Speciale Festival Internazionale del Film di Roma 2014

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TAXI DRIVERS MAGAZINE SPECIALE FESTIVAL INTERNAZIONALE DEL FILM DI ROMA 2014

DIRETTORE

Vincenzo Patanè Garsia VICE DIRETTRICE

Giorgiana Sabatini CAPOREDATTRICE MAGAZINE

Lucilla Colonna CONCEPT DESIGNER

Gianna Caratelli INVIATI

Luca Biscontini Maria Cera Elisabetta Colla Lucilla Colonna Giovanna Ferrigno Emiliano Longobardi Sandra Martone Anna Quaranta Luana Verbanac CAPOREDATTORE SITO WEB

Luca Biscontini UFFICIO STAMPA

Valentina Calabrese Domiziana Ferrari WEB MASTER

Daniele Imperiali CONTATTI e mail: info@taxidrivers.it Facebook: TAXIDRIVERS MAG II Arretrati Magazine: http://issuu.com/taxidrivers

TAXI DRIVERS è dedicata a Delian Hristev (R.I.P.)

In copertina: Disegno di Marco Bellocchio (Prima del film di Marco Chiarini e Mario Sesti, pag.16 ).


In nome del popolo sovrano e all'insegna di un necessario risparmio, questa nona edizione del Festival ha fatto a meno della giuria per il concorso principale: i premi più importanti sono stati votati dal pubblico, alcuni eventi sono stati sparsi per la città, e la manifestazione ha assunto i contorni di una Festa. Fra gli incontri memorabili, il geniale Takashi Miike (pag.38), il trio Bellocchio-Scola-Virzì riunito da una passione comune diversa dalla regia (pag.16) e il versatile Tomas Milian (pag.48). Sugli schermi, si sono alternate visioni cinematografiche originali e coinvolgenti, insieme a qualche film che ci ha entusiasmato meno.

Abbiamo applaudito i primi episodi di una promettente serie televisiva firmata da Steven Soderbergh (pag.50) e ci siamo lasciati prendere dalla nostalgia delle pellicole di Mario Bava (pag.24). Grande è stata l'emozione della serata finale, in cui il direttore artistico Marco Müller ha voluto congedarsi dal pubblico con la proiezione del capolavoro restaurato Il Postino, consegnandoci, attraverso l'indimenticabile Massimo Troisi e i versi di Pablo Neruda, il messaggio che non dobbiamo mai rinunciare a cercare la Poesia.

Lucilla Colonna


EDEN M

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ia Hansen-Løve, giovanissima e assai dotata regista francese (classe 1981), chiude la sua ‘prima’ trilogia (Tout est pardonné, Il padre dei miei figli, Un amore di gioventù) e cambia registro, lo sguardo si astrae dai rapporti individuali dei primi film per cogliere il respiro di una generazione attraverso una messa in scena attenta, originale, articolata in due capitoli, in cui ad essere messa a fuoco è la vita di un gruppo di giovani francesi uniti dalla passione per la musica garage che, proprio in quegli anni, incontrò il favore di una vasta fascia di pubblico. Si parte dal 1992, il protagonista Paul (Félix de Givry), comincia la sua carriera di disk-jockey, mestiere che, nonostante tutte le difficoltà del caso, cercherà di portare avanti in un arco temporale di vent’anni: ne seguiamo le vicende, gli amori, le aspirazioni, il tutto accompagnato da una colonna sonora che diviene elemento portante della struttura del film. La regista evita brillantemente di cadere nel cliché di una resa iperrealistica, prediligendo un tono sobrio, fermandosi sempre un passo prima della rappresentazione dell’eccesso; il suo sguardo si posa insistentemente sulla quotidianità, favorendo una dilatazione temporale che restituisce un flusso emotivo in continua espansione, schivando qualsiasi scivolata spettacolarizzante. L’attenta selezione musicale, che attraversa il film incessantemente, è proprio ciò a partire da cui si dipana una doppia temporalità: da un lato uno sguardo che si sofferma sull’immagine, che rimane, diciamo così, attaccato ad essa, dall’altro, invece, un processo di storicizzazione che descrivere il percorso di salita e discesa rispetto alla parabola dell'esperienza. I dialoghi non sono quasi mai accesi, i toni appaiono soffusi, e la tragedia, che pure in un certo senso si consuma, è contenuta in una rappresentazione minimale, tenuta a freno, imbrigliata sapientemente da uno sguardo che rimanda tenacemente ad un fuori campo assoluto (non relativo), e il versante della fruizione (l’occhio dello spettatore) è convocato a partecipare a questo processo di ‘gestazione dell’immagine’. Le atmosfere ricordano non poco quelle del fortunato film di Garrel Les Amants réguliers, in cui i personaggi, alla prese con le speranze e le delusioni del Maggio francese, annaspavano in un acquario in cui, pian piano, non smettevano di annegare. Qui il dramma è neutralizzato, nel senso che è già da subito annunciato, non ci sono ideali politici, cause da sostenere, e l’unico elemento in cui credere, la musica, si rivela fin dall’inizio assai debole. Paul parte annichilito e finisce annichilito, non riesce a costruire nulla di solido. Il suo lavoro si rivela un fallimento, visto che per portarlo avanti non può far altro che

Regia: Mia Hansen-Løve Nazionalità: Francia Anno: 2014 Durata: 131' Genere: Drammatico contrarre debiti e si ritroverà sulla soglia dei quarant’anni senza più alcuna risorsa economica. Il fronte sentimentale è anche peggio: le storie sono fragili, l’amore non costituisce quell’evento installandosi nella traccia del quale trascendere le miserie della finitezza. Non c’è nulla che redime. Tutto è in caduta, in perdita. E l’Eden pare proprio definitivamente smarrito. Luca Biscontini



STILL ALICE A

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lice Howland è una donna brillante che ha appena compiuto cinquanta anni. Affermata docente di linguistica ad Harvard, sposata con un noto chimico e madre di tre figli di cui va fiera, Alice ha tutto ciò che ha sempre sognato e ama la propria vita. Un giorno però, durante una conferenza, perde il filo del discorso avvertendo un senso di smarrimento; il giorno dopo durante il solito giro di jogging si blocca non ricordando più la strada verso casa. Preoccupata si rivolge ad un neurologo che le comunica l’atroce verità: Alice ha una forma precoce di Alzheimer che inesorabilmente consumerà le sue capacità mentali. La sua vita, in un attimo, viene completamente sconvolta, gettandola nel panico; usando tutto il suo patrimonio mentale Alice cercherà di contrastare la malattia fino al limite dello sfinimento. Come si può accettare serenamente l’idea di perdere i ricordi di una vita diventando solo un guscio vuoto? Come possono gli affetti più cari affrontare l’imbarazzo, il dolore, la sofferenza emotiva di veder sparire nel nulla quella che è stata una madre amorevole e una moglie passionale e coinvolgente? Il film comincia dipingendo il quadro di una famiglia affiatata riunita per festeggiare il compleanno della madre; due figli sono presenti, mentre la terza, la più giovane, vive a Los Angeles inseguendo il sogno di una carriera teatrale. La pellicola si concentra completamente su Alice e la sua discesa negli inferi, sottolineando la sua forza nel cercare di contrastare un male immensamente più forte. Le sue strategie, i giochi che crea per tenere la mente allenata rallentano inizialmente il decorso del morbo, e le consentono di intervenire come relatrice principale ad un convegno sull’Alzheimer con un discorso che spezza il cuore con la sua crudele onestà. La verità è che la malattia fa schifo, ti ruba tutto, ti umilia e ti rende un emarginato sociale, il film sceglie di mostrare in modo ruvido e semplice la tortura che devono affrontare, in modo solitario, le vittime di questo terribile scherzo del destino. Inutile dire che solo un’attrice dallo smisurato talento poteva avvicinarsi, con rispetto e dedizione, ad un ruolo così delicato: Julianne Moore è letteralmente strepitosa, un volto stupendo capace di incanalare ogni tipo di emozione arrivando dritta al cuore dello spettatore con un semplice sguardo. La Moore affronta qui uno dei suoi ruoli più difficili, impersonando una Alice che deve scendere a compromessi con il suo destino e accettando di mostrare a tutti anche i lati più frustranti e imbarazzanti della malattia, quelli che ti fanno sentire un peso dipendente dagli altri. Paradossalmente la malattia di Alice rimette in discussione tutti i rapporti familiari, ed è proprio la figlia più distante, quella in perenne contrasto con la

Regia: Richard Glatzer, Wash Westmoreland Nazionalità: USA Anno: 2014 Durata: 99' Genere: Drammatico madre, a tornare stabilmente a casa per curarla ed accudirla. Kristen Stewart si conferma un’interprete ampiamente sopravvalutata, mentre per Alec Baldwin, dopo una lunghissima parentesi comica, sembra davvero arduo rientrare in un contesto fortemente drammatico. Still Alice è un film che trova la sua forza nella compattezza della storia, rapida e lancinante, e nella straordinaria bravura di Julianne Moore, che qui offre una prova di spessore assoluto. Emiliano Longobardi



LULU L

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ulu, dell’enfant prodige del cinema argentino Luis Ortega, è la prima pellicola in cui mi imbatto nella ritrovata (nel nome e nella forma) Festa del Cinema di Roma. Mondo Cinema è la porzione che la Festa del Cinema di Roma dedica a pellicole più autoriali. Anch’essa, nella formula festa- giocattolo, in mano al solo giudizio del pubblico nel premiare il film che lo ha coinvolto maggiormente. La nascita è il momento più illuminato e terrificante della nostra vita. Così pare dirci tra le righe della sua favola metropolitana il giovane regista argentino (classe 1980) nel tratteggiare due acerbi vite unite dal desiderio di non crescere. Ludmila (la bella e pura Ailín Salas) e Lucas (il fragile Nahuel Pérez Biscayart) vivono ai margini e in un mondo tutto loro dentro lo sfondo di una Buenos Aires grande scatola urbana senz’anima, dove i più (massa umana impersonale) si muovono in modo ordinato ed uguale, stando nel posto che devono esattamente coprire… Ludmila e Lucas no. Entrambi, in modo differente, esprimono il rispettivo disagio verso un ineluttabile esistere fatto di responsabilità, doveri, obblighi, dolore, sofferenza… Non si vola più quando si cresce, ci sussurra Ortega nei no sense comportamentali che Lucas oppone a chi si imbatte nel suo spazio vitale, nella poesia che inutilmente e goffamente tenta di afferrare dalle cose e dalle persone che lo circondano. Il giovane esterna il proprio io imbattendosi in un reale per lui non filtrato- mediato che dalla sua libera percezione: con una pistola vera, il suo giocattolo che tiene con sé come un bimbo tiene una spada contro i mostri, spara ad un mezzo busto bronzeo nero e possente (simbolo della maturità precostituita a cui si oppone) nel parco di fronte alla piccola baracca dove vive con Ludmila. E si getta nel mondo con la stessa irruenza e follia, come un bambino. Ludmila fugge da una famiglia colpita dalla malattia del padre, fugge dalla perdita, dal dolore… “Voglio vivere senza sapere nulla”. Le sue giornate vagano dentro alienazioni urbane tra ricerca di piccole gioie di abbandono e la consapevolezza di non avere via d’uscita: sa che Lucas è un ‘pazzo’, sa che non avranno mai un bambino e una vita a modo loro, che anche il ritorno a casa non l’aiuterebbe… Ortega ci trascina dentro una visione profondamente attaccata alla realtà (anche grazie ad una fotografia matura e rigorosa), dal cui contorno ben saldo le due giovani figure umane tentano di trasfigurarsi e trasfigurare ciò che le attraversa. La macchina da presa li accompagna in maniera complice il più delle volte, acutizzando prospettive, dissociazioni, empatizzando con stati interiori, deli-

Regia: Luis Ortega Nazionalità: Argentina Anno: 2014 Durata: 84' Genere: Drammatico neando il contorno urbano del loro malessere. A volte compare qualche ingenuità anche simbolica (come il cavallo, messo dove sta senza né capo né coda, già usato abusato da molti registi nel codificare la libertà perduta), a volte Lucas esce fuori dal personaggio, caricando troppo rabbia ed aggressione, a volte fa capolino qualche cliché di atmosfere da isolamento esistenziale. Ma nel complesso la pellicola regge nel mantenere una propria identità ribelle e densa, nel renderci una riflessione che parte ed arriva alla nascita: a quel bambino che ciascuno è stato e che viene perduto man mano che si cresce, a quel bambino a cui si ritorna con la morte, a quel bambino che si produce procreando… A quell’ignoto in cui si è immersi e dal quale è impossibile staccarsi. Maria Cera



THE NARROW FRAME OF MIDNIGHT

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adre marocchina, padre iracheno, Tala Hadid nasce a Londra e studia da fotografa e artista visiva; basta leggere la sua biografia per capire quanto le sue origini si riflettano inevitabilmente in questo suo terzo lungometraggio, di cui è regista e sceneggiatrice. Come la regista, anche il protagonista del film, Zacaria (Khalid Abdalla) è nato in Gran Bretagna e ha sangue per metà iracheno e per metà marocchino; Zacaria raccoglie la richiesta di aiuto disperata della moglie di suo fratello Yousef, scappato lasciandola sola con due figli; Da una periferia arida e stermitnata Zacaria parte alla ricerca di suo fratello e si imbatte in un faccendiere algerino, Abbas, (Hocine Chutri) che insieme alla sua amante sta portando a termine un grosso affare: ha appena “comprato” una bambina, Aicha (Fadwa Boujouane), che dovrà accompagnare presso un facoltoso acquirente in Europa; dopo una breve sosta a Casablanca Zacaria prosegue il viaggio solo con Aicha, e le trova una sistemazione sicura a Ifrane, da Judith (Marie Josèe Croze), una docente di arte che vive in una grande casa in mezzo al verde. Da Casablanca, dove incontra un compagno di lotta di Yousef, Zacaria riparte per Istanbul per poi raggiungere la frontiera turco-irachena in territorio curdo e da lì dirigersi verso Bagdad; nel frattempo Aicha viene nuovamente rapita dal suo aguzzino, ma riesce a scappare e a tornare alla spensieratezza di Ifrane. Quello che all’apparenza è costruito come un road movie è in effetti un viaggio alla ricerca di qualcosa di più profondo; il film viene raccontato lentamente attraverso i dialoghi frammentati, i ricordi dei protagonisti e alcune sfumature nei gesti e nelle parole. Lentamente tra ostacoli difficoltà e ricordi dolorosi i personaggi affondano le mani nelle proprie anime per fare i conti col passato. è estenuante, faticoso, impedisce di vivere il presente, di pensare al futuro, ma Zacaria così come Judith, che insieme hanno condiviso scampoli di vita in comune e la perdita di un figlio, non possono farne a meno. L’urgenza di scavarsi dentro porta Zacaria a viaggiare fino allo stremo delle forze nella grande “provincia arabofona” il Maghreb prima e poi il Medio Oriente, dove tutti parlano la stessa lingua ma a volte ci si capisce con difficoltà; dove l’invadenza degli europei ha gettato il sale sulle ferite dei contrasti interni; dove regimi e guerre civili mietono vittime ogni giorno; è imprecisato il tempo storico del film, quello dove Zacaria approda potrebbe essere l’Iraq post Saddam o quello dei nostri giorni, poco importa. La sua è una ricerca disperata, tra i vivi e poi tra i morti, negli obitori dove gli inservienti lavano via il sangue dei cadaveri e le salme giacciono a terra nell’attesa

Regia: Tala Hadi Nazionalità: Francia/GB/Marocco Anno: 2014 Durata: 93' Genere: Drammatico



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di essere riconosciute dai parenti. La ricerca si fa sempre più straziante; Zacaria, immerso nelle carte di lavoro di Yousef, cerca di capire cosa lo abbia spinto alla lotta, alla rivoluzione e, forse si chiede se ha fatto bene lui a cercare di vivere la sua vita tranquillamente, oppure suo fratello che si è buttato nella mischia; e affiora tra i ricordi del passato proprio una scena eloquente, quando da bambino Yousef si toglie i vestiti e si getta in mare a nuotare, mentre Zacaria resta a guardare. Judith sente la stessa necessità di Zacaria; anche lei straniera lontana dal suo Paese natale, la Francia, sceglie di vivere isolata dal resto del mondo; il suo è un viaggio mentale verso quelle ferite ancora aperte del suo passato, un figlio perso in un momento imprecisato, il dramma vissuto insieme a Zacaria. Aicha è per lei un balsamo che le ammorbidisce le ferite, pronte a lacerarsi di nuovo quando la bambina scompare per la seconda volta. Aicha è orfana e alla ricerca di qualcuno che si prenda cura di lei; non esita a chiedere aiuto a Zacaria e ad affezionarsi a Judith; e neppure a scappare per la seconda volta, e infilarsi sul primo autobus per Ifrane per tornare da Judith. Il suo è un viaggio verso il futuro, pieno di ottimismo e di entusiasmo, rappresentato proprio nella penultima scena del film, quando si ferma con alcuni bambini a giocare spensierata in mezzo ai campi.

Gli stati d’animo dei personaggi sono tratteggiati dalla fotografia di Alexander Burov che si alterna, asciutta ed essenziale, quasi in stile documentaristico, nel lungo percorso di Zacaria alla ricerca del fratello; per diventare luminosa nelle scene di vita in comune di Judith e Aicha; fino a farsi cupa nelle scene dei ricordi di infanzia dei due fratelli. Ad anticipare i tormenti del protagonista è una prostituta con la quale trascorre la notte a Casablanca; la donna percepisce lo stato d’animo di Zacaria e lo mette in guardia: se uno va alla ricerca di qualcosa, rischia di perdersi; e rischia di perdersi la vita da vivere. Il film regala allo spettatore novanta minuti, lenti e a tratti interminabili, come interminabile è lo strazio di Zacaria e Judith perennemente aggrappati al passato. Ognuno di noi è frutto di una storia, di un incrocio di strade sentimenti e avvenimenti personali e politici più o meno dolorosi; e si può scegliere di piangere i morti, di isolarsi dal mondo o di guardare avanti e fermarsi a giocare, come fa Aicha, che nonostante la giovanissima età ha già un bagaglio di vita pesante. Che a portarselo dietro si finisce col restare arenati in una terra di frontiera, stranieri e straniati. Anna Quaranta


SOAP OPERA I

l red carpet inaugurale della nona edizione del Festival di Roma ha acceso i riflettori su una commedia che sorride di tutto. Amore, sesso, amicizia, handicap, morte, paternità, indagini dei carabinieri, e qualsiasi altra cosa accada in un condominio immaginario di una città che non esiste, riempiono gli 87 minuti del film di Alessandro Genovesi, scoppiando come bolle di sapone. Il primo piano iniziale di un gatto pigramente appollaiato sul davanzale, che allude alla passività sonnacchiosa e voyeuristica di chi si diletta a guardare le telenovele, poteva far sperare in uno spessore maggiore, magari in una visione critica del fenomeno. Ma già dalla buffa scena successiva, con una donna (Caterina Guzzanti) che sta su un uomo (Fabio De Luigi) sopra il letto per poi ritrovarsi un minuto dopo da sola sotto allo stesso letto, si indovina che l’unico intento dichiarato del film è provocare facili risate con l’esasperazione di questo genere televisivo. Nel piccolo universo ovattato del film di Genovesi, che per gli ambienti ha utilizzato alcune ricostruzioni già realizzate a Cinecittà dagli scenografi di Gangs of New

Regia: Alessandro Genovesi Nazionalità: Italia Anno: 2014 Durata: 87' Genere: Commedia York e di Concorrenza sleale, cadono copiosi fiocchi di neve e si scrive “Ti amo” sulla sabbia, mentre i personaggi vestiti quasi sempre allo stesso modo scoprono incredibili verità con la più imperturbabile superficialità. C’è la stella della tv (Chiara Francini) che indossa la vita come fosse una fiction, c’è il carabiniere in alta uniforme (Diego Abatantuono) che brandisce una spada spuntata, ci sono Ale & Franz che si fanno i dispetti ma si vogliono bene e ci sono i begli occhi chiari di Chiara Capotondi, sbarrati e volutamente inespressivi. Una curiosità: nel cast è presente lo stesso Alessandro Genovesi, che ha scelto di impersonare il suicida Pietro. Lucilla Colonna

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I MILIONARI A

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lessandro Piva torna al lungometraggio di fiction attraversando una strada già percorsa nel suo .bell’esordio di origine (La capa gira), dove raccontava il male di vivere del Sud, abbandonato a se stesso nell’indolenza e nelle delinquenza, dentro la lente deformante ed originale di un’ 'ironia nera’. Con I Milionari, pellicola anch’essa parte della sezione Mondo Cinema, si ricongiunge al Sud passando dalla Puglia a Napoli. Prende libera ispirazione (reinventando nomi e aggiungendo vicende) dall’omonimo libro di Luigi Alberto Cannavale (pm della Direzione distrettuale antimafia di Napoli) e del giornalista Giacomo Sensini, per mostrare l’ascesa e il declino dei cd. Signori di Secondigliano, isolando una figura umana e malavitosa ambivalente: Marcello Cavani (ben reso in superficie da Francesco Scianna), detto Alendelòn, costretto ad un destino da malavitoso, scisso tra l’aspirazione alla bella vita e la necessità di doversi sporcare le mani di sangue per ottenerla. Piva, seguendo il suo protagonista, ripercorre 30 anni di storia camorristica napoletana, accompagnandoci nell’ascesa e nel declino di un clan e di Marcello Cavani, fino alla sua rinascita umana. Le intenzioni che hanno portato il regista a realizzare I Milionari erano, sulla carta, personali e perciò sane, oneste: «Un modo per fare i conti con radici che talvolta a fatica riesco ad accettare, certe pulsioni profonde che agitano tanti come me, e che forse giustificano la voglia che abbiamo di raccontare luci e ombre, santità e nequizie del nostro Paese». Anche la scelta di concentrarsi su di un personaggio ambiguo, bi-valente, poteva rendere concretamente luci ed ombre di un vivere fuori dalle regole in tutti i sensi… Ma Piva mette in scena un impianto in primis di sceneggiatura (e qui Massimo Gaudioso stranamente inciampa nell’identificare l’iter narrativo da cui tenere tutto sotto controllo) incapace di addentrarsi nel mondo che sorvola. Tutto si scardina dalla realtà che lo contiene, diventando imbelletto di caratteri, situazioni, che si uniformizzano dentro una canonizzazione da moda malavitosa, da serie tv, per intenderci. Nonostante la pellicola si lasci tenere da attori seri e professionali, come il Don Carmine di un manovratore di caratteri maturo e saldo come Gianfranco Gallo, I Milionari sfugge in generale al tentativo di soggettivizzare realmente il racconto di un pezzo di Italia passando per la vicenda umana di un luogotenente così particolare. Qua e là emerge un guizzo visivo, una luce che ci immette per pochi attimi nell’anima di ciò che stiamo vedendo, ma sono momenti troppo fuggevoli.. Emblematica, la scena della scopata

Regia: Alessandro Piva Nazionalità: Italia Anno: 2014 Durata: 104' Genere: Drammatico tra Marcello che torna a casa dopo anni di carcere e sua moglie – una Valentina Lodovini bella sorpresa per la resa del suo personaggio – in quella camera da letto, nella foga animalesca di un ripossedersi di carne, si respira un pezzo di vita, si capisce. Il resto è déjà vu, è bei vestiti, è macchine, è sparatorie, è tradimenti, è passaggi di consegne… nel modellino che anche musicalmente Piva riproduce. E pensare che La capa gira usava la musica così bene, dando al silenzio, che per la maggior parte nutriva quel racconto, l’identità di fuga dal tempo che a quel pezzo di terra del Sud dimenticato da Dio e dall’uomo apparteneva. Nemmeno ci addentriamo nella storia della camorra, alludo a come si arriva a chi: sappiamo che a un certo punto il clan di Don Carmine detiene il dominio dello spaccio ma non ci viene spiegato come, pare non avere importanza, ma invece ne ha e molta, nel dare un senso agli stessi avvenimenti interni, interiori. La scissione psicologica di Alendelòn non è vera lotta con se stesso, non si percepisce una frizione così forte, lacerante, tra un dover essere e un essere. E la chiusura della vicenda è frettolosa, eppure si racconta una sorta di redenzione amara… Maria Cera



PRIMA DEL FILM I

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l singolare incontro/confronto fra Marco Bellocchio, Ettore Scola e Paolo Virzì, ospitato dal Maxxi il 23 Ottobre, è stato fra gli eventi più seguiti della nona edizione del Festival Internazionale del Film di Roma. La scoperta che i tre registi sono accomunati da una curiosa passione per il disegno, la stessa che già coltivava Federico Fellini, ha ispirato a Marco Chiarini (noto autore del film L’Uomo Fiammifero e del libro illustrato omonimo), insieme a Mario Sesti, prima l’allestimento di una mostra di 100 disegni originali firmati da Fellini, Scola e Virzì presso L’Arca di Teramo e poi la realizzazione del documentario Prima del film, che è stato presentato all’evento. Nei 40 minuti dell’opera, i tre registi non hanno alcuna esitazione a disegnare davanti alla macchina da presa e si divertono a raccontare quest’attività che svolgono nei momenti e nei luoghi più vari, al bar o mentre parlano al telefono, quasi mai su degli album ma spesso e volentieri su supporti cartacei improvvisati come un tovagliolo o la busta di una bolletta. è un modo di passare il tempo, fra un film e l’altro, mantenendo allenata la propria reattività rispetto al mondo circostante. Una sorta di flusso di coscienza continuo.

Regia: Marco Chiarini, Mario Sesti Nazionalità: Italia Anno: 2014 Durata: 40' Genere: Documentario Al contrario di come si potrebbe pensare, nessuno di loro sente la necessità di pre-visualizzare le inquadrature di un film o tracciare uno storyboard: in un Cinema autoriale e senza grandi effetti digitali come quello italiano è più importante parlare insieme agli attori direttamente sul set e realizzare un lavoro di squadra. Tuttavia, nelle fasi di preparazione di un film, i disegni possono aiutare il regista ad esprimere un’idea nel suo dialogo con il costumista o con lo scenografo. Addirittura, il disegno può riuscire a convincere un attore ad interpretare un ruolo: Virzì ha raccontato al pubblico che per il suo film N (Io e Napoleone) Daniel Auteuil era riluttante perché non si sentiva somigliante al condottiero ma, dopo aver visto il proprio profilo tracciato a mano dal regista su una copia del ritratto di Bonaparte, si esaltò.


DISEGNI DI

MARCO BELLOCCHIO

Prima del film ha il merito di documentare un’attività creativa che altrimenti andrebbe dispersa, visto che Bellocchio non dipinge più da quando ha intrapreso la carriera registica, Scola cestina quasi tutti i suoi disegni e Virzì regala le sue caricature alle persone ritratte. Ma questi “pupazzi” o “scarabocchi”, come qualcuno di loro

li definisce, sono diversi dai personaggi dei film perché sono indipendenti subito dopo essere scaturiti dalla mano degli autori. E «aiutano ad andare avanti- dice Scola perché ricordano che c’è sempre un lato buffo della vita, un lato buffo che prevale». Lucilla Colonna


TRASH I

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l giovane Billy Elliot, alla domanda: “Cosa è per te la danza?”, rispondeva: “Elettricità”. E sembra che Stephen Daldry – autore dell’omonimo famoso film del 2000 – dia la stessa risposta con il suo stile di regia. Con soli 5 film all’attivo, il regista britannico ha dato prova di essere un sofisticato direttore d’orchestra, capace di coordinare alla perfezione i magici strumenti che ogni pellicola dovrebbe possedere per (ri)suonare in modo magico. Sceneggiature possenti, cast di attori sempre di altissimo livello (nel suo The Hours vinse l’Oscar una certa Nicole Kidman che vestiva i panni di Virginia Woolf e in The Reader si aggiudicò ancora il prestigioso Oscar per la migliore interpretazione femminile una superba Kate Winslet) e un’enorme carica di pathos sia nella narrazione che nel montaggio. Lo stesso pathos e la stessa elettricità li ritroviamo nel suo ultimo lavoro: Trash. Daldry colloca l’occhio della macchina da presa lontanissimo dal benessere occidentale passivo a cui siamo abituati, decidendo di raccontare una storia ai margini del mondo: nelle favelas brasiliane. Una storia vera. Non “vera” perché i fatti sono realmente accaduti, ma perché incredibilmente verosimile nonostante gli eventi che si susseguono sulle schermo possano apparire straordinari. è sicuramente fuori dall’ordinario che tre ragazzini di 14 anni ritrovino un portafoglio appartenuto a un importante attivista politico rovistando nella spazzatura, oppure no? è certamente improbabile che gli stessi 3 ragazzini non accettino dalla polizia locale una lauta ricompensa in cambio di quel portafoglio, o no? Sono tante le domande che affollano la mente durante la visione del film. Domande curiose, accompagnate da immagini di azione ricche di tensione emotiva, che ti incollano alla poltrona e ti pervadono di una strana sensazione: un mix tra un senso di forte pericolo e di frizzante avventura. Non è una dote comune, per un regista, saper mescolare in modo sapiente diversi generi cinematografici; ci si accorge subito che l’obiettivo è stato centrato quando, a sorpresa, ti ritrovi catapultato dentro la storia e ne vivi sulla tua pelle i suoi drammi. Il cuore, la trama e il significato del film girano tutti attorno a questi invisible children brasiliani: vivaci, coraggiosi, imprevedibili. Aggettivi riferiti non solo alle caratteristiche dei lori personaggi, ma ai pregi dei giovanissimi attori di talento che li interpretano. Sono spinti da un’irrefrenabile voglia di cambiare il mondo, tipica non solo di chi vive in una condizione di povertà e disperazione, ma soprattutto di chi vive dentro sé un forte senso di giustizia e lealtà. Qualità che, tra l’altro, possiedono i popoli dalla cultura e dalla mentalità rivoluzionaria. La rivoluzione. Merce rara, di questi tempi. La giustizia. Sbeffeggiata dagli uomini di

Regia: Stephen Daldry Nazionalità: Gran Bretagna/Brasile Anno: 2014 Durata: 113' Genere: Avventura, Drammatico, Thriller potere e considerata un’utopia dalle genti disilluse dagli stessi, ipocriti burattinai dei governi. Quante persone metterebbero a repentaglio la propria vita per un ideale giusto? I 3 bambini sono convinti che ne valga la pena e iniziano ad indagare sul contenuto di quel portafoglio, intuendo che si tratti di qualcosa di tanto misterioso quanto rischioso. Si accavallano scene risalenti ad episodi passati con quelle che ritraggono il presente che, pian piano, diradano la nebbia fitta dell’enigma. Si respira una nera atmosfera di thriller e subito dopo si passa a momenti più leggeri e ironici. I bambini, con la loro innocenza ma al tempo stesso con la loro candida saggezza, si scambiano diverse battute brillanti che regalano al film una lieve (ma sagace) connotazione di commedia. Si nota come Daldry abbia concesso molto spazio alla recitazione spontanea, che ha dato modo ai giovani talenti di potersi esprimere al meglio tramite l’improvvisazione scenica, sia per quanto riguarda la sceneggiatura che i piani sequenza d’azione più adrenalinici. Vedere correre la piccola comitiva di brasiliani sui tetti della baraccopoli, inseguiti dalla polizia a cui, spesso, veniva esposto loro il dito medio…è senza dubbio materiale ottimo per una sana, catartica risata. Il film mantiene fino alla fine una sua coerenza, esalta l’umanità di un semplice gesto di amicizia e solidarietà tra chi ha un percorso in comune che necessita di essere portato a termine con tutte le forze. Un messaggio ben preciso di vera speranza contro il triste cinismo dilagante. Un elogio alla purezza. Oltre all’inedito cast di attori brasiliani, riconosciamo due volti hollywoodiani: Martin Sheen che interpreta il prete del villaggio e arricchisce l’opera con la sua evidente, sostanziosa esperienza attoriale e Rooney Mara, il cui ruolo avrebbe dovuto comunicare una dolcezza tipicamente femminile ma che si è rivelata inspiegabilmente catatonica. Si piange, si balla (attenzione, niente a che vedere con la favola di Danny Boyle, The Millionaire), si lotta fianco a fianco dei protagonisti. E poi esplode un grande applauso in sala che ti scalda come un abbraccio. Se si tenesse fede allo stesso calore provato davanti a uno schermo anche quando si ritorna alla realtà, sarebbe certamente un mondo migliore. “…dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior”.

Giovanna Ferrigno



SCRIVIMI ANCORA R

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osie ed Alex sono affiatati come solo i migliori amici sanno essere, si difendono sempre a vicenda, non hanno segreti e condividono gioie e dolori del loro essere adolescenti. La loro vita è già programmata e prevede la fuga da Dublino verso l’America per studiare e realizzarsi. Anche loro sentono che forse quello che provano non è solo affetto, ma non hanno il coraggio di dirselo bloccati dalla paura. Come si sa, le cose non seguono mai il tracciato previsto, e la vita si mette in mezzo con tutti i suoi inconvenienti, separando i due giovani. Il loro rapporto continua con lettere, video chat, messaggi e mail, mentre gli anni passano e i due giovani protagonisti devono fare i conti con errori commessi e occasioni mancate, nell’attesa di una svolta che forse è sempre stata a portata di mano. Il ritorno della commedia romantica per antonomasia, #Scrivimi Ancora è tratto da un best seller della scrittrice Cecilia Ahern, autrice anche del fortunato “Ps. I love you” e mostra al pubblico come una singola scelta sbagliata possa condizionare per anni le vite delle persone scatenando una reazione a domino che ritarda l’arrivo della felicità. Sul grande schermo è sempre stato un tema appassionante quello dell’amicizia tra uomo e donna : Esiste? Può reggere a gelosie e improvvisi cambiamenti? Oppure, come accade anche qui, una grandissima amicizia adolescenziale è solo l’anticamera di un rapporto più profondo? Alex e Rosie non lo sanno, sono giovani e incoscienti, sentono la forza dirompente che li spinge uno verso l’altro ma la paura li ferma sempre un attimo prima che la verità venga fuori. Pagheranno quel silenzio negli anni successivi attraverso rapporti disa-

Regia: Christian Ditter Nazionalità: UK Anno: 2014 Durata: 102' Genere: Commedia romantica strosi, dolori e tutto ciò che la vita può predisporre per spezzare il cuore. Una sola costante rimane intatta lungo tutta la storia, il sorriso che li travolge quando si incontrano e l’assoluta complicità della loro relazione. Sicuramente il regista, per la prima volta al timone di una commedia, aggiorna il canone classico del genere tenendo conto di una società in perenne contatto grazie ai social network e ringiovanisce il film inserendo numerosi intermezzi comici (notevoli gli attori in ruoli secondari, soprattutto l’amica di Rosie) e molti riferimenti sessuali piuttosto sfacciati. Lily Collins e Sam Caiflin sono giovani, bellissimi e incredibilmente affiatati; la forza maggiore del film sta proprio nella grande alchimia che i due attori protagonisti hanno saputo portare sullo schermo, rendendo palpabile la tensione emotiva perenne che li circonda quando sono insieme. #Scrivimi Ancora appassionerà i fan del genere, un po’ a digiuno di commedie romantiche vere e proprie, ma ha l’appeal giusto per richiamare in sala i più giovani, poco inclini a questo tipo di film ma attirati dal fascino dei due protagonisti. Emiliano Longobardi



GONE GIRL N

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ick ed Amy Dunne sono una giovane coppia sposata che vive in Missouri. Il giorno del loro quinto anniversario di matrimonio, Amy scompare nel nulla; Nick è individuato da subito come unico sospettato e viene messo alla gogna da concittadini e giornalisti tv. Mentre la polizia indaga e Nick cerca di scagionarsi dall’infame accusa di aver ucciso la moglie, continui flashback mostrano, con la voce narrante di Amy, l’inizio e lo sviluppo di questa storia d’amore disfunzionale e unica. Che Fincher sia uno dei maggiori cineasti contemporanei è fuori discussione, così come è oltre ogni dubbio che il thriller sia uno dei suoi generi prediletti, ma che fosse in grado di incollare lo spettatore allo schermo per la bellezza di 145 minuti senza sosta poteva sembrare una sfida troppo ardua. Gone girl rapisce lo sguardo e l’attenzione grazie ad una struttura di ferro che gira intorno ad una sola domanda: Nick Dunne ha ucciso sua moglie? Perché alla fine si tratta di questo, credere o non credere all’innocenza di un uomo che, interrogato, non conosce particolari della vita di sua moglie, appare spento e passivo di fronte a quello che potrebbe essere un barbaro omicidio. Certo, inutile dire che se il film si fermasse a questo sarebbe l’ennesima riproposizione di un cliché ormai scaduto, ma la pellicola è talmente densa di “twist” e cambi di prospettiva che ogni parola in più può essere considerata spoiler. Tratto dal bestseller omonimo di Gillian Flynn, che qui cura anche la sceneggiatura, Gone girl è un gioco a incastri, una lotta tra due versioni, quella presente di Nick che ci trasmette l’idea di una moglie possessiva e manipolativa, perennemente insoddisfatta di lui, e quella al passato di Amy, tramite i numerosi flashback, che dipinge Nick come un uomo violento, pigro, che non vuole figli e l’ha costretta a vivere da reclusa in Missouri. Quest’uomo, secondo Amy, potrebbe arrivare ad ucciderla. Il gioco delle parti è reso ancora più avvincente dalla personalità dei due protagonisti, entrambi affascinanti, carismatici e soprattutto molto intelligenti. Il film è un enigma perfetto, un’opera straordinaria che divide equamente il merito tra più componenti: la sceneggiatura intrigante e solida, le musiche della solida coppia Ross-Reznor (qui alla terza collaborazione con il regista) che accompagnano con struggente intensità i momenti più avvincenti del film, la regia di un maestro come David Fincher, assolutamente vitale in un opera come questa dove ogni sguardo sottolinea una verità taciuta; e poi ci sono loro, i due incredibili attori protagonisti. Ben Affleck qui aveva l’occasione di dimostrare che è in grado di reggere sulle sue spalle il peso di un film atteso e importante come questo, e vince pienamente la sua

Regia: David Fincher Nazionalità: USA Anno: 2014 Durata: 145' Genere: Thriller scommessa. Dismesso, passivo aggressivo, bugiardo, il suo Nick Dunne si presenta come l’uomo perfetto ma sotto quella patina si nasconde rancore e insofferenza. Su tutti, indistintamente, brilla lei, Rosamund Pike, che dopo numerosi film più o meno apprezzati qui entra a gamba tesa nella serie A delle interpreti; la Pike è letteralmente stratosferica, la sua voce suadente ipnotizza mentre la sua storia tragica cattura l’attenzione e spinge istintivamente tutti, personaggi del film e pubblico in sala, a tenere per lei e per la sua rivalsa su un marito odioso. Gone girl è probabilmente il thriller dell’anno, ma vuole essere più di questo, è anche paradossalmente una metafora potente sul matrimonio contemporaneo e sui segreti nascosti dalle quattro mura domestiche. Grazie a due attori in stato di grazia, una regia da manuale e una sceneggiatura tutta da scoprire, L’amore bugiardo è un film che merita di essere visto e apprezzato da tutti gli amanti del buon cinema. Emiliano Longobardi



FOCUS MARIO BAVA

OPERAZIONE PAURA Q

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uesta edizione del Festival del Cinema di Roma rende omaggio al regista Mario Bava, nel centenario della nascita, con un ciclo di film tra il gotico e l’horror. Apre la rassegna Operazione Paura del 1966, recentemente restaurato dal Centro Sperimentale di Cinematografia. Il film narra le vicende di un medico (Giacomo Rossi Stuart) chiamato a svolgere l’autopsia di una giovane donna in un paese sperduto e maledetto; da tempo ci sono delle morti misteriose riconducibili a Villa Graps, dove abita la baronessa, madre della piccola Melissa (Valerio Valeri), che a otto anni venne investita da una carrozza e morì dissanguata. Per vendetta il fantasma della bambina appare ripetutamente fino a spingere al suicidio le vittime; attorno alla villa gli abitanti del piccolo paese costruiscono una spirale di paura e superstizione alla quale inizialmente il dottore non vuole credere. Da uomo di scienza è pronto a collaborare insieme al commissario, uomo di legge, affinché si trovi una spiegazione razionale. Il commissario viene barbaramente ucciso e il borgomastro viene condotto al suicidio dal fantasma di Melissa; il dottore si ritrova solo insieme alla giovane assistente Monica (Erica Blank), che scoprirà di essere la figlia minore della baronessa, allontanata in tenera età per sfuggire alla vendetta del fantasma della sorella. Il dottore, preso atto che non c’è alcuna spiegazione razionale nei tragici accadimenti cerca di porre fine alla catena di morte; sarà la strega Ruth (Fabienne Dali) ad uccidere la baronessa, vera artefice della maledizione, che attraverso i suoi poteri medianici consentiva all’anima di Melissa di agire per il tramite del suo corpo. Ruth morirà insieme alla baronessa ma avrà vendicato il suo amante e una volta per tutte avrà posto fine alla maledizione. è l’odio la matrice della storia; a scatenare la vendetta di Melissa è proprio l’odio suscitato dal mancato soccorso durante l’incidente in cui perse la vita; nessuno aveva voluto aiutarla per paura di essere incolpati dell’accaduto e perché gli abitanti del villaggio odiavano la famiglia Graps. Come sosteneva l’altro indiscusso maestro dell’horror Riccardo Freda, che aveva collaborato col lo stesso Bava, “l’orrore vero è quello radicato dentro di noi fin dalla nascita”. I fantasmi, le porte che scricchiolano, i fruscii, le porte che si aprono nel buio e quelle che si chiudono imprigionando le vittime: sono tutte rappresentazioni dell’inconscio che prende forma e che de-forma la realtà, per mostrarcene le storture. Il film racchiude alcuni degli elementi tipici della filmografia horror di Mario Bava, tra cui l’attenzione all’immagine,

Regia: Mario Bava Nazionalità: Italia Anno: 1966 Durata: 83' Genere: Horror

di cui Bava è artigiano e costruttore, come spesso viene definito; la tonalità dominante delle scene è bruno-giallastra, la fotografia è cupa, la nebbia e le ragnatele contribuiscono a creare quell’atmosfera di tensione che regge tutto il film e che fa passare in secondo piano la trama, semplice e lineare. Sono le immagini a costruire il film. E proprio perché l’immagine è costruita e artefatta è essa stessa una metafora del cinema, del “doppio”, di quella dicotomia tra realtà e finzione che Mario Bava gioca a dissacrare. In una sequenza di scene di Operazione Paura il dottore insegue se stesso fino a rendersi conto che si tratta di un illusione. Si notano anche alcune influenze dalla commedia, che Mario Bava portava avanti sempre in quegli anni (si pensi alle parodie con Franco Franchi e Ciccio Ingrassia): in una scena, la sottoveste di Monica viene alzata dal vento che entra dalla finestra mostrando le cosce. Nella scena successiva l’attrice appare in camicia da notte trasparente. Il film, che fu girato in una ventina di giorni ed ebbe scarso successo in sala, è oggi considerata una delle opere migliori di Mario Bava, fonte di ispirazione di importanti cineasti del calibro di Martin Scorsese, Tim Burton e Quentin Tarantino; lo stesso Fellini in Toby Dammit, riprese la bambina che ricorda la Melissa Operazione paura. Anna Quaranta



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Firmato dal critico cinematografico Francesco Lomuscio, tra i più noti esperti italiani del genere horror, Zombi – Oltre 900 titoli per non riposare in pace è edito da Universitalia, nella collana Horror Project. Oltre 900 film schedati e recensiti, 213 titoli citati e più di 150 schede tecniche di cortometraggi per ripercorrere tutta la storia del cinema degli zombi decennio per decennio, dai tempi del muto a quelli odierni degli elaboratissimi effetti digitali e delle invasioni televisive di morti viventi. Un viaggio alla scoperta delle origini e del lungo, lento e inesorabile cammino intrapreso nell’ambito della Settima arte dalla figura dell’horror che, ormai conosciuta come salma resuscitata e affamata di carne umana, nasce in realtà attraverso il Voodoo e con connotati completamente diversi; per poi espandersi non soltanto all’interno del genere caro a Dracula e Freddy Krueger, ma spaziando in filoni totalmente estranei quali la commedia, i prodotti per bambini e, addirittura, il porno. Un viaggio che l’autore ha concretizzato su carta nel corso di oltre vent’anni di ricerche, letture di materiale cartaceo e visioni di opere audiovisive edite ed inedite in Italia, di qualsiasi nazionalità, incluse produzioni orientali, low budget e perfino amatoriali. Quindi, un viaggio che non si limita ad includere soltanto l’arcinota saga zombesca di George A. Romero e i suoi famosi precursori e successori, da Ho camminato con uno zombie + di Jacques Tourneur a Il ritorno dei morti viventi di Dan O’Bannon e World War Z con Brad Pitt, ma arriva a toccare anche il serial cinematografico Zombies of the stratosphere, esperimenti televisivi quali Dead set e Masters of horror, i resuscitati ciechi spagnoli e, addirittura, sconosciuti elaborati fatti in casa, dal britannico Summer horror day al tedesco Natural born zombie killers. Con prefazione a cura di Daniela Catelli, redattrice ed autrice per ComingSoonTelevision, Zombi – Oltre 900 titoli per non riposare in pace è ordinabile attraverso i migliori mail order e nelle migliori librerie. Per informazioni: francesco_lomuscio@fastwebnet.it

Zombi Oltre 900 titoli per non riposare in pace Autore: Francesco Lomuscio Label: UniversItalia Collana: Horror Project Pagine: 488 Lingua: Italiano Prezzo: 29,90 € ISBN 978-88-6507-491-6



FOCUS MARIO BAVA

LA MASCHERA DEL DEMONIO E

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sordio alla regia di Mario Bava, La Maschera Del Demonio è il capostipite, insieme ad alcuni film di Riccardo Freda, dell’horror italiano; nonostante l’accoglienza calorosa all’estero – in Francia i Cahiers du Cinema lo considerarono una scoperta, mentre in America venne distribuito con il titolo di Black Sunday -, il film non riscosse molto successo in Italia. Ispirato ad un racconto di Nicolaj Gogol, narra le vicende di una nobile famiglia perseguitata da una maledizione inflitta due secoli prima da Asa Vajda (Barbara Steel, attrice inglese all’epoca poco conosciuta, che proseguirà la sua carriera di attrice con Federico Fellini, Joe Dante, David Cronenberg, Johnatan Demme), al momento della condanna al rogo per stregoneria, ad opera del suo stesso padre, Grande Inquisitore. La maledizione gettata sui discendenti della sua famiglia si sta per compiere quando Asa cerca di impossessarsi del corpo della giovane Katja che ha le stesse sembianze della sua antenata e che trascorre un’esistenza cupa e attraversata da un costante presagio di morte; “un’anima senza pace e un corpo in letargo”, Katja perderà suo padre (interpretato da un giovane Ivo Garrani), suo fratello, e i suoi servitori, uccisi dai fantasmi della principessa Asa e del principe Javutich che fu condannato insieme a lei. A salvare la giovane Katja dalla maledizione eterna interviene il giovane dottor Gorobec, che inizialmente fatica, da razionale uomo di scienza, a comprendere la successione di misteriosi eventi e per questo si fa aiutare dal prete; si ritrovano nel personaggio del dottor Gorobec alcuni tratti in comune con il medico di Operazione Paura, che come Gorobec arriva da straniero in un posto maledetto e cerca, attraverso la ragione, di aiutare la giovane protagonista a liberarsi dalla maledizione. Ma la ragione non può nulla contro i vampiri i fantasmi, e soprattutto contro l’odio la rabbia e il rancore che si sono scatenati contro le protagoniste di entrambi i film. Sebbene il film ripercorra tematiche comuni al genere horror e all’opera di Bava, le tecniche con le quali vengono costruite scene paesaggi e ambientazioni e la fotografia rendono ancora oggi la pellicola, nella versione restaurata dal Centro Sperimentale di Cinematografia, un esempio di qualità e professionalità. L’uso del biancoe-nero, dei chiaroscuri sinistri e delle ombre claustrofobiche, delle ragnatele che lasciano intuire sinistre presenze: da artigiano della luce Bava tratteggia e sfuma le ombre e definisce contorni, come se usasse il carboncino su un foglio di carta, dando allo spettatore quella sensazione di costante paura e tensione, tanto cara agli appassionati del genere.

Regia: Mario Bava Nazionalità: Italia Anno: 1960 Durata: 87' Genere: Horror Come per Operazione Paura anche La Maschera Del Demonio viene ripreso quasi per tutto in film in terza persona, da un narratore esterno alla vicenda, lo stesso Bava, che sfrutta il doppio personaggio interpretato dalla Steele, per ricordare allo spettatore che il cinema è illusione, finzione e non realtà; come accadrà al dottore di Operazione Paura, che rincorre se stesso illudendosi che sia il fantasma della piccola Melissa, anche il giovane dottor Gorobec cadrà nella trappola tesa da Asa, che lo confonde e lo induce ad uccidere la giovane Katja. E forse anche quell’eccesso di “fantastico” e di gotico che caratterizza tutta la sua produzione, quelle trame così lineari e immerse in una luce sempre soffusa che rende uguali il giorno e la notte, servono proprio a questo; ma per quanti sforzi Bava possa fare –in alcuni film con una carrellata all’indietro svela allo spettatore addirittura i trucchi del mestiere impiegati per gli effetti specialie per quanto lo spettatore sia cosciente del “tradimento” in atto sul grande schermo, la bravura di Bava fotografo supera il Bava meta-cinematografico e, accompagnate dal rumore rassicurante di una vecchia pellicola, ci regala suggestioni che oggi, nell’era del digitale, sono sempre più rare. Anna Quaranta



FOCUS MARIO BAVA

LA RAGAZZA CHE SAPEVA TROPPO

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a le tinte del giallo e l’eleganza del noir questo secondo lungometraggio diretto da Mario Bava, che riunisce gli archetipi del thriller al quale Dario Argento si ispirerà qualche anno più tardi; l’assassino psicopatico in impermeabile e guanti neri, il buio che insidia e trasmette angoscia e i movimenti della macchina da presa che disorientano lo spettatore soffermandosi e indugiando sugli oggetti, quasi a volerlo distrarre. Nora Davis, una giovane e romantica turista americana appassionata di romanzi gialli, arriva in una Roma completamente diversa dall’immagine che aveva della città Eterna; gotica fantastica onirica surreale, nella Roma che Bava costruisce con il suo chiaroscuro e la sua macchina da presa si nascondono insidie e pericoli; la ragazza assiste ad una serie di omicidi ma inizialmente nessuno le crede; in ospedale, dove viene ricoverata sotto shock, due medici le dicono che la stanchezza, la passione per i troppi romanzi gialli e l’alcool le hanno giocato un brutto scherzo facendole immaginare tutto. Nel frattempo Nora trova ospitalità nella casa di Laura, la cui sorella era stata assassinata dieci anni prima, con le stesse modalità degli omicidi a cui la giovane americana aveva assistito poco tempo prima; Quando Nora si rende conto di essere la vittima successiva è decisa a cercare la verità, quella assoluta (“ormai solo la verità poteva restituirle il sonno”); tra le scorrazzate da turista, scortata dal bel medico Marcello, Nora prosegue le sue indagini e arriva al giornalista Andrea Landini, che morendo apparentemente suicida le lascia una confessione battuta a macchina. Meravigliosa la scena in cui Nora scopre il cadavere di Landini, con il rumore della macchina per scrivere riprodotto da un giradischi, messo apposta dall’assassino del giornalista per far credere che fosse chiuso in stanza a lavorare: questo è soltanto una delle infinite metafore di Bava per rappresentare quella dicotomia tra realtà e finzione a lui tanto cara. Convinta che il suicidio di Landini sia la fine di tutto quell’incubo, Nora casualmente scopre che l’assassino in realtà è la stessa Laura, che aveva ucciso la sorella anni prima per questioni ereditarie, e per sviare i sospetti aveva ucciso anche altre due donne, facendo credere che si trattava di un assassino seriale. E torna di nuovo l’illusione, la costruzione della finzione affinché prenda il posto della realtà; così come la passione di Nora per i romanzi gialli e quel dubbio alla fine del film che quanto accaduto sia frutto di un’allucinazione generata da una sigaretta di marijuana che le era stata offerta da un passeggero in volo. La Ragazza Che Sapeva Troppo rompe gli schemi del precedente La Maschera Del Demonio anche per la morbida sensualità che sprigiona dalla cinepresa, che

Regia: Mario Bava Nazionalità: Italia Anno: 1962 Durata: 88' Genere: Noir lentamente indugia sugli oggetti e sulle morbide fattezze della protagonista, lasciando assaporare –ma solo per un attimo- allo spettatore un’atmosfera accogliente e quasi rassicurante. La voce narrante fuori campo, la musica jazz di Les Baxter (e la canzone Furore di Adriano Celentano) e la storia d’amore che piano piano affiora tra la protagonista e Marcello Bassi confondono più volte lo spettatore, quasi certo di trovarsi davanti ad una commedia; con maestria e abilità Bava torna ai suoi chiaroscuri e alle sue atmosfere cupe con una scioltezza e una naturalezza propri di un uomo di mestiere, sapiente miscelatore di professionalità e passione. Anna Quaranta



BIAGIO B

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iagio, l’ultimo lungometraggio di Pasquale Scimeca, prima che un film sulla vita di un uomo che ha rinunciato alla civiltà dei consumi per intraprendere un percorso diverso fatto di povertà, essenzialità, rapporto con la natura e semplicità, sulle tracce dell’esempio di S. Francesco, è una profonda riflessione sul cinema, e, più in generale, su cosa significhi, oggi, realizzare un’opera. Lo stesso Scimeca introduce – appare in un istantaneo cammeo – il film, e lo vediamo seduto al banco della moviola mentre parla con un suo collaboratore, ponendo(si) una domanda fondamentale: «Per chi facciamo i film, per noi stessi o per gli altri»? Biagio, quindi, diventa un’occasione per sviluppare una questione decisiva che, tra l’altro, ricorda non poco, per il tema trattato, l’ultimo film di Leos Carax, Holy Motors, dove l’autore sollevava un’acuta riflessione su cosa significhi continuare a produrre, sempre che ci si riesca, bellezza, e in cui ad essere tematizzato era, in particolare, lo sguardo dello spettatore, il versante della fruizione. Seguiamo Biagio Conte (Marcello Mazzarella) nel suo viaggio – che non è una fuga, ma nemmeno un ritorno – che lo conduce verso la natura, con la quale intrattiene un rapporto viscerale, sacrale, fatto di rinuncia, ma, allo stesso tempo, di gioia. Particolarmente riuscita è la sequenza in cui lo vediamo raggiungere una piccola cascata in mezzo al bosco: davanti alla bellezza gratuita, immediata di questo scenario, prova commozione, alza le braccia al cielo, celebrando la meraviglia di quello spettacolo. Esattamente come faceva il centauro che istruiva Giasone all’inizio di Medea di Pier Paolo Pasolini: Tutto è santo, tutto è santo, tutto è santo. Non c’è niente di naturale nella natura, ragazzo mio. Tienilo bene in mente; quando la natura ti sembrerà naturale, tutto sarà finito, e comincerà qualcos’altro; addio cielo, addio mare. Che bel cielo! Vicino, felice. Dì, ti sembra che un pezzetto solo non sia innaturale e non sia posseduto da un dio? La natura nella sua eccedenza diviene il luogo a partire da cui Biagio fa esperienza della privazione, ma, al tempo stesso, di un’essenzialità che libera dai bisogni indotti, dal superfluo, e lo vediamo ritornare bambino, ma non nel senso di una regressione quanto piuttosto di una liberazione dalle sovrastrutture. Rinunciando all’utilizzo del denaro, Biagio s’installa in una fase pre-capitalistica, dove invece del valore di scambio vige ancora il valore d’uso, e in questo senso, forse, gli si possono riconoscere i tratti del rivoluzionario. Lo seguiamo nel suo ritorno in città, dove, dopo una prima fase di spaesamento, comincerà la sua attività benefica, occupando l’ex disinfettatoio di via Archifari a Palermo, da anni in abban-

Regia: Pasquale Scimeca Nazionalità: Italia Anno: 2014 Durata: 90' Genere: Biografico dono, in cui fonda la missione di Speranza e Carità, offrendo un tetto e un pasto caldo a chi ne ha bisogno. Scimeca, poi, mette in scena se stesso con un personaggio che, dovendo realizzare il film su Biagio lo intervista, e, verso la fine del film, afferma: «Volevo fare un film bello che costituisse un’occasione di salvezza per chi lo guarda». Torna, dunque, la questione di cui si diceva all’inizio, e, forse, pare abbozzata una risposta: offrire una prospettiva alternativa, un cinema che occasioni non solo idee estetiche, come di certo il grande cinema sa fare, ma anche altre possibilità, altre rotte da praticare, e la rinuncia, il divenir-bambino, il perseverare disinteressatamente costituiscono alcune ipotesi, che, al di là di ogni retorica gratuita (giacchè vissute da Biagio sulla propria pelle), vale la pena di prendere in considerazione, anche, e soprattutto, in una prospettiva laica. Luca Biscontini



LUCIFER A

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nche nelle feste qualche sorpresa arriva, e la Festa del Film di Roma schiude dentro Cinema .d’Oggi un fiore dal nettare visivo e narrativo ipnotico, stupefacente (nella duplice accezione di inalatore di meraviglia e di attrazione irresistibile nel proprio mondo). Gust Van den Berghe è un giovane regista fiammingo (del 1985) dalla spiccata personalità autoriale. Sarei molto curiosa, dopo la visione di Lucifer, di scovare e guardare il suo film di diploma studentesco – adattamento da una pièce del fiammingo Felix Timmermans che ha per protagonisti dei disabili mentali. Terza parte di un trittico composto da Little baby Jesus of Flandr (2010) e Blue Bird (2011), entrambi mostrati al Festival di Cannes sulla stessa rotta di ricerca di una CONOSCENZA che con Lucifer viene agganciata a quelle civiltà primordiali che, pur non sapendo, avevano in realtà raggiunto l’apice del conoscere. Lucifero, un tempo l’angelo preferito da Dio, è stato cacciato e prende la strada dell’Inferno. Non è più un angelo, ma non è ancora un demone: è uno di noi. è il primo ad avere avuto la consapevolezza del Bene e del Male. è lui che ci ha trasmesso questa consapevolezza, lui il responsabile del peccato originale, della comparsa del libero arbitrio e della conoscenza tra gli uomini. Gust Van den Berghe ambienta il confronto tra il nostro precursore e l’umanità acerba e innocente a cui si accosta, in Messico, vicino al Parícutin, il più giovane vulcano del mondo. Lì il tempo si è fermato, un passato che resiste mentre attende di precipitare. Un luogo dove gli abitanti vivono in modo semplice, cercando con un sottile altoparlante rivolto al cielo di intercettare Dio, mentre costruiscono una specie di Chiesa-Torre di Babele nel tentativo di salire su, visto che qui sotto lui non si fa vivo. Nel villaggio che Lucifero attraversa vivono l’anziana Lupita e sua nipote Maria, esseri di una ingenuità tenera, dei lattanti, da abitanti dell’Eden. Lucifero incontra le due donne sul suo cammino e si rende subito conto che Emanuel, il fratello di Lupita, si finge affetto da paralisi per poter bere e giocare a carte, lasciando le due a badare alle capre. Intercettando un terreno fertile e da contaminare, Lucifero si finge miracoloso guaritore. Da quel momento la vita del villaggio e dei suoi abitanti non sarà più la stessa , e Maria e Lupita sperimenteranno più di altri il ‘dubbio’ della corruzione. Pur non riuscendo il futuro demonio a strappare le radici alla purezza fideistica del villaggio, la miccia della conoscenza è stata lasciata a fermentare… Gust Van den Berghe cristallizza la narrazione dentro il Tondoscope, un formato visivo circolare che contieneisola ciò che è vivo dal buco nero che lo contorna, rimar-

Regia: Gust Van den Berghe Nazionalità: Belgio / Messico Anno: 2014 Durata: 110' Genere: Drammatico cando in questo modo la magica presenza della vita: «Per me il Paradiso racchiude l’Eden nel suo centro. C’è un rassicurante senso geometrico della perfezione nascosta in esso che crea una rappresentazione angusta e semplicistica in cui ogni via di salvezza potrebbe sconvolgere il mondo». Già questa soluzione introduce tra noi e la realtà che osserviamo un filtro che enfatizza un al di là che la stessa Terra pare contenere. La fotografia ‘ascetica’, unita ad un sonoro così vivido ed esterno al cerchio vitale da cui emerge, dà all’esistenza che vediamo scorrere (grazie anche al naturalismo della gente del luogo presa a ‘recitare’) l’aura di miniature caleidoscopiche. Dei bassorilievi moderni dell’uomo e dell’esistenza che erano tanto tanto tempo fa… Una potenza visiva e narrativa subdola e penetrante ‘acceca’ questo film, come la discesa agli inferi dell’uomo che Sokurov nel suo Faust compie… Il rimando che più spesso Lucifer mi ha trasmesso. Un autore, Gust Van den Berghe, da non perdere di vista per niente al mondo. Maria Cera



TAKASHI MIIKE, PREMIO MAVERICK DIRECTOR

AS GODS WILL I

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l punto di partenza è la noia di un adolescente che cammina fra le strade caotiche della metropoli in cui vive, desiderando ardentemente un salvifico altrove. Il cielo sembra in qualche modo accorgersene e da quel momento il film scaraventa lui e noi, senza darci il tempo di riprendere fiato e men che mai di annoiarci, in un folle quanto inesorabile meccanismo dai contorni ludici e sadici, che risucchia e ridisegna l’esistenza non solo del protagonista ma anche dei suoi compagni e delle sue compagne di scuola, insieme alle vite di tutti gli adolescenti del mondo. Se in Evil’s lesson (Il canone del male, 2012) Takashi Miike metteva in scena la carneficina di un intero istituto scolastico ad opera di un diabolico insegnante, qui le proporzioni della strage si ingigantiscono, al punto che tutti gli adulti della Terra si trovano nella condizione di non poter far altro che seguire sugli schermi, da spettatori, la notizia della morte di dieci milioni di studenti e l’evolversi di un inarrestabile e orribile gioco ad eliminazione. Il Maestro giapponese, per la terza volta consecutiva presente al Festival Internazionale del Film di Roma, continua a sorprenderci con l’ennesimo lungometraggio intinto nell’assurdo, cinico come un videogioco e buffo come un manga, eppure veicolo di spunti riflessivi sulla nostra società. Dominano i colori della bandiera nipponica: bianco abbagliante per gli ambienti a forma di cubo che imprigionano i ragazzi, rosso saturo per il sangue che esce a fiotti dai corpi decapitati e si raccoglie in mucchi di biglie. Viceversa, la dimensione planetaria dell’opera si evince dalla scelta degli inquietanti giocattoli che interagiscono con i giovani protagonisti: si comincia da una versione mortale della bambola daruma giapponese, ma ci si imbatte pericolosamente pure in un orso bianco che sembra uscito dalla pubblicità della Coca Cola, e si finisce per cadere nella trappola di una beffarda matrioska russa. Il ruolo subalterno che ricoprono le protagoniste femminili rispecchia un aspetto tipico della cultura tradizionale giapponese ed evoca il maschilismo di alcuni testi sacri come l’Antico Testamento e il Corano. Chi ricorda i finali dei film precedenti, quello di 13 Assassini su tutti, non perda le speranze che qualcuno sopravviva: alla fine di una fiera in cui non c’è posto per ideali e sentimenti, forse la divinità (che appare al plurale nel titolo internazionale As gods will e diventa singolare nella traduzione italiana Per volere di dio) risparmierà delle vite e sceglierà un altro Caino e un altro Abele da cui ricominciare… Lucilla Colonna

Regia: Takashi Miike Nazionalità: Giappone Anno: 2014 Durata: 120' Genere: Horror



TAKASHI MIIKE, PREMIO MAVERICK DIRECTOR

INCONTRO CON TAKASHI MIIKE

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All’indomani della proiezione in anteprima mondiale del suo ultimo film, As The Gods Will, l’instancabile e prolifico cineasta giapponese Takashi Miike ha incontrato il pubblico della nona edizione del Festival di Roma, in un’assolata domenica mattina tardo estiva e già affollata di ragazzine in attesa del passaggio pomeridiano sul Red Carpet dell’attore Sam Claflin (Love, Rosie) Indiscusso maestro del cinema contemporaneo, autore che ha scavalcato le barriere della distribuzione ufficiale, con un centinaio di film al suo attivo, Takashi Miike appare visibilmente emozionato e contento di parlare al suo pubblico e si dice sorpreso, visto che di domenica mattina agli italiani piace dormire! Manlio Gomarasca, del Comitato di selezione del festival, parte dall’aggettivo che più rappresenta Miike, “giocoso”; i suoi film nascono dalla rielaborazione di forme e generi tradizionali di intrattenimento, come i videogames e gli archetipi appartenenti alla cultura giapponese come i Manga, per poi manipolarli con un impeto ed un impatto tali da creare un flusso continuo di opere sempre moderne e aperto a nuove possibili rielaborazioni As The Gods Will segna il ritorno di Miike all’horror giocoso, a differenza delle opere precedenti, più viscerali. Miike si definisce un cineasta, il suo impegno è quello di dare il massimo nel suo lavoro, la categorizzazione di horror, e poi quella di horror più o meno giocoso arriva in un secondo momento: quello che ha voluto fare con il suo ultimo film è stato riprendere gli eroi della precedente generazione e portarli sul grande schermo, affinché un pubblico sempre maggiore potesse conoscerli. Il pubblico ha applaudito calorosamente l’anteprima mondiale di As The Gods Will a Roma; nell’attesa di vedere quali saranno le reazioni del pubblico giapponese all’ultima opera di Miike, il dibattito prosegue chiedendo al regista qual è il suo rapporto con il cinema di casa sua; Miike è cresciuto con i film sui samurai, che l’hanno sempre entusiasmato e lo portano ancora oggi a sviluppare uno studio accurato per ricostruire in dettaglio certe scene del passato. La sua è una carriera iniziata non dalla “porta principale”, ma da video prodotti con budget molto limitati; oggi può permettersi un impatto produttivo decisamente maggiore; sulla questione dapprima gli viene chiesto quando le case di produzione si sono accorte di Takashi Miike e poi si affronta il discorso sulla libertà creativa più o meno vincolata alle scelte di produttori e distributori. Divertito, il regista risponde che le case di produzione non si sono ancora accorte di lui, e sulla libertà di espressione sostiene che prima di tutto cerca di mantenere la legge-

rezza delle sue prime opere a basso costo; oggi è difficile rispettare la “compliance” imposta dalle aziende, ma nonostante ciò riesce ancora a ritagliarsi una libertà che aggiunge valore al suo lavoro. E quel valore è dato anche da un’altra caratteristica di Takashi Miike, che affianca inventiva immaginazione e libertà ad una rigorosa disciplina, applicata sin dagli esordi e costantemente rispettata e perseguita in quanto esempio più alto di professionalità; disciplina e libertà, sebbene all’apparenza in contrasto tra loro, restano i capisaldi fondamentali del suo metodo di lavoro. Non importa quanti soldi si hanno a disposizione o quali restrizioni e vincoli vengano imposti dalla censura: se il punto di partenza è buono, il produttore è serio e attento, questo mette in moto la voglia e l’interesse di Miike, che risolverà a mano a mano che gli si presenteranno i problemi legati ai costi e alla censura. In alcuni casi un budget limitato è fonte di una maggiore libertà di espressione e di divertimento. Se viceversa si ha un budget importante, bisogna fare molto successo di botteghino e questo costringe ad una minore libertà perché, affinché si mantenga un intrattenimento di media che raggiunga un pubblico sempre più vasto. In realtà, ed è questa la grande lezione di Takashi Miike, valida per tutti i mestieri, siamo più legati a noi stessi e agli “stili” che ci creiamo, è per questo che ribadisce l’importanza di essere sempre attivi e confrontarsi con gli altri. E, ancora sulla libertà di espressione, quanto le aspettative di un pubblico abituato ad un Miike sempre più eccessivo e visionario possono costituire una limitazione? Lui svicola il concetto di “limitazione” e dichiara che fare un film è un cammino, sempre e comunque; ogni nuovo film gli dà la possibilità di seguirlo per i Paesi e i pubblici ai quali è mostrato e questo cammino aggiunge esperienza e divertimento al suo lavoro. Takashi Miike raccoglie consensi anche da altri maestri di cinema, come Quentin Tarantino e Guillelmo Del Toro; il suo rapporto con gli Stati Uniti resta piuttosto legnoso: “si dice che l’America sia il Paese delle libertà, e lo sanno tutti, vero?” ironizzando sulla censura vigente nella cinematografia statunitense. In effetti gli venne offerto di girare uno dei tredici episodi di Masters Of Horror, dopo essere stato avvisato che avrebbe potuto mostrare le zone intime (ma non le scene di penetrazione), il suo episodio fu eliminato, con tanto di scuse attraverso le pagine del New York Times. E a proposito di censura, in Giappone esiste una commissione (e scherza dicendo che è formata da membri che avrebbero voluto fare cinema ma non ci sono riusciti) e stabilisce l’età minima per la visione


del film e si trova d’accordo con le scelte fatte dalla commissione, come forma di rispetto verso i genitori. L’America e il suo cinema restano comunque un punto di riferimento importante per la sua opera. A 12 anni la incontrò nei film di Bruce Lee e si rese conto che si trattava di un cinema di intrattenimento talmente potente che era capace di far continuare a vivere un attore anche dopo la sua morte. La forza di Takashi Miike irrompe quando gli chiedono se rivede i suoi film e quale delle sue opere sente più sua. Ridendo (ma non troppo) dice di detestare questo genere di domande e risponde che i suoi film li rivede soltanto ai festival ai quali partecipa (come è accaduto ieri per la proiezione di As The Gods Will), perché “passo direttamente al set del lavoro successivo”, e quindi a nuove persone e nuove esperienze. E il flusso continuo che lo spinge ad andare sempre avanti fa sì che il film più rap-

presentativo sia sempre la sua opera più recente, come somma, in quel preciso momento, di quanto vissuto e sperimentato. La forza e l’intelligenza delle sue opere contengono l’omaggio allo Spaghetti Western, al cinema di Pasolini (alcuni critici hanno visto in Visitor Q un debito nei confronti di Teorema) e alle atmosfere di Fellini; da piccolo è stato fortemente influenzato dal cinema italiano, trasmesso in televisione; ma da ragazzo giapponese si era reso conto sin da subito che il cinema di Fellini era di uno splendore inimitabile, fatto con “quella intelligenza propria degli italiani”. E poiché “noi giapponesi non possiamo riprodurla, il mio compito è quello di fare altre cose”. E mai come in questo caso è proprio vero che il mondo è bello perché è vario. Anna Quaranta


IL SALE DELLA TERRA U

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no sposalizio senza precedenti, quello fra il regista e fotografo tedesco Wim Wenders, autore capace di influenzare intere generazioni con film cult entrati nella storia del cinema eppure in grado di mantenere intatto il suo sguardo appassionato e solidale con la condizione umana ed il suo cammino, ed il brasiliano Sebastiao Salgado, uno dei fotografi più importanti di tutti i tempi, viaggiatore indefesso alla ricerca dell’uomo e della sua relazione con la natura fin nei meandri più remoti della Terra, ecologista ed attento alla sofferenza dei popoli come pochi altri. Dall’incontro quasi casuale (Wenders aveva nel suo studio due foto di Salgado che lo avevano profondamente colpito ma solo cinque anni fa ha avuto l’occasione di conoscerlo) di questi due ‘giganti’ nasce il documentario The Salt of The Earth, presentato nella sezione Un Certain Regard del Festival di Cannes come un vero e proprio avvenimento, e riproposto al Festival Internazionale del Film di Roma. Wenders accompagna con grande riservatezza la storia personale e professionale di Salgado: dalle proteste giovanili agli studi di Economia, all’incontro con Leila Wanik, la donna che per 50 anni gli è stata vicina nella vita e nel lavoro, ed alla nascita dei due figli, fino alla scoperta della sua vera, grande passione, la fotografia. I servizi di Salgado, ed i suoi viaggi nei cinque continenti, da quel momento inarrestabili, evolvono in un lavoro febbrile, rigorosamente in bianco e nero, dove le immagini della miseria e del dolore, dell’abiezione e della bellezza, s’intrecciano col desiderio di prossimità del fotografo a popoli ed individui, laddove carestie, stragi e guerre fratricide sembrano non lasciare speranza per le generazioni attuali e future. Il documentario è stato presentato da Wenders insieme al figlio maggiore di Sebastiao, Juliano Ribeiro Salgado, che ha seguito il padre nei suoi ultimi viaggi alla scoperta del Pianeta, utili per conoscere davvero un genitore quasi sempre assente, e che ne raccoglie oggi l’eredità spirituale (benché il padre sia vivente). Molto interessante la scoperta del lato meno noto di Salgado, quello ecologista, che lo ha spinto a ripopolare l’habitat di una grande tenuta di famiglia per poi donarla allo Stato. La bellezza struggente e bruciante delle immagini fotografiche del documentario, accompagnate dalla sapiente sceneggiatura di Wenders, entra in profondità nelle viscere della terra, attraversando l’iter dello spessore umano e professionale di Salgado, fino alla sua ultima esposizione, Genesi, che rappresenta la consolazione dei mille volti della natura e la possibilità di rinascita, oltre ogni tragedia. Elisabetta Colla

Regia: Wim Wenders / Sebastiao Salgado Nazionalità: Francia Brasile Anno: 2014 Durata: 100' Genere: Documentario



ESCOBAR: PARADISE LOST L

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a pellicola che arriva a tratteggiare la figura di Pablo Escobar attraverso gli occhi ambivalenti di esseri che lo incrociano nelle rispettive diverse prospettive sulla vita, è la vincitrice del Premio Opera Prima del Festival di Roma 2014, premio assegnato non dal pubblico ma da una vera giuria presieduta dal regista Jonathan Nossiter. Andrea di Stefano, attore ventennale (e indimenticabile Principe di Homburg nell’ipnotico film di Marco Bellocchio) esordisce nella regia e nella sceneggiatura confrontandosi con uno dei criminali più inquietanti di questa contemporaneità: il disumano e plurimiliardario trafficante di cocaina Pablo Escobar. Il regista sceglie intelligentemente di lavorarlo ai fianchi, non trattando direttamente la sua evoluzione esistenziale e criminale, e legandolo saldamente nell’interpretazione ad un attore di assoluta garanzia come Benicio del Toro che conferma appieno il suo talento. Pablo Escobar e la sua contraddizione spaventosamente umana ce li rivelano i rapporti contrastanti che con lui intessono i due protagonisti di Escobar: Paradise Lost, in concorso nella sezione Gala… Nick (Josh Hutcherson), un giovane canadese che arriva in Colombia sulla scia del sogno di suo fratello di un vivere in bellezza, tra surf, natura e le poche risorse economiche che un bar di spiaggia può produrre. Claudia Traisac (la bella e incosciente Maria), giovane colombiana accecata da un bene che arriva sotto le sembianze di uno zio benefattore (lo stesso Escobar), unica apparente luce capace di assetare la povertà di un popolo e la sua fame di giustizia sociale. I due giovani si innamorano, e la faccia da bravo ragazzo di Josh Hutcherson incontra la doppiezza del mondo di Escobar nella sua fascinazione iniziale: tra vocazione presunta umanitaria di un leader che in realtà alimenta un culto della personalità e un vero e proprio impero economico… ‘Da lontano’ Pablo Escobar sembra veramente un benefattore, il suo attaccamento estremo alla famiglia, alla stessa nipote Maria (che considera come una figlia), al popolo, ne fanno un paladino che usa la debolezza dei ricchi (la droga) quale ‘viatico’ per costruire una società migliore. Ma mano a mano che il legame ufficializzato con Maria impone una commistione sempre più penetrante nella vita allargata di Escobar, Nick ne scompone gli aspetti sempre più inquietanti, sommati in una pazza freddezza di un leader che produce azioni e comandi talmente disumani e lucidi nelle conseguenze prodotte, da far maturare presto nel giovane la consapevolezza di dover a tutti costi uscire da un buco nero che risucchia chiunque possa diventare un ostacolo anche indiretto all’ingranaggio da volontà di sopravvivenza in potenza di

Regia: Andrea di Stefano Nazionalità: Francia Spagna Anno: 2014 Durata: 114' Genere: Thriller, Romantico, Biografico, Drammatico Escobar, persino lui. Dovrà lottare non poco il bravo ragazzo Nick, sperimentando l’odore del male sulla propria pelle, un odore che non dà scampo… Benicio del Toro ci mette tutta la sua esperienza per rendere con pochi e misurati gesti un carattere, una personalità, specie nell’attraversare con grande naturalezza e spontaneità i due estremi (umani e disumani) con cui ci ritroviamo a fare i conti. Un ‘folle’, Escobar, un lucido ‘folle’. Di Stefano inciampa dentro alcune ingenuità, specie nel collegare stati emotivi a episodi, situazioni narrative che mancano di spessore e credibilità di accadimento, ma riesce comunque a tenere saldi (anche grazie ad un buon occhio mobile e ad una fotografia penetrante e vivida) i pezzi di una più estesa riflessione esistenziale, che passa per il contrasto tra un ‘paradiso naturale’, terreno fertile per una ricerca di vita autentica che la Colombia può rappresentare per chi vi arriva da straniero, e un paradiso artificiale che la cocaina riesce a rendere alle ambizioni di dominio-regno di un singolo (Escobar) e alle speranze di riscatto di un popolo oppresso e povero. Maria Cera



TIME OUT OF MIND I

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l mondo degli homeless americani visto attraverso le lenti di un uomo che, pur provenendo dalla middle class, cioè da una condizione sociale simile a quella di molti altri (assicuratore, con mutuo e famiglia), a causa di una brutta depressione, della morte della moglie e della crisi economica, si trova a compiere una ‘discesa agli inferi’, fino a contendersi un posto letto in strada con altri barboni. Questo il tema del film Time Out of Mind, del regista Oren Moverman, presentato alla IX edizione del Festival Internazionale del Film di Roma, nella sezione Cinema d’Oggi, un argomento che tocca anche l’Europa e l’Italia dove, a causa della crisi, sono sempre di più le persone che dormono per strada, in macchina o nelle stazioni. Il protagonista, George, un bravo e ben mimetizzato Richard Gere, trascurato, malconcio ed abbrutito, viene sfrattato dalla casa dove vive ospite di un’amica mezza matta e perennemente assente - alla quale un bel giorno viene confiscata la casa - ed inizia a cercare un posto dove andare a dormire, nel gelido inverno della Grande Mela. Attraverso varie vicissitudini l’uomo, che vive di espedienti e inizia a bere birra di buon mattino, approda ai Servizi Sociali che gli offrono un letto in un affollato dormitorio dove condividerà la sorte con una carrellata di umanità varia. Girato in 21 giorni, con camere digitali, questo film low-cost ha catturato di nascosto molte immagini della realtà metropolitana newyorkese, nei luoghi dove gli homeless si ritrovano e vanno a dormire e lo stesso Richard Gere, travestito, si è potuto mescolare ai veri clochard senza essere riconosciuto. “Andando in giro per le vie di New York vestito da barbone in mezzo ai barboni - ha raccontato l’attore ho visto come la gente reagisce: è terrorizzata da ciò che essi rappresentano, il fallimento, la solitudine, e così cerca in tutti i modi di evitarli. Le persone camminano veloci, chiusi nelle loro cuffiette e nei loro cellulari, per paura di essere contagiati”. George inizia a risollevarsi grazie all’aiuto del Bellevue Hospital, il più grande centro di accoglienza per senzatetto di Manhattan, dove potrà farsi una doccia, avere informazioni per riappropriarsi dei suoi documenti e, simbolicamente, della sua identità: solo a questo punto troverà anche il coraggio di incontrare la sua unica figlia, una giovane barista bella e rabbiosa che per tutta la vita se l’è dovuta cavare da sola. La realtà dei senza fissa dimora a New York sembra superi i 56.000 individui, un dramma umano e sociale di vastissima portata che il sindaco della città, Bill de Blasio, sembra aver saputo affrontare solo iniziando il suo mandato con l’espulsione di molti di essi dalla città. Elisabetta Colla

Regia: Oren Moverman Nazionalità: USA Anno: 2014 Durata: 120' Genere: Drammatico



NN E

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steticamente algido e quasi documentaristico, presentato in anteprima mondiale al Festival Internazionale del Film di Roma nella sezione Cinema d’Oggi, il bel film NN (espressione latina che proviene da Nomen Nescio, per indicare le persone di cui non si conosce l’identità), opera seconda del regista Héctor Gálvez, pone l’accento su una delle profondissime ferite dell’America Latina, quella dei desaparecidos, in questo caso scegliendo come paese il Perù, dove forse le sparizioni forzate di persone per motivi politici o anche solo accusate di attività antigovernative hanno avuto meno risonanza di quelle di Argentina e Cile, ma non per questo sono state meno efferate. Il film racconta il lavoro paziente e meticoloso di un gruppo di medici legali il cui compito è quello di andare ‘sul campo’, cioè in luoghi spesso sperduti del Paese, fra campagna e montagna (gli aguzzini erano abilissimi nell’uccidere gruppi di persone di notte in luoghi quasi disabitati e nascondere i corpi in fosse comuni, così da rendere difficilissimo il ritrovamento dei cadaveri e l’imputazione del delitto commesso) a riesumare i resti di vittime di ogni età, ripulirne le ossa, gli abiti e gli oggetti ritrovati, catalogarli, dare loro un nome con la prova del DNA confrontata alle banche dati dei familiari dei desaparecidos e, finalmente, restituire il tutto ai congiunti. Ma in alcuni casi, per l’appunto i cosiddetti NN, non viene raggiunta l’identificazione dei corpi e le scatole piene di ossa ed abiti giacciono nei sottoscala degli Uffici legali. Dopo uno dei tanti viaggi di ricerca, infatti, il protagonista (il medico responsabile della squadra), interpretato dall’attore Paul Vega, s’imbatte in uno di questi casi, un uomo le cui caratteristiche sembrano corrispondere al marito di una donna (abiti, elementi fisici, ecc.). Dopo molte ricerche, alla prova del DNA fatta con il figlio della donna, la salma risulta non avere alcun legame di sangue con il nucleo familiare. Ma la donna attende da troppi anni, dal 1988, e si presenta continuamente: vuole il corpo del marito ed una bara su cui piangere. Il medico interroga la sua coscienza e, quando scopre che la nuova Amministrazione getta le ossa degli NN nella spazzatura, restituisce le ossa dello sconosciuto alla donna, la quale potrà finalmente mettere il nome dell’amato marito desaparecido su una lapide del cimitero e porre fine alla sua ricerca. In questo gesto di profonda pietas compiuto dal medico, così come nel libero scorrere delle lacrime di una delle dottoresse, mentre sistema i resti e gli abiti di una ragazzina riesumata, sta la forza drammatica del film, per il resto estremamente asciutto. La pellicola non racconta le singole storie delle persone i cui corpi vengono ritrovati ma, dando per scontato che lo spettatore sappia di cosa

Regia: Héctor Gálvez Nazionalità: Perù, Francia, Germania Anno: 2014 Durata: 95' Genere: Drammatico si sta parlando, abbraccia invece le storie di tutti nella storia di un NN, che è stato amato ed atteso da qualcuno, mentre veniva brutalmente ucciso come migliaia di altri. Una tragedia che non si deve dimenticare o mettere da parte (come le scatole gettate via), ma che il mondo intero conosce e ricorda, senza bisogno di clamore, come ben sottolineato dalla scelta dei campi lunghi e della tetra e silenziosa atmosfera del film. Elisabetta Colla



TOMAS MILIAN, PREMIO ALLA CARRIERA

INCONTRO CON TOMAS MILIAN è

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sempre così. Quando un importante Festival internazionale ospita un altrettanto importante artista, gli appassionati di cinema sono impazienti di vederlo dal vivo, di nutrirsi delle sue parole, di scoprire i suoi segreti, di ripercorrere i momenti più significativi della sua carriera. In nove edizioni, il Festival Internazionale del Film di Roma ci ha fatto sognare con l’evento Incontro con il pubblico, intervistando autori ed attori del calibro di Al Pacino, De Niro, Coppola, Stallone, Meryl Streep, Tornatore, Cronenberg e moltissimi altri. Quest’anno decide di regalarci la presenza di un grande attore dalla raffinata tecnica, dai mille volti e da un grande cuore: Tomas Milian, er romano de Cuba, a cui è stato conferito il Marco Aurelio Acting Award 2014. Barba bianca, cappello da baseball, spilletta giallorossa su giacca nera. Nonostante i suoi occhiali da vista e il bastone dal pomello d’argento sul quale si sorregge ci facciano realizzare che gli anni passano anche per un mito come lui, il suo sguardo e la sua fisicità sono fieri e la sua presenza è più vivida che mai. I suoi personaggi hanno spaziato tra tutti i generi cinematografici: dal giallo al drammatico, al western, thriller, commedia, polizi(ott)esco… Dalla geniale invenzione de Er Monnezza e Nico Giraldi, maschere indimenticabili come fu Charlotte per Chaplin o la popolana per Anna Magnani, al mitico gobbo nei film della Roma a mano armata. Che fosse un attore dotato di grande emotività lo dimostrano palesemente i suoi personaggi, appunto: cinici, infami, violenti. E divertenti, sguaiati, esagerati. Tutte quelle emozioni indispensabili che ci fanno pensare: “ecco, in quella scena di quel suo film ho riso o ho pianto talmente tanto che mi fanno ricordare di un bellissimo momento vissuto in modo intenso e spensierato…”. E questo fa bene all’Anima. Quello che sorprende ancor di più è che sia tanto, genuinamente emotivo anche come uomo. Protagonista di eccellenti pellicole dirette dai maestri Luchino Visconti, Albero Lattuada, Pasolini, Lenzi, Sidney Pollack, Giulio Questi, Dennis Hopper, Antonioni, Soderbergh, Sergio Corbucci, Abel Ferrara, Oliver Stone, Tony Scott, Sergio Sollima, Spielberg, Lucio Fulci… Ed è proprio con una clip di frammenti tratti dalla sua vastissima filmografia che si apre l’incontro. è davvero incredibile quanto un attore possa trasformarsi e sembrare ogni volta una persona diversa. Ci vogliono anni di tecnica, sacrificio, passione, talento innato…ma ancora qualcosa in più. Qualcosa che abbiamo imparato oggi da Tomas: una storia da raccontare. La sua storia. E un carattere ribelle.

Tomas parla senza schemi: i due moderatori dell’incontrano provano a porgli domande specifiche sul suo percorso d’attore, ma senza ottenere la risposta che si aspettavano. “Io lo so che il festival ha i suoi tempi e io parlo tanto…ma lasciatemi il tempo di raccontare cosa cazzo è successo nella mia vita!”. Esclama il cubano. Ci parla da cuore a cuore, anche il microfono diviene un ostacolo tra la sua voce e i suoi spettatori. Inizia dalle sue origini, dalla sua famiglia. Sì, perché tutto parte da lì:dai nostri desideri e le nostre paure, come le affrontiamo e come decidiamo di canalizzare la nostra energia, tutta la rabbia e i nostri sogni . Per Tomas è stato così: “Il mio film preferito era La Valle dell’Eden e mi identificavo molto con il personaggio interpretato da James Dean, poiché anche io avevo un rapporto molto difficile con mio padre…Lui si suicidò davanti a me quando avevo 12 anni, con un colpo di pistola al cuore e io ne rimasi scioccato…ma nello stesso tempo mi sentivo liberato come quando un popolo si libera dal suo dittatore…e mi sentivo finalmente il protagonista del mio film. Anche se non ero nella valle dell’Eden, ma nella valle dell’inferno. Il mio inferno.” Parla a lungo anche di sua madre: “Io non ho mai avuto amore in vita mia. Mia madre non mi ha mai amato…la mia unica, vera madre è stata ed è Roma…e tutti voi…” . La sua voce si spezza, interrotta da pure lacrime di commozione. “Scusate, ma non pensate che io sia un piagnone! è solo che quando parlo d’amore, io piango.” ,riprende l’attore, sdrammatizzando simpaticamente con il suo tocco poetico. “Sognavo Elia Kazan e l’Actors studio di Ny. Volevo andare via da Cuba, dalla mia vita da ragazzino viziato e borghese. Ma non sono fuggito: “fuggire” è una parola brutta, da vigliacco. E io sono molto coraggioso”. Ci racconta del suo viaggio alla conquista degli Stati Uniti, della sua esperienza nella Marina Militare dove imparò l’inglese che gli permise di affrontare il suo primo, vero provino all’Actors studio. Durante quel provino (la scena che scelse era tratta dal film Home of the Brave di Arthur Laurents), egli “guarì” dal suo senso di colpa per la morte del padre che lo stava divorando: attraverso quella performance avvenne una totale catarsi tra sé stesso e il personaggio che divennero una cosa sola e gli permisero di dimostrare a tutti il suo talento per la recitazione. Il suo personaggio preferito tra i molteplici che ha indossato in vita sua? Proprio lui, quello che noi italiani – e romani, soprattutto- conosciamo di più: er monnezza. è il


personaggio che ha dato modo a Tomas di capovolgere la sua realtà, di avvicinarsi al pubblico che tanto ama e di vestire i panni di un uomo comune e semplice. Forse il ruolo più difficile in assoluto. La comicità non è assolutamente da sottovalutare, molto critici dovrebbero imparare una lezione su cosa, secondo loro, è da considerare “impegnato” o meno. Ricorda anche la sua “spalla” in scena: Bombolo: “era un amico…Noi due eravamo come due bambini grandi.”.

Tomas Milian è un artista generoso, un grande esempio di professionalità, umiltà e sensibilità. Quasi fuori luogo in un contesto oramai troppo politicizzato come il Festival di Roma, ma proprio per questo il suo intervento si è rivelato assolutamente necessario e rimarrà un pezzo di storia indimenticabile. Come cantava Battiato e come ci ha ricordato Tomas in questa Master class…: “…mandiamoli in pensione i direttori artistici, gli addetti alla cultura…”. Il cinema è solo di chi lo vive e lo ama davvero. Giovanna Ferrigno


THE KNICK S

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teven Andrew Soderbergh. Nasce ad Atlanta nel 1963 e cresce in Louisiana. La sua carriera nel mondo del cinema inizia nel 1989 quando, con il film Sex, lies, and videotape si aggiudica la Palma d’Oro al Festival di Cannes. Il film vince anche l’Audience Award al Sundance Film Festival arrivando a incassare 25 milioni di dollari. «Lui è stato il padre del movimento» – dichiara il distributore Harvey Weinstein – «Prima di questo film nessun altro film indipendente ha incassato più di 5 milioni». Circa dieci anni dopo ben due dei suoi film sono candidati al premio Oscar come miglior film: Erin Brockovich e Traffic. Soderbergh si aggiudica la statuetta come miglior regista per Traffic mentre Julia Roberts come migliore attrice protagonista in Erin Brockovich. Tra i molti titoli ricorderemo Che, film del 2008 in due parti che riprercorre la figura di Che Guevara e la sua lotta contro la dittatura in Bolivia. E come non ricordare Magic Mike, film del 2012 incentrato sul mondo dello spogliarello maschile che vede come interpreti principali Channing Tatum, Alex Pettyfer, Matthew McConaughey, Joe Mangianello e Matt Bomer. Più recente invece Behind the Candelabra, film drammatico che racconta gli ultimi dieci anni di vita del pianista Liberace e della sua storia segreta con il giovane Scott Thorson. è da qualche anno a questa parte che gira la voce che il regista sia prossimo al ritiro. Matt Damon, sul set del film Contagion, nel 2011, dichiara che Soderbergh ha annunciato il suo imminente ritiro per dedicarsi alla pittura. Nel 2013 il regista dichiara di avere ancora in piano di girare serie TV se qualcosa di grandioso gli capitasse sotto mano. E qualcosa di grandioso gli è capitato: The Knick. William Steward Halsted nasce a New York a metà ottocendo e diventa uno dei chirurghi statunitensi più importanti del periodo. Dopo la Laurea in Medicina e Chirurgia dell’Università di New York, si trasferisce a Vienna, dove ha la fortuna di conoscere Theodor Billroth, uno dei maggiori chirurghi tedeschi di sempre. Sostiene l’importanza delle trasfusioni di sangue e inventa numerosi ferri chirurgici. Il contributo più grande, tuttavia, lo da mettendo a punto una tecnica oggi conosciuta come mastectomia radicale secondo Halsted che salva migliaia di donne dal tumore al seno. Sembrerà strano leggere un articolo che inizia parlando di un regista e continua parlando di medicina. Ebbene, svelo subito il mistero che si cela dietro a questa grande personalità controversa del passato che riaffiora nel presente grazie ad un attore eccellente e ad un regista premio Oscar. L’8 agosto ha debuttato, sulla rete televisiva via cavo Cinemax, una serie televisiva diretta da Steven Soder-

Regia: Steven Soderbergh Nazionalità: Francia, USA Anno: 2014 Durata: Episodi Genere: Drammatico bergh che vede come protagonista Clive Owen: è The Knick. Il titolo è il diminutivo di The Knickerbocker Hospital, ospedale della 131sima strada di Harlem, New York, fondato nel 1862. Nel 1894 cambia nome e diventa J. Hood Wright Memorial Hospital per ritornare poi ad avere il nome originale di Knickerbocker Hospital nel 1913 per essere poi chiuso definitivamente nel 1979. In una recente intervista, Michael Begler, uno dei creatori della serie, dichiara che tutto iniziò per un problema di salute. «Qualche anno fa, ho avuto un problema di salute e stavo provando diverse terapie, sia tradizionali che alternative. è stato così che iniziai a pensare a come facessero i medici di 100 anni fa. Quei ragazzi erano intelligenti quanto lo sono i medici di oggi, semplicemente gli mancavano anni di esperienza e ricerche scientifiche.» – dichiara Michael Begler – «Jack (Jack Amiel, ndr) ed io comprammo così dei libri del 1900 su eBay. Iniziammo a leggerli. Era come leggere un grande romanzo. Non potevamo smettere.» L’attore principale è uno strepitoso Clive Owen che appena ha letto la sceneggiatura non ci ha pensato due volte prima di accettare la parte. «Ho fatto molta televisione quando ero giovane. Una cosa che non mi piaceva molto era quella di recitare lo stesso personaggio per molto tempo. Ed è per questo che alla fine ho fatto molte cose diverse tra loro. Ma davanti a un progetto come questo non puoi semplicemente lasciar perdere» – dice l’attore in una recente intervista con Daniel Fienberg – «Ho letto la sceneggiatura ed ho subito pensato fosse scritta benissimo. Ho subito capito che non volevo vedere nessun altro in quel ruolo». Dopo il debutto negli Stati Uniti, sulla rete televisiva via cavo Cinemax, in Italia l'ha presentata al pubblico il Festival Internazionale del Film di Roma, proiettando i primi dieci episodi, in anteprima nazionale, mentre in prima tv arriverà l’11 novembre su Sky Atlantic. All'Auditorium era presente anche l’attore protagonista Clive Owen. «La televisione si rinnova ancora una volta, ri-mediando il cinema nelle miniserie antologiche dirette da un unico regista. I cineasti sono spesso nomi noti che, invece di


firmare il solo plot (e il concetto della serie) hanno finalmente la possibilità di raccontare in un tempo sufficientemente lungo – ma non tanto da far perdere di intensità la narrazione. È questa la nuova maniera audiovisiva di riproporre un romanzo. Non ci può essere alcun dubbio, dunque, che il grande cineromanzo contemporaneo venga dalla televisione. E che il cineromanzo contemporaneo più importante dell’anno si chiami “The Knick”, diretto da Steven Soderbergh per Cinemax di HBO» ha commentato Marco Müller,

direttore artistico del Festival Internazionale del Film di Roma. A Roma è stato presente anche il regista, che ha svelato un segreto per chi vedrà The Knick: «I primi sette minuti del primo episodio contengono una sorta di DNA di tutto lo show. Se non stai attento ai primi sette minuti potresti avere dei problemi . Infatti, ti sto dando il codice su come verrà impostata la serie tv». Luana Verbanac


BLACK AND WHITE I

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l titolo vuole anticipare il tema della diversità e del razzismo ma in realtà quello che Black and White racconta è, soprattutto, un dramma familiare e legale dalle mille sfumature che vede di nuovo, a dieci anni da Litigi d’amore, Mike Binder dirige Kevin Costner che stavolta non veste solo il ruolo del protagonista ma anche quello del produttore. Elliot (Costner) è un avvocato rampante la cui vita prende la via del declino dopo la morte di sua moglie a causa di un incidente automobilistico. Già provato dalla perdita di sua figlia deceduta poco dopo aver messo al mondo la piccola Eloise, bambina di colore avuta da un tossicodipendente che mai si è preso cura della figlia, il dolore di Elliot non trova quiete e, anzi, viene messo a dura prova dalla richiesta di Rowena (Osctavia Spencer), la nonna paterna della piccola, che vuole che la nipote sia legalmente affidata alle sue cure. Il plot che relegherebbe senza se e senza ma il lungometraggio nel genere puramente drammatico in realtà, attraverso suoi dialoghi, si risolleva e regala al pubblico anche momenti di bella ironia oltre che di pura tenerezza in un rapporto nonno/nipote irresistibile e fatto di gesti talmente naturali – e ripetuti all’interno del film – da divenire familiari anche per lo spettatore che senza se e senza ma non può non schierarsi, nella battaglia legale, dalla parte di Elliot nonostante la sua fragilità e la sua conseguente dipendenza dall’alcol.

Regia: Mike Binder Nazionalità:USA Anno: 2014 Durata: 121' Genere: Drammatico Le ottime interpretazioni di Costner, in primis, e del Premio Oscar Octavia Spencer non riescono però a salvare un lungometraggio che non decolla e che appare costruito più che sull’intensità di sentimenti sulla voglia prorompente di sfatare cliché che è la stessa sceneggiatura a sottolineare, per poi, ad un certo punto, minare d’improvviso a suon di retorica. Black and white vorrebbe essere una sorta di nuovo Indovina chi viene a cena? ma purtroppo, pur non essendo vecchio il concetto di uguaglianza e il bisogno che a tutt’oggi c’è di sottolinearne l’esistenza, è vecchissimo il modo in cui è gestito l’intero assetto narrativo, e la scusante che il film usa per parlare di razzismo penalizza non solo l’intero lavoro ma anche il suo importante messaggio.

Sandra Martone


ANDIAMO A QUEL PAESE G

li ingredienti della commedia all’italiana vecchio stampo ci sono tutti: equivoci, farsa, satira che da sociale sfocia in quella politica. Ficarra e Picone per festeggiare la quarta volta da protagonisti sul grande schermo (e la seconda dietro la macchina da presa), scelgono di rimanere legati al genere che gli è più congeniale, aggiungendo un tocco vintage al loro nuovo lavoro Andiamo a quel paese. Salvo e Valentino sono due amici di vecchia data che si ritrovano senza lavoro e per questo abbandonano “la metropoli” Palermo per tornare nel loro paesino d’origine Monteforte, dove riescono a svoltare economicamente grazie all’abbondanza di anziani, prima aprendo un illegale ospizio e poi optando per una più duratura copertura economica con un folle matrimonio con la zia Lucia, munita di una delle rarità di questi tempi: un fisso mensile. L’Italia che Ficarra e Picone descrivono con una buona dose di cinismo in Andiamo a quel paese è un luogo svogliato e in piena crisi dove i giovani (e i meno giovani) preferiscono, dietro la scusa sempreverde di non avere la possibilità di un’assunzione, di vivere alla giornate sulle spalle de “nonni” invece di rimboccarsi le maniche. Un’Italia in ginocchio che si nasconde dietro una buona dose di svogliatezza alzando troppo facilmente bandiera bianca davanti allo spettro dell’assenza di opportunità. Niente e, quasi, nessuno si salva dal giudizio – sempre

Regia: Salvatore Ficarra, Valentino Picone Nazionalità: Italia Anno: 2014 Durata: 90' Genere: Drammatico ironico – dei due ex cabarettisti di Zelig che con questa pellicola osano una denuncia del malcostume generale (politico e culturale) che attanaglia il Belpaese in una narrazione dinamica che purtroppo viene minata proprio dalla presenza troppo invadente delle continue gag dei due protagonisti e registi, che riportano l’intera epopea che raccontano in una dimensione televisiva e in buona parte inadatta al grande schermo. Ancora troppo egocentrici e legati alla dimensione del palco da cui sono nati artisticamente per essere convincenti come esponenti della settima arte (sia dal punto di vista registico che da quello attoriale), Ficarra e Picone con Andiamo a quel paese a suon di paradossi, che sfociano in un finale amaro, sottolineano il bisogno di un ricambio generazionale in questa Italia, prima che l’unica eredità per i posteri non diventi davvero la pensione di mamma o papà. Sandra Martone

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