Django vive, viva Django

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DOSSIER

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TAXI DRIVERS MAGAZINE DOSSIER n. 3

DJANGO VIVE, VIVA DJANGO

Vincenzo Patanè Garsia VICE DIRETTRICE Giorgiana Sabatini CAPOREDATTRICE MAGAZINE Lucilla Colonna UFFICIO STAMPA Valentina Calabrese CONCEPT DESIGNER Gianna Caratelli CONTRIBUTI di: Giovanni Berardi, Lucilla Colonna, Francesco del Grosso, Eugenio Ercolani, Paolo Gilli, Luca Lombardini, Alessandro Montosi, Emanuele Rauco e Riccardo Rosati EXECUTIVE EDITOR: Giulia Eleonora Zeno WEB MASTER Daniele Imperiali DIRETTORE

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TAXI DRIVERS è dedicata a Delian Hristev (R.I.P.)

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DOSSIER n° 3

C'è ancora vita per Django! Lo grida l'attesa impaziente che circonda l'uscita del film di Quentin Tarantino, lo grida il brano epico scritto da Luis Bacalov per la colonna sonora originale e poi tradotto in varie lingue, lo gridiamo noi di Taxi Drivers Magazine che, con questo terzo dossier, celebriamo l'antieroe dagli occhi azzurri del cinema rivoluzionario di Sergio Corbucci. Dall'anno di grazia 1966, l'uomo che non si arrende e attraversa senza cavallo le distese fangose di un mondo alla deriva, trascinando con sé una bara e una vendetta da compiere, non è mai stato dimenticato. E come i poemi cantati di città in città, che mescolano vicende per creare trame sempre nuove di una stessa storia, così le avventure di questo ribelle del western gotico all'italiana riecheggiano in decine e decine di produzioni audiovisive di Europa, Asia e America. Sette i colpi sparati nella leggendaria scena finale di Django e sette i capitoli del nostro dossier, che non ha l'ardire di essere esaustivo sull'argomento, ma cerca di tracciare nel tempo e nello spazio i sentieri percorsi dal cavaliere oscuro più amato del West.

Lucilla Colonna


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DJANGO, l'origine di Paolo Gilli

C‘era una volta... un uomo, vestito di nero, che si trascina a fatica nel fango. In spalla porta una sella, ma non ha un cavallo. In compenso, si tira dietro una bara. Ripreso di spalle, mentre scorrono i titoli di testa rosso sangue, lo straniero si allontana verso l’orizzonte. L’inizio di Django è una delle introduzioni di un personaggio più iconiche nella storia del cinema. Certo, nella scena seguente fa fuori in pochi secondi una manciata di balordi, ma sono quei primi tre minuti, sulle note di Bacalov (e la voce struggente di Rocky Roberts che le accompagna) che rimangono indelebilmente impressi nella memoria. Corbucci, al suo quarto Western, aveva affinato la sua visione e sapeva bene quello che faceva. L’impatto sul pubblico dell’epoca, investito da caterve di cadaveri e violenza sadistica, è ampiamente documentato, ma rivedere Django oggi rimane un’esperienza particolare. Quell’esperienza della visione, durante la quale si capisce a pelle, che si assiste a un film in grado di cambiare le regole del gioco. La pellicola di Corbucci, non meno della trilogia di Leone, è il prototipo che ha dato le coordinate a un intero filone (nonché rivoluzionato un genere all’epoca arrancante), copiato e imitato dozzine di 3


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volte da generazioni di registi italiani e stranieri. Diciamo pure che la pellicola rivela più di qualche elemento in comune, almeno per quanto riguarda la trama, con il capostipite di Leone. Uno straniero misterioso arriva in una piccola città di frontiera, in cui la fanno da padrone due bande rivali. Il nostro ha un piano ed è pronto a tutto pur di raggiungere il suo obiettivo. E poi c’è la donna che porta in salvo. Detto questo, Django non potrebbe essere più diverso da Per un pugno di dollari. In fondo, l’uomo senza nome rimane, anche se cinico all’inverosimile, un eroe. Django, di eroico, non ha più nulla. Lì̀, dove Leone ci mostra il sole, Corbucci non solo cerca l’ombra, ma si butta nel buio più nero. La sabbia lascia lo spazio al fango, una melma che sembra coprire tutto. Una città fantasma, squallida e degradata, abitata soltanto da un vecchio barista e il suo gruppo di patetiche puttane, fa da palco allo scontro grottesco, tra banditi messicani e razzisti incappucciati di rosso. Qui non ci sono innocenti.

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Quelli sono già tutti morti da un pezzo o fuggiti di città. Corbucci porta all’estremo non solo la violenza iperrealista - caratteristica integrante del genere - ma allo stesso tempo aumenta anche la crudeltà e l’atmosfera surreale, toccando quasi livelli da film gotico. Si può affermare che entra in gioco un certo gusto del macabro e senso dello humour, tipicamente italiano. A nessun altro poteva venire in mente l’idea della mitragliatrice (l’arma prediletta del regista) nascosta nella bara, la scena dell’orecchio mozzato (non tanto il taglio, quanto il fatto che al malcapitato viene fatto inghiottire, e poi gli sparano pure) o il memorabile finale in cui Franco Nero, con le mani maciullate, ci regala una brevissima e sofferta catarsi, culmine di un film cupo e disperato. Con Django, Corbucci trova definitivamente la sua cifra personale stilistica e, in parte, tematica, dai bandidos messicani già in aria rivoluzionaria, all’handicap fisico del protagonista. Senza esagerazioni, uno dei film più influenti degli anni Sessanta.


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Nori Corbucci: il ricordo del grande Sergio di Giovanni Berardi La moglie Nori lo ha detto chiaro, chissà come sarà contento, ora, Sergio Corbucci, morto a Roma il 2 dicembre 1990, della tanta comprensione intorno alla sua filmografia, lui che in vita non è stato mai abbastanza capito, abbastanza considerato e mai abbastanza festeggiato. Anzi, come tutti i registi cinematografici di quel contesto, che noi sottolineamo magnifico e godibilissimo, definito commerciale (confessiamo di non sapere bene ancora cosa significa), la sua opera è sempre stata denigrata ed etichettata. Nori, oggi affermata scrittrice, si è sempre spesa affinchè il patrimonio artistico di Sergio Corbucci trovasse la giusta dimensione nel mondo culturale, nel mondo della storia del cinema. Il lavoro di Nori, sibillino ma concreto, deciso, puntuale, in fondo è stato deputato ed essenziale a questo fine. Noi pensiamo che il riconoscimento, anche internazionale, che Sergio sta ottenendo, sia frutto sicuramente anche del lavoro di Nori, della sua continua testimonianza. Sergio Corbucci è stato un regista dalle molte facce, dalla grande inventiva, dal sorridente cinismo, ha attraversato quarant’anni di cinema italiano con l’unica ambizione di fare dei buoni prodotti per divertire o appassionare la gente, mai ha preteso di essere un autore, bensì un artigiano esperto di tutti gli effetti del cinema. Non era un mistero che tra gli estimatori della carriera di Sergio Corbucci c’era Federico Fellini. Infatti Nori, da grande appassionata, ci rivela come Antonello

Trombadori, autorevole critico d’arte e grande appassionato di cinema, nonché noto esponente politico degli anni settanta, incontrati in Via Margutta Fellini e Corbucci, non esitò a presentarsi davanti al primo, accompagnandosi con una riverenza esibita, una sorta di inchino che Fellini subito gli rimandò: << guarda che devi inchinarti piuttosto a Corbucci, perché è di Totò che si parlerà sempre, e quindi anche di Corbucci. Di me non so…>>. Ma non era proprio così vera questa affermazione, non per Fellini, che veramente apprezzava e stimava Corbucci ed il cinema che piaceva al popolo, ma per il contesto culturale dell’epoca. Tanto per cominciare i film di Corbucci, come quelli di tanti altri registi di genere, non venivano quasi mai visti davvero dai critici, nei loro giornali ne trattavano solo superficialmente – chissà su quali falsi e generici criteri poggiavano le loro recensioni – ma questa era una visione comune, una cultura ormai egemone per il periodo. Eppure, Corbucci ha firmato film di statura internazionali e con il suo cinema western è stato un po’ il contraltare di Sergio Leone. Corbucci più dedito alla esasperazione, alla crudeltà come strumento narrativo, al fango, al sudore, alla puzza, mentre Leone era piuttosto sole, sabbia, prateria sterminata. E c’è da dire che proprio con il cinema western Corbucci raggiunge le vette più alte della sua narrativa, Minnesota Clay (1965), Django (1966), Johnny Oro (1966), I crudeli (1967), 5


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Navajo Joe (1967), Il mercenario (1968), Il grande silenzio (1968), Gli specialisti (1969), Vamos a matar companeros (1970), La banda J. e S, cronaca criminale del Far West (1972), Che c’entriamo noi con la rivoluzione (1973), Il bianco, il giallo, il nero (1975). E infatti, Nori ci racconta che proprio il western era, tra tutti i generi affrontati da Sergio, quello che lo rappresentava meglio, quello dove si sentiva veramente ispirato. << Per Sergio quella del western era la strada buona >> dice Nori << e poi si divertiva come un pazzo a far muovere i cavalli, gli indiani, le pistole. E proprio con il genere western Sergio poteva meglio esprimere la sua passione per la rivoluzione messicana e l’amore per il suo eroe, Emiliano Zapata >>. Noi diciamo che, grazie ai western realizzati da Corbucci nei primi anni Sessanta, al loro grosso successo anche internazionale, altri autori trovarono il mercato liberato e pronto a ricevere altri film western di chiaro impianto ideologico e politico, pensiamo a film come Faccia a faccia (1967), La resa dei conti (1967), Corri uomo corri (1968) di Sergio Sollima, Requiescant (1967) di Carlo Lizzani, Tepepa (1969) di Giulio Petroni, Se sei vivo spara (1967) di Giulio Questi, Quien Sabe? (1967) di Damiano Damiani, Il prezzo del potere (1969) di Tonino Valerii. Nori sconfessa inoltre il fatto, da più parti ribadito in questi anni, ed abbastanza comune a tanti altri artigiani dello schermo, che anche Sergio sia stato, in qualche modo, costretto ad affrontare tutti i generi sorti in Italia. << Assolutamente no >> dice Nori << Sergio amava talmente questo mestiere che la sua vita era davvero sul set. Non poteva resistere senza. Stava male quando i produttori tardavano a chiamarlo. E per questo, a volte, sceglieva anche 6

opere non proprio dignitose, un po’ sbrigative ed arraffazzonate, perché non sempre i film partivano da lui, non sempre era lo sceneggiatore di ciò che girava. Questa voglia di stare continuamente sul set lo ha portato ad avere, nella sua filmografia, tanta quantità, talvolta a discapito della qualità. Ed io, per questo, mi arrabbiavo molto con lui. Perché certi film non sono assolutamente all’altezza della sua intelligenza e della sua cultura >>. Nori ci ha spiegato che Sergio fin da bambino provava grande interesse e divertimento ad allestire per gioco il teatro dei burattini, qualunque spazio era un proscenio, e lì si lasciava andare, giorno dopo giorno, a raccontare e inscenare vere e proprie storie da film, vere e proprie piccole commedie. E, infatti, noi pensiamo che non solo con i western, ma anche con la commedia ed il comico puro, Corbucci abbia dato il meglio di sé, prova concreta ne erano i tanti film diretti con Totò protagonista. Spiega Nori: << Il principe (Totò amava farsi chiamare principe), era davvero esigente con i registi che dovevano dirigerlo. Doveva, in primo luogo, essere convinto della loro cultura ironica, della loro visione spiritosa…>>.E, con il principe, Corbucci ha girato ben sei film: Chi si ferma è perduto (1960), I due marescialli (1961), Totò, Peppino e la dolce vita (1961), Lo smemorato di Collegno (1962), Gli onorevoli (1963), Il monaco di Monza (1963). Nel frattempo Corbucci ha navigato proprio con solerzia nella grammatica del cinema di genere, ha avuto meriti indiscussi nella crescita attoriale di personaggi della canzone quali Adriano Celentano, ad esempio, con cui girerà sei film, Il monaco di Monza (1963), Er Più, storia d’amore e di coltello (1971), Di che segno sei (1975), Bluff, storia di truffe e di imbroglioni


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(1976), Ecco noi per esempio (1977), Sing Sing (1983); Franco Franchi e Ciccio Ingrassia, con Il giorno più corto (1962), I figli del leopardo (1965); Terence Hill e Bud Spencer, con Pari e dispari (1978), Chi trova un amico trova un tesoro (1981), e nella commedia gialla più movimentata, con La mazzetta (1978), Giallo napoletano (1979), I giorni del commissario Ambrosio (1988), come in quella più autorevolmente classica, con Non ti conosco più amore (1980), Mi faccio la barca (1980), Il conte Tacchia (1982), Night club (1989), ha toccato corde di indiscusso valore tecnico artistico. La poetica del regista, il senso dello spettacolo di Sergio Corbucci ha poi rag-

giunto vertici altissimi in film quali, Il bestione, ad esempio, una storia tragicomica di perfetta aderenza sociale al periodo storico in cui è stata realizzata. Ne Il bestione, secondo noi, si consacra proprio la crescita e la maturità di un attore importante per il cinema italiano quale è Giancarlo Giannini. Proprio in questo film, più che in altri, Giannini è l’attore mattatore ed istrionico, impennato e deluso, ma sempre misurato, dentro i limiti del buffo e del tragico, segno che il regista ha avuto la mano per contenere la marcata esibizione d’attore. Il bestione è uno di quei film che segna nettamente il valore antropologico di cui solamente il miglior cinema di genere è, secondo noi, portatore.

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I figli illegittimi di Django di Emanuele Rauco Sembra che non possa esistere cinefilia senza Tarantino, ma tutto, inevitabilmente, passa da lì. Se il nome di Django (la 'd' è muta) è tornato alla ribalta lo si deve al genio americano che ha rinnovato il cinema, o almeno il suo lato goliardico, col suo ultimo film, Django Unchained, in uscita a gennaio. Di Django non ce n'è uno solo: c'è Franco Nero, nella versione di Corbucci e, a 20 anni di distanza, nella versione di Rosati. Ma soprattutto ci sono un sacco di omonimi che più o meno apocrifamente ne hanno proseguito le gesta. Operazioni puramente speculative, certo, come sempre nei B-Movies italiani di quegli anni ma anche, nel migliore dei casi, reinvenzioni di mitologie mai scritte del tutto, che si creavano in fieri anche e soprattutto con gli errori. Il primo a ricalcare e “storpiare” Django è Alberto De Martino con Django spara per primo ('67): qui Django è l'erede di una fortuna che un banchiere non vuole dargli e che deve prendersi a suo modo. E subito la prole non può essere riconosciuta:

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oltre ad avere un nome e un cognome (Glenn Garvin), il Django di Glenn Saxon è semplicemente un furbacchione con tanto di aiutanti non propriamente scaltri, cinico, ma mai intriso di quella passione tragica che ha reso immortale Franco Nero. Senza contare che il film non vale la metà di quello di Corbucci. Meglio va a Sergio Garrone con Django Il bastardo ('69): qui il protagonista è un ex militare sudista che si vendica di quei commilitoni che lo tradirono lasciando il suo plotone in mano nemica. Il massacro assume contorni soprannaturali, perché Django (Anthony Steffen) sembra un fantasma che appare e scompare e il western si tinge di horror. Esperimento curioso che pare abbia ispirato, oltre al fumetto Djustine, anche i western memorabili di Clint Eastwood Lo straniero senza nome e Il cavaliere pallido. Nel '70, Pasquale Squitieri, sotto lo pseudonimo di William Redford, dirige Django sfida Sartana mettendo a confronto, nominale, due icone dello spaghetti western:


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prima uno contro l'altro, ché Django crede che Sartana gli abbia ucciso il fratello incolpandolo di furto, poi insieme quando – scoperto che Sartana è innocente – si alleano per cercare il colpevole. Alimentare, con Squitieri anche in un cameo come killer e George Ardisson non memorabile, in un film che non dice nulla di nuovo sul “mito”, ma lo declina in modo onesto. Il film ha una sorta di seguito l'anno dopo con Arrivano Django e Sartana...è la fine di Diego Spataro e Demofilo Fidani (non accreditato per motivi contrattuali): certo è che Hunt Powers e Chet Davis non sono degni dei personaggi che interpretano, e le stesse vicende produttive del film denotano la cialtroneria che regna nella pellicola. Eppure Fidani sa come divertire il pubblico in cerca di “emozioni” camp: sparatorie interminabili e improbabili, proiettili che fanno compiere alle vittime sfavillanti piroette, e un cattivo, il bandito Burt di Gordon Mitchell che gioca a poker allo specchio. A suo modo, notevole. Se si eliminano i 30 titoli tedeschi che inseriscono Django nel titolo, senza che ci sia un Django nel film, l'altro film “classico” con un Django protagonista è Preparati la bara ('68) di Ferdinando Baldi, il primo e unico senza il protagonista nel titolo, con

Terence Hill che un paio di anni prima di impersonare Trinità ('68) interpreta un boia che salva dalla forca un gruppo di banditi da capeggiare per vendicarsi dell'assassinio della moglie da parte del politico. Oltre al protagonista “nobile”, Preparati la bara è quello che va più vicino a essere un seguito, o meglio una sorta di remake, di Django: il personaggio ha pochi legami, ma ne ha il film tra l'abbigliamento del protagonista, la mitragliatrice nascosta in una bara, la sparatoria finale nel cimitero. Tuttavia la vis macabra e mortuaria di Nero e Corbucci resta ineguagliata. Tanto che quasi 40 anni dopo, Takashi Miike per omaggiare lo spaghetti western cambia la pietanza in sukiyaki (stufato di carne in verdura con zuppa) e mette insieme il nome del celebre personaggio: Sukiyaki Western Django (2007) con Nero e Corbucci non c'entra nulla – se non che nel finale si comunica che uno dei personaggi diventerà Django – ma l'omaggio di Miike è talmente variopinto ed eccessivo da poter generare, al tempo stesso, passione o respingimento. Samurai e pistoleri si rincorrono senza tregua né logica per 2 ore. E poi appare Tarantino come Piringo, il narratore. E ogni storia del cinema, riparte da capo.

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L’unico sequel ufficiale: DJANGO 2

di Eugenio Ercolani

Arrivati alla fine degli anni ottanta il devastante stato del cinema italiano, che già da anni si trovava in una fase di inesorabile declino, stava mostrando tutte le sue profonde crepe. Il cinema di genere, colonna vertebrale di quell’industria che stava assumendo i primi inquietanti connotati “para-statali” che all’inizio del decennio successivo avrebbero dato il definitivo colpo di grazia, stava sparando le ultime cartucce. Arrivati al 1987, molti registi (di Leo, Petroni, Baldi, Tarantini) si trovarono estromessi o lo sarebbero stati da lì a breve, da un cinematografia allo sbando, altri si buttarono nella televisione o nella pubblicità, gabbia che tuttora li racchiude. Fulci, ormai assicurata la sua immortalità con la cosiddetta “trilogia del terrore” e annientato dalla malattia, era divenuto l’ombra di sè stesso cercando disperatamente di riproporre quel micidiale connubio di macabra poesia che l’aveva reso grande. Lenzi pur rimanendo prolifico, non riusciva a centrare un film. Sergio Corbucci si trovava a trastullarsi con commedie corali lontane dalle sue corde. Massaccesi stava per vedere colare a picco la sua Filmirage, evento che lo porterà definitivamente a soccombere negli squallori del porno. Quindi mentre le ragazze cin-cin e le proto-veline di Drive-In insieme ai volti paciosi della televisione generalista ballavano al ritmo dei Righeira sul corpo rantolante e moribondo di una realtà in disfacimento, il cinema reagiva senza reale cognizione di causa, strategia o selettività 10

puntando tutto sul mercato estero. A dettare le regole del gioco erano gli americani, cosa di sicuro non nuova, ma se un tempo l’Italia aveva la forza, l’inventiva e le sovrastrutture per mutare le mode statunitensi in qualcosa di completamente diverso e al contempo assolutamente italiano, qui si tratta di un cinema “pappagallo”, che semplicemente fa il verso, perdendo in partenza. Gli americani fanno Rambo allora Mattei si va ad infrattare nelle Filippine, Fragasso al guinzaglio. Loro fanno 1997 Fuga da New York, noi, 2019 Dopo la caduta di New York et simili. Loro, Karate Kid, noi, Il ragazzo dal kimono d’oro e cosi via. Il western, nella fattispecie, arrivati a questo punto era un genere morto, stra-morto e sepolto. Quelle poche pellicole che si erano fatte negli anni ottanta, non li avevano visti neanche i famigliari di chi li aveva realizzati e il catastrofico flop di quella che doveva essere la rinascita del genere, Tex e il signore degli abissi (1985) di Duccio Tessari aveva definitivamente messo la parola fine sulla lapide del west italico. Non a caso, arrivati a Django 2-il grande ritorno, che nasceva come concept proprio insieme al film di Tessari, il produttore Spartaco Pizzi insieme al regista Nello Rosati, che subentrò dopo il rifiuto di Corbucci che ne firma il soggetto, scelgono un’impostazione che ha poco a che vedere con il genere a cui appartiene il capolavoro del '66. Il nostro eroe (Franco Nero) si è ritirato da quindici anni in un


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convento in Sudamerica. Un giorno gli giunge notizia che la sua unica figlia, Marisol, è stata rapita dal famigerato Orlowsky (Christopher Connelly nella sua ultima apparizione) un principe ungherese, dedito alla prostituzione e allo schiavismo, noto come El Diablo. Django si mette alla ricerca della figlia con l’aiuto del Professor Gunn (l’immenso Donald Pleasence) e un manipolo di Indio. Rosati, che si firma con lo pseudonimo Ted Archer, regista attivo soprattutto nella commedia più casereccia, dirige

l’azione, che va detto c’è in abbondanza, senza verve, nè personalità. Seppur in un contesto storico diciamo pure westerneggiante, sul piano iconografico c’è un lavoro di rimozione del genere. Si pensi all’aspetto di Franco Nero, codino e cinte di proiettili incrociate sul petto, al contesto naturale (il film è girato interamente in Colombia) che guarda molto più ai Rambo e analoghi made in USA che al mercenario nerovestito divenuto icona ultra violenta di un cinema che non tornerà più. Di fatti il primo e l’unico sequel di Django è questo, il contenitore di vetro d’un eco lontano.

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"SIA Il film di Corbucci che quello di Tarantino sono politici" Intervista a Franco Nero di Lucilla Colonna Mentre ne ascolto la voce forte e sicura, penso alla potenza che avrebbe avuto il suo Django se Franco Nero non fosse stato doppiato dal pur ottimo Nando Gazzolo. Ma in quegli anni il doppiaggio era la regola e del resto, quando il film di Sergio Corbucci arrivò alla post-produzione, lui era già altrove: nel 1966, oltre a Django, l'affascinante attore dagli occhi azzurri figura nel cast di ben sei pellicole, dal kolossal La Bibbia di John Houston al fantascientifico I diafanoidi vengono da Marte di Antonio Margheriti. Premiato col David di Donatello per Il giorno della civetta, lavora con molti registi, fra cui Rainer Werner Fassbinder, Luis Bunuel, Claude Chabrol, Elio Petri, Carlo Lizzani, Franco Zeffirelli, Marco Bellocchio. Il set di Camelot gli regala l'incontro con la donna della sua vita, Vanessa Redgrave. Lui è Sir Lancillotto, lei è Ginevra... Sebbene dopo la nascita del figlio Carlo si separano, sapendo come continua la loro storia mi viene in mente la versione discografica del brano Django, in cui Berto Fia canta “...hai amato solo lei...”. I due attori infatti si rincontrano per il film Diceria dell'untore (prodotto da Franco Nero nel 1990) e per Mirka, ma il set che li riunirà definitivamente è quello di Letters to Juliet, che li vede di nuovo nei panni di due innamorati. Un amore non solo cinematografico, visto che nel 2006 si sono sposati. Ricercato per suggestivi camei, come 12

nei due thriller Il rito di Mikael Hafstrom e Canepazzo di David Petrucci, Franco Nero ha ultimamente impersonato Sant'Agostino per la televisione italiana e ha sempre rifiutato di girare spot pubblicitari. Aspettando di vederlo in Django unchained, nel ruolo di Amerigo Vassepi, ecco cosa mi ha detto. Il personaggio creato tanti anni fa da lei e Corbucci ha ispirato prima manga e cartoni animati giapponesi, infine Sukiyaki western Django di Takashi Miike. Lei è andato in Giappone quando è uscito il film o in generale a toccare con mano questo successo? << No >>.

E sarà in America il 25 dicembre per l'uscita del film di Quentin Tarantino? << No, ho da fare in Europa. Tra l'altro, il

21 dicembre negli Stati Uniti fanno uscire anche Django, e a distanza così ravvicinata temo che sarà un suicidio >>. Per il film di Tarantino? << Django unchained è un kolossal, io

temo per come possa essere accolto il nostro piccolo film... >>. Però sarà molto difficile eguagliare l'atmosfera del cult del ‘66 << Io penso che Tarantino abbia fatto un


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un western di produzione anglo-canadese, in cui Tarantino dovrebbe fare un cameo come io l'ho fatto per lui. L'altro, a Toronto, mi coinvolge in veste di regista e di protagonista, e mostra come la televisione si approfitti delle disgrazie delle persone per fare audience: scritto da Eugenio Qual'è il messaggio di Django? Masciari e intitolato Facing reality, è la sto<< Sia il film di Corbucci che quello di Taria di un cieco che viene preso in ostaggio rantino sono politici e insegnano a ribeldalla televisione >>. larsi alla sottomissione. Quando uscì Django, la gente si immedesimava in quest'eroe o, meglio, antieroe. E l'uomo co- Ora che lei è anche produttore e regimune, l'operaio sottomesso ai padroni, sta, ha mai pensato di riprendere in sognava di arrivare sul posto di lavoro con mano la storia di Django? la pistola: da oggi la musica cambia! >> . << Ci hanno già provato in tanti. Comunbuon film, politico, molto forte, spietato, che spiega cos'era la schiavitù prima che Lincoln la abolisse. In Django i poveri erano i peones, mentre in Django unchained sono gli schiavi mandingo >>.

que, adesso alcuni giovani americani vorrebbero realizzare con me una versione << Sto lavorando su due film. Il primo è più moderna, con il titolo Django lives >>. Che progetti ha in cantiere?

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DJANGO ARRIVA IN GIAPPONE Dai manga all’animazione di Alessandro Montosi Per capire come mai, Django e altri western italiani siano diventati molto popolari in Giappone, è importante ricordare che il film La sfida del samurai di Akira Kurosawa, venne preso come modello di riferimento da Sergio Leone per la creazione di Per un pugno di dollari, la pellicola che lanciò in tutto il mondo gli “spaghetti-western”, popolari anche in Giappone col nomignolo di “macaroni-western”. È molto probabile che sia stata la matrice orientale alla base del western di Leone a favorire la diffusione e la popolarità di questo filone nel paese del Sol Levante. Oltre ai film di Leone, anche il Django di Corbucci ottiene un enorme gradimento in Giappone, suscitando anche l’interesse di fumettisti che lo citano nelle loro opere. Tra di essi, vi è Go Nagai, autore celebre in Italia per aver ideato le serie tv di robot giganti come i Mazinga, Jeeg e soprattutto Goldrake, il quale possiede elementi western ben evidenti, come la fattoria “Betulla Bianca” in cui vivono i protagonisti. Un primo omaggio nagaiano ai western italiani, proviene dal suo manga umoristico Harenchi Gakuen (lett. “Scuola senza pudore”, inedito in Italia), realizzato tra il ’68 e il ’72). In quest’opera ambientata in una scuola, è presente l’insegnante “Macaroni”, figura con cui Nagai omaggia ironicamente i western italiani. Macaroni è presente anche nel primo adattamento cinematografico, con attori, di questo manga. Prodotto nel ’70, Harenchi Gakuen – Il Film (inedito), mostra l’entrata in scena del prof. Macaroni (vestito con cappello e poncho) su di un cavallo a cui è le14


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gata una bara, dentro cui sono celati i pezzi di un’attrezzatura ginnica. Oltre ad ulteriori ed espliciti riferimenti alla mitologia western (come il fumetto Burai The Kid ’77-’78, inedito), Nagai si rifà agli spaghetti-western anche per lo sviluppo di molti dei personaggi che popolano i suoi manga rivolti ad un pubblico adulto, dove i protagonisti sono spesso figure ambigue, perennemente in bilico tra bene e male, che vivono in mondi molto cruenti e drammatici che li costringono a ricorrere all’uso della violenza per sopravvivere (basti pensare alla Tokyo post-terremoto del fumetto Violence Jack), proprio come accade a molti protagonisti degli spaghetti western. Una concezione manichea che separa nettamente il bene dal male è dunque assente dalle opere nagaiane, proprio come accade nella recente serie tv animata Shin Mazinger Z (aka Mazinger Edition Z: The Impact!, 2009), dove tra i protagonisti principali troviamo una misteriosa donna chiamata Tsubasa Nishikiori, a capo di alcune ambigue figure come un uomo chiamato Django – dall’aspetto di un pistolero –, le quali si riveleranno di grande importanza nell’aiutare il protagonista nella sua lotta contro il Dr. Hell. Oltre a Nagai, un altro autore influenzato dal western è Leiji Matsumoto, creatore di Capitan Harlock, personaggio le cui avventure presentano sempre risvolti western. Basti pensare che nella prima serie tv dedicata a quel fantascientifico antieroe (prodotta nel ’78-’79), il lungo flashback dell’ep. 30 che ne riguarda il passato, è ambientato in uno scenario western, dove Harlock e il suo amico Tochiro Oyama sono due fuorilegge. Entrambi questi personaggi erano apparsi anche in un precedente manga di Matsumoto, chiamato Gun Frontier (’72-’75), da cui è stata tratta anche una serie animata nel 2002.

In questo fumetto si raccontano le avventure di Tochiro e Westerner Franklin Harlock Jr., due anti-eroi che sono rispettivamente abili con l’uso della katana e della pistola, riunendo così in un’unica opera le originali figure interpretate da Mifune ed Eastwood all’origine degli spaghetti western. In Gun Frontier, Tochiro e Harlock sono due fuorilegge che vagano per il west alla ricerca dei loro connazionali nipponici sopravvissuti al massacro di una cittadina chiamata Yellow Creek. Nel loro viaggio, i due protagonisti si scontrano spesso con personaggi che nascondono la loro perfidia dietro un aspetto positivo e rispettabile, e anche con un personaggio che, similmente a La sfida del samurai e Per un pugno di dollari, cerca di far scontrare mortalmente fra loro gli appartenenti a tre città. Proseguendo con questa rapida panoramica, ricordiamo i riferimenti al cinema di Leone e a Django presenti nella serie tv fantascientifica Gordian (’79-’81), dove troviamo l’ambiguo pistolero Cross-Cross, responsabile della morte del padre del protagonista, ma pronto anche ad accorrere in suo aiuto, nascondendo una potente arma da fuoco all’interno di una bara (ep. 41). Per concludere, segnaliamo la serie animata Sam il ragazzo del west (’73-’74), basata su un manga di Sohji Yamakawa e Noburo Kawasaki, nella quale il protagonista, dopo essersi ribellato alla banda criminale che l’ha allevato e spinto ad uccidere, va alla ricerca del proprio padre, cercando di riscattarsi e vivendo avventure in cui vi sono numerosi riferimenti al western italiano, come la presenza di un personaggio (ep. 14) che, come Django, nasconde una mitragliatrice in una bara. 15


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Takashi Miike, tra tributo e parodia: SUKIYAKI WESTERN DJANGO di Riccardo Rosati A centinaia di anni dalla battaglia di Danno-ura (1185), i clan dei Genji e degli Heike – che la storiografia giapponese chiama anche rispettivamente Minamoto e Taira – si fronteggiano in una povera città di montagna, in cui aleggia la leggenda di un tesoro sepolto. Yoshitsune comanda i suoi Genji vestiti di bianco, mentre Kiyomori capeggia gli Heike dagli abiti rossi. Un bandito solitario, quanto misterioso, e dotato di un incredibile talento con la pistola giunge in città, scatenando una serie di scontri senza esclusione di colpi. Sukiyaki Western Django è un film del 2007, diretto da Takashi Miike ed è un omaggio, decisamente originale, da parte del controverso regista nipponico al western all'italiana o “spaghetti western”, che dir si voglia, un genere di film che Miike ha dichiarato di aver amato quando era bambino.

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Un film a tratti delirante, quasi il marchio di fabbrica dell'autore, che presenta vari riferimenti al Django (1966) diretto da Sergio Corbucci, ponendosi così a metà strada tra il tributo e la parodia. Miike omaggia anche il cinema di Quentin Tarantino e non lo fa soltanto includendo il regista americano nel cast, ma anche grazie alla sequenza che mostra la storia di Bloody Benten, realizzata come se fosse un trailer, dunque un fake trailer, come quelli che troviamo nella versione statunitense di Grindhouse (2007) dello stesso Tarantino e Robert Rodríguez. Sukiyaki Western Django presenta una scenografia che alterna fondali palesemente disegnati, a degli esterni con dei bellissimi paesaggi. I rapidi cambi di colore nella fotografia, spesso dalla tonalità pastello, dimostrano una certa matura-


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zione del regista nello scegliere la migliore inquadratura, ma anche nel riuscire a comunicare chiaramente al direttore della fotografia quale tipo di luce ricercare. In questa pellicola troviamo un Miike un pochino meno sanguinario del solito, col tentativo di esorcizzare almeno in parte la violenza attraverso il grottesco, diminuendone in tal modo l'effetto turbativo per lo spettatore. Questo suo omaggio allo spaghetti western è un suggestivo intruglio di elementi tratti sia dal Giappone medievale, che dal West; tuttavia non quello americano, bensì proprio quello dal sapore un po' proletario e messicano, tipico degli autori italiani e che ha ridato anni fa linfa vitale a un genere praticamente defunto. Quello del regista nipponico è sì un elogio, però anche una benevola presa in giro del cosiddetto genere “cappa e spada” tout court, visto che egli ridicolizza non solo il western, ma anche i “chanbara”: i film di samurai, specialmente erranti e senza padrone (Rōnin) Concludendo, trattasi di un esperimento,

più che altro visivo, in buona parte riuscito, a eccezione dell'ultima mezzora, dove si nota un deciso calo di ritmo e una certa ripetitività della narrazione. In questa pellicola, si conferma in Miike un desiderio almeno parziale per un recupero di un senso estetico tipicamente nipponico e che avevamo già potuto individuare nel bellissimo 13 assassini (2010). Egli dimostra di essere un uomo intelligente oltre che un valente cineasta, poiché ha probabilmente capito che nell’età adulta protestare e basta è sinonimo di mancanza di grano salis. Ragion per cui, se riconosciamo ai suoi film sulla Kuroshakai (la società oscura e spesso criminale del Giappone), una grande importanza per aver avuto il coraggio di mettere a nudo parte delle magagne del Giappone contemporaneo, siamo felici di trovare ora un autore più maturo, sempre sperimentale e a tratti folle, ma almeno alla ricerca di una identità che non può e non deve essere esclusivamente vincolata al mondo del cinema.

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DJANGO SBARCA IN AMERICA RANGO, il cartoon rivoluzionario di Gore Verbinski, con la voce di Johnny Depp di Francesco Del Grosso Nel 2011, il regista dei vari capitoli dei Pirati dei Caraibi e dell’horror The Ring (2002) porta sul grande schermo una divertentissima e gradevole pellicola da gustare in famiglia, che fa il verso allo storico filone dello spaghetti western. Del resto, ci pensa già il titolo a suggerire alla platea di turno l’omaggio all’indimenticabile Django di Sergio Corbucci del 1966, qui riletto in chiave parodistica dal primo film d’animazione griffato Industrial Light & Magic, che di fatto prova a infilarsi con prepotenza nel duopolio a stelle e strisce che vede fronteggiarsi da anni Pixar e DreamWorks. Il risultato è un sorprendente mix di umorismo travolgente, azione, avventura e un pizzico di dramma, che dà vita a momenti di godibilissimo intrattenimento per tutte le età. Due su tutti la spettacolare e pirotecnica fuga nel canyon e il duetto fra il pro-

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tagonista e “lo spirito del grande west”. Il merito è soprattutto dello script di John Logan (un curriculum di tutto rispetto con titoli come Il gladiatore, The Aviator e Sweeney Todd), frullato incontenibile di gag originali e citazioni più o meno dichiarate al film di Corbucci, al western classico e a quello firmato da Sergio Leone. Il plot ci porta al seguito di Rango, un camaleonte in piena crisi d’identità. Un giorno, mentre vaga per il deserto, arriva in una città del West proprio nel momento in cui dei banditi la mettono a ferro e fuoco. Toccherà a lui risolvere la situazione diventando per gli abitanti della cittadina un improbabile eroe. Temi, stilemi e atmosfere del dna western sono ovviamente nel menù, anche se catturati e rielaborati per poi essere fagocitati in una veste spassosa e politicamente scorretta. Ad animare avventure e


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disavventure del protagonista, una galleria di personaggi ben assortita calcata sui modelli caratteristici di un genere nel quale è impossibile fare a meno di amicizie virili, pistoleri, sceriffi, politici corrotti, prostitute, cattivi dalle facce lerce e dagli sguardi mefistofelici. Il regista americano sfrutta al massimo, tanto le potenzialità narrative della sceneggiatura quanto quelle visive messe a disposizione dalla Società di Lucas, per partorire un gioiellino di animazione computerizzata. Peccato che nella versione italiana dobbiamo fare a meno delle voci originali (niente contro l’ottimo doppiaggio nostrano) prestate per l’occasione da Isla Fisher, Bill Nighy, Abigail Breslin, Ian Abercrombie, Hemky Madera, Timothy Olyphant, Ned Beatty, Alfred Molina, Gil Birmingham, Ray Winstone, ma soprattutto da Johnny Depp, che in carriera si è

già messo a disposizione dei personaggi di Victor Van Dort in La sposa cadavere (2005) della coppia Mike Johnson-Tim Burton e a quello di SpongeBob nell’episodio SpongeBob Vs. The Big One. Un dispiacere che aumenta ancora di più visto che Rango è costruito letteralmente, oltre che su figure simboliche del genere (quelle interpretate da Clint Eastwood e Franco Nero), anche sulla recitazione, sui tic attoriali, sui gesti di Depp e persino su altri vecchi personaggi da lui interpretati in passato: dallo Jack Sparrow della saga dei pirati al timburtoniano Edward mani di forbice dell’omonimo film del 1990, passando per l’Hunter S. Thompson di Paura e delirio a Las Vegas (1998) di Terry Gilliam (vedi la camicia hawaiiana indossata in più di un’occasione da Rango).

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Blax-Western, schiavi e spaghetti: DJANGO UNCHAINED di Luca Lombardini Il mosaico pop e manierista riconducibile a Quentin Tarantino si arricchisce di un altro tassello, ancora una volta d'ispirazione tutta italiana. Dopo Inglourious Basterds (2009), che muoveva d'ispirazione stravolgendo The Inglorious Bastards (1978) di Enzo G. Castellari, ecco Django Unchained (2012), chiaramente ispirato a Django (1966) di Sergio Corbucci: pellicola che, assieme alla “trilogia del dollaro” di Sergio Leone, Il Grande Silenzio (1968) e Keoma (1978), costituisce tutt'oggi quanto di meglio la produzione tricolore abbia esportato in tema western. Un genere quest'ultimo che, nella filmografia di Tarantino, succede immediatamente al bellico, finendo per inserirsi in quel solco di omaggi filmici inaugurato in tempi non sospetti da Takashi Miike con Sukiyaki Western Django (2007). Come avvenuto per la sua precedente fatica, Tarantino si appropria della sovrastruttura di una pellicola scoperta in gioventù, al fine di svuotarla dall'interno, per personalizzarla, farla propria, trasformandola così in qualcos'altro di totalmente differente dall'originale. Caleidoscopico ed eccessivo, Django Unchained affronta il suggerito tema dello schiavismo né più né meno come Inglourious Basterds maneggiava la Seconda Guerra Mondiale, quindi con fare sfrontato, dissacrante e divertito, immerso in un clima narrativo dove tirannica impera la sospensione dell'incredulità. Passano gli anni ma Tarantino continua a rimanere fedele al suo credo di cinema popolare, volutamente bambinesco, spesso fumettistico e caricaturale, da amare o da odiare a seconda delle personalità che lo osservano, ciò nonostante intransigente a un percorso comunque d'autore rintraccia20

bile soprattutto nei dettagli. Ecco che il vecchio e mai dimenticato amore per la blaxploitation torna, dopo Jackie Brown (1997), a fare nuovamente capolino, non fosse per quel Jamie Foxx nel ruolo di protagonista: un Django di colore che non può non richiamare Posse (1993) di Mario Van Peebles, figlio di Melvin, ovvero il padre del cinema blax. Eppure l'ultimo Tarantino rappresenta qualcosa di più rispetto a un semplice omaggio, all'interno del quale si trova spazio e posto per un cameo di Franco Nero; probabilmente il prosieguo di un nuovo percorso filmografico iniziato proprio con Inglourious Basterds, che in Django Unchained si rispecchia e per trovate di trama e per conferma di interpreti principali (Christoph Waltz). Il sospetto di essere dinanzi al secondo step di una trilogia è forte, che poi venga completata a breve, oppure congelata come accaduto con Kill Bill (2003), è un altro discorso.



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