Speciale Venezia 71

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TAXI DRIVERS MAGAZINE SPECIALE VENEZIA 71

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TAXI DRIVERS è dedicata a Delian Hristev (R.I.P.)

In copertina: Un partigiano, disegno di Simone Massi dal film Animata Resistenza


«I nessi tra Arte e Resistenza sono legati al nostro tempo, a come si debba obbligatoriamente resistere per fare arte. La scelta di resistere è difficile ma è la migliore» francesco Montagner e alberto Girotto (pag.23). Buona visione

Lucilla Colonna

04. I fIlM dI VenezIa 71 20. l'arte e la reSIStenza. InterVISta a SIMone MaSSI 24. I fIlM dI VenezIa 71


SHE'S FUNNY THAT WAY I

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sabella “Izzy” Patterson è una giovane squillo con la segreta ambizione di diventare una stella del cinema. Una sera al Barclay Hotel di Manhattan incontra l’affermato regista teatrale Arnold Albertson, il quale, dopo una notte insieme, le offre trentamila dollari per lasciare il mestiere ed inseguire i propri sogni. Non è la prima volta che Albert aiuta una donna, ma in questo caso le scelte di Izzy mettono in moto una serie di eventi che coinvolgono tutte le persone sulla sua strada: Arnold, sua moglie e stella del suo spettacolo Delta Simmons, il divo che la affianca sul palco Seth Gilbert, lo sceneggiatore Joshua che si innamora di lei, la sua psicologa Jane, che scopriamo essere anche la fidanzata di Joshua, un giudice follemente ossessionato e un misterioso detective. Tra equivoci e colpi di scena la bella Izzy sconvolgerà le loro vite in modo inaspettato. Finalmente. è questo il primo pensiero mentre scorrono i titoli di coda di questa brillante commedia, un film che segna non solo il ritorno di un grande maestro del genere, ma il ritorno della vera commedia romantica così com’era ai tempi d’oro del cinema americano. Bogdanovich dirige un’opera dove al suo tocco magico aggiunge, con grande furbizia, due armi segrete: un attore come owen Wilson, che qui ritrova i suoi tempi comici perfetti e, grazie allo stesso Wilson, l’apporto essenziale di quel genio moderno che è Wes anderson. è questa commistione tra passato e presente dello stesso genere che rende She’s funny that way un film esilarante, dove si ride di gusto senza mai alcun bisogno di ricorrere a volgarità e mezzucci da film comici di serie B. Il film segue una struttura a flashback intervallati da un’intervista ad Isabella, ormai famosa ed affermata, che ripercorre con la sua voce narrante le vicende che l’hanno portata alla ribalta; mentre il film scorre la situazione si complica sempre più aggiungendo equivoci, malintesi e improvvisi colpi di scena. Lo spettatore, seguendo le regole cardine delle vecchie commedie, è colui che, a differenza dei protagonisti, già conosce la situazione e si diverte ad attendere la resa dei conti tra i diversi personaggi. Bisogna sottolineare che durante l’anteprima a Venezia la sala è esplosa in risate incontrollabili più volte durante il film ed ha premiato l’opera con diversi minuti di applausi scroscianti durante i titoli di coda. Un grandissimo merito va ovviamente al cast composto da veri talenti: il già citato Owen Wilson, grande attore comico che sempre più dovrebbe impegnarsi in progetti di questo tipo; il fuoriclasse rhys Ifans, che dai tempi di Notting Hill non ha mai smesso di far ridere il pubblico con personaggi a volte grotteschi e caricaturali, vedere per credere la sua interpretazione del divo Seth Gilbert; Jennifer aniston, unica, una diva che accetta un ruolo

Regia: Peter Bogdanovich Nazionalità: USA Anno: 2014 Durata: 93' Genere: Commedia in parte secondario ma in grado di rubare la scena a tutti gli altri, la sua psicologa è protagonista di alcune tra le scene più divertenti di tutto il film; Imogen Poots, la bella e dolce Izzy, voce narrante e causa di tutti gli equivoci della storia, che qui dimostra di avere innate doti comiche. L’ultimo attore è la Grande Mela, New York, ripresa con tutto il suo fascino vintage lontano dal frastuono moderno. Dopo ben dodici anni di assenza dal grande schermo, torna e lascia il segno, ricordando a tutti le regole della risata, quella vera, viscerale, che nasce solo da una commedia orchestrata perfettamente e della quale sentivamo una grande mancanza. Sorpresa assoluta nel finale del film, con un cameo incredibile che ovviamente non sveliamo. Vedere per credere. Emiliano Longobardi



THE LOOK OF SILENCE GRAN PREMIO della GIURIA

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n Indonesia una telecamera segue le vicende di Adi, appartenente ad una famiglia sconvolta tanti anni prima dal massacro perpetrato dalla giunta militare del Generale Suharto. Nel tentativo di ricostruire la verità circa la morte del fratello Ramli, una morte così atroce da finire su un libro di illustrazioni scritto da uno degli assassini, Adi incontra non solo i sopravvissuti ma anche i killer, invecchiati ed ancora saldamente al potere. Questa ricerca riporta a galla vecchie ferite mai scomparse e può rivelarsi pericolosa per Adi e la sua famiglia. Seconda opera per il documentarista texano oppenheimer, ma girato in realtà prima del suo folgorante esordio The act of killing. Il regista rimane in Indonesia, dove dopo il 1965 un milione di comunisti o presunti tali vennero trucidati barbaramente, un vero e proprio genocidio sul quale è stata poi costruita negli anni un’impalcatura di bugie e falsi miti che giustificassero l’atto e consentissero la permanenza al potere dei carnefici. Ancora oggi in larga parte della popolazione è salda la convinzione che i comunisti fossero mostri da sterminare e che i generali furono eroi rivoluzionari da rispettare ed osannare. Tra le vittime figura Ramli, fratello del giovane Adi, il quale, per cercare di capire le cause e i motivi che portarono alla morte del fratello, scopre una terribile verità: i killer abitano vicino la sua famiglia, anziani signori, a volte non più capaci di intendere e di volere, che sono sempre rimasti lì, temuti e rispettati. Adi li incontra, pone loro domande scomode, ascolta le loro ricostruzioni oppure guarda su uno schermo, con sguardo impassibile eppure lancinante, le interviste del regista ad altri killer delle “brigate della morte”. Le ricostruzioni dei killer sono raccapriccianti, non solo per i dettagli atroci sul modo di uccidere senza pietà uomini e donne indifesi, ma soprattutto per l’assoluta distanza emotiva dei carnefici, non c’è un briciolo di vergogna o senso di colpa negli occhi di chi ha pugnalato ripetutamente o decapitato esseri umani innocenti. La scena delle figlia, prima fiera sostenitrice delle azioni del padre, poi terrorizzata dopo aver ascoltato per la prima volta un suo racconto, basta a capire il muro che è stato costruito tra le generazioni per impedire l’emergere della verità. Le interviste mettono in luce anche altro, cioè il pericolo che ancora oggi corre chi pone domande sul passato nel tentativo di riportare a galla la verità, così come risulta chiaro dalla velata minaccia di uno dei vecchi leader delle brigate: “Continui, continui con la sua attività comunista”. Questo documentario affronta dunque diversi temi, primo fra tutti quello riguardo le conseguenze e le reazioni, della mente umana, di fronte all’orrore e alla morte: come vive chi si è reso protagonista di un dramma indicibile? E’ sufficiente osservare le reazioni

Regia: Joshua Oppenheimer Nazionalità: DANIMARCA / UK Anno: 2014 Durata: 98' Genere: Documentario degli anziani killer, l’aggrapparsi da parte loro ad assurdi miti come l’obbligo di bere il sangue delle vittime per non impazzire, la sfacciata negazione degli eventi oppure l’isteria come risposta ad alcune domande per capire il segno che, nonostante l’ostentata indifferenza del racconto, il genocidio ha lasciato anche dentro di loro. Oppenheimer ha esposto il tema della sua opera in questo modo: «Cosa vuol dire essere un sopravvissuto in una realtà costruita sul terrore e le bugie? Il film è un poema sul silenzio nato da questo terrore, sulla necessità di rompere questo silenzio ma anche sulle conseguenze che derivano da questa scelta». The look of silence è un film necessario, come lo sono tutti quelli che, partendo dal particolare, cercano la verità storica degli eventi e l’ammissione di responsabilità dei colpevoli. E’ anche però un’opera molto lenta, ripetitiva, con lunghi ed inutili primi piani, e scene della vita privata di Adi che nulla hanno a che vedere con lo scopo finale del film: splendida la madre centenaria, sconvolgente il suo pianto disperato alla fine del film, ma perché inserire così tante scene del padre? O simpatici siparietti della piccola figlia di Adi? Una versione più compatta, rapida e mirata avrebbe reso sicuramente più facile la visione e più chiaro l’obiettivo del regista. Emiliano Longobardi



99 HOMES D

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ennis Nash è un operaio onesto che ogni giorno si spacca la schiena cercando di guadagnare quello che basta per offrire una vita dignitosa al figlio Connor ed alla madre Lynn. Dopo aver saltato alcuni pagamenti, l’agente immobiliare Rick Carver li sfratta obbligandoli a trasferirsi in un motel. Disperato, senza soldi, Dennis stringe un patto con lo stesso Carver, un subdolo manipolatore senza scrupoli, che lo condurrà in un mondo di guadagni facili sulla pelle di cittadini onesti. Starà a Dennis dimostrare di avere la stoffa e soprattutto il sangue freddo per rovinare, giorno dopo giorno, la vita di persone uguali a lui. In concorso a Venezia, il film di Bahrani rappresenta una nuova declinazione del classico tema “il patto col diavolo”, mai così attuale in tempi di crisi economica e sociale. Di casi come quelli di Dennis Nash l’America della bolla speculativa ne ha visti a migliaia, uomini e donne buttati fuori dalle loro case senza pietà e senza nessun aiuto. Nelle quasi due ore del film si dipana il dramma di un padre che, dopo aver subito l’umiliazione di essere sfrattato dalla propria casa di famiglia insieme alla madre e di fronte allo sguardo del figlio piccolo, cerca in ogni modo di riavere quella casa, prima offrendosi di fare ogni tipo di lavoro, poi, per puro caso, accettando l’offerta dello stesso uomo che li ha rovinati. Il diavolo è sempre lì, pronto a riconoscere la scintilla di chi farebbe qualsiasi cosa per raggiungere il proprio scopo, anche sporcarsi le mani; Carver vede in Dennis le qualità che lui stesso possiede, e lo introduce senza giri di parole in questo mondo dove ogni giorno di staccano assegni da migliaia di dollari, si festeggiano contratti milionari, mentre nell’ombra, non inquadrati, le vittime di questi soprusi piangono senza sosta. Dennis si dimostra abile, conquista la fiducia del suo mentore, ma dentro di lui la vergogna cresce sempre più, fin quasi a soffocarlo, vergogna che lo porta anche a mentire alla sua famiglia, ignara del contratto che lega Dennis al loro carnefice. Quanto può durare la messinscena? Quanto può andare avanti chi interpreta un ruolo che non è il suo? Ogni giorno Dennis soffre per il dolore causato agli altri, ma nello stesso tempo si convince che tutto ciò che sta facendo è un bene per la sua famiglia. Il regista, partendo dalla premessa che al giorno d’oggi è quasi impossibile vivere la propria vita onestamente, circondati ogni istante da corruzione e malaffare, gira un dramma serrato e compatto, scegliendo un cast che si dimostra all’altezza della situazione. andrew Garfield, dismessi i panni aderenti di Spiderman cerca una sua strada nel cinema d’autore e interpreta con grinta e serietà Dennis Nash, risultando credibile anche come padre nonostante la giovane età. Michael Shannon è una ga-

Regia: Ramin Bahrani Nazionalità: USA Anno: 2014 Durata: 112' Genere: Drammatico ranzia, un talento assoluto nel ritrarre questi cattivi d’altri tempi, col suo sguardo tagliente e i modi rudi. Dispiace solo che poco spazio sia concesso ad un’attrice raffinata come laura dern, interprete della madre di Dennis. 99 Homes è un buon film, un’opera che partendo da un trampolino prestigioso come quello di Venezia può, grazie anche ad un cast di sicuro richiamo, farsi strada nel circuito mainstream americano e mondiale. Emiliano Lomgobardi



BIRDMAN B

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irdman (O le imprevedibili virtù dell’ignoranza) è il film di apertura della 71esima Mostra dI Venezia. Diretto da alejandro G. Iňárritu e interpretato da Michael Keaton, edward norton, emma Stone, zach Galifianakis, naomi Watts e amy rian, Birdman è una black comedy che si interroga sul concetto di celebrity ai tempi dei social network. Michael Keaton alias Riggan Thomson è un attore in declino, entrato di diritto nell’Olimpo hollywoodiano, grazie all’interpretazione di un supereoe, un uomo-uccello, Birdman per l’appunto, ruolo che fatica a scrollarsi di dosso anche quando tenta di rilanciare la sua carriera con uno spettacolo teatrale a Broadway “What We talk about When We talk about Love”, un classico di Raymond Carver. Il regista messicano dirige con mano surreale un film dai ritmi serrati ma non fluido, disordinato, che mescola i toni e stenta a trovare un finale, ma che ha il pregio di catturare lo sguardo dello spettatore con i suoi piani sequenza senza stacchi. Lo spazio del teatro diventa metaforicamente la gabbia claustrofobica in cui è imprigionato il suo protagonista, tormentato dalla voce cavernosa del suo alter ego cinematografico Birdman. L’ambizione del regista di realizzare un film seguendo un principio assoluto di verità (ogni sequenza, ad esempio, è girata in ordine cronologico) ben si sposa con la scelta degli interpreti. Keaton è stato il pioniere del cinema dei supereroi con il Batman di tim Burton ed Edward Norton che in Birdman è la nemesi del protagonista, l’attore rivale, mette in scena un personaggio che ha tutte le caratteristiche attribuite all’uomo/artista nell’immaginario collettivo: vanesio, egocentrico, irriverente. Al volto di Keaton dobbiamo riconoscere “l’imprevedibile virtù” di esprimere una vasta gamma di emozioni, le quali rendono il suo protagonista al contempo tragico, patetico e divertente; gli fa da contraltare un ottimo Norton, un anti eroe pop dall’ego smisurato, ancorato alla sua visione dell’arte teatrale e sprezzante nei confronti dello star system e dei falsi miti che ha creato. Birdman è un film sfaccettato, una metafora frammentata in tanti piccoli specchi, un’amara riflessione intrisa di dark humour, su come la contemporaneità ha reinterpretato il concetto di popolarità e talento nell’ universo illusorio di Twitter e Facebook. Ma è anche, a mio avviso, l’intimo dramma di un uomo in crisi negli affetti e nella carriera, al quale la vita ha tarpato le ali e che invece il cinema, nella sua estrema capacità di compensare la realtà, ha consacrato come un invincibile eroe alato.

Maria Cristina Locuratolo

Regia: Alejandro G. Iňárritu Nazionalità:USA Anno: 2014 Durata: 119' Genere: Commedia



ANIME NERE N

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el porto di Amsterdam un gommone trasporta due uomini a bordo di un lussuoso yacht, dove lontano da sguardi indiscreti si concludono affari illeciti sul traffico di droga. I due uomini sono Luigi e Rocco Carbone, fratelli calabresi trapiantati al Nord, esponenti di una famiglia mafiosa rispettata e potente. Vestiti alla moda, macchine di lusso e conoscenza delle lingue straniere, questi fratelli rappresentano un nuovo tipo di malavitoso, ma per quanto siano lontani il richiamo della terra natia non smette mai di farsi sentire. Quando il nipote Leo, figlio del fratello maggiore Luciano, compie uno sgarbo verso un’altra famiglia del luogo, la famiglia Carbone si riunisce nel paesino d’origine, Africo, riportando a galla rancori mai sopiti e vecchie faide pericolose. Luciano, l’unico esponente della famiglia che vive una vita solitaria e lontana dalle attività illecite, viene trascinato suo malgrado nella spirale di violenza in una terra incapace di sdoganarsi da vecchi riti e codici d’onore che trasudano sangue. Primo film italiano in concorso a Venezia 71, l’opera di francesco Munzi è stata accolta da diversi minuti di applausi alla fine della proiezione e da una vera e propria ovazione durante la conferenza stampa. Grande successo per un dramma famigliare teso e cupo che durante molte scene incolla lo spettatore allo schermo grazie ad una tensione palpabile che permea tutta la sceneggiatura. L’adattamento, da parte di Munzi, del libro di Criaco ha un indubbio merito: il realismo. Mai come in questo film, o perlomeno come non si vedeva da numerosi anni, un regista aveva lavorato così tanto in sottrazione, togliendo tutti gli elementi folkloristici, caricaturali e impressi nella mente dello spettatore quando pensa alla “mafia”. Qui non ci sono teste di cavallo, sparatorie selvagge, dialoghi alla francis ford Coppola o Martin Scorsese, qui c’è la ruvida e triste verità di una terra che non riesce ad emanciparsi dal dominio della violenza e della sopraffazione, una terra che non crede nelle forze dell’ordine ma solo nella giustizia privata. La splendida attrice che interpreta l’anziana madre dei tre fratelli, un volto scolpito dal tempo capace di comunicare con uno sguardo tutto il suo immenso dolore, lei che guida tutte le “femmine” della famiglia, rassegnate a vivere tra figli che sparano già da adolescenti e mariti che in cantina svolgono riunioni segrete, è la prima a sputare per terra dopo il passaggio dei carabinieri. Munzi ha vissuto in Calabria per alcuni mesi svolgendo un’eccellente lavoro ambientale reso in una fotografia straordinaria, ha reclutato abitanti del posto che hanno aiutato gli stessi attori ad entrare ancora di più nelle parte, ha cercato insomma di arrivare dall’interno alla verità di quei luoghi. La verità è che la cultura decennale di

Regia: Francesco Munzi Nazionalità: Italia Anno: 2014 Durata: 104' Genere: Drammatico queste terre condiziona tutti i suoi abitanti a tal punto che è impossibile sottrarsi senza il rischio dell’emarginazione o addirittura della morte. Grandi tutti gli attori, ma straordinario fabrizio ferracane, l’interprete di Luciano, il fratello maggiore, quello che teoricamente dovrebbe avere le redini della famiglia e che invece si è allontano completamente da tutti, svolgendo una vita essenziale e semplice. Tutti lo cercano, soprattutto il fratello Luigi, il più carismatico con velleità da capo assoluto, che cerca la riconciliazione, ma chiunque lo cerca non ascolta i suoi avvertimenti, non si rende conto che solo lui ha compreso, nella sua folle lucidità, il pericolo che si sta correndo. Nella guerra che sta per scatenarsi lui sarà testimone e vittima impassibile, impietrita dal dolore e dalla rabbia, una maschera che solo un grande attore poteva portare sul grande schermo. Anime nere potrebbe essere la sorpresa della prossima stagione, il film uscirà il 18 Settembre nelle sale e rappresenta un esperimento coraggioso, validissimo, un vero e proprio thriller moderno ma ambientato in una terra vecchia dalle tradizioni antiche. Un’opera coraggiosa che niente ha da invidiare alle grandi produzioni americane e che potrebbe essere il primo passo di un cinema che cerca di nuovo la verità delle cose tralasciando l’inutile spettacolarizzazione. Emiliano Longobardi



HEAVEN KNOWS WHAT H

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eaven knows What è una docu-fiction diretta dai fratelli Josh e Benny Safdie sul dramma di un gruppo di ragazzi tossici senza tetto dell’Upper West Side newyorkese. La genesi del film è alquanto curiosa dato che i due fratelli registi hanno incontrato per caso la protagonista del film, arielle Holmes, e hanno deciso di trasporre la sua drammatica storia sul grande schermo, lasciandole interpretare il ruolo della protagonista. La sceneggiatura scritta dai Safdie è a sua volta tratta da un romanzo autobiografico mai pubblicato, Mad love in New York City, e verte soprattutto su una storia d’amore tra la giovane Harley ed Ilya (Caleb landry Jones), un rapporto adolescenziale tormentato, violento e a tratti crudele che li conduce in un abisso senza ritorno. Un film, dunque, sulla droga ma anche sulle relazioni tossiche, sul concetto di dipendenza come condizione esistenziale, sui piccoli drammi quotidiani che si consumano sulle strade di una grande metropoli come New York, drammi spesso ignorati, dimenticati. I protagonisti si agitano come spettri in una dimensione urbana che li inghiotte e li fa sparire; la loro casa è la strada e la loro unica forza è l’istinto di sopravvivenza, sebbene cerchino

Regia: Josh e Benny Safdie Nazionalità: USA Anno: 2014 Durata: 94' Genere: Drammatico o sfiorino la morte più volte. Per quanto la tematica della tossicodipendenza sia stata ampiamente sfruttata dal cinema, i registi di Heaven Knows What, sono riusciti a dare un’impronta originale al film, con delle scelte estetiche inusuali, alternando i primissimi piani degli attori a riprese più ampie in cui questi quasi scompaiono, a lunghissimi piani sequenza sovrastati da una musica invasiva e spesso in contrasto con la narrazione. Sotto quel cielo di cemento non si intravede nessuna redenzione, nessuno spiraglio di luce: le vite di Harley ed Ilya si muovono circolarmente, dalla disperazione al bisogno alla disperazione. Per loro, gli invisibili, la dannazione e la morte sono sempre lì dietro l’angolo: nei parchi, nei negozi, nei bagni dei fast food.

Maria Cristina Locuratolo


IO STO CON LA SPOSA U

n film-documentario che è anche un atto politico, di disobbedienza civile, contro leggi ingiuste, contro chi respinge popoli e innalza barriere. Diretto da antonio augugliaro, Gabriele del Grande e Khaled Soliman al nassiry e presentato Fuori Concorso nella sezione Orizzonti della 71esima Mostra del Cinema di Venezia, il film, prodotto da Gina films, in associazione con DocLab, è stato finanziato da una campagna di crowdfunding online sulla piattaforma Indiegogo – che ha consentito di raccogliere in soli 60 giorni (dal 19 maggio al 17 luglio 2014) ben 100mila euro grazie al contributo di oltre 2.617 persone da 38 paesi di tutto il mondo, aggiudicandosi tre premi collaterali annualmente assegnati durante il Festival: il Premio FEDIC, il premio HRNs – Human Rights Nights Award per il Cinema dei Diritti Umani. La pellicola testimonia in presa diretta la storia realmente accaduta di alcuni artisti palestinesi e siriani sbarcati a

Regia: Antonio Augugliaro, Gabriele del Grande, Khaled Soliman Al Nassiry Nazionalità: Italia / Palestina Anno: 2014 Durata: 89' Genere: Docu-fiction Lampedusa e diretti in Svezia che, con l’aiuto di un gruppo di amici italiani, sulle strade fra Milano e Stoccolma, nel novembre 2013, si fingono invitati di una sposa, travestiti da cerimonia, mentre lei indossa l’abito bianco per rendere credibile la messinscena. Grazie al coraggio ed alla condivisione di un sogno, che poteva e potrebbe ancora costare molti anni di prigione a chi lo ha portato avanti, gli artisti raggiungeranno la meta agognata.

a cura di Elisabetta Colla

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HUNGRY HEARTS COPPA VOLPI MIGLIORE INTERPRETAZIONE MASCHILE COPPA VOLPI MIGLIORE INTERPRETAZIONE FEMMINILE

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on il film Hungry Hearts, diretto da Saverio Costanzo, ovvero una storia d’amore e d’ossessione, l’Italia porta a casa la prestigiosa Coppa Volpi, per la migliore interpretazione femminile, conferita ad un’alba rohrwacher in piena maturità espressiva, ormai perfettamente a suo agio nei ruoli di donne psichicamente a rischio, come appare Mina la protagonista del film nell’evolversi del suo personaggio. Anche il suo partner attoriale, adam drive, vince la Coppa Volpi per la miglior interpretazione maschile, ed è inconsueto che i due premi vengano assegnati a due attori (uomo/donna) dello stesso film. Ma il fascino dell’autenticità ha prevalso, almeno in questo caso. La storia è apparentemente semplice: dall’incontro casuale fra Mina, italiana, e Jude, americano, nella New York di oggi, oltre ad un grande amore, nasce anche un bimbo, che la madre, un tempo concentrata esclusivamente sulla carriera diplomatica, investe di ogni cura fino a divenire ossessiva nel tentativo di proteggere la sua piccola creatura - considerata da lei un essere sovrannaturale - da ogni agente contaminante, in primis il cibo e la medicina tradizionali, ai quali preferisce sostanze diverse. Il deperimento del

Regia: Saverio Costanza Nazionalità: Italia Anno: 2014 Durata: 109' Genere: Drammatico bambino, la lotta di Jude per salvarlo, la presenza della nonna fuori città, la crisi del matrimonio e la ricerca dell’amore estremo, si mescolano nella narrazione, fra detto e non detto, generando un film di notevole forza, capace di passare dalla commedia al dramma psicologico, dalla leggerezza all’angoscia, evidenziando metaforicamente molti temi di coppia dei nostri tempi, dei quali la nutrizione è solo uno dei più emersi. Il modificarsi dei corpi in direzioni opposte (anoressia/bulimia) corrisponde nei due coniugi ai differenti tentativi di risolvere le cose, rispetto ai quali l’occhio di Costanzo opera una sospensione di giudizio. Liberamente tratto da “Il bambino Indaco” di Marco Franzoso, il film è stato sostenuto dal MIBACT e dal Fondo Regionale per il Cinema e l'Audiovisivo. a cura di Elisabetta Colla


JACKIE AND RYAN A

mi Canaan Mann, figlia del regista Michael Mann, realizza il suo primo lungometraggio, Jackie and Ryan. Un film a budget ridottissimo, realizzato in soli venti giorni, girato nello Utah e accompagnato da una piacevole musica country. La trama è semplice e prevedibile: Ryan, un cantante folk, durante i suoi vagabondaggi incontra Jackie, un’ex cantante country che vive con la madre e la figlia. L’amore comune per la musica farà nascere un’intesa speciale tra i due che impareranno l’uno dall’altro a lottare per ciò che desiderano nella loro vita… Il film risente fortemente delle precedenti esperienze televisive della regista che realizza un prodotto molto più simile alla puntata di una qualsivoglia serie tv che ad un film vero e proprio. Nulla insomma che un sabato pomeriggio su La5 non possa offrirvi. Non a caso si avvale di una protagonista molto amata dal pubblico del piccolo schermo, la bionda Katherine Heighl alias Izzie di

Regia: Ami Canaan Mann Nazionalità: USA Anno: 2014 Durata: 92' Genere: Drammatico Grey’s Anatomy. E si gioca l’(unico) asso della manica del film, scegliendo per il ruolo della mamma di Jackie, l’attrice Sheryl lee l’indimenticata Laura Palmer di Twin Peaks. In compenso Ben Barnes, il personaggio maschile del film, mostra grandi doti canore, in questa commedia romantica incentrata tutta sulla (buona) musica e i buoni sentimenti che sembra più che altro un pretesto per promuovere un disco o un’occasione per rivedere attrici televisive cadute nel dimenticatoio. Maria Cristina Locuratolo

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A PIGEON SAT ON A BRANCH REFLECTING ON EXISTENCE LEONE D’ORO per il MIGLIOR FILM

piani sequenza per raccontare l’insensatezza dell’esistenza dell’essere umano: A Pigeon Sat On a Branch Reflecting on Existence (En Duva Satt På En Gren Och Funderade På Tillvaron)

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del sardonico roy andersson chiude il trittico sulla condizione umana formato da Songs from the Second Floor (Sånger från andra våningen, 2000) e You, the living (Du Levande, 2007). Il titolo strampalato riferito all’altrettanto estroso punto d’osservazione privilegiato, Un piccione seduto su un ramo riflette sull’esistenza, si ispira al fiammingo Bruegel e al suo “sguardo a volto d’uccello”. Ne viene fuori un ritratto umano goffo, vile, a tratti vizioso e sicuramente privo di idealizzazione. L’incomunicabilità tra gli uomini e dell’uomo, l’insensatezza della quotidianità e dei gesti, la smania di divertirsi e l’incapacità di farlo sono le tematiche che esploriamo grazie alla coppia Sam e Jonathan, due venditori di allegria piuttosto tristi. “Denti da vampiro con canini lunghi o extra lunghi, il sacchetto che ride e mette la gente di buonumore, il nostro grande classico, e infine la maschera da zio con dente solitario” sono i prodotti per far divertire offerti dalla bislacca e inseparabile coppia, talvolta anche a metà prezzo considerata la crisi. Una crisi diffusa e avviluppante, esistenziale più che economica, che incancrenisce l’uomo fino a renderlo gretto, grottesco, meschino, cinico, in breve terribilmente e rovinosamente comico. I quadri immobili, quasi pittorici e non cinetici, offrono uno scorcio disperato della contemporaneità. Come guidati da dei Gogo e Didi dei giorni nostri, A Pigeon Sat On a Branch Reflecting on Existence ci conduce laddove la morte porta con sé l’ultimo alito di vita, in una scuola di flamenco, nella taverna di Lotte la Zoppa, in un luogo e tempo imprecisati dove un gruppo di anziani coloniali osservano immobili degli indigeni bruciare in uno strano marchingegno, in un laboratorio dove una scimmia è sottoposta a un esperimento imprecisato e probabilmente privo di senso. Il nonsense avvolge non solo la sorte del povero animale bensì l’intera opera dell’autore svedese, la cui fedele aderenza semantica al reale è innegabile. Nell’immaginario di un regista dedito per la maggior parte della sua carriera alla realizzazione di spot pubblicitari e documentari e finalmente consacrato alla gloria cannense nel 2000, è previsto anche l’arrivo di Re Carlo XII di Svezia, finalmente di ritorno in patria a distanza di un paio di secoli per ordinare una birra al pub. In questa carrellata di (non) esistenze, di spettri ‘in carne ed ossa’ e di fantasmi che ancora non sanno di esserlo, ecco affiorare la vita, fatta di lotte contro i mulini a vento, di miseria e vitalità quotidiane, di desideri afferrati e altri

Regia: Roy Andersson Nazionalità: Svezia Anno: 2014 Durata: 101' Genere: Commedia drammatica perduti. Andersson ha dichiarato di essersi ispirato a tre classici della letteratura per realizzare questo film sulla “tensione tra il banale e l’essenziale, tra il comico e il tragico”: Don Chisciotte di Cervantes, Uomini e Topi di John Steinbeck e Delitto e Castigo di dostoevskij. A Pigeon Sat On a Branch Reflecting on Existence è di certo una delle visioni più fantasiose di Venezia 71, un ritratto in semi-movimento che cerca di guardare, dall’alto del volo di un piccione, all’assurdità dell’uomo post-moderno. Francesca Vantaggiato



L'ARTE E LA RESISTENZA

INTERVISTA A SIMONE MASSI di Lucilla Colonna

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ra i massimi esponenti dell'animazione contemporanea d'autore, Simone Massi non solo firma il manifesto e la sigla della Mostra del Cinema di Venezia, ma quest'anno ha anche realizzato la suggestiva opera L'attesa del maggio (sezione Orizzonti) ed è il protagonista del film Animata resistenza (sezione Venezia Classici), premiato dalla giuria come miglior documentario sul Cinema. A lui che normalmente vive isolato nella tranquilla campagna marchigiana per poter costruire con pazienza opere animate che raccontano un universo di partigiani, contadini, anziani e animali, abbiamo chiesto di parlarci della propria arte e delle giornate trascorse al festival lagunare. Con quali aspettative e con quale stato d'animo partecipi alla Mostra del Cinema?

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Nel 2009 assistetti alla proiezione del mio corto Nuvole, mani e provai un'emozione inaspettata e intensissima, come immergersi in mare di notte. Rimasi turbato, tanto che nel 2012 disertai la mia personale e per tutto il tempo delle proiezioni me ne stetti nell'atrio fuori dalla sala con l'orecchio teso e pronto a scappare ai primi fischi. Invece andò bene, la sala era piena e vennero applauditi tutti i lavori, tutti e 18. Per il resto non so, quel che ho visto sul tappeto e gravitare intorno al festival -il pubblico, i fotografi, i divi americani- mi è sembrato un po' un circo ma potrebbe essere un'impressione sbagliata. Guardando i tuoi cortometraggi, compreso dell'ammazzare il maiale vincitore del premio david di donatello 2012, si viene rapiti dalle sorprendenti sequenze animate che si vorrebbe non finissero mai. anche tu vieni catturato dal tuo lavoro? Capita mai che ti perdi nei meandri dei tuoi disegni? Lavoro con le forme e le ombre, ci sono immagini che ne contengono altre e che suggeriscono innumerevoli vie e soluzioni, e immagini che al contrario non si svelano subito e sembrano strade morte. Ecco, messo di fronte a questo tipo di disegni mi perdo regolarmente e dormo male e devo pazientare giorni o settimane, finchè non si mostra il filo che va verso l'uscita. Come trovi un nuovo soggetto attorno a cui lavorare, lo cerchi o piuttosto è lui che trova te? All'inizio, quando ho cominciato a fare animazione, cercavo le storie e mi sforzavo di stanarle e farle uscire fuori senza causare loro troppi danni. Ma sono tanti anni che non lavoro più così, ho accettato di ridimensionarmi e starmene buono finchè le storie arrivano e si raccontano. Ho rinunciato a qualsiasi tentativo di costruzione o ragionamento, lavoro a mano libera.

Il fascino del tuo lavoro è l'indipendenza, il poter fare tutto da solo a mano. Quali sono i tuoi attrezzi del mestiere? la tecnologia che avanza non è mai entrata nel tuo laboratorio? A me piacciono la libertà e il disegnare e le ho imparate entrambe a toccare con mano. Sono fatto in un certo modo e sono nato in una determinata epoca in cui il gioco si doveva prima pensare e poi creare, prendere una forma convincerla a cambiare, a diventare qualcosa d'altro. E questo processo di trasformazione coinvolgeva sensi e strumenti e attrezzi che potevano anche non essere d'accordo, sfuggire di mano e aprire ferite. I grandi ci hanno sempre lasciato fare perchè erano giochi che avevano fatto loro e che in primo luogo servivano ad educare (ad educare gli occhi, le mani, i ginocchi, le tasche) e sul lungo a inventarsi un mestiere. Io il mio l'ho trovato e mi piace e non c'è ragione di cambiarlo. La tecnologia avanza e bussa alla porta, è vero, e le prime volte mi affacciavo pure a spiegarle le mie ragioni. Poi ho capito che è sorda, invadente, costosa e arrogante e da allora faccio finta di non essere in casa e aspetto che passi. Prima di affrontare una nuova opera fai brainstorming, ti confronti con qualcuno oppure preferisci la solitudine creativa? Preferisco la solitudine creativa, per le ragioni dette in precedenza, ho avuto un tipo di formazione che obbligava a pensare, e io non so farlo con la lingua. Parlare è parlare e se ne dicono tante e spesso poi ci si pente. Pensare è più intimo e faticoso e divertente, è un luogo in cui finalmente si può star da soli e fare quello che ci piace: si costruiscono interi universi e poi si fanno sparire con un soffio sul piatto di minestra o col cucchiaino che batte sulla tazzina di caffè. Qual'è l'opera che sei più orgoglioso di aver firmato e perchè? Dipende dai giorni, dall'umore, dal tempo. Oggi, per il giorno e l'umore che ho e per il tempo che fa non posso che rispondere Tengo la posizione. Perchè è bello, è semplice, è il mio manifesto. E in quei quattro minuti c'è tutto quello che ho a cuore e che vorrei raccontare.



L'ARTE E LA RESISTENZA

ANIMATA RESISTENZA PREMIO VENEZIA CLASSICI per il MIGLIOR DOCUMENTARIO sul CINEMA

uest’anno il Leone d’Oro Venezia Classici per il Miglior Documentario sul Cinema è andato all’opera Animata Resistenza di francesco Montagner e alberto Girotto, un documentario appassionato sulla vita e sulla figura del disegnatore Simone Massi, con importanti risvolti ‘politici’, sottaciuti da molta parte della critica. I due giovani registi, venticinquenni, sono originari di Treviso, così come il musicista lorenzo danesin, autore delle musiche del film. «Il documentario nasce dal bisogno di raccontare Simone Massi, il suo cinema e la sua persona – racconta Girotto. Siamo stati catturati dal suo modo di vivere e di essere resistente nel lavoro, nella

Regia: Francesco Montagner, Alberto Girotto Nazionalità: Italia Anno: 2014 Durata: 61' Genere: Documentario vita. È un uomo incontaminato che rifiuta di accettare compromessi di qualsiasi genere. Volevamo rendergli onore, perché troviamo ridicolo che in Italia sia così poco conosciuto quando nel resto del mondo è ritenuto uno dei migliori animatori del nostro tempo». a cura di Elisabetta Colla

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L’ATTESA DEL MAGGIO U

n piccolo capolavoro, il corto di animazione ideato e realizzato da Simone Massi e presentato Fuori Concorso alla 71esima edizione del Festival di Venezia nella sezione Orizzonti. Ex-operaio figlio di contadini, Massi è un ‘animatore resistente’, dotato di sensibilità ed umiltà non comuni, un fantastico disegnatore, ma prima di tutto un raccoglitore di impareggiabili istanti di un mondo in estinzione, uno dei pochi che ancora produce disegni artigianali esclusivamente a mano per costruire i suoi piccoli film, usando una tecnica personalissima ed uno stile inconfondibile. Vincitore di moltissimi premi e riconoscimenti ottenuti in tutto il mondo, Massi è forse più noto all’estero che in Italia. Fra l’altro, è opera sua anche la bella sigla che il Festival di Venezia ha scelto di adottare già da tre anni. L’attesa del maggio racconta di un viaggio o meglio ancora di un attraversamento delle Marche del Novecento – spiega Simone. La terra è sporca e ridotta all’essen-

Regia: Simone Massi Nazionalità: Italia Anno: 2014 Durata: 8' Genere: Cortometraggio/Animazione ziale ed è popolata dalle figure a me più care: operai, contadini, emigranti e poi cani ed altre bestie più o meno grandi. L’idea è maturata un po’ alla volta, grazie a una parola sentita qualche anno fa e che mi si è impigliata nella ragnatela dell’orecchio: “diserzione”. Inizialmente volevo raccontare la storia di un disertore che getta l’arma e si mette in cammino verso casa ma poi, nel momento in cui ho cominciato a lavorarle, l’idea e la storia, sono mutate. O almeno credo”. a cura di Elisabetta Colla

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IL GIOVANE FAVOLOSO “Leopardi sa, con molto anticipo su Proust, o su Beckett, che solo la radicale esperienza di se stessi consente la partita con la verità” Mario Martone

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li scritti di Leopardi e il suo epistolario: questo lo scrigno dal quale Martone e Ippolita di Majo hanno estratto la traccia narrativa che tenta di afferrare e renderci ne Il giovane favoloso (in concorso a Venezia) l’anima di un poeta, uomo di lettere, passione e conoscenza, eroso da un fuoco interiore che arde incessantemente, nella consapevolezza di un’ineluttabilità esistenziale individuale ed umana. Consapevolezza accentuata, in Leopardi, da un vivere costretto e costipato in un corpo malato e nella VILE PRUDENZA che famiglia e sistema sociale-ambientale di una Recanati e di ‘pezzi di Regno’ italiano gli impongono. A cominciare dal dominio psicologico di una figura paterna, padre-padrone di questo fanciullo prodigio, da lui educato alle lettere (che assorbe voracemente come pane indispensabile di nutrimento e conoscenza) in maniera ossessiva e rigorosa: un uccello in gabbia, che può appena intravedere un barlume di luce e di aria. La vita da infante cresciuto che Giacomo Leopardi ha avuto fino a 24 anni, il suo pathos feroce con la natura, nel rapporto di odio-amore che instaura con essa… La sua imprescindibile e disperata malinconia, porta di comunicazione con un esistere dove l’unica certezza da seguire è il dubbio, solo faro a partire dal quale esplorare il rapporto con l’io e il mondo… L’affetto di suo fratello e sorella, la rigidità svuotata di sentimento e vita della madre… La fraterna amicizia con Pietro Giordani… Ci rendono un giovane e soprattutto un’anima a cui Mario Martone (e lo stesso elio Germano, guidato nella giusta direzione interpretativa) riesce a dare corpo e respiro in un canto visivo che pur restando classico nella struttura e nel ritmo, predomina negli affondi interiori dove il tormento di Leopardi è vivo e vivido e si abbraccia alle resistenze fisiche e psicologiche di un mondo che devia il percorso di conoscenza da cui il giovane si sente attratto: stare dentro il caos che ci contiene, assaggiarne l’essenza, rifuggire ogni ‘protezione’, ogni balsamo lenitore, religione in primis. La seconda porzione del film, dove ritroviamo il giovane favoloso ‘liberato’ dalla sua gabbia, prima a Firenze, poi a Roma e infine a Napoli, si ingolfa in una lunghezza che Martone non riesce a gestire: tutto diventa ‘pesante’, scaglionato dentro capitoli narrativi e visivi di fatto, che segnano i vari passaggi di territorio e vicissitudini, senza lasciare un consistente segno dei nuovi solchi interiori di cui Giacomo prende atto: le illusioni di apertura nell’affaccio nel mondo vero e nel rapporto diretto con gli intel-

Regia: Mario Martone Nazionalità: Italia Anno: 2014 Durata: 137' Genere: Biografico lettuali del tempo, della cui ipocrisia e perbenismo prenderà atto presto… L’innamoramento non corrisposto di una donna, la dama Fanny Targioni Tozzetti, lo brucerà nello sperimentare quelle illusioni naturali dell’animo destinate solo a lenire una condizione umana da cui non è possibile fuggire. Il solo elemento che pulsa in questa seconda parte, merito della buona prova attoriale di Michele riondino, è il rapporto di sangue che Leopardi instaura con Antonio Ranieri, esiliato in Francia, Inghilterra e in Toscana per le sue idee liberali, incontrato a Firenze nel 1828, che vivrà fianco a fianco di Giacomo e lo assisterà fino alla sua morte, preservando anche i suoi scritti. Riondino e Germano ci rendono un’empatia totale, dove l’affetto reciproco e solido è la sicurezza reciproca, punto di riferimento reale, tangibile di un affidarsi assoluto. Anche la parentesi napoletana (nella descrizione di un mondo che Martone da napoletano ben conosce) riesce a tratti a rendere l’essenza selvaggia, cinica e plebea di una città in cui il caos è anche rappresentato da una natura incarnata nel Vesuvio, nella quale Leopardi trova più ‘pace’ di consapevolezza esistenziale che altrove. Merito a Martone di aver scardinato il cliché di un Leopardi ai più sinonimo di pesantezza, rendendoci un italiano modernissimo nella sua chiave di lettura esistenziale con la quale confrontarsi e a partire dalla quale approfondire i suoi scritti dove la sua essenza e il suo pensiero sono incarnati per sempre. Maria Cera



THE BOXTROLLS D

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ai creatori di Coraline e Paranorman, un nuovo gioiello cinematografico in stop-motion sbarca al Lido per la gioia di grandi e piccini, The Boxtrolls diretto da anthony Stacchi. Prima volta per lo studio di animazione Laika ad un festival che dopo due cartoons candidati all’Oscar, il primo tratto dall’estro creativo di neil Gaiman (Coraline) e il secondo da una sceneggiatura originale di Chris Butler, adattano per lo schermo il romanzo di alan Snow Here be the monsters, realizzando con la tecnica ultra centenaria della stop motion dei divertenti (ma mostruosi) trolls rinchiusi in delle scatole. I boxtrolls sono creature curiose che parlano una lingua aliena e vivono nei sotterranei di una città fatta di formaggio, l’aristocratica Cheesebridge; una notte portano via con loro un bambino e lo crescono come se fosse uno di loro. Gli umani li credono pertanto malvagi e temono che essi possano rubare i loro figli, ma in realtà quello che sembra un rapimento non è che un salvataggio… Se i primi due lungometraggi firmati laika apparirono molto più “burtoneggianti”, riportando in vita fantasie gotiche in cui bambini straordinari vengono in contatto con realtà soprannaturali e mondi visionari, The Boxtrolls è un’opera decisamente più comprensibile per i bambini, a metà tra fiaba della buonanotte e action-movie. Anche qui, come nei film precedenti, abbiamo una storia che si struttura su due livelli, su due universi paralleli in contrasto tra loro che cercano in qualche modo di armonizzarsi: il mondo “di sopra”, abitato da snob aristocratici, e quello “di sotto”, popolato da mostriciattoli verdi intrappolati in scatole di cartone che si nutrono di insetti, riciclano spazzatura e inventano strani congegni meccanici.

Regia: Anthony Stacchi Nazionalità: USA Anno: 2014 Durata: 100' Genere: Animazione Sempre sulla scia dei personaggi di tim Burton, i Boxtrolls hanno un problema di immagine: pur essendo adorabili vengono demonizzati dagli umani (i veri mostri) come rapitori di bambini. Il grande pregio della Laika, in questo film , è di portare la tecnica della stop-motion a un livello decisamente superiore con un risultato visivo spettacolare: disegni realizzati a mano integrati da un formato grafico in CG e da modellini in stop-motion in cui ogni dettaglio è curato minuziosamente, dai costumi all’espressività dei personaggi; l’effetto della luce e la dinamicità dei movimenti di camera sulla città di Cheesebridge sono soluzioni visive difficilmente auspicabili in un cartoon in stop- motion. La sola creazione dei Boxtroll, questa sorta di disgustosi minion sotterranei, richiede un lavoro lento, basti pensare che un solo animatore realizza in una settimana solo tre secondi di film. Nei titoli di coda appare Travis Knight, il capo dello studio che costruisce ad una velocità accelerata una dei suoi trolls in scatola, con dei commenti fuori campo esilaranti che ironizzano sul mestiere dell’animatore. Un meritatissimo plauso va anche al compositore dario Marianelli che con le sue musiche ha dato un valore aggiunto all’opera e ai doppiatori dei personaggi animati: Ben Kingsley, Isaac Hempstead Wright, elle fanning. Maria Cristina Locuratolo



FIRES ON THE PLAIN (NOBI) S

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hinka tsukamoto ci regala con Fires on the plain (Nobi), in concorso nella selezione ufficiale, una pellicola di talento visivo e metaforico straordinari. Una maturità sorprendete, che unisce natura ed uomo in un rapporto di simbiosi tanto ancestrale quanto scisso, e nella incapacità (ormai) dell’uomo di guardare alla paradisiaca culla in cui la sua esistenza è racchiusa (culla tranciata da una civilizzazione che ha reso l’uomo asettico, alienato dalla natura e dalla morte, inetto nel cogliere perciò fino in fondo la sua transitorietà), e nella perdita di memoria su cosa siamo, su quanto sia semplice (per tutti, nessuno escluso) esternare l’abominio che ognuno di noi contiene, sempre fluttuante come magma interiore (represso dentro alienazioni e frustrazioni), rigettato in fondo da una civilizzazione che può essere scardinata in pochissimi istanti. Tsukamoto sceglie come base sostanziale Nobi - La guerra del soldato Tamura, un romanzo di Shohei ooka e il contesto estremo e disperato di un conflitto bellico. Filippine, ultimi giorni della Seconda guerra mondiale. Le truppe di occupazione giapponese stanno rapidamente perdendo terreno, dovendo contemporaneamente fronteggiare la resistenza locale e l’offensiva americana. I pochi Giapponesi sopravvissuti non possono che lentamente perire… tra massacri, cannibalismo e tentativi di resistenza alla vita, qualunque modo e forma la resistenza consenta, qualunque. Questo romanzo aveva già avuto un adattamento cinematografico da Kon Ichikawa negli anni ’50. Tsukamoto lo rende invece dentro una chiave di lettura che punta il dito contro l’uomo moderno. Come nello spazio sospeso e atemporale della guerra, l’uomo civilizzato vaga senza meta nel mondo moderno: “Nella nostra giungla urbana sterilizzata i nostri cervelli si sono iper-sviluppati, mentre i nostri corpi hanno perso il contatto con le sensazioni fisiche. Non siamo più coscienti di cosa significhi essere vivi. Le città non rappresentano il mondo. Non sono altro che barche senza timone che fluttuano nel mare della natura. Mostrando coloro che sono risucchiati nella follia bellica ho voluto far riflettere sul perché decidiamo di optare per le guerre. Se lottare è un istinto primordiale, volevo scoprire se l’intelligenza in questo riveste un ruolo. Escluderci dal contesto della morte ci porta a esserne in contatto in modo precario, senza un appropriato senso di rispetto e di timore reverenziale.” (Tsukamoto). E la coscienza dell’essere vivi Tsukamoto la svela proprio dentro la metafora di un inferno tutto terreno ed umano, nel quale i mostri che vediamo sono alienazioni moderne incarnate (della stessa aura dei ‘mostri urbani’ che tante volte Tsukamoto ha rappresentato), dove il soldato Tamura (lo stesso Tsukamoto interprete eccellente), un

Regia: Shinka Tsukamoto Nazionalità: Giappone Anno: 2014 Durata: 87' Genere: Drammatico uomo normale, uno che ha sempre vissuto dentro la rassicurante protezione dell’arte e della scrittura, sperimenta l’orrore totale di una bestialità in rapporto a se stesso e a coloro che lo circondano. Momenti di crudeltà assoluta e perciò alienante, fissati visivamente con un tecnicismo finissimo (stupefacente, la resa visiva dell’improvviso arrivo dei proiettili dall’alto e la mira assolutamente direzionale e causale insieme che seguono nella loro traiettoria, lasciando vittime e superstiti al loro passaggio) capace di farci prendere totalmente in carico il riflesso bestiale dei protagonisti che incontriamo, dentro una fotografia iperrealista e insieme trasfigurante, nella quale gli inserti paradisiaci dello stesso luogo terra di guerra, nelle sue splendide acque, nella incredibile vegetazione e luminosità che possiede, ci rende il senso di un latte e miele che incredibilmente non siamo più in grado di vedere! Non siamo più in grado di comprendere quanto la vita sia preziosa, tangibile e ricca, ne abbiamo smarrito il senso, il valore, il modo di possederla…siamo dei pazzi, Tsukamoto ce lo grida con questo film. Dei pazzi. Maria Cera



HILL OF FREEDOM U

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n cinema delle possibilità, della casualità e della cronologia sfalsata quello del regista coreano Hong Sang-soo. Un ragazzo lascia il Giappone alla volta della Corea per ritrovare la sua amata lasciata tempo fa. Lei non è lì, è partita per seguire la ‘cura dell’uva’ e guarire da un male che non conosciamo. In un tempo e in uno spazio imprecisati la vediamo ricevere le lettere del suo innamorato, una sorta di diario scritto da lui durante i giorni della permanenza in Corea. Un diario segue appunto la logica della linearità temporale, ma una messa in scena aderente comprometterebbe la visione della settima arte di Hong. E allora lei, afferrata l’inaspettata corrispondenza, si emoziona, sussulta e si confonde, fino a lasciar cadere le lettere per poi rileggerle senza consequenzialità. La visione prende spunto dal pretesto per saltellare avanti e indietro nel tempo della memoria. Quello che in un primo momento ci sembra la ricostruzione delle giornate e dei desideri del ragazzo si dissolve nel caos dell’assenza di un prima e un dopo. Un’assenza geniale che confonde la percezione del tempo e degli eventi creando nuove opportunità narrative e interpretative. Hill of Freedom, nome del bar frequentato dal ragazzo nonché teatro di azioni e nuove situazioni, potrebbe anche essere una riflessione metacinematografica del regista, per il quale il cinema rappresenterebbe il luogo di massima libertà di espressione e di pensiero, nonché di ricomposizione selettiva di un passato tutto da ri-vedere. Come nell’acclamato The Day He Arrives, in Hill of Freedom si parla di ritorni. Questa volta il tema del ri-

Regia: Hong Sang-soo Nazionalità: Corea del Sud Anno: 2014 Durata: 66' Genere: Drammatico torno è strettamente legato all’idea dell’amore come ragione di spostamento e riformulazione di una vita nuova. “Bisogna vivere dove vive il tuo amore”, dice il protagonista che non ama ragionare per luoghi comuni durante una cena con i suoi compagni di bevute e lunghe passeggiate. E nell’attesa del ritorno della donna amata e stimata sopra ogni altra cosa, il ragazzo si abbandona all’amore carnale con la cameriera del bar, intrappolata quest’ultima in un amore tossico da cui non riesce a liberarsi. In questo interstizio temporale coreano rievocato dalla lettura in libertà degli appunti trionfa la semplicità del quotidiano, della spontaneità dell’incontro e del sentimento, delle grandi verità rivelate durante goliardici e malinconici simposi. Alla fine (o inizio?) della storia racchiusa in poco più di un’ora la decostruzione della logica narrativa ci impone – e offre – nuovi orizzonti di lettura, dell’opera e della vita stessa. In un flusso di eventi concatenati nel rigore della casualità si ri-visualizza il passato, quindi il ricordo e la memoria che, con un pizzico di onirismo alla Hong Sang-soo, possono ricomporsi a piacimento per offrire a noi una miriade di posizioni da cui osservare. Francesca Vantaggiato



THE SMELL OF US “

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i dicevano che non essendo francese non avrei mai potuto dirigere un film sull’adolescenza francese. Questo è un progetto durato vent’anni e credo sia il mio capolavoro“. Con un messaggio breve e diretto, l’assente larry Clark ha salutato il pubblico veneziano e introdotto il suo ultimo lavoro-scandalo presentato durante le Giornate degli Autori. A distanza di quasi vent’anni da Kids e dodici da Ken Park, il fotografo autore di Tulsa si addentra nelle dinamiche adolescenziali contemporanee del Vecchio Continente. Gli skaters parigini e il loro modus vivendi spregiudicato, underground e frustrato, entrano nel mirino dell’autore americano che si immerge letteralmente nella subcultura dei suoi affascinanti (anti) eroi maledetti. Clark è Rockstar, un vecchio ubriacone spesso accasciato nei luoghi calcati dagli skaters. Il voyeur-narratore non giudicante Clark travalica il limite dell’obiettivo per farsi osservatore diretto e lasciarsi ammaliare dalle vite corrotte di questi giovanissimi borghesi. Un viso angelico tradito da un animo tutt’altro che innocente, Math (lukas Ionesco, figlio della turbolenta attrice e regista eva Ionesco e nipote della controversa Irina Ionesco), è l’oggetto del desiderio dei suoi coetanei, dal suo migliore amico JP (Hugo Behar-thinieres) all’eterea Marie (diane rouxel), dallo stesso Clark/Rockstar – che si lascia tatuare lo stesso teschio sul braccio – alla madre lasciva che vorrebbe sedurlo. Suo malgrado, l’algido Math non è sessualmente desiderato solo da amici omosessuali e amiche annoiate in cerca di appagamento, ma soprattutto da vecchi feticisti e pervertiti. Nonostante Math non si trovi nella condizione economica di prostituirsi per necessità, come poi del resto anche i suoi coetanei, concede il suo corpo a uomini disposti a pagarlo profumatamente, per poi acquistare dozzine di magliette Supreme e spersonalizzarsi nel brand-simbolo degli skaters. Pentito e mortificato, svuotato di ogni pulsione vitale e desiderio (sessuale o sentimentale), Math diventa una figura emblematica del suo tempo, effige di un disagio generazionale sprofondato nell’annichilimento, dove la lotta per gli ideali dei padri ha ceduto il passo al ripiegamento narcisistico dei figli. I corpi erranti di Clark non hanno obiettivi o necessità, vivono nella contingenza dei desideri (una maglietta, sesso occasionale, una manciata di soldi in tasca) e per appagarli sono pronti a vendersi l’anima. Nell’era dei selfie e del voyeurismo digitale, dove documentare e condividere conta più dell’attimo in sé, non stupisce l’atteggiamento permissivo degli adolescenti nei confronti dell’amico che riprende con l’I-Phone qualsiasi cosa gli capiti a tiro, dagli amplessi tra coetanei a quelli con i vecchi paganti, dalle acrobazie sugli skates alle macchine

Regia: Larry Clark Nazionalità: Usa Anno: 2014 Durata: 92' Genere: Drammatico incendiate per puro diletto. Quell’occhio digitale intrusivo e onnipresente, testimonianza di un epoca alla deriva dove la libertà sessuale è spregiudicatezza fine a se stessa, priva di qualsiasi piglio rivoluzionario contro dettami e censure ipocrite, è probabilmente Clark stesso. In fondo, la pratica di osservare e documentare eventi ‘scomodi’ nella quotidianità dei suoi amici non è di certo un fatto nuovo nell’approccio artistico del regista. I ragazzi di Clark non sono quelli turbati di Gus Van Sant (Parnoid Park) né tantomeno i sognatori erotici di Bertolucci (The Dreamers). Seguendo la sceneggiatura del poeta francese Scribe piuttosto che l’autore di Kids e Ken Park Harmony Korine, l’evergreen Clark sviscera la precocità disinibita e priva di un atto rivoluzionario dei giovani del Palais de Tokyo. Michael Pitt non è un cinefilo esploratore di sessualità ed erotismo, bensì un menestrello clochard vicino ma non addentro alla quotidianità degli skaters. The smell of us, l’odore della giovinezza, è un cinema di sguardi immersi nel ritratto estremo della brutale ma non pornografica verità, è un documento che si preferirebbe non leggere su una generazione dominata da inconsapevolezza, perversione, superficialità e insofferenza. Francesca Vantaggiato



OLIVE KITTERIDGE L

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a HBo presenta al festival la miniserie di quattro ore diretta da lisa Cholodenko, Olive Kitteridge, tratto dal libro omonimo, Premio Pulitzer 2009 di elisabeth Strout. La storia vede come protagonista una donna di mezza età, Olive, interpretata da frances Mcdormand (che al Lido ha ricevuto il Premio Persol) la quale vive in un immaginario paesino del Maine con il marito (uno straordinario richard Jenkins) e il figlio. Il suo sguardo è testimone di tutto ciò che accade nell’ambiente in cui vive: i segreti, gli inganni, le sofferenze e le morti dei personaggi che incrocia nel suo percorso di vita. Olive è una donna dura, severa con se stessa e con gli altri, una donna che sembra essere nata già adulta, forse perché l’infanzia le è stata negata da un padre suicida e una madre alcolizzata. Una storia che definire al femminile è riduttivo perché in realtà è una storia che parla di umanità, della difficoltà e della fragilità dell’esistenza, dell’incubo della malattia e della pazzia che incombe su ogni essere umano, sulle colpe dei genitori che ricadono sui figli, sui diversi tipi di amore e l’affannosa ricerca di un senso dell’esistere. La regista riesce a cogliere ogni sguardo, ogni silenzio,

Regia:Lisa Cholodenko Nazionalità: USA Anno: 2014 Durata: 233' Genere: Drammatico ogni ruga di una McDormand in stato di grazia, regalandoci un film intenso, perfettamente equilibrato, indimenticabile. I paesaggi del Maine, abbaglianti e solitari, infiniti e strazianti, sono impressi sulla pellicola come quadri di edward Hopper, squarci emozionanti di vita, della società americana, della solitudine umana. Un susseguirsi di eventi più o meno tragici, più o meno significativi, e lei Olive al centro, con la fermezza e la disperazione di una donna che sa amare con durezza e non versa lacrime, che spaventa i bambini e premedita la sua morte. E alla fine l’entrata di scena di una figura malinconica col volto di Bill Murray che vaga come uno spettro negli spazi luminosi del Maine portando con sé la speranza di un nuovo inizio. Maria Cristina Locuratolo



THE POSTMAN’S WHITE NIGHTS LEONE D’ARGENTO per la MIGLIORE REGIA

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analisi dell’uomo moderno in questa edizione del .festival (nella sezione del concorso e per i film .seguiti) ha trovato due estremi: uno in Nobi di tsukamoto nell’alienazione di una civilizzazione che ha staccato totalmente l’uomo dalla natura rendendolo sterile a se stesso, l’altro nella luce (dagli svariati riflessi ed ombre) di un vivere ormai sempre più raro e rado in connubio con la natura, che il brioso occhio di andrei Konchalovsky ci offre nel cantico di un postino e della piccola comunità di un lago nel Nord della Russia. The Postman’s White Nights, in concorso, è una bella favola totalmente reale, nata da una domanda che il regista si è posto…“Il corso della vita di quale persona vorrei seguire?” e dalla lettura di un articolo dove si parlava di un postino che lavorava nella provincia russa e di come il numero dei villaggi in Russia si fosse ridotto in 5 anni di ben 17mila unità. Di come in quelli rimasti la gente viva come se fosse fuori dello Stato, per mancanza di collegamenti. Nella incredibile convivenza tra sviluppo tecnologico, lancio di missili nello spazio e pezzi di Russia dove il tempo pare essersi fermato, Konchalovsky si è messo con tenacia alla ricerca del ‘suo’ postino, di chi potesse incarnare quel misto di ironia, ingenuità, ‘purezza’ in totale via di estinzione, e della sua gente, quella comunità che vive anche grazie a lui, che non porta solo la posta e distribuisce le pensioni, ma fornisce viveri, medicine, combustibile, ne permette la sopravvivenza. Nell’incredibile scenario naturale del Parco Nazionale di Kenozero, sulle rive del suo splendido lago, la macchina da presa segue un pezzo di esistenza di Lyokha, il postino che tiene unita la piccola comunità alla ‘terraferma’. Konchalovsky ha voluto mantenere sulla carta un impianto documentaristico, e nell’adoperare gente del luogo e nell’evitare una sceneggiatura predefinita. Tutto andava ripreso e catturato in divenire, costruendo sulle normali vicissitudini quotidiane il canovaccio-impronta da sviluppare. Il risultato è un incredibile prisma visivo e umano, dove l’aura documentaristica cede il passo ad una vestizione di pura fiction. è un film a tutti gli effetti, in primis per il sapiente e perfetto uso della macchina da presa: la realtà viene portata completamente fuori, vivida e tangibile in tutti i suoi aspetti e umori: negli interni ad ‘effetto Gulliver’ dai tagli alti ed angolari delle abitazioni in legno, nei sopralluoghi di incanto ad altezza barca sui colori, il silenzio, la calma dell’acqua lacustre… Tutta la bellezza della natura è esibita regalandoci uno sguardo purificato e rinnovato nella meraviglia che la macchina da presa è capace di generare. La stessa condizione umana riesce a tratteggiarsi in una molteplicità di sfumature: anime congiunte, disgiunte, che accettano la loro vita con ‘naturale rassegnazione’ e ma-

Regia: Andrei Konchalovsky Nazionalità: Russia Anno: 2014 Durata: 90' Genere: Drammatico turità (come Bombolone, uomo schiavo della vodka, abbandonato in un orfanatrofio dalla madre povera), o portando il peso perenne di una malinconia che non si sa da dove viene e perché non è possibile estirpare via. La tv sintonizzata sullo stesso canale da tutti gli abitanti, che scandisce il legame con l’altro mondo, così lontano e ‘incolore’, catturata con una Red che radiografa ambienti e corpi come entità a se stanti. E poi i dialoghi così autentici, briosi, così ‘pazzi’ nell’esperienza che condensano, come la simpatica litania erotica del vecchio pescatore che in guerra, da giovane, aveva infranto molti cuori asiatici. In questo universo dove il senso di comunità è così necessario per la sopravvivenza di tutti, il postino Lyokha è il perno attorno al quale tutte le piccole vite girano e la sua stessa ha un senso. Nel suo amore verso Irina, la bella e procace amica di infanzia separata con un figlio, che approfitta della ingenuità e bonarietà di Lyokha, nelle vicissitudini del suo piccolo motoscafo necessario e alla sua sopravvivenza e a quella del villaggio, l’ex bevitore di vodka Lyokha sperimenterà una crisi di identità (metaforicamente rappresentata da un bellissimo gatto grigio che gli compare all’improvviso), che lo porterà a capire quanto la sua vita lacustre sia la culla più bella e protettiva di qualunque evasione cittadina. E noi con lui. La immaginazione che Konchalovsky accende col suo occhio mobile, penetrante, vivido e vivace, tecnicamente alto nell’usufruire di tutte le possibilità visive scardinatricipenetrative nell’attenzione e nella meraviglia, accompagnato da una alta capacità di osservazione dell’essere umano e di ciò che lo circonda, ne fanno un autore visivo di estrema levatura. Maria Cera



RED AMNESIA W

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ang Xiaoshuai è un regista scomodo in Cina. I suoi primi tre lavori gli hanno fruttato blocchi ed avversioni da parte delle autorità governative. Eppure Red Amnesia, terza pellicola della cd. Trilogia della Terza Linea, presente nel concorso, non pare così sovversiva da vari punti di vista. Pur se sulla carta il regista ha avuto il merito di creare una sceneggiatura sviante, conducendoci dentro un inizio che abbraccia tutt’altra direzione nel finale, offrendoci Deng (lü zhong, brava ma non così eccelsa interpretativamente), vedova che vive la sua vita solitaria gestendo la madre in ospizio, ingrata ai suoi figli, ognuno con una propria vita così diversa dalla sua, il cui approssimarsi alla vecchiaia diventa sempre più ingombrante nel relazionarsi reciproco. Deng subisce all’improvviso una serie di chiamate silenti, e questa costante pressione telefonica, unita ad una presa d’atto della mancata sicurezza urbana di cui chi è solo e indifeso è il più esposto, destabilizzano sia lei che i suoi figli. Un ragazzo dal cappellino rosso comincia a seguirla. Lo stesso che la macchina da presa fissa in varie abitazioni vuote, a riposo prima e dopo averle violate e derubate. Deng e la sua famiglia sono preoccupate, perché la minaccia di stalking telefonico si allarga anche a gesti che includono l’abitazione del figlio maggiore. Nello stato di confusione in cui Deng si trova le si palesa un nome, e una colpa che la donna si porta dentro da 40 anni… Quella colpa pian piano emergerà fino a rivelarsi, e a rivelarci nella dolce vecchina che abbiamo di fronte un’attivista e delatrice durante il periodo della Rivoluzione Culturale, che quando alla fine della stessa ha avuto l’opportunità di tornare insieme ai suoi a Pechino dall’entroterra montuoso dove vivevano molte famiglie cinesi sottoposte al ripopolamento e al lavoro in zone remote come operai (Terza Linea), non ha avuto alcuno scrupolo nell’usare la falsa delazione a scapito di un’altra che le sarebbe stata preferita, condannando quelle persone per sempre ad un isolamento esistenziale e alla povertà. Red Amnesia purtroppo annoia, e per uno stile visivo molto piatto e inanimato, neppure minimale, dove la suspance iniziale non viene per nulla vitalizzata, e per una vicenda umana (la colpa che Deng non potrà mai scontare del tutto dentro di sé) che non riesce ad essere rappresentata narrativamente con forza anche storica, politica e sociale. Il canto visivo di un passato completamente cancellato dalla memoria della nuova generazione, e un mondo della vecchiaia incapace di unirsi al futuro, è sterile ed incolore, privo di una vera identità.

Maria Cera

Regia: Wang Xiaoshuai Nazionalità: Cina Anno: 2014 Durata: 110' Genere: Thriller



LA TRATTATIVA L’

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egregio e mobile lavoro di Sabina Guzzanti, La Trattativa, presentato fuori concorso, nasce, .per sua stessa ammissione, dal cortometraggio di elio Petri Tre ipotesi sulla morte di Giuseppe Pinelli (1970). In questo corto Petri ironizza sulle tre versioni che la polizia fornì intorno al “suicidio” di Pinelli, ricostruite seguendo le diverse e contraddittorie indicazioni della Questura, dimostrando, in questo modo, come esse rendessero materialmente impossibile la caduta volontaria o accidentale dell’anarchico dalla finestra. Come Petri, anche la Guzzanti ha scelto di chiarire dopo l’incipit la sua prospettiva narrativa, presentandosi a noi che guardiamo, insieme al suo gruppo di collaboratori, come lavoratori dello spettacolo che hanno deciso di mettere insieme i variegati tasselli che ruotano intorno ad uno dei momenti cruciali del nostro passaggio ‘democratico’, sottraendosi ad un punto di vista giuridico e giornalistico, cercando con le capacità artistiche e creative possedute di rendere questa ‘storia’ comprensibile e fruibile ai più, a tutti quelli che dovrebbero quanto meno mettersi nella posizione di informarsi su scelte e decisioni che hanno inciso e incidono direttamente anche sulla loro vita quotidiana: tutti noi. Entrando ed uscendo (e noi con loro) dalla messa in scena, e scindendo l’attore dal ruolo interpretato (osserviamo gli attori nella preparazione-vestizione del personaggio, guardiamo dal dietro le quinte insieme agli attori in riposo la scena in preparazione), la scelta ‘petriana’ della Guzzanti si è rivelata vincente nell’allontanare lo spettro della pura fiction e dunque della mediazione totale dalla sua rappresentazione. Immagini di repertorio, interviste, animazioni grafiche, note-post it, scene girate nel teatro di posa… La vena sottilmente satirica, che accentua a seconda dei casi, difetti fisici, umani e psicologici di mafiosi, politici, alte cariche dello Stato, magistrati, che marchia gli errori più meno consapevolmente provocati nelle indagini, nella gestione dei pentiti, e nella cattura di Riina…Il dentro e fuori che la Guzzanti ci rende, dà totale sostanza e fluidità ad un racconto nel quale tutti i tasselli di una vicenda lunga 20 anni e più si incastrano chiaramente e naturalmente nella loro sequenzialità: tutto è così semplice e maledettamente credibile. 4 anni ha impiegato la Guzzanti per mappare un argomento popolarissimo ma ignorato nella sostanza, bistrattato, confuso e reso indifferente dai media (stampa e tv). Ciò che la Guzzanti voleva ottenere (riuscendo in pieno nel suo intento) è di far emergere l’aura della verità, confermare senza spiegare la fondatezza della finzione, far emergere le tensioni di quegli anni, aggiungere sfumature, approfondire veramente. E il quadro che ne viene fuori è davvero terrificante: dall’uccisione di Salvo Lima, alle stragi di Capaci

Regia: Sabina Guzzanti Nazionalità: Italia Anno: 2014 Durata: 108' Genere: Documentario e Via D’Amelio, ai primi tentativi di contatto tra Stato (per il tramite del colonnello Mori) e Riina (attraverso Vito Ciancimino), al periodo del terrore bombarolo, all’avvio di cambio di rotta politica con la preparazione della nascita di Forza Italia che fa abbandonare il progetto di un’Italia federale con il Sud consegnato alla mafia, in accordo con Servizi Segreti, Massoneria e la mafia stessa … La portata realistica di ciò a cui assistiamo viene a dilatarsi, dipanarsi, arrivando naturalmente e direttamente a noi. La trattativa è innanzitutto una testimonianza intorno a fatti e risvolti politici e storici essenziali per la nostra comunità, per noi. L’Italia che è priva di coscienza civile, sabotata nei tentativi coraggiosi e non politicamente corretti di cercare la verità di vicende chiave della nostra democrazia, deve essere grata ad artisti come la Guzzanti che con il cinema alimentano la formazione e lo sviluppo di uno spirito critico, salvaguardia essenziale della libertà individuale e sociale di un’Italia in piena deriva e decadenza. Maria Cera



NEAR DEATH EXPERIENCE

D

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issacrante, cinico, anarchico, onirico, poetico, funambolico, filosofico, libero. Il cinema della coppia artistica Benoit delépine e Gustave Kervern ha il suo inconfondibile e poco rassicurante marchio di fabbrica, rintracciabile per nostro diletto anche nell’ultima coraggiosa esperienza-viaggio all’insegna del nichilismo. “Paul, davvero, tu parli troppo e non ti suicidi abbastanza”, recita in un monologo la voce silenziosa di Michel Houellebecq. Scrittore e poeta della solitudine esistenziale dell’uomo contemporaneo, penna desolata di un’era vuota in cui l’individuo si aggrappa disperato a scivolosi palliativi e si trascina nella lotta continua alla sopravvivenza, Michel Houellebecq veste i panni di un 56enne “obsoleto” intenzionato a suicidarsi nelle montagne della Provenza un venerdì 13. Near Death Experience non è la storia di una ribellione grottesca e surreale alla Louise-Michel, o il viaggio in moto di un operaio alienato trainato dall’immenso Gérard depardieu in Mammuth. E non è neanche una rivoluzione anarchica personale alla Dead e Not in La Grand Soir. è, piuttosto, una riflessione in solitaria dell’uomo medio (?) schiacciato dal peso del nulla esistenziale, e da un cancro ai polmoni galoppante. 7 uomini, una camera ordinaria e una montagna sono bastati a Delépine e Kervern per portare sullo schermo un monologo disperato con immancabili punte di ironia. Near Death Experience è cinema di coraggio, un flusso di coscienza in libertà affidato dai due all’interpretazione di un attorepoeta gracile, vestito con un’improbabile tuta da ciclista, privato di ogni possibile qualità magnetica. Eppure Paul finisce col lasciarci entrare nel suo dramma intimo e ‘irrilevante’ e coinvolgerci nelle sue elucubrazioni disincantate. Le sue riflessioni amare, i suoi momenti di tenerezza, il fardello di non essere mai riuscito a integrarsi in una società cambiata e alla deriva sono il lamento inascoltato dell’uomo comune, non-eroe perfino dentro le mura domestiche. Sposato a una donna che ha amato ma che sa fare a meno di lui, con dei figli che non ha mai saputo affrontare, Paul sta per accomiatarsi dalla vita e dai suoi affetti lontani rivolgendosi a dei simulacri di pietra che lo ascoltano con la stessa sordità delle persone intorno a lui. Probabilmente il progetto più fragile nella filmografia dei cineasti per le scelte registiche minimali, per la riduzione della narrazione a un monologo interiore e per aver affidato questi due punti a un protagonista non-straordinario, Near Death Experience è senz’altro l’opera più ardimentosa e affrancata da ogni logica di produzione, scrittura e distribuzione mai realizzata dal duo francese. «Ho sempre pensato che suicidarsi implicasse non solo coraggio, ma soprattutto fortuna. Sono infiniti i suicidi falliti a causa della sfortuna. Alcuni di quei poveri disperati considerano

Regia: Benoit Delépine, Gustave Kervern Nazionalità: Francia Anno: 2014 Durata: 90' Genere: Drammatico tali fallimenti un segno divino. Non io. Una delle poche qualità che tutti mi riconoscono è la diligenza professionale. Ho sempre portato a termine un compito, a casa e al lavoro. Da bambino, per esempio, ho sempre vuotato il piatto». Francesca Vantaggiato



PASOLINI A

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bel ferrara è riuscito solo dopo molti anni da quando gli era nata la voglia e la necessità a dare forma filmica al suo Pasolini, essere che non poteva certo sfuggire al flusso onirico e visivo dissacrante e poetico di un grande cineasta e uomo pieno di tensioni inquiete quale Ferrara è. La grande eredità intellettuale, politico-sociale e umana di Pier Paolo Pasolini è un vuoto incolmabile, sempre più incolmabile man mano che l’agonia del nostro Paese si consuma e ci consuma. E Ferrara (insieme allo sceneggiatore Maurizio Braucci) sceglie di accostare questo poeta, letterato, intellettuale, regista, nella sua dimensione strettamente umana, affrontando il suo ultimo giorno di vita. Tra privato, lavoro, passioni e COMPASSIONE (sentimento, quest’ultimo, fondamentale nel tratteggio umano che Willem dafoe, nel rivestire i panni di Pasolini, rende egregiamente), la macchina da presa scagliona la giornata di Pier Paolo tra realtà e immaginazione, dentro le tracce visive di Salò e nell’intervista concessa ad una tv francese, nelle porzioni del suo romanzo incompiuto Petrolio, dominato dalla figura ambigua di Carlo (per cui Pasolini ha assoluto disprezzo), ingegnere della borghesia torinese costruito nella ossessione del doppio: Carlo di Polis, camaleontico e sociale nella festa del potere, dove accosta viscidamente personaggi subdoli tra cui un Salvatore Ruocco che ben lega in postura e stoffa recitativa all’ambiente lo spettro dell’Eni. Carlo di Tetis, diabolico e lascivo nella orgia orale omosessuale. E il film mai realizzato Pornoteokolossal, con un Re Magio (ninetto davoli) di nome Epifanio che insieme al suo servitorello Nunzio (riccardo Scamarcio) parte per seguire la Stella Cometa che annuncia la nascita del Messia…Credendo di raggiungere un fine, si scopre la realtà così com’è, senza alcun fine, Se il punto di vista dal quale focalizzare Pasolini è stato correttamente centrato, e convince la porzione privata, intima della vita di Pasolini nella ricostruzione dell’ambiente familiare, del rapporto con amici fondamentali come laura Betti (anche se Maria de Medeiros non riesce a coglierne né fisicamente né interpretativamente l’essenza), Ninetto Davoli (la scelta di Riccardo Scamarcio nel ruolo pare più legata ad esigenze produttive), con la madre (un’adriana asti anch’essa non perfettamente empatica in un ruolo decisamente centrale e delicato), nelle relazioni con la ‘stampa ufficiale’ tra polemiche e poetica pasoliniana di quell’ultimo periodo nell’intervista concessa a Furio Colombo, nelle relazioni umane dentro una Roma tana dei lupi politica e sociale dell’ultima sera, scandita dalle tappe al Pommidoro a San Lorenzo, al Biondo Tevere a Ostiense, all’idroscalo di Ostia…

Regia: Abel Ferrara Nazionalità: Belgio Anno: 2014 Durata: 86' Genere: Drammatico La commistione tra realtà ed immaginazione fa fatica a sprigionare energia, forza visiva ed intensità. Tutto resta in superficie, poche cose si attaccano dentro, restandoci. Specie la porzione immaginativa appare affaticata, stanca, priva del guizzo che il Ferrara dei tempi addietro sapeva magistralmente rendere. Anche nelle fette visive più trasgressive (come la scena della ‘orgia’ della fertilità) manca quel superamento di confine capace di scuoterci (una grande grazia di Abel Ferrara di un tempo). Il film uscirà purtroppo doppiato in Italia, privando chi lo vedrà di una riuscita sensibilità linguistica: nella versione originale i personaggi parlano prevalentemente in Inglese, e questa scelta, nata dall’esigenza di avvicinare Dafoe il più possibile all’essenza di Pierpaolo nel renderla attraverso la propria madrelingua, non con le parole di un Italiano di cui non potrebbe mai essere completamente padrone, avvicina tantissimo la comprensione ‘animistica’ del Pasolini ferrariano. Questa compassione verso se stesso e sul mondo, questo sguardo che Dafoe ci restituisce, emblematicamente espresso quando osserva il suo giovane carnefice affamato intento a mangiare nel ristorante dove gli offre la cena, è la vera luce che il Pasolini di Ferrara riesce a produrre. Maria Cera



e n i z a g a m _ s r e v i r d i x a t / m o c . u u s http://is


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