TRE 1 giugno 2017
Alessandro Mantovani Amelia Moro
ANCHE L’ORSO FISCHIA
L’idea è proprio questa: che tutti, ma proprio tutti abbiano la possibilità – se ne hanno la voglia, requisito fondamentale – di fischiare insieme a noi.
Questo significa non solo sostenere il nostro progetto – leggendoci su carta e su internet, seguendoci sui social network, e così via – come sempre senza alcun costo obbligato, ma ci piace pensare che significhi anche che chiunque, in parte più o meno determinante, possa partecipare al progetto. Si può scrivere per noi e insieme a noi, certo, ma si può anche iniziare così: ascoltandoci, confrontandoci e parlando con noi.
Questo è lo scopo dei tre reading (le date le trovate in fondo): portare in giro per Genova la notizia che anche l’Orso fischia. Non un reading di soli testi ma nemmeno una lezione frontale di sole spiegazioni e dibattiti, che finirebbero per sfociare in quell’accademismo che sentiamo non appartenerci.
Molto semplicemente, i testi oltre ad essere letti saranno raccontati dai loro autori con le loro parole, spesso improvvisate, e magari accompagnate da un bicchiere di birra.
Provare a spiegarvi in modo interessante ciò che
INTRODUZIONE
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facciamo ci sembra un buon modo per condividere quello che si potrebbe dire “il nostro lavoro” con voi, che tenete questi libretti in mano. Lettori, ascoltatori, follower, o con qualunque altro termine preferiate definirvi.
È per voi che leggiamo, a voi ci raccontiamo, con voi desideriamo parlare, confrontarci, litigare: tutto il necessario. Perché è a voi che dobbiamo la nostra stessa esistenza. Adesso, quindi, tocca (anche) a voi: ascoltateci, se volete. Nello spazio di un’oretta proveremo a raccontarvi qualcosa di uno degli aspetti più importanti della nostra rivista e del nostro progetto: la parte artistica.
Sentirete versi di strofe e paragrafi di racconti e le nostre voci che, incalzate dall’informalissimo moderatore, tenteranno di raccontarvi cosa c’è dietro.
Siate anche voi moderatori immoderati: urlate, alzate la mano per parlare oppure no, parlate e basta, ridete, piangete, fateci domande, venite a leggere qualcosa di vostro.
Partecipate.
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da Il sangue di altri padri
di Alessandro Mantovani
[E tu che sei Ermes, da quando non ne ho idea, dal brodo primordiale dei microbi e dalle forme ultime nascoste nei deserti, le torri del silenzio. Ermes che eri fango, ora fatto più esperto di una completa narrazione, tu che passi nel silenzio i crocicchi delle vie i mercati di Palermo le babeli mediorientali; tu, psicopompo e filo di rame come le braccia con su Priamo perché non vieni? Potevamo raccontare i misteri degl’anfratti, sai, se solo qualche luce più nitida dovevamo trovare lacci, scocche e gomene e invece soli incediamo e tremendi nello sciame. Ambiguo di scaltrezza che dici annunci e parli, che stendi ancora un discorso, sei le ragioni di un organismo complicato. Noi t’abbiamo visto – e lo so anch’io –porre le steli e dire decreti, essere più sicuro nella strada.
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E allora arcangelo per quelli senza un dio, quando vieni a interrompere il gioco? Con che dito guidi l’emigrante o la mano col fucile verso la terra promessa e noi all’eden perduto?
Perché se sei volpe l’uva non t’inganna e nemmeno le ruote dei bracconieri che possiamo bucare coi canini o gli incisivi simulando i roditori soprassedendo i cataclismi. Ma non c’è più tempo dio benevolo, che ho visto solo in legno in una villa a Bologna, tutta senza senso come il tuo dito alzato a dire che le nuvole oltre il tetto c’erano e belle dense che la grandine è il sollievo rispetto a questo deserto. Non riusciamo più a sopravvivere tra le onde magnetiche e i divieti dell’etica siamo sempre più solo presenti e contorto un baricentro labile Dunque non strapperai il terzo fischio dalla bocca dell’arbitro? Ché negli occhi uno prima lo ha visto Caronte, intromettersi nei corridoi petrosi dello stadio a battere col remo di nascosto quanti in vero hanno già perso. Ermes, se non tu, chi ci guida?]
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Testo scelto da Alessandro Mantovani
Cartina muta
da Biografia sommaria di Milo De Angelis
Entriamo adesso nell’ultima giornata, nella farmacia dove il suo viso bianco e senza pace non risponde al del metronotte: viso assetato, non posso valicarlo, è lo stesso che una volta chiamai amore, qui nella nebbia della Comasina. Camminiamo ancora verso un vetro. Poi lei getta in un cestino l’orario e gli occhiali, si toglie il golf azzurro, me lo porge silenziosa. “Perché fai questo?” “Perché io sono così”, risponde una forma dura della un dolore che assomiglia solamente a se stesso. “Perché io… …né prendere né lasciare”. Avvengono parole nel sangue, occhi che urtano contro il neon gelati, intelligenti e inconsolabili, mani che disegnano sul vetro l’angelo custode e l’angelo imparziale, cinque dita strette a un filo, l’idea reggente del nulla, la gola ancora calda.
“Vita, che non sei soltanto vita e ti mescoli a molti esseri prima di diventare nostra… …vita, proprio tu vuoi darle un finale assiderato, proprio qui, dove gli anni si cercano in un metro d’asfalto…”
Interrompiamo l’antologia e la supplica del batticuore. Riportiamo esattamente i fatti e le parole. Questo,
saluto voce
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questo mi è possibile. Alle tre del mattino ci fermammo davanti a un chiosco, chiedemmo due bicchieri di vino rosso. Volle pagare lei. Poi mi domandò di accompagnarla a casa, in via Vallazze. Le parole si capivano e la bocca non era più impastata. “Dove sei stata per tutta la mia vita…” Milano torna muta e infinita, scompare insieme a lei, in un luogo buio e umido che le scioglie anche il nome, ci sprofonda nel sangue senza musica. Ma diverremo, insieme diverremo quel pianto che una poesia non ha potuto dire, ora lo vedi e lo vedrò anch’io… lo vedremo, ora lo vedremo… lo vedremo tutti… ora… …ora che stiamo per rinascere.
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Forcine
di Amelia Moro
La sveglia sembra non suonare mai, ma quando finalmente squilla, Federica non è pronta ad alzarsi. Eppure è sveglia già da un pezzo, la penombra della camera la opprime… Perché adesso non vuole tirarsi su? Ha fatto un sogno orribile, che le è rimasto in testa a tratti: ricorda solo che c’era un serpente nero, arrotolato tre volte e mezzo sul fondo della sua colonna vertebrale. Allo specchio, mentre si veste, si ferma ad osservare la sua pancia. È gonfia, o così le sembra. La tira, la pizzica, la carezza, la guarda prima davanti, poi a destra, poi a sinistra. Non sa più che cosa è il suo corpo, se le appartiene. Sabato sera è uscita a cena con delle colleghe – perché non le vede già a sufficienza in ufficio – e hanno mangiato una pizza. Federica ha ordinato una delle più caloriche e ha riso tutta la sera, fingendo di trovarsi perfettamente a suo agio, perché le stronze non devono sapere i fatti suoi. Ha mandato giù ogni boccone a fatica, con lunghe sorsate d’acqua, sentendosi sempre più gonfia e più tesa, col corpo che le scoppia nei vestiti, nella gonna stretta. Il giorno dopo, domenica, ha bevuto tre litri d’acqua e un caffè doppio. Le parole “caffè doppio” la fanno sentire bene senza alcuna ragione, le fanno pensare ad una donna d’affari al bar: mentre nel suo caso si è trattato solo di bere tutto il contenuto di un caffettiera da due. Avrebbe voluto anche mangiare una scatoletta di tonno, ma dopo aver aperto la latta del paté del suo gatto, la somiglianza tra la consistenza, l’odore e
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l’imballaggio dei due prodotti le ha tolto ogni traccia di fame. Nel digiuno c’è qualcosa di puro, di ascetico, che la fa sentire appagata. I suoi sono digiuni segreti, che non racconta a nessuno, nulla a che fare con i blateramenti isterici delle colleghe, pronte a buttare soldi e speranze in macchine per i centrifugati e barrette ipocaloriche. Quando le chiedono ragione della sua magrezza, con occhi da vampire, Federica sbotta: “Seguo la dieta del melone. Mangio tutto, tranne il melone!”. I suoi digiuni sono un fatto privato, che ha – così si dice – pochissimo a che fare col peso. Sono una prova della sua forza di volontà, un modo per forgiare il suo carattere. Sentire la pancia vuota, la sensazione di uno spago teso tra la gola e lo stomaco, il ronzio sulle tempie, le dicono che è pura, che è forte, che è tosta.
Allo specchio, quella mattina, si scontra con il suo viso pallido, giallastro, con le tracce blu delle occhiaie. Tutto bene, niente a cui non possa porre rimedio. Sceglie una canzone dal suo telefono – il vecchio espediente per non sentire il rumore che fanno gli oggetti in casa quando sei solo – e apre la scatola con i trucchi. Scalda con le dita il correttore e lo stende nella zona d’ombra tra l’occhio e il naso. Ha dormito male e passato la domenica al computer, a lavorare da casa, ma non c’è nessun bisogno che altri lo sappiano. A questo scopo stende il fondotinta su tutta la pelle del viso – il suo fondotinta si chiama dress me perfect, dress me perfect è un suono così bello, bello come “caffè doppio”, e in effetti, forse, lo ha comprato solo per il nome – e termina con il blush. Il blush, (o fard) è il tipico trucco che viene enormemente sottovalutato, perché se non lo sfumi bene sembri Heidi, con due bottoni fucsia sulle
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guance. Restano solo il mascara e il rossetto rosso. Da qualche parte Federica ha letto che ogni donna si merita un rossetto rosso: e anche se non sa bene cosa significhi, non se lo fa mancare. Ecco una ragazza stupenda che ha passato il week end a leggere riviste di moda sulla sdraio. C’è una vena che pulsa nella sua palpebra, il mal di testa batte il tempo ritmicamente sulle tempie, ma l’unica cosa che conta è che nessuno lo sappia. Nello specchio, ora, Federica si riconosce. Così ogni mattina, con un preciso atto di volontà, mette al mondo la persona che vuole essere. Lei ha studiato legge e ora è finalmente diventata avvocato, dopo tante notti insonni sui libri e un lungo tirocinio di code negli uffici e cartelle da mettere in ordine alfabetico. Ma il titolo non è sufficiente, se non sai dimostrare quanto vali: con il lavoro, con lo studio, ma anche con l’aspetto. Chi si rivolge ad un legale cerca una persona che gli ispiri sicurezza, una guida di cui fidarsi. Perché la legge sarà pure uguale per tutti, ma è risaputo che il diritto è interpretabile e che un buon avvocato ti farà strada per una via lecita, certo, ma più furba. Per questo il suo mestiere è fatto anche di apparenze: gli uomini hanno una propria uniforme, la cravatta, il completo, i gemelli. Per le donne non è lo stesso, non ci sono elementi precisi dell’abbigliamento che possano distinguere Federica – giovane avvocato in carriera – da una segretaria o da una praticante. Ma lei non ha passato i suoi anni di tirocinio invano, e nelle lunghe, snervanti code in tribunale, con i talloni che urlavano e le punte dei piedi che dolevano, ha osservato tutti quelli che contano. I gesti, il modo di tenere sollevato il collo, di portare la borsa, il tono di voce: c’è un modo giusto e
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uno sbagliato, c’è un atteggiamento che può far capire a tutti che sei una fuoriclasse. Per questo Federica cerca ogni giorno di essere la migliore, o per essere precisi, lei è la migliore, se lo ripete, lo ripete, lo ripete. Il suo corpo lo ripete. Il modo in cui accavalla le gambe lo ripete. Il sorriso, le guance color pesca, l’orologio costoso lo ripetono. Non vedete come faccio tutto con efficienza e senza fatica? Sono io l’avvocato per voi, sono la migliore, sono forte, sono tosta. Sono anche un po’ stronza, ma è giusto così non è vero? Così mi volete. La gente è stupida, sono tutti così ingenui, così passivi, credono a quello che gli ripeti, se gli dici ogni giorno che il burro d’arachidi Mc Collins è il migliore e che ne hanno bisogno per essere felici, lo compreranno. Per questo Federica deve ripetere ogni giorno ai suoi colleghi, ai suoi clienti, a chi la urta per la strada, a chi cerca di sorpassarla in coda al supermercato, che lei è la migliore, che conviene fare gioco di squadra e non farsela nemica. Per questo le sue colleghe non hanno simpatia per lei, ma la rispettano. Hanno smesso di origliare le sue telefonate dalla porta socchiusa, o di frugare tra le cartelle sulla sua scrivania quando non c’è. Sanno che anche lei, all’occorrenza, può giocare duro. E se la sera escono a prendere una pizza, la guardano con attenzione, in distanza, come se fosse un serpente, nero lucido e pericoloso. Quieto, avvolto su se stesso, tre volte e mezzo. Ma guardingo e minaccioso. Federica ha terminato di truccarsi e adesso sistema i capelli. Vanno portati raccolti, non sciolti, il raccolto è più professionale, più serio. Li acconcia con cura, studia un ciuffo che le ricade ad arte, un poco spettinato. Fissare tutto per bene, con tante piccole forcine, è un
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lavoro lungo, che va eseguito con precisione, con accortezza, e alla fine le braccia le fanno male, le sente pesantissime. Al contrario di quello che si crede, le forcine vanno utilizzate con la parte ondulata rivolta verso il basso, così terranno meglio tra i capelli. Si guarda ancora: tutto appare come deve, è perfetto. Eccola lì, la persona che vuole essere. Ma c’è un’incertezza, e Federica lo sente. In qualche punto nel nido di capelli qualcosa non tiene. Muove la testa, la scuote un poco, lo guarda crollare. Il raccolto non avrebbe tenuto, è tutto da rifare. Ha le braccia pesanti, si sta facendo tardi. Le forcine cadono nel lavandino sporco di sputi e schizzi verdi di dentifricio, compongono un disegno che non riesce ad interpretare, stanno lì a ricordarle i sogni che al mattino la spaventano, ma che non ricorda, le paure che non dice, gli imprevisti della vita che non riesce a controllare. È così faticoso fingere che tutto sia sempre perfetto. Una lacrima ha sciolto il fondotinta, i capelli sono un disastro, dovrà ricominciare da capo. Ma ce la farà, perché lei è pura, è forte, è tosta. La migliore.
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Testo scelto da Amelia Moro
Cuore
da Mai devi domandarmi di Natalia Ginzburg
[…] A me non sembrava, leggendolo nell’infanzia, un libro che appartenesse ad un’altra età. Il mondo che vi compariva era simile, nelle sue linee essenziali, non al mondo nel quale io vivevo, ma a quello che mi veniva abitualmente offerto nei libri di lettura: era evidentemente il mondo che allora si pensava dovesse essere somministrato all’infanzia. Confrontando però oggi Cuore con la nostra epoca attuale, mi sembra invece un libro antichissimo: precipitato in un’età remota, esso non fa che illustrare cose che non esistono più, un mondo caduto in cenere.
Ai libri che abbiamo amato nell’infanzia, restiamo in qualche modo fedeli, nell’affetto, per tutta la vita. Cuore io lo amavo. Sfogliandolo oggi, scopro però che lo amavo per i molti vizi che sono in esso e che erano, allora, in me. A parte l’affetto, giudicando oggi Cuore trovo che non è per niente un bel libro. È abile e falso. È furbissimo, e illustra con efficacia retorica un mondo che, in verità, nella sua sostanza, non è mai esistito se non nei libri.
I suoi personaggi non hanno nessuna vita; definiti all’inizio, percorrono fino alla fine al cammino e compiono i gesti che fin dall’inizio ci eravamo aspettati.
Vi sono, è vero, alcuni ravvedimenti; “Franti, tu uccidi tua madre” e “Uno solo poteva ridere mentre Derossi diceva dei funerali del re: e Franti rise” sono frasi che nell’infanzia mi hanno deliziato […] In verità quello che
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mi affascinava in Cuore era il trovarvi un mondo più ordinato, e in fondo per me più rassicurante, di quello nel quale vivevo. Che fosse quello di Cuore un mondo falso, libresco e inesistente nella realtà, io allora non lo capivo […] ero, da bambina, retorica, conformista e con ideali piccoli borghesi. Trovavo in Cuore tutto quello che nella mia esistenza mancava. Avrei voluto un padre saggio e sereno; il mio urlava, sbatteva le porte, le sue norme educative erano urla e fragori di tuono. Avrei voluto una madre che la sera cucisse sotto la lampada. La mia non cuciva, o troppo poco per i miei gusti. Avrei voluto sentir parlare della patria. In casa mia non la nominavano mai. Avrei voluto che si parlasse del re. Usavano dargli dell’imbecille. […] Avrei voluto che mi insegnassero a venerare mia nonna. Invece su mia nonna in casa mia sbuffavano; perché era, a dir vero, insopportabile.
Il mondo di Cuore mi sembrava l’unico mondo nel quale era bello e nobile vivere. […] Era un mondo ben costruito e nel quale mi sentivo sicura e protetta. Lo consideravo indistruttibile; e tuttavia siccome in casa mia, in qualche modo che mi era oscuro, un simile mondo veniva messo in dubbio e deriso, sorgeva a volte in me il sospetto che vi fosse in esso una crepa segreta, un errore nascosto ed essenziale. […] Oggi, un libro come Cuore io credo che non lo possiamo più leggere; e certo non lo potremmo più scrivere. Esso appartiene a un tempo in cui sull’onestà, sul sacrificio, sull’onore, sul coraggio, si scrivevano cose false. Questo voleva dire che c’erano stati o c’erano, a un passo di distanza, quegli stessi sentimenti, ma veri. Voleva dire che le parole per esprimerli, vere e false, esistevano. Il falso non è che un’imitazione, falsa e
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morta, del vivo e del vero. Oggi l’onestà, l’onore, il sacrificio, ci sembrano così lontani da noi, così estranei al nostro mondo che non riusciamo a farne parola, e siamo completamente ammutoliti, avendo, in questo nostro tempo, orrore della menzogna. Così aspettiamo, in assoluto silenzio, di trovare per le cose che amiamo parole nuove e vere.”
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da Il genere di Melibeo
di Alessandro Mantovani
– Tu lo sai, all’ombra di questa penisola, lo sai che siamo orme e aloni di popoli, sai che il destino e la Storia non ci tocca con la vite e la fatica dei buoi, facile da imitare. –Così afferma bruciato sulla roccia dove i capperi raggrinziscono in mezzogiorni interminabili – Lo sai che non possiamo valicare soglie e le correnti portano plastiche e liquami ad interrompere navigazioni. Oggi ti possiamo dire l’avanzo del sale dimostrare che possediamo solamente pochi strumenti infecondi e la terra che non conosce messi a coltivare. Siamo il genere di Melibeo dannato tra deserto e mare.
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Testo scelto da Alessandro Mantovani
Ecloga IV
da IX Ecloghe di Andrea Zanzotto
Persone: a, Polifemo
a “Dolce” fiato che muovi le nascite dal guscio, il coma, il muto; “dolce” bruma che covi il ritorno del patto convenuto; uomo, termine vago, impropria luce, uomo a cui non rispondo, salto che il piede spezza sopra il mondo.
Godono i prati acqua silenzio e viole; da fiale laghi, nevi si versano. Occhio, pullus nel guscio: ho veduto nell’errare del mondo errante il sole.
Mondo, termine vago, primavera che mi chiami nel tuo psicoide fioco. Ancora un poco è giusto ch’io stia al gioco, stia al fiato, all’afflato, di lutea passibile cera, io, e mondo primavera. E vengo dritto, obliquo, vengo gibboso, liscio; come germe che abbonda di dente ammicco e striscio e premo alle lane onde ammanta il dì le sue fetali clorofille.
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M’adergo, prillo, come a musicale sferza la trottola. Poi che qui tutto è “musica”. Non uomo, dico, ma bolla fenomenica. Ah, domenica è sempre domenica.
Le bolle fenomeniche alle mille stimolazioni variano s’incupano scintillano. Sferica è anche la speranza, anche la sete. Abiuro dalle lettere consuete.
O primavera di cocchi e di lendini, primavera di lìquor, dèi, suspense, “vorrei trovare parole nuove”: ma il petalo e la frangia, ma l’erba e il lembo muovono al gioco i giocatori. Monadi radianti, folle, bolle a corimbi e tu tondo comunque, a tutta volta, estremo occhio di Polifemo.
muove,
Po. No, qui non si dissoda, qui non si cambia testo, qui si ricade, qui frigge nel cavo fondo della vista il renitente trapano, la trista macchina, il giro viziosissimo. E qui su questo, assestandomi, giuro: io Polifemo sferico monocolo ebbro del vino d’Ismaro primavera, io donde cola, crapula, la vita (oh: vino d’Ismaro; oh: vita; oh: primavera!).
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Luna storta
di Amelia Moro
«Ti amo. Dal profondo del cuore.» «Fottiti»
Per qualche motivo, il suo coinquilino riusciva sempre a renderla nervosa. Eccolo lì, steso sul divano, con quel suo odore forte da adolescente, di alcool, sudore e deodorante da pochi soldi, un braccio penzolante appeso alla sua maglietta mentre lei è in ritardo. «Dai Francesco, non fare l’idiota. Devo andare a lezione!» si sgancia dalla presa e si precipita al bagno. Chiuso. Riprova, ma è proprio chiuso a chiave. «Come si chiama questa?» urla verso il salotto «Iris, si chiama Iris» le risponde Francesco ridacchiando. Anna fa un profondo respiro e si appende alla maniglia: «Iris, tesoro, tu non mi conosci, sono Anna, la coinquilina di Francesco, e vedi, io abito qui e questo è il mio bagno, e io ne ho bisogno adesso Iris, proprio adesso, perché devo andare a lezione e sono maledettamente in ritardo. Iris mi senti?» e prende a dare dei colpetti non proprio delicati alla porta. Quell’idiota di Francesco si rotola sul divano, e ride, come ride. Ride troppo. «Cosa nascondi, infame? Parla! Ma che c’è da ridere?» «Non si chiama… non si chiama… Iris» «E allora? Che vuoi che me ne importi? Tanto domani in quel bagno ce ne trovo un’altra, non sto certo ad impararmeli tutti, i loro nomi» lui le fa un sorriso da Stregatto: «Ma questa… questa è Selene». Quel nome Anna se lo ricorda troppo bene. Era l’unica ragazza che, a sua memoria, avesse mai respinto Francesco. Una sera, dopo aver suonato in qualche
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locale, lui era tornato a casa senza aprire bocca, sembrava un albero schiantato. Si era chiuso in camera con la sua chitarra, ripetendo per ore gli stessi tre accordi lamentosi che Anna aveva ascoltato tutta la notte, sdraiata nel letto attaccato alla parete che separava le due stanze.
In seguito, era riuscita a scoprire molto poco sulla ragazza misteriosa che tanto lo aveva fatto soffrire: Francesco era evasivo, si tormentava il ciuffo e accennava un sorriso mesto prima di cambiare argomento. Suggestionata dal nome, Anna la immaginava lunare, con un’aura mistica, i capelli lisci, lunghi, di un biondo freddo dalla luce argentea. E ora la risposta all’enigma sta lì, chiusa nel suo bagno, ad un passo da lei. Guarda Francesco e lo percepisce autenticamente felice dalla risata gorgogliante e sonora, simile a quella di un bambino piccolo, così diversa da quella strascicata, distaccata, che usa di solito. Ed è felice per lui, anche se questo non ha senso.
«Dai, non andare a lezione. Resta a fare colazione con noi! Bruciamo la scuola!» «Io non vado più a scuola Francesco, vado all’università, e anche tu dovresti andarci. O almeno, farti vedere qualche volta.» ma il tono affettuoso smorza il sarcasmo delle sue parole «E va bene, entrerò per la seconda lezione. Tanto, ormai…». E poi, inutile negarlo, è curiosa di vedere Selene. Quanto si era tormentata su quel nome, chiedendosi cosa avesse di straordinario, cosa avesse più di lei. Si chiude in camera sua e si fissa nello specchio, poi dice, a bassa voce, ma risolutamente: «Non puoi amarlo, è un idiota» ma dice idiota e le viene da
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sorridere, dice idiota, e le piace di più. Lo sbircia dalla porta: è ancora arenato sul divano, con il suo libro, una copia delle Elegie Duinesi di Rilke, tutto frusto, con le pagine ondulate, macchiate di caffè e zeppe di sottolineature. Era l’unico libro che Anna gli avesse mai visto leggere. Non lo finiva mai? Lo finiva e lo ricominciava ogni volta? Faceva solo finta, per darsi un tono? Di certo lo portava sempre con sé, in una delle enormi tasche del suo cappotto nero. Anna era affascinata dalla sua dedizione, anche senza comprenderla. E se era vero, come dicevano, che ogni scrittore non fa altro che copiare, mettendo dentro il suo libro tutto ciò che ha letto e ascoltato nella sua vita, allora si poteva concludere che in ciascun libro ci fossero tutti i libri. E allora forse leggere un solo libro, a patto che lo si facesse con instancabile puntiglio ed esclusivo amore, equivaleva ad averli letti tutti.
In quel momento la porta del bagno si apre, e Anna rimane congelata a guardare in faccia l’enorme differenza tra realtà e fantasia, che si concretizza di fronte ai suoi occhi nel corpo e nel volto di una ragazza dagli occhi scuri, con la bocca grande e i denti un po’ cavallini, un nastro nero che le decora il collo. Non che fosse brutta, ma poteva, poteva mai essere Selene quella ragazza così, così… ordinaria?
Intorno al tavolo della cucina l’aria sembra di ghiaccio. Anna si sente in dovere di sciogliere la tensione: «Sai che il tuo nome in greco significa luna?» «Oh, ma che bello! Ma tu sai il greco! Deve essere molto… interessante!» «Ho fatto il classico» taglia corto Anna. «Anna è straordinaria» dice Francesco, convinto «studia sempre, studia matematica adesso. Ma fa anche un sacco di volontariato» aggiunge, indicando come
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prova la maglietta dell’associazione che Anna porta addosso, con un planisfero rappresentato al contrario e la scritta “questione di punti di vista”. «Lei è… Lei è…» e prende a fare disegni in aria con le dita, disegni in cui Anna vede tutte le cose belle, tulipani, brioches calde, temporali «lei è… un eroe dei nostri tempi. Secondo me, poi…». Sentendo quel complimento, Anna percepisce un palloncino arancione, frizzante come aranciata, che le si gonfia nel petto. «Caffè?» chiede Francesco. Per sé, aveva preso una birra. «Una birra anch’io» fa Selene. Anna lo guarda aprire il frigo, tirare fuori la bottiglia e appoggiarla sul collo delicato della ragazza. La vede sobbalzare al contatto del vetro ghiacciato sulla nuca e qualcosa sobbalza anche dentro di lei. Forse è solo il palloncino arancione che scoppia. Francesco, muovendosi come un gatto per la cucina, prende un pacco di biscotti, come a voler dare a quella strana colazione una parvenza di normalità. «Prendete e mangiatene tutti» dice, lanciandolo sul tavolo. «Aspetta… questa battuta… di che film era?» gli chiede Selene, con un’ingenuità troppo autentica per essere simulata. Anna decide che si è fatta del male a sufficienza e si alza per prepararsi ad uscire. Mentre mette il cappotto, nota che Francesco l’ha seguita, ed è alle sue spalle. «Sei arrabbiata» «No» gli risponde lei, con la gola stretta «Ma senti» fa lui «l’altra notte io… sei tu che non hai voluto…» «Si, infatti» «Io non ti capisco… non capisco cosa vuoi» ma Anna non sa spiegarglielo. Non vuole essere un nome tra i nomi nella lista delle ragazze che sono transitate dal suo bagno, tra Iris, Selene e chissà chi. E allora cosa vuole? Una “storia seria”, sposarlo e vissero tutti felici e… ma no, immaginare Francesco in quella veste è come pensare ad un elefante come animale domestico, acconciato da
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ballerina. Cosa vuole? Vuole lui, e lei, sempre così, Francesco vestito di nero, che suona la chitarra sul divano, lei sdraiata sul tappeto, che gioca a far centro con le olive nel bicchiere. Semplicemente così, però per sempre… si può avere? E siccome tutti questi pensieri non riesce ad esprimerli in un modo che abbia un senso, si gira ed esce. Già sulle scale le viene da piangere, ma poi ripensa a “Prendete e mangiatene tutti” e comincia a ridere. In strada la vedono piangere e ridere, e pensano che sia pazza, ma è tutta colpa del suo coinquilino, riesce sempre a renderla nervosa.
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Testo scelto da Amelia Moro
da Non è un paese per vecchi
di Cormac McCarthy
Arrivarono le bistecche. Lui la guardò mangiare. Qualcuno sa dove sei?, le chiese. Come? Ti ho chiesto se qualcuno sa dove sei. Tipo chi? Tipo chiunque. Tu. Io non so dove sei, perché non so chi sei.
Be’, allora siamo in due. Perché, tu non sai chi sei?
No, cretino. Non so chi sei tu. Be’, allora lasciamo le cose così e siamo pari, okay? Okay. Ma perché me l’hai chiesto? Moss tirò su il sugo della bistecca con mezzo panino. Me l’aspettavo che fosse così. Ma per te è un lusso, per me una necessità.
Perché? C’è qualcuno che ti dà la caccia?
Può darsi. Comunque mi piace che sia così, disse lei. Su questo hai ragione. Non ci vuole molto a prenderci gusto, eh? No, disse lei. Infatti. Be’, non è facile come sembra. Te ne accorgerai. E perché?
C’è sempre qualcuno che sa dove sei. Che sa dove sei e perché. Con una buona approssimazione. Intendi Dio?
No, intendo te.
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Lei riprese a mangiare. Be’, disse. Saresti proprio messo male se non sapessi dove sei.
Non lo so. Tu credi?
Non lo so.
Immagina di stare in un posto che non sai dov’è. La cosa che non sai, in realtà, è dove rimane quel posto rispetto a un altro, o quanto è lontano. Ma questo non cambia nulla rispetto al posto in cui sei.
Lei ci pensò. A cose così cerco di non pensarci, disse. Tu credi che quando arriverai in California in un certo senso ricomincerai daccapo. Quella è la mia intenzione.
Ecco, secondo me è proprio questo il punto. C’è una strada che va in California e un’altra che torna indietro dalla California. Ma il modo migliore per andarci sarebbe semplicemente ritrovarsi lì.
Ritrovarsi lì.
Sì.
Cioè, senza sapere come ci si è arrivati?
Sì. Senza sapere come ci si è arrivati. Non so come sarebbe possibile. Non lo so neanch’io. È questo il punto.
Lei finì di mangiare. Si guardò intorno. Posso prendere un caffè?, disse.
Puoi prendere quello che ti pare. I soldi ce l’hai. Lei lo guardò. Mi sa che non ho mica capito bene qual è il punto. Il punto è che non c’è nessun punto. No. Riguardo a quello che hai detto prima. Il fatto di sapere dove sei.
Lui la guardò. Dopo un po’ disse: Il problema non è sapere dove sei. Il problema è pensare che ci sei arrivato senza portarti dietro niente. Questa tua idea di ricominciare daccapo. Che poi ce l’abbiamo un po’
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tutti. Non si ricomincia mai daccapo. Ecco qual è il problema. Ogni passo che fai è per sempre. Non lo puoi annullare. Non puoi annullare niente. Capisci cosa intendo?
Penso di sì.
Lo so che non capisci, ma fammi provare a spiegartelo un’altra volta. Tu credi che quando ti svegli la mattina quello che è successo ieri non conta. Invece quello che è successo ieri è l’unica cosa che conta. Che altro c’è?
La tua vita è fatta dei giorni che hai vissuto. Non c’è altro. Magari pensi di poter scappare via e cambiare nome o non so cosa. Di ricominciare daccapo. E poi una mattina ti svegli, guardi il soffitto e indovina chi è la persona sdraiata nel letto?
Lei annuì. Capisci cosa intendo?
Sì che capisco. Ci sono passata. Sì, lo so. Allora, ti dispiace essere diventato un bandito?
Mi dispiace non aver cominciato prima. Allora, sei pronta?
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Lampare
di Alessandro Mantovani
Sono andato di notte nelle cime da cui si vede bene il mare svellendo con attrezzi in fila le radici lasciate a maturare tra le crepe radiose della giovinezza.
Ne ho fatto polpa da masticare per una certa evoluzione alleggerire i carichi i bastimenti, tentare un’esecuzione e dividere le leggi
ma sai, guardando bene il mare sulla terra solo si piange e le ombre e le corone di spine amare dappertutto nel nero del flutto, il lutto delle spigole. Le reti. Lampare.
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Titoli di coda
Anche l’Orso fischia è nato da un’idea di Emanuele Pon e di Simone “Orso” Mazzini; a questo volume hanno lavorato Valentina Marzi per la copertina e Federico Ghillino per la grafica; l’evento è presentato da Emanuele Pon ed a leggere i brani scelti c’è Giacomo Simoni.
Oltre ai sei lettori che si susseguiranno in queste tre serate, hanno lavorato al progetto, in fase di ideazione e di realizzazione, tutti i membri della rivista Fischi di carta.
Lo spazio in cui si svolge l’evento è il pub Dall’Orso, il paradiso della pinsa.
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Indice
Anche l’Orso fischia 3
da Il sangue di altri padri di Alessandro Mantovani 7
Testo scelto Cartina muta di Milo De Angelis 9 Forcine di Amelia Moro 11 Testo scelto Cuore di Natalia Ginzburg 16
da Il genere di Melibeo di Alessandro Mantovani 19 Testo scelto Ecloga IV di Andrea Zanzotto 20 Luna storta di Amelia Moro 22
Testo scelto da Non è un paese per vecchi di C. McCarthy 27 Lampare di Alessandro Mantovani 30
Titoli di coda 33
ANCHE L’ORSO FISCHIA
presso il pub
Dall’Orso Il paradiso della pinsa in via San Bernardo, Centro storico Genova
4 maggio 2017 18 maggio 2017 1 giugno 2017 copia numero
Letture organizzate dalla rivista Fischi di carta – di 50 –