Alcuni testi di Federico Ghillino
Poesie p. 2 Prose p. 5
da Cantare su alcune persone che vivono nel mio quartiere tra cui me parte finale di un lungo testo poetico-prosastico
Quando guardo le persone sono un vento che s'intrufola tra i capelli, che vorrebbe andare sempre più a fondo di quanto riesce ad arrivare. Io allora non mi sento triste né felice. Mi sento così neutro quando indago i volti della gente. E li indago così tanto che mi sembra di non vivere per poter vivere anche per poco le loro vite, che sono così tante da non poterle nemmeno raccogliere tutte. E sono anche loro un vento forte che mi rimbomba nelle orecchie e non mi fa sentire altro. Tutto è così fluido e sfuggente, proprio come aria che si mescola, che non te n'accorgi e di due è già uno. Io sono come Arnaldo che non può raccogliere il vento. E indugio sotto le fronde o i cespugli con una mimetica e un fucile che si inceppa sempre per cacciare le mete della mia vita che sono animali favolosi come il Dio Cervo dal volto d'uomo e dalle composite corna, o l'Unicorno dal manto candido che acceca, o l'Anfisbena che ha movimento alterno con duplice sibilo, o l'Ippogrifo che saldo ai ronchioni umidi di muschio grida, stride, allucca, o la Kitsune mutaforma dalla corsa rapida e scaltra. Sempre li scorgo ma mi rifuggono non appena li vedo. Per seguirli salgo in alto nel bosco, che più lo risalgo e sempre incontro gli stessi luoghi senza avere fine, ed in alto si moltiplicano le foglie, i rami, i tronchi, e si duplicano le rocce ed i muschi, e le cime delle montagne, e gli animali sono più di quanti mi erano parsi, e maggiori le loro fughe. Ed io che resto uno non so più chi sono.
Lounge bar(riti) poesia scritta per l’evento UGA DAY 2016, serata a tema elefanti ed animali della savana
Una parte di vermut, sei di gin: le scimmie muoiono di liquorini perché là non si beve il Dry Martini, qui invece sì.
Giunti dalla savana alla città avevamo un sogno noi elefanti: aprire – con amore e tutti quanti –un cocktail bar.
Al banco abbiamo solo tipi arzilli: l’ibis modella il ghiaccio ed il leone fa il boss, e con lo shaker è un campione, i coccodrilli
preparano tartine con l’acciuga; e per entrare devi dire «UGA».
Sinfonietta per vocale scompagnata poesia scritta per la rivista Fischi di Carta
Eravamo due vocali senza vezzi aggettivali, suonavamo bene insieme, ma non troppo, solo bene. Poi per una scordatura fummo iato da paura.
Fu per un fatto di suono, non tradimento o perdono, più tono che sentimento, forse per liti d'accento, ma la vocale da sola anche se grida non suona e non basta chicchessia per tentare un'armonia. Se ci mette un po' di testa può ambientarsi ad una festa
ma il problema, quello vero, è quadrare con l'intero oltre l'attimo e il contesto: è inserirsi dentro un testo.
Signorine consonanti fanno cuore a tutti quanti: gutturali a cui risalta gonna corta e vita alta, palatali birichine con le calze parigine, le dentali con i tacchi, le labiali giacche a scacchi, poi ci sono le alveolari coi vestiti floreali.
Sono tutte meraviglia, caramelle, vetro, biglia, ma non voglio sillabare o sforzarmi di rimare, a me serve una vocale per serate da assonare per i giorni silenziosi di sussurri vergognosi: per suonare a tutto tondo cerco solo il mio dittongo.
da Cronica familiare dei fratelli Miranda e Costante e di molti altri che nulla hanno potuto frammenti di romanzo
Costante Mai, sfruttando l’assenza della sorella, passa la giornata giocando ad un videogioco tattico su consolle. La sua concentrazione è presente in un unico nervo lattiginoso tra la pellicola dei suoi occhi ed il vetro del televisore. La sua attenzione al resto del mondo è assente, smembrata, perduta su scaffalature, occultata in cassettiere, inumata in recipienti disposti lungo linee prospettiche ingannevoli, che si intersecano ovunque in forme irregolari dal numero di angoli indeterminato.
[…]
Costante Mai sfrutta l’assenza della sorella per alienarsi senza disturbi. Ha fatto i compiti per il giorno successivo in mattinata, con l’aiuto raffazzonato del padre Severo Mai. Nel pomeriggio annega l’ansia del nuovo ambiente scolastico della prima media in manga giapponesi comprati in edicola, di cui non sa comprendere le peculiarità artistiche ma dove scopre la sessualità attraverso un fan service poco raffinato e delle proporzioni inverosimili.
da Voglio che sia un intarsio frammento di racconto
Fra gli stretti vicoli si era appena consumato un periodo di pericolose turbolenze, seguite alla morte del Vecchio Doge in una notte primaverile di brezze montane, mentre i venti pungevano il pollame e vorticavano nelle froge dei cavalli.
Nel Dogato Liberale si erano subito scatenati silenziosi e laceranti scontri tra le Famiglie Ubique, che nel favore della notte e per la brama di potere si scambiano missive di sicari sulla lama dei pugnali; quando la carta era strappata si rispondeva con pergamena umida di porpora. Dopo mesi di conflitto il Doge Nuovo prese il potere, e lo conquistò con la forza della dissimulazione ed avendo allo scarlatto dei sigilli rischiato un’improvvisazione di parole. Questo gli valse grande rispetto da parte delle Famiglie Ubique; chi odiava non poteva ormai combattere da solo, chi amava aveva gli occhi di rubino.
Dimensioni testo scritto per la rivista Cacca
Il mio corpo è uno spazio pieno volumetrico. Ha una larghezza, un’altezza, uno spessore e diverse densità. Il corpo è un volume che mi inganna, ha inconoscibili consistenze, liquidi variamente colorati, differentemente viscosi.
Il bosco è una superficie irregolare di volumi piramidali, infinitamente spaccati in parti minori: pietrisco, terriccio, rettili, insetti e mammiferi. Ha una portata materiale incommensurabile a quella del corpo umano. Per anni ho agognato infondermi nei tronchi, concorrere a loro essendo corteccia: un volume coadiuvante. Ma no, solo spallate, tronchi di tronco e poco altro. A tratti un frusciare.
Il tuo corpo è uno spazio volumetrico pari al mio. Un nervoso sbalzo d’algebra con un’estensione esatta ed una composizione di forme definita. Il tuo corpo è una complessa geometria analitica: a volte un problema da risolvere, altre sbozzate architetture.
Pensai un giorno di portarti nel bosco e cercai una compenetrazione delle nostre forme, ma non la trovai. C’era solo la tangenza delle dita, un’incontrarsi di rombi, uno spazio tra sfere. Pi grechi. Decimetri. Raggi. Quando allora prendendoti per le mani sentii che i corpi non trovavano quell’intersezione, dissolsi l’incrocio ed appoggiata al tronco ti guardai.
Dalla sfera del bulbo al bulbo della sfera. Guardarci negli occhi era come una scissione atomica, una perizia balistica. Tanto una meccanica bellica quanto la nostra bolla di sicurezza. Quella dinamica era il moto ad una soluzione: se non potemmo con i volumi dei nostri corpi, forse avremmo potuto con i piani infiniti del nostro intimo, creare un’intersezione. Fosse un punto od una intera linea infinita quanto quest’estrinsecazione di noi. Abbandonare la terza dimensione per riscoprirci nella pura bidimensionalità. Non impoveriti ma semplificati. Elevarci l’uno secondo la potenza dell’altro. Scoprire che nello spazio avolumetrico si estendeva il nostro cosmo.