Arte e politica nel cinema di Steve McQueen

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ARTE E POLITICA nEL CInEMA dI STEVE MCQUEEn


dOSSIER

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In copertina: Chiwetel Ejiofor in 12 anni schiavo


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Taxi Drivers Magazine non ha aspettato i tre Oscar vinti da 12 anni schiavo per appassionarsi alla cinematografia di Steve McQueen. Questo dossier che vi avevamo proposto più di un anno fa, ora riveduto e ampliato, approfondisce il linguaggio e le tematiche di un artista che come lo statunitense Julian Schnabel, l'iraniana Shirin Neshat e l'italiano Mimmo Paladino, ha scelto di esprimersi anche attraverso la Settima Arte. Nato in Inghilterra da una famiglia di immigrati, Steve McQueen studia arte a Londra e a New York, facendosi notare non ancora trentenne con una serie di cortometraggi girati in Super 8 e in 16 mm, muti e in bianco e nero, nei quali recita anche lui stesso: Bear, Five easy pieces, Stage, Deadpan, Prey, Just above my head, Catch, Exodus. La Tate Gallery nel 1998 gli conferisce il prestigioso Turner Prize per Drumroll, sua prima esperienza con il sonoro, in cui McQueen trascina un barile d'olio fra i passanti delle strade di Manhattan, dicendo “sorry!” La sua opera prima Hunger vince la Caméra d'Or al 61° Festival di Cannes, facendo decollare la carriera di McQueen e ascrivendolo tra i registi del cinema di contestazione.

Lucilla Colonna


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12 AnnI SChIAVO, 9 nomination e 3 oscar

Valentina Calabrese

“Essendo vissuto da uomo libero per oltre trent’anni, durante i quali ho goduto del bene prezioso della libertà in uno stato libero, ed essendo poi stato rapito e venduto come schiavo per dodici anni di schiavitù, qualcuno ha ritenuto che la storia della mia vita e delle mie tribolazioni non sarebbe stata del tutto priva di interesse per il pubblico”. Solomon Northup.

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era una volta un uomo libero che, per un crudele destino dominato dall’ignoranza, è costretto a vivere sulla sua pelle la sofferenza infinita della schiavitù. Questa è la storia vera di Solomon Northup, diretta da Steve McQueen, di nuovo alle prese con un tema a lui caro, la prigionia, con la differenza che in Hunger e in Shame la schiavitù era, in un certo senso, una scelta dei protagonisti. Solomon era invece un violinista newyorchese nero (Chiwetel Ejiofor) che viveva con la sua famiglia in una sontuosa casa

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a Saratoga quando, nella seconda metà del 1800, venne rapito e venduto come schiavo da un cinico mercante di schiavi (Paul Giamatti), per poi essere affidato al proprietario di una piantagione in Louisiana, Edwin Epps (Michael Fassbender). 12 anni schiavo, questa è la condanna di Solomon, obbligato a nascondere la sua identità e la sua intelligenza, a comportarsi da schiavo umile e remissivo, senza possibilità di scelta. Un film diverso da quelli cui ci ha abituato McQueen, più


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ordinario, nonostante conservi la sua personalissima gestione delle inquadrature e del ritmo del montaggio. Alla lentezza degli anni che scorrono, si interpongono alcune inquadrature che raccolgono tutto il significato del film. Prima la rassegnazione e l’incredibile dolore, poi l’indifferenza e infine la speranza che questo terribile viaggio arrivi al suo termine e che riconduca Solomon a casa.

lavoro, e, nonostante sia salvato, non viene però liberato dal cappio che lo stringe, dovrà aspettare che sia il padrone della piantagione a farlo.

Allora Solomon rimane per ore appeso per il collo, le punte dei piedi toccano il terreno come una ballerina il palcoscenico, e non è la sofferenza, né l’agonia a suscitare compassione. Attorno a lui gli altri schiavi portano avanti la loro giornata, Ciò che manca al film è la compartecipa- e distolgono lo sguardo. zione emotiva. Sia ben chiaro, lo spettatore non può fare a meno di soffrire e Allo stesso modo gli spettatori di 12 anni distogliere lo sguardo quando il padrone schiavo guardano il film, e riconoscono bianco frusta e ripetutamente umilia la sua un dolore già visto, che reca sì disturbo e servitù nera, ma è come se non ne aves- compassione, ma accese le luci, tutto simo bisogno. Tale assenza di necessità torna esattamente come prima. è motivata dal fatto che ogni giorno i Detto questo Steve McQueen ha media contemporanei ci bombardano con comunque realizzato un film dalla imimmagini di dolore da renderci quasi mensa portata. L’impianto visivo è assuefatti. grandioso, la musica e tutto ciò che circonda i protagonisti lo rende ancora più Una scena è decisiva in questo senso: lo valido, le interpretazioni degli attori, in schiavo Solomon sta per essere impic- primis quelle di Chiwetel Ejiofor e cato dal carpentiere del primo campo di Michael Fassbender sono memorabili.

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hUngER un esordio politico Mariangela Imbrenda

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orreva l'anno 2011, durante la Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica di Venezia, quando si è avuto modo di apprezzare Shame il secondo lungometraggio di Steve McQueen le cui critiche, per altro positive, si affidavano ad un confronto con il precedente Hunger (visto, evidentemente fuori dal confine patrio).

Hunger merita un'analisi a sé stante, senza paragoni o deviazioni di altro genere. Nell'esordire, il regista propone un angolo di inferno più sadiano che dantesco, alla maniera di Pier Paolo Pasolini in Salò o le 120 giornate di Sodoma, dove albergano i Gironi del Sangue e della Merda, “materie” che miste ad urina e cibo avariato sono espletate ed impiegate dai carcerati, paradossalmente, per vivere: gli “impasti” servono, in genere, per sigillare messaggi cartacei da consegnare durante i colloqui in parlatorio, al mondo di là dalle sbarre.

In genere, infatti, si riduceva quest'ultimo alla trama di un uomo privato della libertà, in quanto detenuto in prigione, al fine di presentare l'altro lavoro come esatto contrario, ovvero, la storia di un individuo che nel mondo occidentale, per antonomasia La macchina da presa soprattutto attraconsumistico, possiede ogni bene, ma si verso i dettagli (sulle pareti si scorgono ritrova preda e perpetua vittima di se quasi opere d'arte come i cerchi concenstesso, del proprio corpo e del sesso. trici perfetti, simili a quelli della vita di un

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albero o dei campi di orzo, “dipinti”, senza dubbio, con le feci), insiste e mette a fuoco, mediante una sua palese anticipazione, il vero fulcro della vicenda: l'individuazione di una forma di protesta che faccia capitolare il governo inglese, fino a quel momento, sordo di fronte ad ogni richiesta dei prigionieri.

All'inizio, non a caso, si assiste alla scena in cui l'agente penitenziario Raymond Lohan pone in acqua le sue mani per lavarne via il sangue e rinfrescare le ferite alle nocche. La sua reiterazione indurrebbe, erroneamente, a ritenere l' autore del gesto come protagonista della pellicola.

«Nella mia testa c'è l'immagine di un bambino che rifiuta di mangiare. La madre gli dice che non può alzarsi da tavola finché non mangia. In quel momento, per quel bambino, in un mondo governato dai suoi genitori, rifiutarsi di mangiare è l'unico modo che ha per opporsi».

Il meccanismo si ripete, in montaggio parallelo, quando all'ingresso nel carcere di Long Kesh (Irlanda del Nord), soprannominato The Maze, la macchina da presa si ferma sul volto di un nuovo detenuto di nome Davey Gillen. La successiva svestizione di quest'ultimo davanti alle guardie La seguente dichiarazione di Steve Mc in uniforme segna la differenza tra la caQueen, che sembra rievocare il concetto tegoria degli uomini liberi e quella dei siviscontiano di immagine come punto di mili nudi, privati della loro dignità. partenza (vd. Ossessione), ingloba interaAll'epoca dei fatti del film, il 1981, i detemente la trama del film presentandone la nuti repubblicani stanno effettuando la cellula-madre: sottraendo, o meglio deprotesta delle coperte (Blanket Protest) e strutturando i due eventi iniziali, posti in la protesta dello sporco (No -Wash o Dirty forma di prologo parallelo, si giunge al vero cuore pulsante incentrato sulla lenta Protest). Dalla mostrazione dei due punti di vista agonia del personaggio principale: Bobby completamente opposti deriva che tertium Sands.

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datur ossia la serrata indagine sul rapporto dentro/fuori autorizza a concentrarsi, fino alla fine, soltanto sulla figura di Bobby Sands, un “soldato” dell' IRA, interpretato dal magnifico Michael Fassbender.

oltre alle mani).

I prigionieri non possono fare altro che “prepararsi” al macello, tentando di difendersi, ma durante quei momenti di pura follia, l'automatismo sembra generare Di Bobby Sands, Steve Mc Queen de- un'interminabile, e quella sì, criminale cide di inquadrare la cruda verità della tra- coazione a ripetere. gedia di un uomo che muore di inedia: Struggente la ripresa dal basso, come come ultima ancora di salvezza, nella un cristo mantegnano messo al contrario, ferma speranza che qualcosa possa cam- del corpo agonizzante di Bobby Sands biare, insieme ad altri compagni, avvierà dopo esser stato torturato senza posa: relo sciopero della fame. cuperando inoltre un tratto tipico del La decisione di rifiutare il cibo, presa in trucco e del costume da clown (alias la un eccesso d' ira collettiva, dopo la con- sua uniforme), un primo piano dall'alto del segna ai detenuti degli abiti civili definiti volto straziato ed immobile evidenzia un “indumenti da pagliacci”, rappresenta l'im- rivolo di sangue all'angolo destro del labmediata risoluzione di un'intuizione. Si bro. tratta di una forma di lotta non-violenta, Ora sì che Bobby somiglia ad un pagliacmetodica ed ordinata esattamente con- cio per via di quella bocca rossa e deforforme, per organizzazione, ai metodi rie- mata nelle dimensioni! ducativi del carcere, in cui, con sinistra In una splendida inquadratura, tagliata al puntualità, si verificano azioni punitive da centro da una parete bianca, la massa ( il parte degli agenti distribuiti in vari ambienti meccanismo) ed il singolo (il barlume di dell'edificio e dotati di ogni tipo di arma coscienza) si scontrano: a sinistra i policonsentita per colpire (ça va sans dire, ziotti in assetto antisommossa continuano

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a picchiare ogni prigioniero estratto a forza dalla cella; a destra, terminato forse il suo compito o incapace di continuare, un giovane agente piange disperato chiedendosi, senza parole, come e perché sia possibile la violazione completa di ogni diritto umano. Tuttavia quelle amare lacrime potrebbero essere indotte dalla pietà, sentimento che, come ribadisce una voce femminile fuori campo, va controllato e represso: i detenuti esperti dei meandri dell'animo umano non esiterebbero, si avverte, a ricorrere a forme clamorose, plateali, di martirio per sensibilizzare l'opinione pubblica.

solti, in carcere, si mutano in sostegno al governo giacché l'atto dell'alimentarsi consente la resistenza del corpo a nuovi e violenti soprusi . La prima reale spiegazione di ogni misura detentiva deriva dalla semplice “esistenza” del corpo in quanto imprigionabile. Sosteneva questo concetto anche Michel Foucault nel celebre saggio del 1975 Surveiller et punir: Naissance de la prison .

bisogni primari dell'essere umano, se as-

Viene in mente quanto Primo Levi affer-

L'ultima parte di Hunger è interamente incentrata sui giorni che l'“eroe” Bobby trascorre nel reparto ospedaliero del carcere, essendo terribilmente peggiorate le sue Bobby Sands ricomincia dal corpo e condizioni di salute. dalla valutazione, in termini quantitativi, del controllo che di esso ancora mantiene: Il ventre cavo, gli occhi spenti, le piaghe dimagrire non equivale ad una forma di da decubito, i fiotti di sangue dalla bocca, suicidio, bensì ad un'affermazione del pro- le lenzuola delicate in cui avvolgere un corpo inerte e sempre più magro, per leprio potere decisionale. nire il dolore da contatto: i particolari esibiti Tutto è stato pianificato nei minimi dettacon dovizia appartengono al piano narragli: chi perirà sul campo di battaglia per la libertà, verrà rimpiazzato da altri “soldati”: tivo, non a quello voyeuristico tout court e mangiare e bere ossia soddisfare due dei l'insistenza si fa cifra stilistica.

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mava a proposito dei suoi romanzi, ovvero di non aver assunto come modelli di riferimento Petrarca o Goethe, ma «il rapportino di fine settimana, quello che si fa in fabbrica o in laboratorio, e che deve essere chiaro e coinciso e concedere poco a quello che si chiama il “bello scrivere”».

danzosa sicurezza di chi indossa una divisa e parla a nome di Dio. Il dubbio serpeggia e sconvolge un soldato della fede, mentre la chiarezza di chi decide di morire per vivere e sa, privo di alternative, di operare in quella circostanza nel migliore dei modi possibili senza passi indietro, increNella stessa ottica rientra il lunghissimo menta uno stato di tranquillità. dialogo (un piano sequenza di 22') tra Liberatorio giunge il flashback finale e Bobby ed il prete a cui egli comunica l'ini- quindi ancora un'immagine: Bobby, in zio dello sciopero della fame. punto di morte, ricorda se stesso da raL'azione concreta si contrapporrà alle gazzo quando durante un raduno di corsa vuote parole di una predica colma di reto- campestre affogò un puledro ferito, rica sui concetti di peccato e di disamore agendo, privo di ripensamenti, mentre tutti blateravano sul da farsi. per la vita. «I have my belief» ribadisce Bobby: i loro Per nitore, pulizia e franchezza formale, due primi piani (si comincia con quello del la pellicola regala agli occhi la speranza protagonista), lungi dal giudicare, “spie- di strade esistenti e percorribili in direzione gano” il rovesciamento logico della bal- di un ottimo cinema.

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Un MEdIOMETRAggIO ChIAMATO

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Virginia Negro

Pensai a un labirinto di labirinti, a un labirinto sinuoso e crescente che abbracciasse il passato e l’avvenire, e che implicasse in qualche modo anche gli astri. Assorto in queste immagini illusorie, dimenticai il mio destino d’uomo inseguito. Mi sentii, per un tempo indeterminato, percettore astratto del mondo. La campagna vaga e vivente, la luna, i resti del tramonto operarono in me; così anche il declivio, che eliminava ogni possibilità di fatica. La sera era intima, infinita. Il sentiero scendeva e si biforcava, tra i campi già confusi. Una musica acuta e come sillabica s’avvicinava e s’allontanava nel va e vieni del vento, appannata di foglie e di distanza. Pensai che un uomo può essere nemico di altri uomini, di altri momenti di altri uomini, ma non d’un paese: non di lucciole, di parole, di giardini, di corsi d’acqua, di tramonti. Jorge Luis Borges, Il giardino dei sentieri che si biforcano.

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cielo blu crepuscolare, e un giovane uomo fuma nell’ombra. Il film emana un’aura magica pullulante di possibilità che non derivano da uno schema narrativo né dall’autorevolezza tipica del documentario Piove sulla terra pietrosa di Fare mondi, di informazione. così s’intitola la manifestazione curata da Daniel Birnbaum, mentre contorni sfuo- Giardini nega la chiarezza del rapporto cati di cani si muovono nervosamente, tra rappresentazione e significato, tra come se cercassero cibo in mezzo a muc- forma e contenuto, non escludendo la rechi di rifiuti su un altrimenti grandioso ferenza, ma permettendo ai potenziali siviale. Scure silhouette di ordinate file d’al- gnificati delle immagini di riflettersi in beri che creano motivi astratti contro un sentieri di magico realismo. iardini è un mediometraggio di trenta minuti. Presentato alla Biennale 2009 per il padiglione inglese. Ambientato dentro il luogo principe della Venezia contemporanea.

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La sospensione delle immagini del film in un campo di molteplici possibilità ne evidenzia la forza: liberare la vita dall’appartenenza a qualsiasi codice chiaramente narrativo, o regime restrittivo, e lo fa nel luogo che rappresenta la quintessenza dell’ordine nazionale: i giardini della Biennale. Come indica il titolo, il film è ambientato nella sede della famosa esposizione d’arte, dove svettano i padiglioni nazionali. Monumenti mostrati sotto una luce inaspettata, quando le luci delle Biennali si spengono, a volte nelle notti, in quel tempo tra, all’ombra dello spettacolo. I famosi giardini si trasformano in un dove perturbante ed entropico, dove la vita assume forme di sopravvivenza creativa che trascendono le fanfare della grande esibizione. In questo senso il film è solo convenzionalmente attribuibile ai giardini veneziani e viaggia verso un altrove pervasivo e innominabile. Contemporaneamente gli sketch del film disegnano alcune trame, evitando una non significante astrazione. Le sfuocate ombre dei cani gradualmente prendono forma di figure leggibili che vagano tra palazzi vuoti e marciapiedi, come in un prossimo futuro post apocalittico. Le-

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vrieri tra la spazzatura, animali che sono sopravvissuti grazie al valore della loro razza, ora abbandonati ad espedienti. Cani che dovrebbero essere morti, come i cani da corsa che smettono di gareggiare nel film Running Thunder, opera precedente sullo sterminio della vita animale quando è ritenuta inutile allo sport. Guardando questi avvoltoi quadrupedi non è difficile pensare alla Biennale come altrettanto superata, un mostro che si nutre della sua stessa obsoleta tradizione per sopravvivere. In uno tra gli altri protoracconti, un anonimo giovane uomo nero aspetta qualcuno nei giardini. È notte, è solo, fuma. Ambiguo, losco, imprevisto, incongruo. Diverso dall’ intelligente turista, ma ancora senza un’identità definibile. Un apolide all’ombra della grandezza nazionale, della manifestazione imperiale. Un intruso, un rifugiato che temporaneamente abita la corte maestosa del nazionalismo, minandone il potere e la legittimità. Subito dopo questi fotogrammi, un’altra sequenza forza una riconsiderazione: due figure in una buia via di mezzo, durante la notte, protagoniste di un intimo abbraccio. Due innamorati o una coppia anonima e mercenaria.


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gIARdInI COME LUOgO “POLITICO” Giardini continua l’impegno politico del cinema di McQueen in due modi: primo, rendendo visibili le figure degli esclusi: l’apolide, l’outsider sessuale e razziale, sul set dello spettacolo nazionale; e secondo, dirigendo un film che resiste allo schema convenzionale della rappresentazione, producendo un’esperienza di creatività percettiva che nega la certitudine dell’identità e la chiarezza dei segni sui quali riposa l’ordine egemone. Il format split screen di Giardini sconfessa la descrizione definitiva, la singolare espressione: la sua duplice immagine annuncia contingenza, molteplicità, potenzialità. Il nostro sguardo è conseguentemente trainato verso l’out of frame: non solo questo fatto è indicato dalla dualità dello schermo, ogni immagine è necessariamente incompleta, ma anche dagli estremi close up e da immagini fuori fuoco. L’attenzione al fuori campo, il ritratto dei giardini di Venezia in inverno come un posto abitato da outsiders e intrusi, congiungendo immigrazione e illecito, si oppongono alla centralità che appartiene al luogo durante le luci della ribalta. Rimaniamo nell’ombra, focalizzati verso il regno di ciò che non appartiene, ciò che non partecipa. Denis Cosgrove scrive che L’insider è l’abitante di un luogo, per cui quel che vede corrisponde all’ambito in cui egli vive, e che perciò non ha bisogno di puntare nessun indice, se non per segnalare all’occorrenza qualcosa che già conosce. L’outsider invece viene da fuori, e come il topografo, cerca di ridurre a quel che già conosce ciò che vede per la prima volta. Per l’insider il paesaggio non esiste, e lo viviamo quotidianamente nella nostra alienazione estetica per andare a scuola o al lavoro. Come nella logica dell’insider non esiste il nome delle cose, così non esisterebbe nemmeno il problema della conoscenza delle cose. Quindi nella realtà ordinata dei giardini i personaggi del film sono outsiders, invece essi si trasformano negli abitanti del luogo creato dal film diven-

tando così insider. Non si può dire che Giardini significhi un disimpegno dalle questioni politiche che contraddistinguono gli ultimi film dell’artista e, come McQueen osserva in un’intervista, quest’ultimo lavoro è politico tanto quanto i suoi altri lavori sul postcolonialismo. Tanto quanto Hunger. Il film però evita la strumentalizzazione politica dell’arte, che spesso perde di complessità estetica in favore dell’attivismo e della mobilitazione.Evitando queste trappole McQueen definisce un’apparentemente impossibile posizione: portare l’esistenza e l’ingiustizia alla luce, e rivelare il sistema di oppressione come contingente e dunque contestabile attraverso un’estetizzazione dell’immagine. Un radicale impressionismo sorge, a volte, esemplificato dal prolungato rimuginare della camera sui raggianti petali di fiore e dai close up sullo splendore colorato degli scarafaggi. L’estetizzazione non è per amore della bellezza; piuttosto implica la bellezza implicita nella rivelazione politica della contingenza dell’ordine. La politica, secondo il politologo Chantal Mouffe, richiede la presenza di due concetti: egemonia e antagonismo. Egemonia, nel mantenimento delle regole cosicché l’ordine appaia naturale, cercando di neutralizzare l’antagonismo che rivela la realtà come contingente e aperta al cambiamento. Nel contesto di Giardini è l’ordine naturale che è ritratto come fiction, come quando i confusi movimenti dei levrieri si intromettono come fantasmi tra i vivi. La bellezza qui è il potere dell’immagine che focalizza il desiderio e attrae l’attenzione verso la vita fuori dal dominio dell’ordine e, così facendo, inventa la sua possibile esistenza in un contesto dove l’arte ha storicamente cantato la gloria dello stato nazionale. In Giardini, la bellezza nasce dall’immaginazione della vita oltre e fuori gli ordini convenzionali dell’arte e della politica. Virginia Negro 15


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Queste storie sono accennate, esemplificando il tocco leggero del film che evoca molteplici potenziali racconti senza autorizzarli con informazioni contestuali, come per Borges: Tornai ad accorgermi di quel pullulare che ho detto. Mi parve che l’umido giardino che circondava la casa fosse saturo all’infinito di persone invisibili. Nessuna voice over, nessun sottotitolo. Il film presenta un mosaico di colori, immagini e movimenti, dando priorità alla percezione piuttosto che al linguaggio. La percezione precede il linguaggio, la referenza e la significazione, esiste oltre la comprensione. Il tempo del film ci localizza in una temporalità che sospende l’ordine di sviluppo narrativo standard, fotogrammi diurni e notturni si alternano imprevedibilmente, rompendo la naturalezza cronologica.

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Il film non offre allegorie narrative né una chiara morale, non è nemmeno un documentario “verità” sui giardini, sulla loro realtà sociale, ambientale, ecologica al di là dell’attività della Biennale. Giardini costruisce un mondo immaginario con grande cura, sebbene le sue storie non siano necessariamente impossibili resoconti di quanto può succedere. Questa fiction che esiste nel regno del possibile, rimanda ad un’altra finzione: l’esibizione che porta i giardini alla vita ogni anno e ne illumina il terreno profumato di cerimoniali, dove le nazioni hanno proclamato il loro splendore attraverso l'architettura e l’arte. Per McQueen la geografia è il potenziale creativo dove differenti forme di vita diventano possibili oltre i regimi convenzionali che ne strutturano l’esistenza. Giardini non solo disarticola le aspettative su un


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paesaggio caricato di significati storici e culturali, ma si apre a nuove forme di percezione cinematografica che occorrono in vari modi definendo la singolarità del film. Lo spazio espositivo della Biennale giardini è uno spazio mappato, ridotto a percorsi, numerato. Lo spazio di Giardini è invece uno spazio labirintico, è il collasso dell’ordine e della mappa. Franco Farinelli scrive nel suo Geografia: L’origine del labirinto è ciò che risulta dal collasso della torre di Babele, dello Zigurat babilonese, del palazzo minoico cretese, della piramide egizia: insomma dal crollo, dallo schiacciamento al suolo di ogni struttura verticale i cui vari livelli corrispondono a un sistema gerarchico di potere. In altre parole, è il prodotto della trasformazione del mondo in terra. Così, i diversi piani, cioè i livelli di potere si mutano in altret-

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tante dimensioni orizzontali ricorsivamente disposte l’una dentro l’altra, ed è proprio tale ricorsività a impedire che si possa parlare di spazio. Sarà Teseo a convertire in spazio il labirinto, misurandolo col filo di Arianna e perciò trovandone il centro. Il labirinto ispira terrore a una cultura come quella occidentale, per cui la conoscenza passa di necessità attraverso la rappresentazione. Non si può rappresentare il labirinto, si può soltanto pensarlo: rappresentarlo in qualsiasi forma significa trasformarlo nel suo esatto contrario, in qualcosa dotato di un centro. Nel caso del labirinto il pensiero e la rappresentazione risultano inconciliabili. Del che poco importerebbe se non fosse che anche la superficie del globo è un labirinto, nel senso che, a seconda di come si giri la sfera, tutti i suoi punti possono essere il centro.

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L'ATTORE fETICCIO:

MIChAEL fASSbEndER Lucilla Colonna

corpo e il sangue (ma anche le lacrime, le pulsioni e le escrezioni) dei film carnali di Steve McQueen appartengono, nella finzione scenica, ad uno degli interpreti più ricercati del momento che, dopo essere stato prigioniero fra le sbarre di Hunger e tristemente intrappolato nei lacci mentali di Shame, ha visto spalancarsi davanti a sé, nella realtà, le porte del cinema mondiale. Il nome di battesimo del suo lontano parente indipendentista deve avergli portato fortuna, se è vero che la madre irlandese è pronipote di quel Michael Collins a cui Neil Jordan nel 1996 dedicò il lungometraggio omonimo, insignito del Leone d'Oro a Venezia. All'epoca, il festival lagunare premiò l'attore protagonista, Liam Neeson, con lo stesso riconoscimento che un anno fa ha coronato anche il lavoro del nostro: la Coppa Volpi. A giudicare dai progetti cinematografici che lo vedono coinvolto in questa stagione, possiamo ben dire che Michael Fassbender, nato trentacinque anni fa sotto il segno dell'Ariete, ha sfondato. Infatti, dopo averlo diretto nel fantascientifico Prometheus (2012), il regista Ridley Scott gli ha affidato il ruolo dell'avvocato nel thriller sulla malavita di frontiera The counselor (2014); Mattew Vaughn gli farà vestire per la seconda volta i panni di Erik Lehnsherr, alias Magneto, in X-men: Days of future past (2013); infine, la prima donna che lo dirigerà, Lynne Ramsay, l'ha voluto per il suo western Jane got a gun (uscita ancora da definire). Dotato di sense of humor non meno che di fascino, l'interprete tedesco-irlandese dice di es-

sersi spogliato fin dall'inizio della sua carriera, riferendosi al divertente spot di una compagnia aerea scandinava, che lo scritturò nel 1998 come mamma l'ha fatto. Anche se la sua vera abilità sta nel mettere a nudo la mente e l'anima dei personaggi estremi che interpreta, portandone alla luce le sfaccettature e i conflitti interiori, dobbiamo riconoscergli il merito di aver contribuito, con Shame, a legittimare nella Settima Arte il nudo maschile frontale-integrale, senza però dimenticare quei colleghi (Geoffrey Rush e Sacha Baron Cohen, per esempio) che prima o contemporaneamente a lui hanno fatto la propria parte. Anche su altri fronti, l'attore feticcio di McQueen non si è mai fisicamente risparmiato, arrivando a perdere diciotto chili, per interpretare in Hunger il volontario dell'IRA e membro del parlamento britannico Bobby Sands, che morì in carcere, con altri nove compagni, dopo 66 giorni di sciopero della fame. Nel 2013 vedremo Michael Fassbender nuovamente al lavoro con Steve McQueen, che gli ha affidato la parte di Edwin Epps in Twelve years a slave, girato insieme a Brad Pitt e a Paul Giamatti, nelle piantagioni di cotone della Louisiana e basato sulle memorie di Solomon Northrup, uomo nato libero che nel corso della sua vita fu rapito e schiavizzato. Intervistato a Londra da Silvia Mapelli, Fassbender ha dichiarato: «Steve è il regista con cui, per usare una frase fatta, avevo sempre sognato di lavorare, ma non osavo sperare. È un regista che sembra elevare il mestiere dell'attore ad altri livelli. Dopo due film girati insieme, siamo sulla stessa lunghezza d'onda e il nostro rapporto potrebbe essere definito telepatico. Steve è controverso, provocatorio, incredibilmente esigente. Come i suoi film».

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ShAME

Mariangela Imbrenda

Ci sono quelli che credono che l'inquadratura dell'eiaculazione, o, come la chiamano alcuni, il “money shot”, sia l'elemento più importante di un film e che tutto il resto (se necessario) dovrebbe essere sacrificato a sue spese. Naturalmente questo dipende dalla concezione del produttore, ma una cosa è sicura: se non ci sono le inquadrature dell'eiaculazione, non c'è film pornografico. Pianifica almeno dieci inquadrature separate dell'eiaculazione... dieci è abbastanza per consentire una certa libertà di scelta. Stephen Ziplow, The Filmmaker's Guide to Pornography, New York, Drake, 1977, p. 34 .

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pparirà improbabile, sinistro, se non addirittura fuori luogo, l'incipit di un'analisi intorno al secondo lungometraggio diretto dal videomaker Steve McQueen, intitolato Shame, confrontandolo con il lavoro sulla musica compiuto per il film di Matteo Botrugno e Daniele Coluccini Et in terra pax. Le due pellicole sono state rispettivamente presentate alla Mostra Internazionale D'Arte Cinematografica di Venezia nel 2011, la prima, e l'anno precedente, la seconda. In entrambi i casi, il perfetto, a dir poco, connubio di suoni, rumori ed immagini, per render protagoniste due metropoli come New York e Roma, particolarmente livide e desolate nello strazio delle ipercolte o, al contrario, insipienti periferie del quartiere Corviale, costituisce uno dei pochi elementi scevro dal subire, sia durante la presentazione alla manifestazione sopracitata che in occasione dell'uscita ufficiale sul grande

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schermo, la “vergogna” di recensioni piuttosto raffazzonate, incapaci di andare oltre la citazione delle note inserite nel pressbook e di fonti esterne rielaborate con ben poca inventiva. In genere, la critica crede infatti di saper leggere le immagini in movimento, mentre la conoscenza della musica, soprattutto di quella classica, stante l'esigua attenzione ricevuta nei casi in questione, si palesa come un terreno ancora inesplorato: beata ignoranza... che salvi dalla corruzione degli squallidi commenti da bar o dal giudizio sintetico e privo di ragionamento dell'invasivo “mi piace” di facebook! L'immenso Bach (due brani dalle Variazioni Goldberg, nonché Preludio e Fuga No. 10 in E minor, BMW 885, e Preludio e Fuga No. 16 in G minor, BMW 855, nelle esecuzioni di Glenn Gould) che campeggia in Shame (senza dimen-


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ticare, naturalmente le altre tracce della colonna sonora tra cui brani di fine anni '70 -inizio anni '80, leggende blues -Howlin' Wolf-You Can't Be Beat-, Blondie -Rapture- fino ad esempi di grande jazz- My Favourite Things di John Coltrane, Let's Get Lost di Chet Baker) trova il suo equipollente in Et in terra pax di Vivaldi dell'omonima pellicola: il senso grandioso, quasi epico, dalla straziante potenza delle saghe o dei cicli concernenti le gesta dei cavalieri fino alle imprese dei miserabili protagonisti nell' Ottocento dei romanzi, per citarne alcuni, di Stendhal, Hugo, Flaubert, Zola, Balzac, Dostoevskij ecc...viene riprodotto raccontando spaccati di umanità ferita al punto da non avvertire più i colpi inferti da ammalianti agenti della putrefazione mediante la musica trasformata in “testo”, ovvero non in semplice accompagnamento, fino a diventare importante tanto quanto quello filmico tout court. La dannazione contemporanea (destinata, per fortuna, ad un finale differente dalla redenzione) a Roma come a New York, del branco di giovinastri bruciati dalla droga o dell'uomo socialmente “arrivato”, però incapace di vivere, in serenità, la normalità derivante dal proprio appagamento economico, impone un rigore estremo, una cura maniacale della configurazione schermica degli spazi – spesso - all'interno delle inquadrature, affinché alcuna componente risulti banale, prevedibile, arenata al livello di uno stanco déjà vu: le molteplici difficoltà dell'operazione nascenti dall'urgenza di evitare le elevate possibilità di confronti, e quindi di somiglianze e/o sicure

coincidenze con altre pellicole, obbligano ad evitare il ricorso alla retorica, alla volgarità gratuita, a tecniche di ripresa e recitazione neorealista o da money shot. La musica, intesa come aura protettiva, lungi dal giudicare, si fa atmosfera, cielo stellato sopra le povere teste di un pigro genere umano, nella misura in cui la sua materia è morale e la verità torna a parlare con voce concreta, intellegibile, cristallina, ergendosi a novella cometa impossibilitata a spegnersi nei meandri della visione. In Shame, New York New York, la canzone forse più celebre cantata da Liza Minnelli, autentico manifesto delle luci ed ombre della città, interpretata stricto sensu tragicamente da Sissy (sorella minore del protagonista Brandon), induce quest'ultimo a commuoversi versando qualche lacrima, come accadrà più avanti, quando ogni certezza inerente alla sua capacità di gestire le sempre più debordanti perversioni, (Dottor Jekyll vs Mister Hyde, il pubblico vs il privato) si tradurrà in copioso pianto durante un'orgia, agognata come probabile sofferente liberazione, consumata senza piacere con altre due donne. A latere... un fil rouge, a ben guardare, degno di profetica congiuntura se si considerano le dichiarazioni dei tre registi in merito a tale loro tipo di scelte fondate sul recupero di Bach impiegato, in maniera del tutto originale, anche da Pier Paolo Pasolini in Accattone, non a caso, modello dichiarato dei cineasti italiani, per via del suo sguardo amoroso rivolto con pietoso occhio poetico di morte e vita sulle borgate romane dove

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si attende un'occasione per svorta' o in cui il cervello è da usarsi per costruire l'agognata felicità economica: «Pasolini dovrebbe essere fonte di ispirazione per chiunque si avvicini al cinema e all’arte in generale – ha detto Botrugno – questo non è un film su Corviale, le periferie sono tutte simili. Quello che volevamo raccontare è soprattutto la solitudine esistenziale. Ascoltavo la musica di Et in terra pax mentre scrivevo questa storia a cui non sapevo che titolo dare. Alla fine, con Coluccini abbiamo deciso di citare questo titolo come una sorta di provocazione. In Accattone di Pasolini c’è la Passione secondo Matteo di Bach. E così, anche noi abbiamo scelto la musica sacra che ha un ruolo fondamentale nel racconto. Abbiamo voluto mescolare i rumori della periferia con brani classici, per poi costruire tante scene sulle musiche e lavorare molto anche sul silenzio».

(nei panni del Dottor Carl Jung in A dangerous Method di Cronenberg, in anteprima mondiale e in concorso sempre alla 68a edizione della Mostra di Venezia, dello spartano Stelios nel kolossal 300 di Zack Snyder del 2007, e nel 2009 del tenente Archie Hicox in Bastardi senza gloria, diretto da Quentin Tarantino); oggi, assurto ad interprete tra i più apprezzati e ricercati al mondo, ha scalato la classifica degli uomini desiderati/bili nell'immaginario erotico dell'altra metà del cielo.

Fino ad un anno fa, Michael Fassbender non era un divo cinematografico, e il suo curriculum vitae di attore contava poche presenze importanti

perbo corpo nudo di Michael Fassbender, kalos kai agathos come un dio greco da venerare e contro cui inveire perché terribilmente sublime,

Il dato, conclamato dall'apparente irrilevanza ed impronta di notizia da rivista scandalistica, suggerisce invece un'indagine particolare alla luce di alcune importanti riflessioni nate anni ed anni fa anche in seno alla Feminist Film Theory: un occhio di “genere” proiettato sul corpo nudo di Brandon, ripreso dall'alto come precipitato sul lenzuolo increspato dal sesso, (de)posto quale Quanto al post Venezia 2011 è innegabile che inquadratura iniziale di Shame -un Cristo profano Shame, premiato con la Coppa Volpi, ricevuta da impresso sulla Sindone- potrà contribuire a chiaMichael Fassbender in qualità di miglior attore, rire la diatriba irrisolta innanzitutto intorno al vero sia, non a torto, considerato un vero capolavoro, “genere” del film. un film culto, un esempio egregio di come il ruolo Non soltanto Brandon si scopre un insospettadel Tempo, quando la morte è al lavoro, lungi bile moralista quando apprende della relazione dallo svanire, sappia consolidare pregresse fon- solamente carnale tra la fragile e complicata sodamenta erigendo nuovi edifici: riparlarne as- rella ed il suo capoufficio, ma anche il pubblico, surge a dovere per rimuovere il fango italico della composto da comuni spettatori (cinefili o meno) caterva di logorroici improvvisati “tecnici” e pro- e critici cinematografici, non ha saputo reagire in vare a trovare nuovi itinerari della descrizione “ri- maniera diversa rilevando in primis alcuni dettagli vedendo” il film. anatomici legati all'avvenenza e al sesso del su-

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attraente tanto quanto basta per gridare allo scandalo, in grado di ingenerare fastidio a mo' di pruderie borghese oppure estasi delirante da festa di addio al nubilato. Giocato ai dadi in un'arena di sostenitori o detrattori pronti a scontrarsi in singolar tenzoni intorno ai centimetri di pelle da inquadrare/ mostrare/esibire, Shame è stato “analizzato” da sessuologi, chirurghi estetici, psicologi, scrittori, opinionisti televisivi (anche questa pare sia una professione ambitissima!), ed altri professionisti in svariate discipline come un caso clinico, finendo, povera creatura di celluloide, per esser schiacciato dal folle peso dell'ignoranza argomentativa e dalla puerilità prospettica. Tale genere di pericolo incombe quando l'euforia della certa comprensione riduce alle mere evidenze un'opera dalla rifrazione prismatica, che fondata su una trama soltanto in apparenza flebile, ça va sans dire, doveva, sin da subito, acquisire sullo schermo una propria autorevolezza, in modo da avere sempre voce in capitolo ed è così che quel corpo nudo, che in strada correndo per sfogarsi si “copre”, (per vergogna ?) come un Ippolito Kalyptómenos ossia “velato”, ha potuto “parlare” ed “esibire” la sua alta tragedia nata dalla contaminazione dell'animo. Senza peccato e dalla purezza di un giglio, dei riti del dio Priapo, a cui quella carne sembra votata senza freno alcuno, Brandon sembra non esserne mai sazio. È in cerca di amore, affetto, avventure, vittorie,

soddisfazioni fugaci? Egli è costantemente alle prese con un agire fintamente vitalistico fondato sul sesso a pagamento, reale con prostitute a domicilio, o per via telematica visionando, senza posa, siti pornografici grazie ai quali dedicarsi alla Venere solitaria. Shame “documenta” le prodezze di Brandon, lontane da una naturalezza dongiovannesca, e riproduce i segni della malattia omettendone le vere cause, fino ad essere classificato per alcuni come un film pornografico, secondo altri, erotico. A parere di chi scrive, alla luce di due saggi critici inseriti nel volume Eretiche ed erotiche -Le donne, le idee, il cinema (a cura di Giulia Fanara e Federica Giovannelli, Liguori Editore, 2004) si tratta di una pellicola drammatica. Punto. In Feticismo e pornografia. Marx, Freud e il “Money shot” Linda Williams consente di fare chiarezza, in materia di storia del cinema, sulla reale e corretta cronologia dei film pornografici delle origini, permettendo di individuare in Shame elementi metateatrali di straordinaria importanza per compiere la sua disamina, giacché lo stesso Brandon, personaggio principale di un film vietato ai minori, ma destinato ad un pubblico adulto, assolutamente eterogeneo, femminile e maschile, veste di continuo, in ufficio, o rientrando in casa dopo il lavoro, i panni dello spettatore. Egli fruisce di video pornografici comodamente di fronte allo schermo del suo computer, di cui il regista - Steve McQueen - decide di non mostrare alcun elemento visivo limitandosi ad un

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esplicito ed inequivocabile sonoro: in Shame l'“eroe” virile di ogni performance sessuale offerta alla visione resta Brandon.

il terreno di prova e lo sbocco finale del materiale pornografico che una volta era stato territorio esclusivo dei film illegali per soli uomini. Ma prima Tuttavia, gli spettatori di Shame vengono diret- che i film per soli uomini e quelli di exploitation tamente destinati a confrontarsi con contenuti sfociassero nel nuovo lungometraggio pornograpornografici in una vertigine di sensazioni (so- fico completo di colore, suono e narrazioni lunghe prattutto aptiche) fortissime che finiscono per tra- più di un'ora, un altro genere cinematografico dosformarsi in banco di prova, ovvero in uno studio veva contribuire alla transizione. I primi film a mostrare materiale hard-core in teatri pubblici furono della propria intimità, sessualità, fisicità ecc... documentari sulla Danimarca e sulla sua allora Si innescano infatti processi identificativi inalie- recente legalizzazione di forme di pornografia vinabili, perfettamente plausibili, in quanto umani siva prodotte in serie. “[…] In entrambi i casi, il afferenti alle regole di un gioco sublime e bef- pubblico del documentario vede esattamente ciò fardo chiamato vita. che vedeva il pubblico del rapporto sessuale dal vivo e del film pornografico. Spettatori che non si Il film è profondamente umano e può essere inteso come il “viaggio dell'eroe”, una ricerca spiri- sarebbero mai concessi di vedere né Olga sul tuale, nel senso non inflazionato dell'aggettivo, palcoscenico, né un film pornografico potevano dell'individuo inteso come un medievale giustificare l'esperienza se era resa parte di una “ognuno”: everyman, un uomo, una bestia, un po- ricerca più ampia di informazioni sulle attività sesvero cristo, un monstrum euforico, irrefrenabile suali di un'altra cultura. La nuova ondata di pornografia visiva dei tardi anni Sessanta e dei primi oscillante tra superomismo e nichilismo.. anni Settanta non fu quindi semplicemente una “[...] I film di exploitation hanno volto a proprio celebrazione del sesso “libero” esemplificativa vantaggio gli elementi proibiti nel cinema di larga della rivoluzione sessuale americana. Piuttosto diffusione – di solito la nudità e il sesso - confeera collegata, come lo era la rivoluzione stessa zionandoli in lungometraggi girati in fretta e a alla ricerca di una maggiore conoscenza della basso costo, proiettati pubblicamente in sale cisessualità”. nematografiche regolari, ma spesso non molto riQuest'ultimo concetto si prospetta come alibi spettabili. A rigor di termini, quindi, non erano film pornografici. Sono comunque importanti nell'evo- per consentire all'occhio maschile (e via via nel luzione verso la pornografia del lungometraggio corso degli anni anche femminile) di “vedere”, hard-core perché, in conseguenza di una serie di ossia avere occasioni di eccitazione e godimento sentenze della Corte Suprema, alla fine degli non più spiando come voyeur dal buco della seranni Sessanta la strada dell'exploitation divenne ratura (vd. Bella di giorno), ma puntandosi sul

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grande schermo di un cinema non necessariamente per adulti, sull'onda, come viene ricordato da Linda Williams, delle argomentazioni di Michel Foucault espresse nella Storia della sessualità per il quale le forme del discorso moderno inerenti alla sessualità nascono sub specie scientia sexualis, ovvero sono caratterizzate da un incremento di elementi scientifici e veritieri, quindi consentiti, leciti, da accettarsi. “[...]Laddove i film per soli uomini si accontentavano di mostrare al loro pubblico quasi esclusivamente maschile momenti discontinui di attività genitale, i nuovi film porno organizzano questa attività in rappresentazioni complete di coinvolgimento, eccitazione, climax e soddisfazione. In queste narrazioni sviluppate, pubblici di genere sessuale sempre più misto cominciano ad identificarsi con personaggi i cui piaceri sessuali sono strutturati come eventi narrativi piuttosto che come spettacoli di esibizione genitale. Un aspetto chiave di questa transizione è la crescente mercificazione e feticizzazione dei piaceri sessuali ora confezionati in una forma narrativa oltre sessanta minuti. Sebbene siano numerosi i modi di approcciare la natura di questa nuova forma, qui, vorrei concentrarmi sul contrasto tra le caratteristiche inquadrature attraverso le quali ognuno dei due tipi di film è solito concludere le sue sequenze hard core. Queste inquadrature sono la “inquadratura del pezzo di carne” del film per soli uomini e il “money shot” del lungometraggio porno. In Shame la scena incriminata, (va precisato, non nitida) etichettante il film come pornografico,

compare alcuni minuti dopo l'inizio e segue Brandon che cammina nudo in casa sua recandosi in bagno per la normale minzione a figura intera, poi sempre più ridotta “a pezzi”. Il dettaglio del pene in un fotogramma focalizzato sul bacino di Michael Fassbender è stato galeotto. Tuttavia, come la manualistica sopracitata insegna, l'errore è a dir poco clamoroso, frutto di una forzatura indegna e di un attacco selvaggio: i film pornografici nascono parallelamente alla storia del cinema, pertanto, sottoporre una pellicola così intensa ed estrema al tribunale dell'Inquisizione, per un “pezzo di carne” che appartiene alla realtà di un corpo e alla storia del protagonista, francamente dovrebbe far riflettere sui problemi relazionali e di stampo puritano di chi ha osato affermare simili sciocchezze! Il meccanismo accusatorio nasconde delle gravi turbe dei (re)censori in merito all'erotismo e alla sessualità irrisolte, un maltrattamento dell'oggetto in esame (il fallo), come nella favola La volpe e l'uva, forse perché impossibilitati a possederlo... e l'atavico problema della misura del confine di Madama Decenza che attraversa l'intera storia dell'umanità con esempi altisonanti di proibizionismi, in pittura, all'epoca di Michelangelo e delle “braghe” dipinte sulle pudenda del Giudizio Universale oppure dei divieti di ritrarre frontalmente corpi nudi femminili nella Spagna di Velazquez ecc... Chi scrive evita dunque di citare film ancor più “svestiti” ed espliciti apparsi molti decenni prima di Shame: la vittoria è di lapalissiana evidenza.... La ricerca del sesso di Brandon, il cui problema

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lante tra il riconoscimento e il disconoscimento, l'assenza e il non esserci della scena filmica, legittimandone cioè la presenza per quanto illusoria: mai errore poteva essere più grave perché frutto di un'autentica banalizzazione: “[…] Nello star system la relazione tra vedere e divorare è sfruttata in una maniera più complicata di quanto Malattia privata contratta da quella pubblica e il linguaggio metaforico del consumo dei beni podilagante della società on demand, la stessa che trebbe suggerire. La varietà dei rapporti con i propuò manipolare un'opera cinematografica me- dotti che suggerisce o l'incorporazione fisica diante meccanismi di identificazione extra-filmica letterale […] o l'incorporazione epidermica […] atsfruttati sapientemente a partire dal momento in tinge alla stretta relazione tra VEDERE e DIVOcui lo spettatore si siede in poltrona davanti allo RARE e VEDERE e DIVENTARE. Quel modello schermo, e per tutta la durata del testo proiettato di identificazione introiettiva corrisponde alle diventando -come sostiene Anne Friedberg nel forme acquisitive di incorporazione richieste dalsecondo saggio impiegato da chi scrive come l'economia consumistica. Il VEDERE/DIVORARE guida, intitolato Il diniego della differenza: teorie e il COMPRARE/POSSEDERE sono sfruttati dell'identificazione filmica - un: “[…]impegno che nella relazione identificatoria e trasformati in VEè prolungato e amplificato dai sistemi ausiliari DERE/DIVENTARE e COMPRARE/DIVENdella codificazione che si estendono oltre la spe- TARE. Il processo dell'identificazione è designato cificità della portata del singolo film. Ed è proprio a incoraggiare il diniego della propria identità o al di fuori della visione spettatoriale, nel contesto l'acquisizione di una identità costruita basata sul economico e sociale che l'identificazione è dive- modello dell'altro, ripetuta mimeticamente, che nuta una delle figure più centrali dell'istituzione. alimenta l'illusione che si stia davvero abitando il La fascinazione di una star cinematografica non corpo dell'io ideale”. è fascinazione di una singola persona signifiShame traduce alla perfezione, attraverso la tricante […] o di un singolo significante […] bensì ste discesa agli Inferi di Brandon, cattivo esempio di un intero sistema di significanti e di un codice di uomo per eccellenza (come lo è Sissy per il ge- il sistema erotico commercializzato - che corri- nere femminile), quanto descritto e, consapevolsponde a ciò che Braudillard ha definito -meta- mente o meno, contesta le operazioni fora del feticismo-”. dell'apparato stesso all'interno del grazie al quale

è tracciato ponendo tra i due nudi di apertura una parentesi di brevi sequenze come pagine di un diario, del versante pornografico, non rispecchia nemmeno la noia: la routine che scandisce la sua vita viene riempita con la stessa voracità di un bulimico, perfettamente consapevole del suo problema.

La critica italiana si è occupata di Shame continuando a mantenere il ruolo del pubblico oscil-

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è nato, ricevendo in cambio richieste altisonanti di censura perché reo di sostenere il processo di


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mimesi con azioni scorrette, fuorilegge o immorali di un personaggio del film e, fuori da esso, dell'attore o di una vera e propria star. Il timore, se non vera paura nei confronti di Shame, e dunque l'obiettivo costantemente perseguito di indurre ad amarlo o odiarlo, sentenzia quanto “potere” decisionale reale abbia la pellicola in questione. Continua Anne Friedberg: “[...] L'imitazione dell'attività vista nel mondo fittizio è una misura del potere (e da qui) la minaccia del cinema. Tuttavia coloro che temono l'effetto ideologico dei “valori sbagliati” di solito contro-argomentano la rappresentazione dei “valori giusti”. Gli argomenti a favore delle pratiche cinematografiche alternative, che propongono un'identificazione positiva con io ideali “perfezionati”, rifiutano di comprendere l'operazione basilare dell'identificazione stessa. [...] La struttura identificatoria di base, negando la differenza, è ancora attiva”. Pertanto non ha bisogno di ulteriori indagini il destino subito da Shame che, tra i principali punti di forza, convoca costantemente l'assenza di un atteggiamento didattico-didascalico (magistrale il final cut di McQueen segno di autorialità di marca europea, come i vecchi tempi e di apertura ad ogni tipo di soluzione) volto a comprendere e non salvare (happy end) o condannare il peccaminoso colpevole Brandon.

di un altro imposto e il rifiuto di ciò che l'occhio ha assimilato. Tuttavia, la bulimia visuale è solo la costruzione della metafora. L'occhio è un organo che divora ma non espelle. Tenendo presenti i limiti di tale critica, rimane comunque il fatto che l'identificazione ha le seguenti funzioni problematiche: l'identificazione può avvenire solo attraverso il riconoscimento e ogni riconoscimento è in se stesso una implicita conferma dell'ideologia dello status quo. La sanzione istituzionale delle star come io ideali istituisce figure normative, autentica le norme di genere. Ciò che resta qui è una questione inequivocabilmente politica. L'identificazione determina il collasso del soggetto su ciò che è normativo, una compulsione all'uguaglianza, che, sotto il patriarcato, esige una critica” – afferma - terminando il suo saggio, Anne Friedberg. Ricorrente come un Leitmotiv la parola “politica”, in una trama dove il corpo, il sesso, il consumo, la perversione, l'ossessione, la solitudine esistenziale, l'incomunicabilità in una New York bifronte la fanno da padrone (dietro le luci di un'ideale ribalta campeggia il buio delle notti bianche come in una tela di Edward Hopper), si impone come specimen di Shame avvalorata anche dalle dichiarazioni del regista: «È un film politico-emotivo, parla di come interagiamo, di come è cambiata la nostra sessualità, anche con l'avvento di internet. La libertà, l'accesso a tutto, può diventare una prigione».

“[...] Questo ci lascia, come soggetti della visione, catturati nel legame tra il cannibalismo Per tale motivo Steve McQueen non può prespeculare e la bulimia scopica, tra l'introiezione scindere dall'esser, come uomo, regista ed arti-

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sta, estremamente legato al protagonista: «Lo amo, non è cattivo, è un po' come tutti noi, anche se a volte è difficile da capire. Fa parte del mondo attuale. Familiare a molti, riconoscibile da chiunque. […] Da dove viene questo personaggio? Nel mondo di oggi, è facile avere delle ossessioni. Dei comportamenti compulsivi, dipendenze da droga, alcol, gioco. O sesso. Abbiamo la libertà, oggi. Ma è facile che tanta libertà diventi una prigione. Questo personaggio è così: un esempio di come tanta libertà possa diventare una prigione».

Un'analisi sull'universo femminile mostrato nel film e visto da Brandon si rende obbligatoria alla luce della funzione che egli assegna al principale oggetto delle sue ossessioni e perversioni senza il quale la trama stessa di Shame non avrebbe avuto origine e dignità; da non sottovalutare, anche se non discussi in questa sede, i risultati che la messa a confronto del secondo lungometraggio di Steve McQueen con pellicole intorno al pianeta donna esperito con occhi (ovviamente!) maschili potrebbe generare: La città delle Si è detto che la prigione, la trappola, la schia- donne (Federico Fellini, 1980), American Givitù di Brandon, per liberarsi dalle quali, insegue golò (Paul Schrader, 1980), Il Casanova di Fela morte, crocifiggendosi e degradandosi in derico Fellini (1977), 8 donne e ½ (Peter metro, in ufficio, in strada, nei locali notturni, in Greenaway, 1999), Venus Noire (Abdellatif Kecasa, si chiama “sesso”, ma nel film non viene chiche, 2010), L'uomo che amava le donne spiegata la vera causa, benché una traccia possa (Francois Truffaut, 1977). venir ricondotta all'ambiente familiare attraverso I pilastri di Shame sono le donne vere o virtuali: una battuta di Sissy registrata come messaggio professioniste affermate, impiegate d'ufficio, prodi segreteria telefonica, ormai assunta da ipotesi stitute, ragazze della porta accanto o del metrò ad ufficiale ed unica tesi: “Brandon, sono Sissy. che “vivono” attirando, come mantidi, nella ragnaHo bisogno di parlare con te. Rispondi a quel tela delle loro vite il fragile Brandon determinando cazzo di telefono. Brandon, ho bisogno di te. Noi una spirale infinita di incontri, sguardi, rapporti non siamo cattive persone, è solo che veniamo sessuali. da un brutto posto. Grazie di avermi fatta reSituazioni che alcuni analisti hanno avuto la pastare...”.

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zienza di contare: almeno sette scene di incontri carnali (di cui tre con prostitute, uno con la ragazza in tailleur, uno con la collega, uno omosessuale e un'orgia finale, a cui vanno acclusi circa tre o quattro episodi di autoerotismo). Si potrebbe quindi intravvedere nella ridondanza un difetto di Shame, ma poiché le immagini visualizzate non sfociano mai in scene da documentario di sociologia o psicologia, la narrazione e gli strumenti per veicolarla sono salvi, infatti le relazioni di Brandon più significative con l'altra metà del cielo nascono all'interno di una classica organizzazione degli elementi: Sissy e la collega di colore in gergo si chiamano “incidenti”, ed irrompono nella vita del protagonista mettendolo in situazione, cioè nella vera trama della pellicola. Soltanto queste due donne sono destinatarie di sguardi “diversi”. Nel primo caso con punte incestuose, nel secondo con autentico desiderio amoroso, ma entrambe si accorgeranno della malattia che sta divorando Brandon: Sissy sorprende il fratello mentre si masturba e scopre l'indigestione di siti pornografici dal suo computer lasciato inavverti-

tamente aperto; la collega, malgrado accenda la passione nell'uomo che di lei si sta innamorando, provando finalmente del bene, non può esserne sessualmente soddisfatta. Eppure ella rappresenta la speranza di cambiare vita, di fermarsi per costruire una relazione seria e sostituire alle meccaniche abitudini sessuali un lento percorso di conoscenza ed esperienza dei corpi con cui fare l'amore, tanto che, contravvenendo alla sua “normalità”, Brandon non conclude tra le lenzuola la prima sera in cui cena insieme alla donna. Sintomatici sono l'arrivo in ritardo dell'uomo al ristorante vs la foga di consumare l'incontro e la successiva domanda sull'epoca preferita in cui vivere. Brandon agogna il passato (il portato di significati altri è enorme), la collega risponde sicura di sé, senza neanche riflettere, eleggendo il presente. (Anche chi scrive ritiene non all'altezza del film quest'ultima soluzione, ma non si può non annoverare nella storia del cinema un caso precedente ed omologo a quello presentato, ovvero la vicenda d'amore e rapine della coppia criminale formata da Bonnie e Clyde in Gangster Story pellicola girata da Arthur Penn nel 1967: benché

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esuberanti fisicamente, agili, forti, sfacciati, i due fuorilegge non hanno mai fatto l'amore... Clyde è impotente per tutta la durata delle leggendarie scorribande e soltanto alla fine, consapevole di morire, riuscirà nell'unica impresa in cui ha sempre fallito, lasciando triste e sofferente la sua amata). Delle donne, Steve McQueen in verità non sembra occuparsi particolarmente, impiegando la loro presenza soprattutto fisica, non di soggetti pensanti, per permettere il prosieguo della trama, ma bada a non addossare loro la colpa e la conseguente vergogna della perdizione di Brandon. Pregevole è l'assenza di immagini offensive, volgari fin nei costumi e negli atteggiamenti delle attrici, per contro, l'ossessione del protagonista è talmente privata e patologica da alienarsi dalla causa apparente, ossia del non riuscire a resistere all'avvenenza femminile. Smarrito il principio del piacere, conta il sesso e non la donna con cui farlo, esclusa pertanto paradossalmente dallo sguardo di Brandon, e reificata alla massima potenza detto volgarmente “fica”. Si noti che a parlare delle donne, esibendosi in funamboliche imprese celebrative del gentil sesso, è il capoufficio del personaggio principale, uomo (ancora) normale e non malato di sesso. La catastrofe della condizione vissuta dal protagonista impedisce di distinguere, riflettere, ragionare, e si dà alla beata mescolanza di corpi da fagocitare come un cannibale, così come Steve McQueen “gira” in un unico calderone patologie di rado intrecciate davvero nel quotidiano tra loro o almeno non così in

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fretta, insieme e tutte alla stessa velocità: dipendenza dalla pornografia, dipendenza dal sesso, dalla ricerca di rapporti a pagamento, dall' erotomania, dall'autoerotismo compulsivo, dall' autoerotismo in spazi pubblici, dall'esibizionismo ecc... Terenzio docet: “Homo sum humani nihil a me alienum puto”. L'orgia posta a dieci minuti dalla fine della pellicola, da leggersi come ripetizione variata numericamente della scena iniziale insieme alla prostituta a domicilio, e di cui nulla è dato ascoltare grazie alla copertura della musica extra-diegetica in crescendo, può concludersi dunque con il pianto (liberatorio o meno) del protagonista per la prima volta in un climax di sesso sfrenato e vergogna nel praticarlo. Sissy nell'incipit come nell'explicit vive, da fantasma, in absaentia, lontana dal proprio sangue, attraverso un messaggio lasciato in segreteria. Il suo epilogo, però come alter ego femminile del fratello, deve coincidere con il portare a termine il progetto di morte che egli non ha il coraggio di mettere in scena. Così, in solitudine, la ragazza tenta il suicidio tagliandosi le vene. Si osservi inoltre attentamente la deformazione del volto di Brandon, come in un quadro di Bosch e la si equipari a quella dei personaggi, vittime e carnefici, senza distinzione, del film Salò o le 120 giornate di Sodoma di Pier Paolo Pasolini: in quest'ultimo caso, non solo si piange, ma ogni elemento sonoro scompare nella mostrazione delle torture. Il silenzio può essere una conseguenza della vergogna.


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Coloro che si sono concentrati sulla reale possibilità di coincidenza tra orgasmo-sinonimo di massima felicità e pianto hanno, a giudizio di chi scrive, giocato male le loro carte perdendo la partita della critica...: il sesso nel film nasce da e si fonde con Thanatos, non da e con Eros; le pulsioni di Brandon, bisogno senza alcun sogno, sono mortuarie, dedite alla tortura della carne, all'autopunizione sine fine come in un romanzo di De Sade, prigioniero dell'inviolabile libertà del mondo contemporaneo. Shame introduce immediatamente nell’intimità domestica di una casa fredda, impersonale, anonima e sessuale di un uomo che dalla vita ha avuto tutto: affascinante, sexy, elegante, agiato, intelligente, seducente; Brandon sembra l'uomo più improbabilmente associabile alla dipendenza al centro del film. Senza accorgersene si smarrisce ed erra, inizia a deperire, morire lentamente come il ritratto di Dorian Gray, nascosto in soffitta, deformandosi nella “secretissima camera de lo cuore” giorno dopo giorno, perdendo la memoria di essere un uomo, alienandosi da se stesso e dai suoi simili. I riferimenti nel film alla bevanda che rovina la dentatura, al cui risanamento provvede l'azienda dove lavora, non è altro che figura, in senso retorico, di quanto sta per accadere, ossia l'arrivo tempestoso della sorella fragile, bisognosa d'affetto (in altri tempi per il suo stile di vita giudicabile anch'ella come “vergognosa”) e la scoperta in ufficio della sua “malattia”.

Sissy, oltre ad essere la sorella di Brandon, il suo simmetrico femminile capace, però, ancora di amare, è una donna; ha un corpo che, privo di abiti, visto mentre fa la doccia, potenzialmente attrae complicando ulteriormente lo stato di confusione dell'unico uomo “obbligato” dalla morale, dai tabù, a non toccarla... pur desiderandolo. Il meccanismo perverso che la presenza della donna determina si acuisce quando innocentemente cerca protezione infilandosi tra le lenzuola di Brandon mentre lui sta per addormentarsi: la reazione dell'uomo violenta fuor di misura si giustifica con la rabbia ed un accenno di vergogna a quanto di proibito e scandaloso sta covando in se stesso. Brandon subisce l'attacco di violente pulsioni e non prova gradi emozionali di alcun genere quasi lobotomizzato; per paura si trincera dietro un muro difensivo invalicabile, abolendo i sentimenti ed ogni forma di erotismo, cibandosi di sesso senza amore, comodo éscamotage privo di impegno e perfettamente deresponsabilizzante. Vergogna, Shame appunto, potrebbe infine essere idealmente paragonato ad un film muto del 1924 considerato, all'unanimità, il capolavoro di Erich von Stroheim: Greed, Rapacità, tragedia dell'avarizia patologica costruita e resa sullo schermo attraverso una violenza indescrivibile, terribile cioè erotica. Lì, come in Shame, i personaggi principali dominati da una triplice fatalità (ereditaria, sociale ed esistenziale) sono portati alla propria distruzione, messa in scena attraverso le scene finali nel deserto in cui sarà impossibile,

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senza acqua e cibo, sfuggire alla morte. L'autentica scoperta e significativa presa di coscienza di Brandon, che precede ogni individuazione eziologica razionale, consiste nel vergognarsi di se stesso, nel vedere chiaro lo squallore raggiunto vietandosi di vivere seguendo il passaggio dei sensi e dei sentimenti, imponendosi l'anaffettività per vendere l'anima al sesso (di marca sadiana è l'imperativo etico di esplorare la propria natura e quella altrui, scoprendovi le più segrete pulsioni di vita e di morte). La medesima vergogna che si traduce in disprezzo e forse, stando ai racconti biblici, ha costituito la causa della cacciata di Adamo ed Eva dal paradiso, beatamente nudi, costretti poi a vestirsi. Un sentimento intrinsecamente legato al cinema, da sempre attento alla quantità e all'intensità delle emozioni da veicolare, raramente reso protagonista per il disagio di chi guarda il personaggio commettere errori di cui, appunto, poi vergognarsi. Vergogna che Steve McQueen sceglie quale titolo di un film nato, per sua dichiarazione: «dalle molte interviste che abbiamo fatto con dei drogati del sesso. La parola ‘vergogna’, shame, ricorreva di frequente nei loro racconti». Senza timore e vergogna di una decisione controcorrente tanto temuta dallo star system e dalle produzioni cinematografiche… D'atronde Steve McQueen è un regista perfettamente conscio della nuova professione intrapresa nella settima arte, degli obiettivi e delle richieste estreme rivolte soprattutto al suo attore feticcio Fassbender, che lo ammira per la capacità maieutica di liberare l'eccellenza degli attori: «Steve sa quello che vuole. Essere diretti da lui è terrorizzante e elettrizzante insieme. È un po’ come lasciarsi cadere nel vuoto senza rete».

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