lei sta per toccare la stessa sorte, si lascia travolgere dall’aggressività, che si propone proprio nei momenti di vita più difficili, quando non si sente amata, compresa e accettata, per alternarsi ai momenti di dolcezza che le regala Daniel (Jakob Oftebro), che sembra l’unico a riuscire a domare la bestia che è in lei. Non conosciamo le origini di questo fenomeno, se non un breve accenno in una conversazione tra Marie e Daniel –ed è Daniel stesso a dirlo a Marie- che alla gente del villaggio una donna bella come sua madre (e probabilmente coraggiosa e fiera di sé) faceva invidia; e anche Marie suscita gli stessi sentimenti, nonostante la sua giovane età e i contorni ancora abbozzati di donna. All’apparenza When Animals Dream può sembrare un horror, particolarmente nella seconda parte, quando i colpi di scena tipici del genere si fanno più frequenti (e feroci); in realtà potremmo ricercare una matrice psicologica alla trasformazione subita dalle due donne: si fa fatica ad essere sé stessi e ad accettarsi, ed è ancora più faticoso se intorno ci sono persone che ribadiscono quotidianamente che il nostro modo di essere è sbagliato e questo a volte ci fa comportare come vorrebbero gli altri, per sentirsi riconosciuti e accettati; ed ecco allora che piano piano un mostro dentro di noi prende forma per scatenarsi nelle forme più improbabili, affiorando dalla pelle come un semplice arrossamento cutaneo per poi espandersi fino all’anima, rischiando così di fare male a chi ci vuole davvero bene. La luce del film riesce ad esprimere perfettamente il contrasto tra ciò che si è, o meglio, ciò che dobbiamo essere

Regia: Jonas Alexander Arnby Nazionalità: Danimarca Anno: 2013 Durata: 84' Genere: Horror/Drammatico per compiacere gli altri, e la ricerca di ciò che si vorrebbe essere: i contorni nitidi dei tetti spioventi che costellano il piccolo villaggio si alternano a quello abbozzato del mare in tempesta e delle visioni oniriche della protagonista; fa risaltare, inoltre, la sensualità nello sguardo di Marie, proprio mentre si sta trasformando in un animale, quasi a voler sostenere la sua metamorfosi, che per raggiungere la consapevolezza di giovane donna adulta deve passare per il mare in tempesta della sua rabbia. Anna Quaranta



COMING HOME U

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n uomo, padre e marito, professore e intellettuale scomodo al regime, viene allontanato dalla famiglia e costretto ai lavori forzati. Riesce a fuggire ma, al primo tentativo di riavvicinamento alla moglie, è proprio la figlia fedele al partito a denunciarlo. Passano gli anni, l’uomo viene finalmente rilasciato e, al rientro a casa, un’amara sorpresa lo aspetta: la moglie (ancora una volta la musa Gong Li) non lo riconosce più. Dopo i recenti cinetici e spettacolari wuxia (Hero, La foresta dei pugnali volanti), l’autore della Quinta Generazione di registi cinesi Zhang Yimou torna sui racconti popolari con Coming Home. Le vicissitudini dei piccoli, quelli su cui si abbattono impietosi i grandi eventi della Storia, sono sotto la lente d’ingrandimento di un autore che nel corso degli anni ha attraversato epoche cinematografiche differenti. Con Coming Home sembra voler ritornare al neorealismo degli anni ’90 (La storia di Qiu Ju, Vivere!, La triade di Shangai), quando affiancato dalla musa Gong Li esplorava l’epica popolare. Al centro della sua indagine visiva prendeva corpo e voce l’uomo ordinario schiacciato dal sistema cinese, dal potere totalizzante e annichilente, dalla memoria collettiva deturpata. In Coming Home è rappresentata ancora una volta la pressione sociale sul singolo, laddove la Repubblica Popolare con la sua burocrazia mostruosa e disumana torna ad asfissiare la sua popolazione. L’ordine impartito a moglie e figlia di tradire – rispettivamente – il marito e padre tuona spietato e senza possibilità di obiezione, con conseguenze devastanti e irreversibili nelle umili esistenze dei cittadini-sudditi. Coming Home è la storia di un amore, di un tradimento e di una lacerazione. La coscienza critica alimentata dal senso di giustizia che va oltre la fedeltà al partito è pressoché assente nella giovane figlia devotamente assoggettata, la cui ambizione è solo quella di ottenere il ruolo principale nel corpo di ballo del partito. Nella madre (una Gong Li tesa e intensa), invece, è forte l’idea della resistenza e rivolta del piccolo sul collettivo, della protezione del nucleo famigliare a costo di tradire il sistema. Nella prima parte del film, dove si denuncia il tradimento e si tenta il riscatto, il ritmo è grintoso, gli stacchi netti seguono il tempo della camera che nervosamente si sposta per riprendere fatiche e incertezze dei tre protagonisti della triade asservimento-libertà-tradimento. La prima metà del film esegue narrativamente e visivamente la tensione interiore dei protagonisti, dilaniati dal conflitto tra intimo e pubblico che sfocerà in un secondo tempo contrito e lineare. L’uomo, riabilitato dal partito dopo 20 anni di lontananza da casa, fa ritorno nell’umile dimora per ricongiungersi con la moglie che lo aspetta

Regia: Zhang Yimou Nazionalità: Cina Anno: 2014 Durata: 111' Genere: Drammatico da sempre ma è incapace di riconoscerlo e con la figlia allontanata da casa dopo il tradimento famigliare. Il momento del ritorno vive di ripetizioni, di attese vacue e di tentativi falliti. Quello che la Storia o il Potere hanno spezzato non si ricompone nel film rigoroso di Yimou. Un po’ come gli umili e ultimi della Storia di cui parla, Coming Home occuperà probabilmente una posizione minore nella produzione artistica di Yimou e, a differenza dei suoi prediletti che nel piccolo combattono la loro individuale rivoluzione, la sua energia sovversiva è piuttosto infiacchita. Francesca Vantaggiato



GERONIMO L

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a sessione speciale, nella trasversalità geografica e di tematiche del cinema che contiene, ha accolto un regista e personaggio indubbiamente obliquo. Tony Gatlif, di origini Berbere algerine e Rom, approdato all’arte dopo una intensa vita di strada e di riformatorio, torna ad esplorare la marginalità e la poliformità etnico esistenziale con una pellicola carica di stimoli e sollecitazioni, nella bidimensionalità tra due mondi, incarnati da un personaggio femminile assolutamente affascinante. Un ‘capo apache’ donna, bella e coraggiosa. Martire che combatte un mondo dal quale è parimenti ‘soggiogata’, capace di vederne la bellezza, di cui è impossibile liberarsi: Geronimo (perfettamente incarnato da Celine Sallette). Educatrice sociale atipicissima, che assorbe completamente la periferia francese di St. Pierre, cercando di sottrarre al loro inevitabile destino gli adolescenti che la popolano, abituati (sulla scia degli adulti), a vivere senza regole o a farsele da soli, in un pezzo urbano limbo tra una conformità alle regole e una vita che scorre nelle pulsioni, che incastra grezze gemme multicolori. E Gatlif è abilissimo nel mostrarci quanta bellezza possa contenere la cultura gitana e quella turca: nella libertà del vivere che noi abbiamo dimenticato. Libertà… del sentire potentemente l’energia dell’amore, fisica ed emotiva, lasciandosi governare completamente dalla stessa, che porta la bellissima 16enne Nil (Nailia Harzoune) a fuggire con l’abito da sposa il proprio altare sacrificale, per inseguire il suo amatissimo gitano Lucky (David Murgia) di cui è follemente innamorata, corrisposta nella stessa purezza sentimentale e passionale. Del danzare…La danza gitana carica tutta l’energia della terra nel proprio corpo, così potente e pieno nel sentirla dentro di se’, nel rendere consapevoli di essere vivi. La street dance stilizza corpi belli, giovani e forti, che si provocano a vicenda nello sfidarsi a colpi di agilità e destrezza. Dell’attaccamento, (indubbiamente deforme nell’assolutezza di cui si carica), ai valori dei giovani Turchi, resi ciechi da un onore familiare violato dalla propria sorella (Nil), e dai Gitani. Dello sfidare la morte, provocata più volte, ed emblematicamente espressa nel duello di coltelli: quanta tensione e adrenalina si respirano! Il valore di esistere, di essere viventi, emerge così palesemente, mirabilmente contrapposto alla estrema semplicità e rapidità di poterlo perdere. E’ un pulsare incontrollato, simile al caos, pronto ad esplodere in qualsiasi momento, quello che Gatlif riesce egregiamente a rappresentare, di cui anche Geronimo ne avverte la bellezza e il pericolo, cercando (invano?) di controllarlo, frenarlo. Incompresa, considerata amica ed estranea ad esso da chi lo popola,

Regia: Tony Gatlif Nazionalità: Francia Anno: 2014 Durata: 104' Genere: Drammatico questa determinata e fiera donna, forte e fragile, solitaria, instancabile ‘madre’, preservatrice, che placa con il ghiaccio sul viso, sul corpo, le sue stesse esplosioni, è quella scia di ragione e sentimento che media i due estremi (libertà assoluta e controllo totalizzante, costrittivo), metafora umana di un equilibrio difficile a raggiungersi. La pellicola di Gatlif possiede una (rara) piena capacità di mutazione tecnica: nei differenti impieghi di ripresa tra avvicinamenti, angolazioni, ribaltamenti di piani, dentro una fotografia tanto forte quanto eterea, penetra nell’energia, nell’anima di questo limbo esistenziale bello e maledetto. La stessa potenza musicale di una colonna sonora linguaggio, entità a sé stante, scagliona le tappe di una storia canovaccio (i due infanti-innocenti innamorati contrastati) la cui unica pecca è di arzigogolarsi troppo in deviazioni-dispersioni, sfilacciando in direttiva finale un corso corposo negli stimoli pluriformi, ma compatto nel buio e nella luce capaci di esprimere. Maria Cera



THE TRIBE PREMIO SEMAINE de la CRITIQUE

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lla Semaine de la Critique il regista ucraino Myroslav Slaboshpytskiy presenta il suo primo .lungometraggio, girato completamente attraverso il linguaggio dei segni, senza sottotitoli e senza voiceover e narrato in “terza persona”, come si intuisce sin da subito dai rumori di scena. Il giovane cineasta ucraino parte dalla sua scuola d’infanzia, accanto alla quale c’era una scuola per sordomuti: lì ha avuto modo di ammirare la bellezza del linguaggio dei segni che lo porta nel 2010 a girare il suo primo cortometraggio Deafness, sulla brutalità dei poliziotti nei confronti dei sordomuti; accolto calorosamente dalla comunità di sordomuti di Kiev, il suo lavoro ha avuto visibilità anche ai festival internazionali di Locarno e Berlino e in coincidenza con la riforma della Fondazione del Cinema Ucraino, che per questioni di censura poco prima non avrebbe mai finanziato un film del genere, è riuscito ad ottenere i fondi per questa sua opera prima. La mancanza di sottotitoli impone allo spettatore di guardare il film in un altro modo, prestando particolare attenzione alle immagini ai gesti e ai minimi particolari che raccontano la storia; non è difficile, dice il regista, che sostiene di aver pensato a questo tipo di impostazione dopo aver visto il film La Mort De Dante Lazarescu di Cristi Puiu; il film rumeno, con sottotitoli in estone ha dato modo a Slaboshpytskiy di lasciarsi portare dalle immagini, esperienza che ha voluto riproporre nel suo film. Le tinte molto fosche: è la storia di un gruppo di ragazzi, interpretati da giovani attori sordomuti non professionisti, che studiano in una scuola e per sbarcare il lunario mettono in piedi furti, racket e giri di prostituzione; Slaboshpytskiy si è ispirato a Gomorra di Matteo Garrone – e in effetti ne ricorda la crudezza per il mancato passaggio all’età adolescente dei personaggi, ragazzini anagraficamente ma già adulti rabbiosi e disincantati; e lo schema narrativo richiama anche il genere Western: c’è una comunità, già ben strutturata, e arriva uno “straniero” (Grigory Fesenko), che si innamora dell’eroina (la giovane Yana Novikova, presente alla proiezione insieme a Slaboshpytskiy e mette scompiglio nella “tribù” The Tribe dà particolare risalto alla condizione dei sordomuti, che in Ucraina vivono una situazione di isolamento sociale, e il fatto che la censura non consentisse fino a poco tempo fa al regista l’ottenimento dei fondi per il film la dice lunga; ci sono scene che richiamano tra le righe anche l’attuale situazione politica del Paese, ancora pesantemente divisa tra chi vuole entrare in Europa e chi vuole restare con la “grande madre Russia”; in classe l’insegnante mostra ai ragazzi la cartina dell’Europa accanto alla quale c’è, in bella vista, una bandiera

Regia: Myroslav Slaboshpytskiy Nazionalità: Ucrania Anno: 2014 Durata: 130' Genere: Drammatico dell’Unione Europea; in un’altra scena un uomo arriva a scuola con buste di merci provenienti da Spagna e Italia, e i ragazzi lo accolgono con entusiasmo. E sul palco della Semaine il regista, che si esprime in ucraino e viene tradotto nel linguaggio dei segni, in inglese e in francese, offre uno spunto politico di come, attraverso il cinema, si possono superare le diversità e si possono mescolare contenuti e modalità espressive già esistenti, con altre sperimentali, per crearne di nuove. Anna Quaranta



DEUX JOURS, UNE NUIT P

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erformanti e concorrenti. Questi i due aggettivi del nuovo millennio che poggiano saldamente sullo squarcio aperto dall’ultima pellicola dei Dardenne: uno squarcio che i due cineasti esplorano con il solito minimalismo tecnico e il necessario rigore narrativo. Un ‘marchio’ che impregna i personaggi (e attori che li incarnano), catturati nelle realtà che vivono, essi stessi consapevoli dell’universalizzazione che portano. Deux Jours, Une Nuit è in concorso ed è una pellicola importante soprattutto per ciò che si decide di mostrare. La crisi economico-sociale che attanaglia non solo l’Europa, ma in generale il globo civilizzato, è crisi dell’uomo. Di come il capitale ne abbia preso completamente l’anima, e manipoli la sua sopravvivenza deviandola verso obiettivi in cui il come si esiste è stato bandito in virtù di un sopravvivere. Sandra è una giovane madre e moglie, una come tante, con una casa e i figli da gestire, pronta a godersi il we in famiglia. La donna riceve una telefonata che la scaraventa nel vuoto: il suo licenziamento dalla piccola fabbrica di pannelli solari dove lavora, è stato messo dal datore di lavoro in mano ai suoi colleghi, barattato con un bonus che entrerebbe nelle loro tasche se il ramo più secco, meno performante (Sandra è una ex depressa), venisse sradicato. Non è proprio così palese, naturalmente, ma viene fatto capire, minacciato subdolamente, e visto che il rischio è questo, alcuni amici lavoratori sono riusciti ad ottenere per vie sindacali il ripetersi dell’operazione di voto il lunedì successivo, per far prendere ai lavoratori la piena coscienza di ciò che la decisione comporta. A Sandra non resta che convincere uno ad uno i suoi colleghi a votare per lei, rinunciando al bonus. E avrà a disposizione sabato e domenica per farlo. I Dardenne raccontano in un’intervista che il film è iniziato a prendere forma quando hanno pensato ad una coppia, quando hanno aggiunto a Sandra suo marito Manu (Fabrizio Rongione). Sandra crolla subito, fagocitata dalla forma mentis che il sistema economico-sociale induce ad avere: «Non esisto. Se non ho un lavoro non esisto. – A prescindere da cosa si faccia, da quanto venga retribuito, dai sacrifici che vengono chiesti alla mia umanità, aggiungo io - Non ce la faccio a ricominciare, non ce la faccio». E Manu (uomo ancora d’anima) le risponde «Tu esisti. Io ti amo». Sandra

non vuole nemmeno provarci, ad andare a cercare i colleghi e chiedere loro di votare per il suo posto di lavoro. Si attacca alle pillole, tentando inutilmente di non piangere, di non crollare. È suo marito che la sprona, la convince a farlo. Inizia così il viaggio di Sandra, che incontrerà uno ad uno, nei rispettivi contesti di vita del we, i colleghi a cui chiederà di salvare il suo posto di lavoro. La frase, minimalissima nella grammatica formale e sostanziale, scandita dalla donna quasi con timore e

Regia: Luc & Jean-Pierre Dardenne Nazionalità: Belgio Anno: 2014 Durata: 95' Genere: Drammatico indubbiamente nell’inconsapevolezza dello scandalo che un baratto del genere rappresenta, sembrando a chi lavora ormai normale subire qualunque tipo di richiesta, per ingiusta e indignitosa che sia, data la fragilità di una sicurezza economica, la sola cosa ormai divenuta importante, a prescindere, dall’in nome di cosa si lavori). Si lavora in nome della costruzione di un patio per la casa, per pagare spese arretrate… per la materia… Nuovo piedistallo che ormai ha sostituito l’anima, la vera cura di sé nella soddisfazione di bisogni più profondi: sentimenti, crescita intellettuale, ricerca della bellezza, del piacere, riscoperta del senso di meraviglia, cura di sé anche fisica. Stupiscono certo le reazioni, specie quelle più spietate, secche nel mettere sullo stesso piano il denaro e la sopravvivenza di un essere umano. Ed è qui lo squarcio che i Dardenne riescono ad aprire così bene, a mostrare. Assistiamo increduli a dei no come risposta, increduli alla serie di motivazioni tutte, chi più chi meno, legate alla gestione del superfluo, che la società ci ha insegnato a credere indispensabile, vitale. In questo processo catartico che Sandra compie, alcuni uomini e donne si metteranno realmente in gioco, nel bene e nel male, mostrando a noi e alla nostra protagonista quanto imbruttiti e ciechi questa struttura produttiva (spietata nel pretendere gente in piena forma da spremere e da far combattere l’uno contro l’altro per ottenere il profitto che serve) ci abbia resi. Il pedinamento della nostra eroina contemporanea che i Dardenne compiono, è pressante senza essere ossessivo, è vitale nei pezzi di realtà che paiono schiudersi così naturalmente al passaggio della macchina da presa, tenendo la giusta distanza da una perdita di identità che Marion Cotillard incamera con grande maestria attoriale. La assorbiamo completamente, empatizzando con la sua fragilità, impotenza, vergogna, senso di umiliazione. E attraversiamo insieme a lei tutta la sua evoluzione, fieri di vederla decidere finalmente riprendendo l’anima con sé, felice di una battaglia che le ha insegnato a comprendere quanto possa esistere anche senza un lavoro, e soprattutto rifiutando di essere reclutata-sfruttata nella nuova guerra tra poveri che viene fatta combattere. Maria Cera



LOST RIVER

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anno scorso il festival di Cannes lamentò .........l’assenza di Ryan Gosling sulla croisette quando ...Nicolas Winding Refn portava in concorso Only God forgives con l’attore canadese nei panni del protagonista. Gosling era all’epoca impegnato sul set del suo primo film, Lost River, che segnò il debutto alla regia di un attore consacrato al successo proprio dal regista danese con Drive. Inutile dire che è all’estetica di Refn – e nello specifico ai sopracitati film – che Gosling sembra attingere a piene mani. L’esordio dietro la macchina da presa del brillante addetto stampa de Le Idi di Marzo firmato Clooney è pertanto un misto di citazionismo, gusto personale e uno sguardo ancora da raffinare: c’è Refn, Lynch, ma anche un’idea di cinema, una direzione presa, sebbene non ancora imboccata con precisione. Lost River ha avuto la sua prima a Cannes nella sezione Un Certain Regard, tra il plauso del pubblico e l’incertezza della critica. In una cittadina semideserta che ricorda la Detroit decadente e desolata di Only Lovers Left Alive si abbatte una maledizione. Bully (Matt Smith) si aggira per le strade deserte a bordo della sua auto-trono seminando il terrore e rivendicando il territorio. Una madre (Christina Hendricks) lotta per guadagnare il necessario per riscattare la casa dove vive insieme ai suoi due figli. Il figlio adolescente, Bones (Iain De Caestecker), si mette nei guai con la gang di Bully che gli darà la caccia per tutto il film. Intanto Billy, per amore dei suoi figli, accetta l’offerta del subdolo Dave (Ben Mendelsohn), finendo col lavorare in uno squallido varietà dell’orrore. Su suggerimento di Rat (Saorise Ronan), Bones decide di spezzare la maledizione che piega la città, portando a galla un pezzo della città sprofondata negli abissi del lago artificiale. Il ragazzo spera così di porre fine alle tragedie che affliggono luoghi e persone. Eva Mendes è Cat, una delle protagoniste degli spettacoli granguignoleschi. Come un po’ tutti i personaggi, Cat galleggia in uno stato di sospensione tra vittima e complice-carnefice. I miseri abitanti di questa remota cittadina sono corpi deambulanti che sembrano aver smesso di respirare tempo addietro per rimanere in apnea. Fino al riscatto. Luoghi e personaggi si sintonizzano sullo stesso battito. Il malessere che si respira nella città è lo stesso che avvilisce i personaggi in questo racconto rarefatto, onirico e mostruoso. Gosling scrive e dirige un incubo ad occhi aperti dove il sacrificio è necessario alla salvezza. Scoppiano gli incendi e il fuoco si fa simbolo mortifero e purificatore. Mentre violento distrugge ciò che incontra, pone anche fine ad esistenze larvali imprigionate in un tempo passato ipnotizzante.

Regia: Ryan Gosling Nazionalità: USA Anno: 2014 Durata: 104' Genere: Noir Il sangue, versato per gioco e sul serio, diventa l’unico mezzo per liberarsi dalla prigionia. Per essere l’opera prima di un attore giovanissimo ci sentiamo di considerare lo slancio autoriale deciso e di tralasciare i difetti di una mano e un occhio non ancora sufficientemente allenati. Ci auguriamo che Gosling possa seguire le orme cinematografiche di George Clooney, incisivo davanti e (quasi sempre) dietro la macchina da presa. Francesca Vantaggiato



PRIDE L

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ondra, sabato 30 giugno 1984, per le strade sfila il Gay Pride mentre il resto del Paese è messo in ginocchio dalle proteste dei minatori che non vogliono cedere alle manovre restrittive del governo di Margaret Thatcher; un collettivo di ragazzi gay e lesbiche che hanno il quartier generale nella libreria di Gethin (Andrew Scott) decide di aiutare i minatori; non sanno bene come ma sanno che non è giusto che la repressione della polizia e il braccio di ferro contro il governo li stia privando della libertà e della dignità. Sono pochi quelli veramente disposti a muoversi; la maggior parte non è d’accordo perché i minatori (come tutti gli altri) sono proprio quelli che li deridono ogni giorno, dal treno al posto di lavoro. Mark Ashton (Ben Schnetzer), l’ideatore dell’iniziativa, raduna i suoi e iniziano a raccogliere fondi sotto il nome di LGSM (Lesbian and Gay men Supporting Miners); nel frattempo contattano sindacati e gruppi di supporto per i minatori che però non vogliono avere a che fare con il loro gruppo; tranne uno, che per un “misunderstanding” all’inglese li invita nel piccolo paese di minatori, nel Galles. L’arrivo dello sgangherato pullman da Londra provoca tensioni e litigi all’interno della piccola comunità: la maggior parte non è disposta ad accettare aiuti del gruppo, ma in realtà non si tratta soltanto della diffidenza nei confronti di chi è omosessuale; a Onllwyn, nel sud del Galles, sono diffidenti anche verso quelli del nord del Galles e le spaccature arrivano presto anche all’interno del gruppo LGSM, dove le lesbiche rivendicano una maggiore partecipazione anche alle cause femministe. La questione si fa più aspra, lo sciopero dei minatori procede ad oltranza provocando problemi economici e sociali; tra gli abitanti del piccolo villaggio e i LGSM inizia a stringersi un rapporto che si consoliderà nei mesi successivi. I primi ad aprirsi riescono a trascinare gli altri in un incontro con i ragazzi che da Londra li stanno aiutando economicamente e moralmente e lo scambio umano mette le basi per le scelte future di alcuni; una delle donne di Onllwyn viene esortata da Johnatan (Dominic West), attore di cabaret, uno dei primi malati di HIV nel Regno Unito (che nonostante la sieropositività è vissuto fino a 65 anni); la donna già madre e moglie, riuscirà a completare gli studi e avviarsi alla carriera politica locale; il decano della comunità (Billy Nighy) si dichiarerà gay, e senza vergogna uscirà allo scoperto fiero; Gethin, il compagno di Johnatan riprenderà il rapporto con la madre, che vive nel nord del Galles, che anni prima si era chiusa dopo aver scoperto che il figlio era omosessuale; anche tra il gruppo dei LGSM ci sono

Regia: Matthew Warchus Nazionalità: Gran Bretagna Anno: 2014 Durata: 117' Genere: Drammatico persone che hanno tratto da quella esperienza una lezione importante: primo tra tutti Joe, appena ventenne (quindi per la legge del Regno Unito omosessuale fuorilegge) che mollerà la scuola alberghiera, si dichiarerà ai suoi genitori e lascerà la casa paterna per seguire la passione della fotografia; Mark, colui che aveva dato vita al gruppo e all’iniziativa morirà a 26 anni di AIDS, dopo aver trascorso il resto della sua vita a lottare per i diritti degli emarginati e dei più deboli. Lo sciopero termina nel marzo del 1985; nel frattempo Londra è diventata teatro di guerriglia urbana e di tensioni sociali, dovute soprattutto all’intolleranza: la libreria di Gethin subirà attacchi dagli altri gruppi di minatori che non vogliono essere rappresentati dagli omosessuali e li accusano di cercare soltanto visibilità; Gethin subirà un’aggressione da parte di alcuni omosessuali, che vivono ormai quotidianamente la paura di aver contratto il virus HIV e che non accettano di aiutare chi li ha derisi (“i gay muoiono tutti i giorni e tu ti preoccupi dei minatori!”) Il 30 giugno 1985 Joe diventa “legal”, compie 21 anni e può vivere liberamente la propria omosessualità; Londra si prepara all’annuale Gay Pride sostenuto dai minatori, e non soltanto quelli provenienti dal sud del Galles; alla testa del corteo sfileranno i LGSM e i minatori, quelli che, anche se non da subito, hanno accettato di essere aiutati e hanno capito l’importanza di sostenersi l’un l’altro. Pride emoziona e commuove durante tutto il film e nella scena finale l’applauso del pubblico, caloroso sostenuto e prolungato acclama a gran voce regista e attori, che raccontano che la realizzazione del film è stata difficile, perché nonostante si trattasse di una storia vera, era stata dimenticata e molti di coloro che ne avevano preso parte sono morti; la ricostruzione del susseguirsi degli eventi è stata difficile ma ne è valsa la pena; il film, semplice e pulito, come il volto dell’attore che interpreta Mark Ashton, può considerarsi rivoluzionario, perché in maniera semplice riesce a parlare di uguaglianza in quanto esseri umani e di sostegno reciproco. E ci riesce, perché arriva dritto al cuore; il regista spiega che ha scelto attori professionisti per tutti i ruoli, proprio per evitare di cadere in quel sentimentalismo in cui si rischia



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di inciampare se si affida la parte a chi potrebbe essere troppo coinvolto emotivamente. Grande spazio nella ricostruzione storica dell’epoca è affidato alla musica brit pop di quell’epoca, dai Frankie Goes To Hollywood ai Soft Cell ai Bronski Beat, che suonano ad un concerto per la raccolta fondi a favore minatori (inconfondibile la

voce di Jimmy Sommerville). Il film sarà proiettato prossimamente alla House Of Commons (la Camera Bassa del Parlamento inglese) e ci si augura che venga distribuito in tutto il mondo (e non soltanto proiettato nei festival).

Anna Quaranta


HIPPOCRATE H

ippocrate di Thomas Lilti chiude l’edizione della Semaine De La Critique, vinta da The Tribe dell’ucraino Myroslav Slaboshpytskiy; la proiezione è stata preceduta da un intervento di Alex Masson, del comitato di selezione della Semaine che ha spiegato quali sono stati i criteri di selezione: i film scelti per questa sezione devono essere popolari, devono arrivare a tutte le persone, ma devono anche avere uno stile personale nella maniera in cui raccontano una storia. Hippocrate è coerente con questo criterio, prosegue Masson: mostra la società malata in cui viviamo rappresentando il microcosmo di un ospedale; il punto di vista del giovane internista Benjamin Baron (Vincente Lacoste), che poi è il punto di vista dello stesso Lilti, si può estendere in senso universale, al di fuori della struttura ospedaliera dove si svolge l’azione. Alla direzione dell’ospedale non c’è un dottore: c’è un manager proveniente da Amazon, abituato a gestire le vendite e i budget; la struttura è carente, di personale di macchinari (e di senso civico) e questo arriva a ripercuotersi sui pazienti, con conseguenze fatali. Oltre al giovane Benjamin, ragazzo sensibile, figlio di uno dei dottori veterani dell’ospedale, c’è Abdel (Reta Kateb), un giovane e bravo medico di origini algerine che diven-

Regia: Thomas Lilti Nazionalità: Francia Anno: 2014 Durata: 101' Genere: Drammatico terà il capro espiatorio per la morte di una paziente, avvenuta a seguito di una decisione presa da Benjamin, troppo frettolosamente e guidata dall’emotività e dall’inesperienza; ma Benjamin, che si sente responsabile dell’imminente sanzione che pesa sulle spalle del collega non esiterà a fare un gesto eclatante al fine di aiutarlo. I due sono eroi moderni e positivi, guidati dalla voglia di fare bene il proprio lavoro, e consapevoli che le decisioni prese sul lavoro potrebbero avere ricadute importanti sui pazienti e sui familiari. Intorno a loro ruotano figure che non hanno quello stesso senso di responsabilità (molto simbolica è la scena della festa all’interno del dormitorio di medici e infermieri) e non sentono quell’urgenza profonda di fare le cose per il bene della collettività ma soltanto per terminare il lavoro e fare baldoria tutti insieme. Anna Quaranta

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WHITE GOD PREMIO UN CERTAIN REGARD

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hite God dell’ungherese Kornél Mundruczó si apre con una scena a forte impatto visivo ed emotivo. Una mandria di cani inferociti corre per le strade deserte di Budapest mentre una bambina pedala veloce per sfuggirli. Quando i cani la raggiungono, lo stacco della camera ci porta a una scena tranquillizzante di lei che gioca con il suo cane in un parco.La differenza radicale dei toni e la disinvoltura della transizione repentina lasciano lo spettatore attonito. Presto ci rendiamo conto che il film è un lungo flashback che si muove fino a raggiungere il punto iniziale della storia, il feroce inseguimento. Quello che può essere definito un horror-splatter socio-politico canino altro non è che l’allegoria della rivoluzione dei più deboli ai soprusi dei più forti. Hagen, il fedele e mite cane di Lily (una convincente Zsófia Psotta), è un meticcio. In Ungheria una legge limita il possesso dei cani non di razza e impone ai loro proprietari di pagare una tassa piuttosto esosa. Il risultato di questa politica sono i canili pieni zeppi di cani raccattati per strada dopo essere stati abbandonati. Quando la madre di Lily parte per tre mesi in Australia, le cose per il povero Hagen si complicano. Infatti, né il padre di Lily né una sua scontrosa vicina gradiscono la sua presenza. La situazione precipita quando a Lily viene imposto di abbandonare il suo compagno fedele e Hagen, per la prima volto solo in strada, si trasforma in un randagio presto maltrattato da uomini senza scrupoli. Il sesto film di Mundruczó (Delta, Johanna e Tender Son) è “un racconto ammonitorio sul rapporto tra le specie superiori e i loro disgraziati subalterni. Emarginato e tradito, il migliore amico dell’uomo si ribella al suo padrone…” . Tra il semi-serio e il faceto, White God racconta della caduta e della ripresa dell’individuo oppresso (in questo caso nella raffigurazione del cane – dog=god?). Alcuni ragguagli sulle pratiche sadiche dell’uomo sul cane risulteranno piuttosto indigeste per gli animalisti e gli amanti degli animali. Hagen si incattivisce dopo i soprusi subiti, e si ribella guidando una rivolta violenta contro coloro che lo hanno umiliato e maltrattato. Come tutte le insurrezioni che si rispettino, la lotta tra gli amici a quattro zampe e gli esseri umani avviene senza esclusione di colpi e Mundruczó non esita a renderla spettacolare. Budapest è in un bagno di sangue a causa della vendetta di Hagen e della sua banda di reietti. Solo l’incontro pacifico con Lily e il suo amore per l’amico smarrito potranno placare l’ira dei cani ribelli. Secondo Mundruzcò la civiltà occidentale ha sottomesso il mondo, la cultura dell’uomo ‘bianco’ si è imposta sulle altre, l’esportazione dei valori del mondo cosiddetto civilizzato si è trasformata

Regia: Kornél Mundruczó Nazionalità: Ungheria Anno: 2014 Durata: 119' Genere: Drammatico in conquista, dominio e annullamento dell’altro. L’amore e l’umiltà ci salveranno? White God è stato presentato nella sezione Un Certain Regard aggiudicandosi con qualche sorpresa il premio principale. Il regista ha usato una forma cinematograficamente sperimentale per genere ed elementi della narrazione giocando sul rapporto tra la ragazzina (unica saggia) e il cane in senso empatico con il pubblico. La tematica è scottante e attuale più che mai, e senz’altro coraggiosa e originale è la scelta del mondo canino come simbolo dei denigrati e sfruttati della storia e angolazione da cui osservare e far scattare gli eventi. White God è definitivamente un film destabilizzante, per diverse ragioni. Francesca Vantaggiato



MOMMY PREMIO GIURIA ex-aequo con il film Adieu au language

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dall’esordio nel 2009 che i film di Xavier Dolan (I Killed my Mother, Heartbeats, Laurence Anyways) trovano puntualmente spazio a Cannes nella sezione Un certain Regard, con eccezione del penultimo capolavoro visivo (Tom at the Farm) presentato l’anno scorso in competizione a Venezia. Finalmente nell’edizione 2014 del festival cannense per l’enfant prodige canadese che non sbaglia un colpo si aprono le porte del concorso. A soli 25 anni e con cinque capolavori alla spalle, Dolan è in lizza per la Palma d’Oro con Mommy, e ha alte probabilità di afferrarla. La madre di I killed my mother (interpretata da una delle sue attrici feticcio, Anne Dorval) ha con Mommy (ancora Anne Dorval) la possibilità di agire e intervenire attivamente nella relazione col figlio. Le due storie sono distanti per ceto e intreccio (la prima è in parte autobiografica) ma idealmente connesse in una logica di aggressione-reazione. Sembra che Dolan abbia voluto “dare alla figura materna la possibilità di vendicarsi”. Si urla, si ride, si piange con la triade Diane-Steve-Kyla, rispettivamente madre, figlio e vicina di casa con disturbi di linguaggio che interviene e mitiga la lotta tra le due polarità ora in accordo ora in disaccordo. L’ambientazione borghese svanisce nella periferia canadese, dove Dolan ipotizza l’approvazione di una legge che riconosce ai genitori il diritto di ricovero coatto dei figli mentalmente turbati. Steve (Antoine Olivier Pilon) è un adolescente affetto da ADHD, una forma di iperattività che lo rende imprevedibilmente violento. Diane detta ‘Die’ è una vedova, una donna che sbarca il lunario e che si vede costretta a riprendere in custodia a tempo pieno il figlio. Kyla (Suzanne Clément) è la loro vicina di casa, un insegnante in pausa con serie difficoltà nel parlare. Il rapporto tra madre e figlio è ben lontano da quello raccontato in I killed my Mother. La freddezza e l’incomunicabilità dell’esordio si sciolgono in un amore passionale e violento, nel bisogno di sorreggersi l’un l’altro che si scontra con la fatica dello sforzo costante e spesso disatteso. Giovane ma solo anagraficamente, non si può di certo dire che Dolan non abbia le idee chiare. In tutti i suoi film si torna a parlare d’amore, un sentimento che si declina in forme diverse a ognuna delle quali è dedicato un affondo psicologico ed emotivo maturo e complesso. Se il discorso sul rapporto con la madre è stato ampiamente sviscerato e nel cinema e nel cinema-secondo-Dolan, in Mommy criticità consuete – l’instabilità emotiva e psicologica, la morbosità della relazione, la paura dell’abbandono e quella di non essere all’altezza del proprio ruolo – si agitano in una cornice e con parole nuove. Dolan

Regia: xavier Dolan Nazionalità: Francia, CANADA Anno: 2014 Durata: 140' Genere: Drammatico ama i suoi personaggi, ama conoscerli a fondo e soprattutto ama non render loro la vita facile. Ciascuno ha l’onere di un fardello da trasportare e l’onore di un sostegno nel cammino, tutti sono sottoposti a una tensione a cui non possono sfuggire e vivono un conflitto interiore che probabilmente non risolveranno definitivamente ma con cui dovranno necessariamente confrontarsi. Dal look, alla cura del linguaggio, al background socioeconomico ed emotivo, la Dorval e la Clément (quest’ultima vinse il Premio Miglior Attrice con Laurence Anyways) sono chiamate a vivere un’esperienza attoriale volutamente lontana dai precedenti ruoli. Il risultato è eccezionale, il patto di fiducia e dedizione è talmente assoluto da far cadere la maschera attoriale, da riempire i personaggi di carattere fino a dar vita a persone in carne ed ossa. Dolan è autore di un cinema olistico, coglie la complessità della settima arte fatta di frame in movimento, storie, personaggi e sonorità e lavora sull’assemblaggio armonico di ciascun elemento al fine di creare un’esperienza totale unitaria dove le singolarità diventano inseparabili. La narrazione procede per eventi, musiche e trovate visive che si combinano tra loro in un incastro perfetto, funzionale e addizionale. Da Wonderwall degli Oasis a Dido, a Céline Dion, ad Andrea Bocelli, la colonna sonora scelta da Dolan definisce il mondo di Steve e Die con una contestualizzazione altrimenti inesprimibile. Il pop è la musica dell’anima, scandaglia la quotidianità di Steve e inquadra un’epoca esistenziale, l’adolescenza. The last but not the least è la scelta del formato del frame: l’aspect-ratio è l’insolito 1:1 che si apre fino ai 16:9 quando richiesto dai personaggi. Scegliendo il formato delle cover degli album musicali, Dolan insieme ad André Turpin (direttore della fotografia) non lascia scampo ai volti espressivi dei suoi amati e li racchiude in primi piani eloquenti impossibili da eludere. Amante del cinema di Gus Van Sant che ritroviamo in inquadrature e angosce, Dolan è un magnetico narratore, un accurato creatore di atmosfere e un cineasta determinato a diventare immortale. Francesca Vantaggiato



PARTY GIRL PREMIO CAMERA d’OR e PRIx d'ENSEMBLE

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a storia della sessantenne Angélique (un’eccezionale Sonia Theis-Litzemburger) che intrattiene i clienti del Cabaret non ha lasciato indifferente la giuria di Cannes. Marie Amachoukeli, Claire Burger e Samuel Theis, ossia i tre autori di Party Girl, hanno meritatamente vinto la Camera d’Or e il Prix d’Ensemble. Il film che ha inaugurato Un Certain Regard si muove tra autorialità indipendente e cinema veritè ai limiti dell’indagine documentarista. Angélique è una donna forte e indipendente alla quale nessuno ha mai detto cosa fare. Lavora in un cabaret al confine con la Germania intrattenendo i clienti e bevendo con loro. Tuttavia alla sua età il lavoro non è più fitto come un tempo, i clienti calano e Angélique si sente sola. Un uomo, Michel, un abitué del locale con cui la donna si intratteneva volentieri, smette di frequentare il paradiso della lussuria spingendo Angélique a fargli visita in cerca di un confronto. Tra sorpresa, incredulità e risa, la donna ritorna dalle sue amiche con una dichiarazione d’amore e una proposta di matrimonio. L’opera prima di questo trio portentoso racconta di una solitudine, di un amore e della difficoltà/impossibilità di fare la scelta giusta. Insieme alle amiche del cabaret – uno spaccato interessante e verace di umanità – Angélique si diverte, si gode la vita e la libertà. Lei è una party girl, una donna che ama bere e festeggiare, ballare e flirtare con i ragazzi più giovani di lei. In nome dell’amore per Michel (Joseph Bour) accetta di lasciare il lavoro, la sua indipendenza, il suo mondo, cercando di combinare le sue abitudini con le esigenze del futuro matrimonio. La donna, un vulcano di energia senza peli sulla lingua, riesce a riunire i quattro figli (figli nella vita) in occasione

Regia: Marie Amachoukeli, Claire Burger, Samuel Theis Nazionalità: Francia, Canada Anno: 2014 Durata: 95' Genere: Drammatico del matrimonio, della cosa giusta da fare nella vita che naturalmente non arriva senza sollevare dubbi. Il personaggio interpretato dalla bravissima attrice riempie lo schermo, il ritratto di lei è onesto e senza edulcoranti, il dramma della scelta foraggiato da una certa attitudine alla vita è reso con accurate scelte di narrazione e regia. Forse Angélique non è stata una buona madre, non è stata sempre presente per i figli, non è perfetta ma se non altro è coerente con se stessa. Nelle tante scene con loro è sempre nel nome di un palpabile amore che gli strappi si ricuciono e la comprensione-perdono arriva naturale. Party Girl è un film fatto con il cuore che ama e non giudica l’imperfezione della sua principessa con le rughe. Il finale amaro è però bel lontano dalla sorte che spetta alle principesse delle fiabe. Nelle scelte della donna che a sessant’anni ama ancora la vita, la notte, l’ideale di un amore adolescenziale, che lotta per non deludere le aspettative dei figli, prevale in ultima istanza la forza di non compromettere e sacrificare l’immutabile natura di party girl. Francesca Vantaggiato



EL ARDOR G

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ael García Bernal è protagonista e co-produttore del film El Ardor, presentato sullo schermo di Cannes nella sezione Séance Spéciale, un’opera che si potrebbe definire ‘antropologica’, sicuramente nelle intenzioni, forse un po’ meno negli esiti. Girata interamente nella foresta pluviale dell’Argentina, la pellicola racconta una storia al confine tra realtà e sovrannaturale, ove da un lato poveri contadini vengono vessati ed uccisi da mercenari senza scrupoli affinché lascino le proprietà e le terre dove abitano da generazioni per speculazioni di spregiudicati affaristi, dall’altro strani segni provenienti dalla foresta amazzonica (tigri che si materializzano e scompaiono al momento giusto, selezionando le persone da sbranare, personaggi al confine tra il mondo della foresta e il mondo altro) lasciano intendere che esiste un disegno interno alle creature che abitano la giungla, che se attaccate in maniera massiccia possono iniziare a difendersi con mezzi insospettabili. Nella fattispecie il film racconta la storia di un giovane misterioso, Kai, chiamato per aiutare i contadini, che assiste all’attacco violento ed all’uccisione spietata di un vecchio coltivatore lavoratore del tabacco, ed al

Regia: Gael García Bernal Nazionalità:Argentina/Brasile/Francia/USA Anno: 2014 Durata: 100' Genere: Drammatico rapimento di Vania, la sua bellissima figlia, interpretata dalla giovane Alice Braga (nipote della celebre attrice Sonia Braga e, davvero, buon sangue non mente). Da questo evento s’innesca una catena di vendetta, morte ed espulsione, da parte di Kai con la complicità di tutti gli elementi della foresta, contro i cattivi, che più cattivi non potrebbero essere, il tutto condito da una scena di sesso tra Bernal e Braga, sotto la pioggia fra le piante tropicali, ed una canna allucinogena rollata dal nostro eroe in pausa relax. Nonostante le premesse, gli interpreti e la magnifica location, il film non convince, restando in superficie su tutte le questioni aperte e puntando su un mistero privo di spessore ed eccessi granguignoleschi. Peccato. Elisabetta Colla


A GIRL AT MY DOOR U

n piccolo film dalle giuste proporzioni, capace di amalgamare con arte la sfera visiva e quella narrativa, A girl at my door, girato dalla cineasta coreana July Jung e presentato a Cannes 2014 nella sezione Un Certain Regard, lancia, con uno stile tipicamente orientale, un forte messaggio contro l’autoritarismo, il maschilismo, la violenza ed ipocrisia di certi ambienti della Corea contemporanea. La protagonista, Lee Young-nam (perfetta nella parte l’attrice Bae Doona), che occupa un posto di rilievo nella Polizia di Seoul, viene improvvisamente trasferita nella remota località marina di Yeosu. La punizione, si evince nel corso del film, segue alla scoperta dell’omosessualità della donna, la quale, ferita nell’orgoglio e costretta a lasciare la sua compagna, beve incredibili quantità di vino travasato dentro insospettabili bottiglie di acqua minerale. L’incontro fra l’adolescente Dohee, una bizzarra creatura picchiata e vessata dal padre (un piccolo boss locale che sfrutta lavoratori clandestini) e Lee Young-nam sarà un vero colpo di fulmine: la ragazzina, per la prima volta

Regia: July Jung Nazionalità: Corea del sud Anno: 2014 Durata: 119' Genere: Drammatico protetta da qualcuno, si aggrappa alla nuova amica poliziotta che, per sottrarla alle violenze continue del padre, la invita a trasferirsi a casa sua. Ma le chiacchiere e la complessità dei rapporti di forza della piccola cittadina di provincia (ben affrescata attraverso le chiacchiere dei vecchietti o delle donne per la strada) renderanno complessa e faticosa la bella amicizia tra le due, fino ad un epilogo inaspettato, mentre rivelazioni e colpi di scena inseriscono il film, a pieno titolo, nella scena dei giovani filmmaker contemporanei. Tra i produttori del film l’autore di Poetry, Lee ChangDong. Elisabetta Colla

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THE SEARCH D

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opo il successo e l’Oscar ottenuti con The Artist, il regista francese di origini lituane Michel Hazanavicius torna in competizione a Cannes con un’opera completamente diversa, incentrata sul conflitto in Cecenia del 1999 e sul dramma delle vittime civili, per evidenziare e denunciare gli orrori di tutte le guerre e l’indifferenza della maggior parte delle istituzioni politiche internazionali che, troppo spesso, si limitano a giudicare i conflitti e le tragedie dei profughi da lontano, come ‘pratiche burocratiche’. Pur affermando di non voler dare al suo lungometraggio un carattere politico, Hazanavicius si schiera, eccome, con i civili uccisi spesso solo ‘per gioco’ (come nel filmato amatoriale autentico che apre il film e da cui il regista trae spunto per la sua sceneggiatura, in cui marito e moglie vengono uccisi da un giovane soldato per puro divertimento), e racconta da un lato la storia di una famiglia smembrata, dopo la mattanza priva di senso dei genitori, ed il vagare della figlia maggiore in cerca dei suoi fratellini fuggiti per paura, dall’altra – in parallelo – la triste vicenda di Kolja, un ragazzo russo come tanti che suonava la chitarra e usciva con gli amici, spedito al fronte perché beccato con un po’ di fumo in tasca, e della sua escalation verso un atteggiamento sempre più violento, per ottenere il rispetto dei commilitoni che lo picchiano ed umiliano continuamente.

Regia: Michel Hazanavicius Nazionalità: Francia Anno: 2014 Durata: 149' Genere: Drammatico Interessante il personaggio interpretato dalla dolce Bérénice Bejo, quello della cooperante Carole, giovane ed idealista, pronta a prendere in casa e ad adottare il piccolo Hadji, un bambino di 9 anni, traumatizzato e reso temporaneamente muto dalla guerra, che la sorella cerca disperatamente ovunque fino all’epilogo con happy end. Bel ruolo e ben recitato quello di Annette Bening, una donna che lavora nelle organizzazioni umanitarie, resa ormai scettica dall’indifferenza della politica e del mondo verso la sofferenza degli individui, che crede solo nelle azioni concrete. Nonostante un approccio piuttosto didattico e forse non originalissimo, il film si lascia gustare e le vicende dei protagonisti catturano l’attenzione e ci conducono senza fatica in un viaggio cinematografico di oltre due ore, nei territori della solidarietà e dell’empatia, magari con qualche sbavatura ma, in questo caso, perdonabile. Elisabetta Colla



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un è il soprannome di un ragazzo di strada della Costa d’Avorio, la cui vita è stata segnata da incredibili storie e da nessuna possibilità di scelta. Nella prima scena del film, Run spara al Primo Ministro del suo Paese e poi inizia a correre, come sempre. Mentre corre, ricorda. Nei flash back che si susseguono la sua vita gli scorre davanti: la sua infanzia con il maestro Touru, un uomo che doveva insegnargli l’arte di far piovere; la sua giovinezza con Greedy Gladys, una donna-cannone, sorta di fenomeno da baraccone, che lo mantiene come assistente ed amante; la sua militanza priva di vera convinzione nel partito dei Giovani Patrioti, legato al conflitto politico-militare del suo Paese. Sempre Run ha agito spinto dalla fame e dall’istinto di sopravvivenza, passando da una vita all’altra, da una situazione all’altra, senza mai fermarsi. Il film, diretto dal regista Philippe Lacôte, è fortemente simbolico ed evocativo. «Il mio intento – afferma il regista – era quello di proseguire il mio lavoro di osservazione di un territorio in crisi, come quello della Costa d’Avorio, dove nell’ultimo conflitto hanno perso la vita 3000 persone. Cerco di prendere in carico una storia collettiva

Regia: Philippe Lacôte Nazionalità: Francia, Costa d’Avorio Anno: 2014 Durata: 100' Genere: Drammatico seguendo una traiettoria individuale emblematica, quella del protagonista Run: oggi il Paese si sta appena risvegliando da un incubo e cerca di interpretarlo. Il 75% della popolazione ha meno di 30 anni e nonostante tutto la corsa, per me, rappresenta uno slancio vitale». Appare fortissima la sottolineatura di come non sia possibile, in certi luoghi, circostanze, momenti, scegliere nulla della propria vita ma di come essa al contrario si costruisca in base a circostanze esterne: Run intraprende una sorta di viaggio iniziatico per prendere coscienza della propria libertà, quasi inserendosi fra gli eroi del romanzo picaresco. Ottima prova dei protagonisti, Abdoul Karim Konaté e Isaach De Bankolé. Elisabetta Colla



THE HOMESMAN R

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aramente il genere western ha avuto ruoli centrali per le donne: per questo il personaggio di Mary Bee Cuddy, la protagonista di The Homesman, l’ultima fatica cinematografica diretta da Tommy Lee Jones, e presentata a Cannes in concorso, rimane impresso nella memoria, anche grazie alla convincente ed energica interpretazione di Hilary Swank, già due volte premiata con l’Oscar, l’ultima nel 2005 per Million Dollar Baby. E forse sono proprio i personaggi femminili, oltre all’impeccabile ambientazione da Far west ed alla tragicità del contesto descritto con grande capacità autoriale, a lasciare il segno. Tratto dall’omonimo romanzo dello scrittore americano Glendon Swarthout, il film racconta la storia di tante, diverse solitudini nei luoghi della frontiera americana dell’Ottocento: quella di tre donne che diventano pazze per motivi diversi, legati alla carestia, alla malattia ed alla violenza; quella di Mary Bee, cattolicissima e colta ‘zitella’ ante litteram, con un fortissimo senso della pietas ed una forte autonomia; quella, infine, di George Biggs, disertore ed avventuriero di pochi scrupoli, costretto dagli eventi a rivedere il suo percorso esistenziale. Poiché nessun uomo vuole riaccompagnare le tre donne uscite di senno al di là del fiume Missouri, da dove verranno rimandate nell’Est a cui appartengono, Mary Bee si farà avanti: è una sorta di ‘mission impossible’, per la quale serve un

Regia: Tommy Lee Jones Nazionalità: USA Anno: 2014 Durata: 122' Genere: Drammatico compagno di viaggio rotto a tutte le esperienze. Sarà proprio lui, Tommy Lee Jones, alias George Biggs, regista/attore, a dover accompagnare la donna in un viaggio dai mille pericoli, con un esito del tutto imprevedibile. Mentre si apprezza la bellissima fotografia di Rodrigo Prieto e si respira l’aria dei grandi spazi tipici dell’epica western, arriva forte il messaggio relativo ai morti e alle tragedie che hanno costruito il sogno americano ed alla forza trasformatrice che, ovunque e sempre, risiede nella generosità piuttosto che nella grettezza, nel bene piuttosto che nel male. Un cameo di Meryl Streep, pietosa moglie del reverendo che attende l’improbabile convoglio in una cittadine dell’Iowa, conclude un film che conferma il talento registico di Tommy Lee Jones (dopo l’esordio del 2005, con Le Tre Sepolture), capace di emozionare senza sentimentalismi, tenendo d’occhio i grandi registi del passato. Elisabetta Colla



MAIDAN S

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ergei Loznitsa, uno dei nuovi talenti visivi europei da tenere decisamente d’occhio, dotato di una prospettiva di sguardo di altissimo livello tecnico, capace di sondare l’attorno che decide di contenere nella macchina da presa sviscerando dalla realtà che penetra con acume fotografico straordinario, di estrema vividezza plastica (è anche direttore della fotografia), un valore metafisico, psicologico mai pacificato negli strati inconsci che tocca, porta quest’anno a Cannes (nella decisamente attraente ed interessante sessione speciale della selezione ufficiale) la sua personalissima immersione nella lotta del popolo ucraino alla propria auto-determinazione. Maidan è un documentario che riproduce esattamente la ‘filosofia di rappresentazione’ Loznitsana (necessità per lo stesso regista ucraino di precipitarsi e filmare quel luogo, accantonando tutti i lavori su commissione da cui era preso). Un occhio fisso su squarci di vita da piazza, attraverso il quale viene mappata l’evoluzione di una partecipazione popolare fino al suo epilogo. La macchina da presa è una entità parimenti presente ed invisibile, che viene attraversata da azioni ed umanità senza frapporsi, mantenendo la giusta distanza e, contemporaneamente, assorbendo e rendendoci un senso tutto umano (tralasciando nello specifico il politico in senso stretto) di una partecipazione che è consapevolezza, senso di appartenenza, condivisione. Tela cinematica che Loznista filma nel suo scorrere, dentro pagine visive di camera fissa, sfogliate e inframezzate da ‘classici’ schermi neri, sunti delle tappe temporali di una evoluzione da presa di coscienza e partecipazione pacifica a necessità di impegnare il rischio della propria vita dentro battaglie di strada sanguinose con la polizia antisommossa. Un mix di solidarietà, entusiasmo, cultura popolare, passione, lotta eroica, terrore, coraggio, aspirazione, sacrificio. Maidan svela un mistero che lo stesso Loznitsa non riesce a catturare del tutto… perché indefinibile. Merito del suo pregevole lavoro, uno dei pochi realmente realistici esattamente nel renderci davanti agli occhi un risveglio di coscienza che fa dei singoli che lo praticano, strumenti nello stesso tempo inconsapevoli del mutamento avuto: sentirsi collettività, massa unica. Sul palco, o dentro la piazza, uomini assolutamente comuni, semplici…Giovani, molti anziani, tanti bambini, la stessa curia ortodossa, vengono catturati, nel loro rappresentare al di fuori di se stessi e a noi che dall’esterno li miriamo dietro la macchina da presa, come di fatto possa emergere improvvisamente, spiritualmente, un autentico sentire libero, nel decidere come gestire se stessi e la propria vita, una autentica solidarietà, reciprocità… un

Regia: Sergei Loznitsa Nazionalità: Ucrania, Paesi Bassi Anno: 2014 Durata: 130' Genere: Documentario autentico senso di appartenenza. ‘Auree’ che attraversano questo scorcio umano, storico, sociale, vivificate da una fotografia capace di rivelare esattamente il tipo di luce, di atmosfera, di evoluzione della vita emotiva di piazza Maidan. La macchina da presa fa una unica concessione alla sua fissità, scaraventandoci nel cambio di passo di una camera a mano che è azione, ancora una volta ‘inspiegabile’ abbraccio alla fine da parte di comuni uomini… Il coraggio, la ribellione, il sacrificio: Loznitsa ci mostra quanto possano essere di appartenenza di tutti, quanto possano discendere e incarnarsi nelle umanità meno prevedibili e quanto possano rendere ad esse quella luce esistenziale capace di trasformare essere umani in eroi. Maria Cera



JIMMY'S HALL J

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immy’s Hall di Ken Loach è una storia romantica ambientata nell’Irlanda campestre degli anni’ 30 e liberamente ispirata alla figura di Jimmy Gralton, un socialista in lotta per cambiare le condizioni della sua gente che finì, invece, espulso nel ’33 con l’accusa di essere un immigrato clandestino. Jimmy (Barry Ward) è un progressista e visionario originario della contea di Leitrim che, dopo un esilio di 10 anni negli Stati Uniti fa ritorno a casa, nell’Irlanda del 1932, a circa 10 anni dalla fine della guerra civile e con nuovo governo a capo del Paese. Sollecitato da quei concittadini che l’hanno sempre supportato e ne hanno condiviso i progetti sociali, Jimmy riprende in mano la sua Pearse-Connolly Hall, uno spazio ricreativo gestito da volontari dove si insegna a dipingere, si dibatte di letteratura e soprattutto si danza. La Hall del carismatico leader comunista è un posto unico dove si ‘osava’ unire educazione e ricreazione: si studiava di giorno, si ballava di notte. Avendo vissuto l’esilio in America ai tempi della crisi del ’29 e del crollo di Wall Street, Jimmy ha tanto da raccontare e da insegnare sulla vita d’oltreoceano, sulla sua musica e sul ballo indiavolati. Con Jimmy la pista si infiamma presto a ritmo di jazz, la Hall ritorna ai suoi vecchi splendori e i nemici non tardano a far sentire la voce violenta del loro dissenso. La Chiesa in prima fila, spalleggiata dai ricchi proprietari terrieri e dalle forze politiche rimpolpate dai vecchi ragazzi dell’IRA dove spicca l’oscura e rigida figura di O’Keeffe (Brian F O’Byrne), iniziano una battaglia efferata contro Jimmy e il suo ideale che non lascia scampo al nemico. Con l’eroe romantico scritto da Paul Laverty, la Palma d’Oro a Cannes 2006 per Il vento che accarezzava l’erba ritorna ai temi cari di quel cinema orientato all’esplorazione della situazione irlandese post guerra civile, con i progressisti delusi dai loro leader più reazionari che rivoluzionari. Loach romanza la figura del comunista sognatore, armato di un grammofono, degli ultimi vinili jazz acquistati in America e di una passione capace di accendere il prossimo. Jimmy è un martire che alla causa ha sacrificato tutto, anche l’amore per Oonagh (Simone Kirby),la compagna di ballo, di un progetto e di una visione di vita che albergherà per sempre nel suo cuore. Per il prete di contea, Jimmy è l’anticristo: gli incontri tra i due si risolvono in duelli ideologici affondati su posizioni lontane e inconciliabili anche nell’approdo. Eppure l’ardore di Jimmy ossessiona e mette in dubbio le certezze del prete, accusato dall’antagonista di avere più odio che amore nel cuore. Quanto di più contemporaneo?

Regia: Ken Loach Nazionalità: Gran Bretagna, Irlanda, Francia Anno: 2014 Durata: 106' Genere: Drammatico Jimmy è una figura storica precisamente collocata geograficamente e temporalmente, un martire del suo tempo destinato, come ogni grande oppresso della storia, ad essere ricordato al di là del suo tempo e del suo spazio. Jimmy rappresenta tutti coloro che non si conformano, che non si lasciano intaccare dalla corruzione, che si battono e sacrificano per liberare il popolo dall’oppressione. Nelle parole di Loach, Jimmy è Ai Weiwei, Chelsea Manning, Julian Assange, Edward Snowden, i militanti sindacalisti che hanno rischiato la vita a Maquilladoras, i militanti per il diritto all’omosessualità in Russia… Francesca Vantaggiato



WHIPLASH O

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ggi sul quotidiano francese Liberation, in prima pagina un titolo recitava: “Les Mauvais élèves”, i cattivi studenti. Il film dello statunitense Damien Chazelle, classe 1985 il più giovane regista della Quinzaine, è sui cattivi maestri. Whiplash, già trionfatore al Sundance 2014, anche come Premio Giuria, segue le vicissitudini del giovane Andrew (Milles Teller) alle prese con il suo sogno da ragazzino di diventare il miglior batterista jazz della sua generazione. Deve fare i conti con Terence Fletcher (interpretato dal bravissimo J.K. Simmons noto al pubblico italiano anche per la sua partecipazione alle serie televisive poliziesche Law and Order e The Closer), suo professore al conservatorio che gli offre la possibilità di sedersi (come terza scelta) alla batteria nella sua orchestra. I metodi di Fletcher sono spietati, feroci, legittimati a suo dire dal fatto che bisogna spingere le persone verso quello che loro si aspettano da sé stesse, tirando fuori sempre il massimo (anche a costo della pelle). Andrew è determinato ad andare avanti, a subire le pressioni e le provocazioni di Fletcher spingendosi oltre ogni limite, arrivando a suonare con rabbia tenacia e grinta tali da fargli sanguinare le mani. Quando i metodi dichiaratamente ansiogeni di Fletcher spingono un ex studente alla depressione, viene istituita una commissione che costringe il professore alle dimissioni dal conservatorio. I due si rincontrano qualche tempo dopo in un jazz bar; Fletcher sembra cambiato, più morbido e più aperto, e offre ad Andrew il posto di batterista nell’orchestra che aprirà il jazz festival della città: i brani scelti per l’occasione sono quelli che Andrew conosce bene, tra cui Whiplash. A questo punto lo spettatore quasi quasi cade nella trappola del lieto fine e invece viene disatteso quando Fletcher, sul palco, con l’orchestra pronta a partire, comunica ad Andrew, pronto a partire anche lui con Whiplash, che il pezzo di apertura è un altro; ha inizio una specie di danza tra i due. Fletcher vuole farla pagare ad Andrew per aver contribuito al suo allontanamento dal conservatorio e per questo è disposto addirittura a rovinare il concerto ed è convinto che il ragazzo lasci il suo posto. Andrew resta e con carisma e determinazione inizia a suonare Whiplash e riesce a farsi seguire da tutti gli altri; Fletcher, che dirige l’orchestra lasciando libero Andrew di esprimersi, è sempre pronto a provocarlo, con il suo sguardo eloquente ed espressivo. È un film che sprizza energia e grinta e determinazione, che lascia però un po’ perplessi su quanto la disciplina ferrea sia necessaria nella formazione dei giovani; è vero

Regia: Damien Chazelle Nazionalità: USA Anno: 2014 Durata: 105' Genere: Drammatico che bisogna dare il massimo ma pretenderlo con metodi rigidi e poco aperti alla condivisione può provocare dei danni irreversibili. La forza del film è sicuramente anche nella sua musica, composta di brani di Justin Hurvitz, “Whiplash” di Hank Levy, “Caravan” di Juan Tizol e Duke Ellington e “Keep Me Wanting” di Dana Williams. Il film è stato proiettato questo pomeriggio al cinema Le Raimu del quartiere La Bocca, per l’iniziativa La Quinzaine a La Bocca, che nasce per favorire la diffusione della sezione anche nei quartieri lontani dai fasti della Croisette affiancandola a scopi didattici, quali il laboratorio critico e l’atelier dei cortometraggi; l’aspettativa è apparsa alta. Non ci resta che aspettare davvero poche ore. Anna Quaranta



ALLELUIA G

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irato in 16 mm, per scelta “di vita” del regista belga Fabrice Du Welz, Alleluia completa la trilogia iniziata nel 1999 con il cortometraggio Quand on est amoreux, c’est merveilleux e ripresa nel 2004 con il lungometraggio Calvaire; mette a fuoco il rapporto d’amore alienato e alienante tra un uomo e una donna che durante il corso della storia assumono alternativamente i ruoli di vittima e carnefice, dominato e dominante. Liberamente ispirato ad una storia vera, il film si sviluppa in quattro atti: Gloria, Marguerite, Gabriella, Solange, dal nome delle donne che ruotano intorno a Michel (Laurent Lucas), co-protagonista insieme a Gloria (Lola Dueñas, ben nota al pubblico internazionale per aver lavorato con Pedro Almodovar); Gloria lavora all’obitorio (è abituata a maneggiare la morte ogni giorno) ha alle spalle un matrimonio violento e vive sola con sua figlia, fino all’arrivo di Michel, che le farà perdere la testa e la trascinerà negli altri atti della storia. Michel contatta Gloria attraverso una rubrica per cuori solitari, la seduce, l’abbandona, la fa impazzire prima di farsi ritrovare per poi piegarla alla sua volontà; Marguerite e Gabriella sono le vittime scelte da Michel, abile seduttore iniziato ai piaceri della carne dalla sua stessa madre, che vuole farsi sposare e poi spillare i soldi alle malcapitate. Tutti e due i tentativi falliscono in un tragico epilogo scatenato dalla gelosia e dalla rabbia omicida di Gloria, che ormai ha mollato figlia lavoro e casa per compiacere Michel nei suoi progetti diabolici. Il copione dell’ultimo atto è quasi lo stesso: Michel e Gloria si presentano dalla bella e solitaria vedova Solange, come fratello e sorella, in cerca di un lavoro presso la tenuta della donna. Lentamente Michel si avvicina a Solange per sedurla e di nuovo la furia assassina di Gloria si scatena. Proprio in merito al finale dal pubblico arriva il lusinghiero paragone con Funny Games di Haneke, ma se in Funny Games il ragazzino veniva ammazzato, qui la piccola figlia di Solange viene lasciata fuggire proprio dallo stesso Michel, che ormai sa di essere passato dalla parte della vittima. E nonostante il paragone con Haneke, Du Welz non si ritiene un “master”, un grande del cinema ma un amante, appassionato; nel film infatti rende omaggio a The African Queen di John Houston, capolavoro del 1951 con Humphrey Bogart e Katharine Hepburn. Piace al pubblico l’estetica del film e Du Welz li rassicura affermando che continuerà a girare con pellicola, sebbene questo diventi ogni giorno più difficile; da appassionato del vecchio cinema gli piace quell’effetto “romantical

Regia: Fabrice Du Welz Nazionalità: Belgio Anno: 2014 Durata: 95' Genere: Drammatico sticky” (così tradotto dal francese) che i suoi film riescono a rendere; l’effetto sullo spettatore arriva sin dalle prime immagini, perché naturalmente imperfette e a volte non completamente nitide ai nostri occhi, ormai assuefatti dalla noiosa purezza del digitale. Anna Quaranta



AT LI LAYLA A

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san Korman, israeliano classe 1982, uno dei più richiesti film editor all’estero e nel suo Paese, .incontra il pubblico della Quinzaine dopo la proiezione del suo primo lungometraggio da regista, At li Layla. Il suo è un felice ritorno, dopo aver partecipato nella stessa sezione nel 2007 con il cortometraggio La Mort de Shula, nel quale recitava tutta la sua famiglia e la giovane attrice Liron Ben-Shlush, che oggi è la co-protagonista Chelli e la sceneggiatrice del film, nonché compagna di Korman. Il soggetto del film nasce proprio dalla stessa Liron che nella finzione come nella vita reale ha una sorella con problemi mentali; ha immaginato come sarebbe stata la sua vita se non avesse lasciato la casa familiare e non fosse andata in una città più grande per intraprendere il suo cammino da attrice, e invece fosse rimasta e avesse dovuto prendersi cura di sua sorella, sacrificando la propria vita. Il film narra le vicende di Chelli, custode in una scuola, che si prende cura di sua sorella Gabby (Dana Igvy), con problemi mentali che la spingono a episodi di aggressività e autolesionismo; il rapporto tra le due è intimo e simbiotico, sfiorando la morbosità. Gabby non potrebbe vivere senza sua sorella ma è vero anche il contrario; quando i vicini denunciano che Gabby resta in casa da sola durante l’orario di lavoro di sua sorella, Chelli è costretta a portarla in un istituto durante le ore di lavoro e nel frattempo entra nella sua vita Zohar, conosciuto a scuola. Zohar, inizialmente scostante e poco attento al bisogno d’affetto di Chelli, entra pian piano nella sua vita e in quella di Gabby, inserendosi in un equilibrio difficile. Lo spazio narrativo, la casa di Chelli e Gabby, si libera delle cose vecchie e ammassate e gradualmente si riempie di luce e colore; la stessa Gabby viene lasciata libera di vivere spontaneamente i suoi impulsi sessuali attraverso l’auto-erotismo, in precedenza frenati dalla sorella. La vita scorre non senza screzi tra Chelli e Zohar, dovuti alle abitudini di Gabby (che spesso vuole dormire attaccata a sua sorella) ma nonostante ciò le criticità sembrano sistemarsi a mano a mano e gli equilibri ridisegnarsi. Il punto di rottura arriva quando Chelli si accorge che Gabby è incinta e senza chiedere spiegazioni a Zohar lo manda via di casa, reputandolo responsabile della gravidanza; senza possibilità d’appello Zohar prende a testate le porta di casa, così come fa abitualmente Gabby nei suoi momenti di crisi, così come farà la stessa Chelli quando si renderà conto che non era Zohar il responsabile e con il suo comportamento perentorio e di chiusura

Regia: Asan Korman Nazionalità: Israele Anno: 2014 Durata: 90' Genere: Drammatico totale ha perso l’opportunità per essere felice. La preparazione del film, girato con un budget molto limitato, è stata lunga e ha richiesto lo sforzo maggiore da parte di Dana Igvy, la quale mostra grandi doti di recitazione; la Igvy ha trascorso molto tempo accanto alla sorella di Liron, per fare in modo che la sua Gabby fosse più spontanea e naturale possibile. Tra il pubblico sono arrivati apprezzamenti per il film, soprattutto da parte di chi vive in prima persona una situazione come quella di Chelli nel film; in particolare è la questione sessuale delle persone con malattie mentali: nel film Gabby ha una sessualità che proverà a vivere sia intimamente con sé stessa che insieme, probabilmente, ad un suo compagno di istituto. Su questo tema sarà il personaggio di Zohar a fare da raccordo tra le due sorelle, spiegando a Chelli l’importanza per Gabby della ricerca del piacere, anche solitario. Anna Quaranta



THE KINDERGARTEN TEACHER

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he Kindergarten Teacher è un film che prende per mano lo spettatore: viene presentato con queste parole il lungometraggio del cineasta israeliano Nadav Lapid alla Semaine de la Critique del Festival di Cannes. Il film narra la storia di un ragazzino di 5 anni, Yoav (Avi Shnaidman), con una sensibilità talmente raffinata che è in grado di comporre e recitare Poesie. Se ne accorge la sua baby sitter, che non dà peso alla cosa, ma la sfrutta per i monologhi da recitare durante le audizioni da attrice; e se ne accorge Mira, la sua insegnante d’asilo, che arriva ad infatuarsi del piccolo Yoav, completamente catturata dal mondo interiore del piccolo. Yoav ha perso la mamma; il papà, che possiede un ristorante di lusso, non ha intenzione di assecondare le sue velleità artistiche, la sua è una visione piuttosto pragmatica e concreta e non reputa la cultura un mezzo di sostentamento valido; ben diversa da quella di suo fratello, lo zio di Yoav, che lo ha iniziato alla Poesia, recitandogli alcuni versi sin da quando era piccolo. Lapid non ci dice altro del mondo esterno e interiore di Yoav: lo vediamo iniziare a camminare avanti e indietro, ripetutamente, spinto da un bisogno urgente di esprimersi in versi e immagini. Nira è sposata con un ingegnere e ha due figli grandi, compie con diligenza il suo lavoro di maestra d’asilo e la sua vita sembra scorrere tranquilla, sebbene una tensione, una ricerca di qualcosa affiori dagli sguardi e dai gesti della donna. Mira ama la Poesia; frequenta un corso di Poesia e ha chiamato suo figlio Omer (forse da Omero). Eppure alcuni suoi compagni di corso non sembrano lasciarsi trasportare dalla musicalità dalle immagini e dai significanti, fondamentali per la Poesia e si criticano a vicenda le parole scelte, badando soltanto al loro significato; Omer, brillante e intelligente, ha deciso di continuare a lavorare per un altro anno nell’esercito, con disappunto del padre e della madre; si potrebbe leggere in una battuta del marito di Mira, a proposito del figlio, nella quale sostiene che l’Esercito è per i poveri e per quelli con poche capacità, una critica del regista stesso alla vita militare (non dimentichiamoci che il film è ambientato in Israele, dove il servizio di leva è obbligatorio per uomini e donne e per un lungo periodo). Quando Nira si accorge del “potere” di Yoav cerca di indagare nel mondo interiore del bambino; dai versi che compone Yoav traspaiono sentimenti d’amore e immagini mortifere, che spingono ira, preoccupata che l’eccessiva sensibilità del bambino possa fargli male in futuro, ad aiutarlo. A modo suo.

Regia: Nadav Lapid Nazionalità: Israele Anno: 2014 Durata: 120' Genere: Drammatico Il film scorre pacato e rassicurante fino alla parte finale, quando un susseguirsi di eventi inaspettati iniziano a far crescere la tensione: forse sbaglia chi si butta a fondo nelle cose e nelle persone, come fa Mira; forse sbaglia il Poeta a credere che la Poesia salverà il mondo, perché indagatrice e introspettiva. E non a caso nel film viene citato Federico Garcia Lorca, fucilato nel luglio del 1936 dalle truppe franchiste al Potere. Perché il Potere, si sa, non vuole teste pensanti; preferisce che le persone si sballino al frastuono della discoteca, come nella scena in cui Mira viene trascinata sulla pista da due ragazzi che poco prima avevano criticato una Poesia del piccolo Yoav. La forza di questo film è nella bravura del regista e dei due attori principali e nella potenza di una storia che forse vuole essere un atto d’amore nei confronti della Poesia, non soltanto in quanto genere narrativo portatore di storie e universali del sentimento, ma come espressione massima della libertà di pensiero. Anna Quaranta



ADIEU AU LANGAGE PREMIO GIURIA ex-aequo con il film Mommy

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annes ha dato a me e ad altri cinéphile la gioia più grande: avere la possibilità di guardare nella contemporaneità di nascita (almeno per quelli della mia generazione, che hanno visto sempre in scissione temporale, ossia anni anni dopo i suoi film), la pellicola di uno dei pochi maestri del linguaggio cinematografico ancora viventi: Jean Luc Godard, che porta in concorso un’opera non competitiva, troppo alta è la scissione tra il suo sguardo-pensiero-azione (di altezze inaccessibili) e il cinema degli altri… Adieu au langage è il canto di una presa d’atto: intellettuale, esistenziale, politica, sociale, umana ed artistica. Godard canzona l’evoluzione, tecnologica in primis, nella sua provocazione più riuscita, usando il 3D (vuoto orpello barocco del cinema del niente di oggi, che adorna il niente di luci intermittenti ad occhi ‘ciechi al vero sguardo’) come scopritore di nuove prospettive, esattamente nel senso della pittura di Monet, di cui imprime la frase rivelatrice: paint not what we see, for we see nothing, but paint that we don’t see. Quello che non vediamo, la vera essenza di senso di un passaggio di dimensioni. Bassorilievi esistenziali contemporanei, materiali ed umani (rivoluzionariamente attraversati dal nostro occhio anche in uno scavalcamento di campo, in una nuova dissolvenza incrociata), ci mettono davanti, enfatizzandola e rivelandola in maniera lampante, l’anima delle cose, l’anima dello stesso uomo, contrapposte dentro il parallelo scambio tra natura e metafora. Attraverso una destruttura visiva, sonora, intellettuale, spirituale, che è essa stessa struttura da sempre empatica a tasti percettivi che escludono il rapporto causa-effetto, andando a toccare direttamente l’ignoto, l’indefinibile, come fa la grazia, Godard spietatamente mette a nudo la lenta agonia dell’uomo, incapace ormai di vivere esperienze interiori, cancellate dalla società e in particolare dallo spettacolo. Le due coppie che si incrociano, inadatte a rinnovarsi nel linguaggio e nell’amore, apparentemente saldano i rimandi letterali, politici, filosofici, che ripercorrono i tentativi di ‘rinascita’, i tempi di ‘speranza’ nei quali l’uomo aveva ancora l’illusione di progredire nel suo percorso cieco, dentro il quale la morte sbarra la via all’oltre. Tra Lotta Continua e l’illusione della rivoluzione, Hitler e il terrorismo mediatico totalitario della democrazia moderna, il cinema degli albori e la ricerca-creazione della rappresentazione, la necessità della filosofia, nel suo scandagliare i confini del conoscere, e l’intermittente “È possibile riprodurre un concetto d’Africa?” richiamo forse ad una eventuale nascita di un nuovo uomo a partire da un continente ancora da plasmare, ancora galleggiante nel caos, ancora legato alla guerra, Adieu

Regia: Jean Luc Godard Nazionalità: Svizzera Anno: 2014 Durata: 70' Genere: Drammatico au langage non concede molte vie di fuga: il sesso e la morte, le nostre due uniche certezze a cui aggrapparci (e l’amore?). Il cane che attraversa la natura ed arriva alla metafora, privo di nudità perché già nudo, il cui sguardo smarrito, incerto, solitario, non umano, è l’unico sguardo possibile, adesso, è la traccia che Jean Luc lascia al cinema che verrà… Maria Cera



e n i z a g a m _ s r e v i r d i x a t / m o c . u u s http://is


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