Fischi di carta 28 (05/2015)

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Fischi di carta

POESIA DI CINQUE GIOVANI FISCHIANTI

Tutti sappiamo che i libri bruciano; ma sappiamo anche che i libri non possono essere uccisi dal fuoco. Gli uomini muoiono, i libri non muoiono mai. Nessun uomo, nessuna forza possono abolire la memoria.”

Franklin D. Roosevelt, Messaggio all’American Booksellers Association, 23 aprile 1942

IN QUESTO NUMERO

Editoriale | Lo stato attuale ( di paradosso) - E.Pon Poesia del mese | Correndo nella luce - J.Catozzi Poesie dei lettori | Margarita - B.Abrate Interludio + Zona Franca | Aforismi di BirkenauAlberto Bertoni, 14 aprile 2015 - A.Mantovani

Prossa Nova Maria Maddalena (pt.1) - M.Karoli Tutta mia (la città) - A.Moro

www.fischidicarta.it
n° 28 Maggio 2015 Genova

EDITORIALE

Spesso, nel corso della storia è capitato che da un mito, ovvero da un pezzo di mitologia, ovvero da una sorta di situazione o storia archetipica universalmente ed in vario modo narrata, riconosciuta ed accettata, si sviluppasse una realtà effettiva che più concreta non si potrebbe. È in questo modo che il signor Sigmund Freud, per dirne uno, ha elaborato quella complessa teoria che va sotto il nome di “complesso di Edipo”, sapendo perfettamente che ad averlo inventato e capito era stato Sofocle, parecchio tempo prima. Il mito può essere inteso anche come un‘idea che si fa strada ed attecchisce sempre più nella mentalità e nella società umana; e crea degli effetti, perché questa idea genera conseguenze concrete, immediatamente riscontrabili. Ora: la vita odierna della poesia deriva dall‘idea che di essa si ha, dal modo in cui la si è giunti a percepire. Mia intenzione è evidenziare problemi e linee generali di quella che è la realtà attuale della poesia; ma per farlo è necessario ripartire da un punto su cui si è premuto più volte. L‘idea forte, il mito che oggi sopravvive è quello dell‘odiosissima equazione “poesia = noia”. La poesia è oggi percepita come oggetto di studio, disciplina scolastica, piatta e difficile, quando non esplicitamente di nicchia: questa percezione è causata, e questo è il punto importante da cui partire, dal sistema scolastico ed accademico, dunque dall‘Istruzione. A questo punto quindi l‘equazione si complica: la scuola, con il suo metodo, genera l‘idea e la percezione della poesia; questa idea si do editoriale, nel quale si muove come un corpo fatiscente, un cadavere che lotta per rimanere in vita e che finisce per accontentarsi della posizione che si è ritagliato (o che qualcuno ha ritagliato per esso). Che oggi la poesia si trovi in una situazione di impotenza ed improduttività economica è un dato fermo ed indiscusso, dato per scontato e nel peggiore dei casi (e nei peggiori ambienti) unanimemente accettato: ma è proprio per questo che il paradosso salta agli occhi con forza ancora maggiore. Scrive Bertoni: «Va da sé che se ciascuno di coloro che ogni giorno scrivono poesia (non in modica quantità per uso personale, ma bramando di pubblicarla e di venir lodati dall‘universo mondo) avvertisse il dovere ovviamente elementare di acquistare anche un solo libro di un altro poeta, il mercato della poesia diventerebbe immediatamente appetibile anche per l‘industria editoriale e Magrelli produrrebbe bestseller da far impallidire il già pallido Giordano, Patrizia Cavalli irriderebbe tutti insieme Faletti, Volo e Mazzantini e Gianni D‘Elia sarebbe riconosciuto più “civile” e mordace di Saviano e di Erri De Luca...». In queste parole si trova una verità che davvero è indiscutibile: l‘Italia, nonostante le apparenze, rimane uno dei paesi mondiali dove la produzione poetica è più viva e frequente. In altri termini, di poeti ce ne sono, e tanti. Ma allora com‘è possibile questa stasi economica, questa afasia di mercato? Tralasciando le eccellenze sparse per il nostro Paese e per la citazione di Bertoni, la mia riflessione si rivolge e cerca risposta soprattutto da parte di coloro che si situano in una sorta di limbo tra chi scrive versi per «uso personale», «in privato», e chi invece ha un certo margine di lo nota mentre egli stesso non contribuisce alla crescita del mercato editoriale della poesia, si ritenga per qualche motivo «superiore per natura». Ovvero: c‘è qualcuno, da qualche parte, che pensa di non aver bisogno di leggere libri di poesia per scrivere poesia. E torno a dire che non mi riferisco a chi mette insieme versi senza l‘intenzione di divulgarli, come una sorta di atto di auto-masturbazione, auto-compiacimento o auto-commiserazione (qui di autòs non si parla), poiché ciò che manca a costoro è, strutturalmente, la volontà del coming-out , termine oggi riferito a tutt‘altro ambito, ma che trovo appropriato: a costoro posso dire soltanto uscite! Il mio appello e la mia riflessione sono rivolti a chi pratica «il mestiere» con aspirazioni. Siamo tutti cresciuti con il «non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te» a sedimentarsi nelle nostre anime: ebbene, perché in questo caso non vige lo stesso principio? Come possiamo noi bramare di essere letti, senza pensare di leggere altri poeti, senza restituire in anticipo l‘attenzione che vorremmo ci fosse rivolta? Con che coraggio posso mettere insieme una raccolta di poesie, se non capisco che altre persone che scrivono desiderano oggi quello che io bramerò domani, a raccolta compiuta? Con queste domande un poco provocatorie siamo giunti al punto finale ed iniziale della questione, il più importante, un punto più che mai infermo ed instabile che credo meriti un dibattito acceso. Si è detto che c‘è la tendenza (quasi statistica, inoppugnabile) da parte della grande maggioranza di chi scrive poesia a non acquistarne, e dunque a non leggerne: è un dato evidente, provato dal fatto che altrimenti, con tutti i poeti «auto-proclamati» che abbiamo in giro per l‘Italia, il mercato editoriale della poesia sarebbe florido e rigoglioso, godrebbe di una perpetua primavera. Le domande centrali, e finali, a questo punto sono due: la prima è

LO STATO ATTUALE (DI PARADOSSO)

il

propaga e si diffonde, fino a passare in qualche modo «sottopelle» di generazione in generazione (e di classe in classe, di professore in professore...), finché non diventa un assunto indiscutibile, dando origine alla sua diretta conseguenza sul più pratico dei piani: nessuno legge più la poesia, nessuno compra più libri di poesia, e dunque la poesia non vende, non ha mercato. Come vedete, siamo scesi dal livello dell‘ideale alla realizzazione più bieca di quello materiale: ed eccoci arrivati al punto che m‘interessa, ovvero la realtà attuale , si diceva, della poesia. Incentro queste righe su due citazioni che hanno alimentato in questa direzione la mia riflessione. La prima è di Roberto Benigni, che nel corso del suo tour TuttoDante dice che ai nostri tempi tutti scrivono e pochissimi leggono, tanto che il vero miracolo oggi «non è trovare uno che scrive, ma uno che legge! Mi viene da stringergli la mano, da fargli un sorriso e dirgli complimenti!». Si tratta di una frase che sottende una riflessione molto più ampia della mia, anche soltanto perché diretta sulla scrittura e sulla lettura in toto, e non verso un genere più codificato, com‘è la poesia; né è mia intenzione parlare di scrittura e lettura in generale, giacché non basterebbe una colonna intera di volumi per esaurire l‘argomento. Si tratta, qui, di limitare la questione alla poesia, e per farlo recupero un‘altra citazione, questa volta di Alberto Bertoni, poeta in piena attività e professore all‘Alma Mater di Bologna che abbiamo l‘onore di ospitare proprio in questo numero dei Fischi. Bertoni, nell‘introduzione al suo saggio «La poesia contemporanea» (edito per Il Mulino ), precisa, se così si può dire, la frase di Benigni, ed evidenzia il paradosso di un‘epoca in cui la poesia per certi versi ed in certi contesti (il web, i blog, e altro ancora) letteralmente dilaga, pur rimanendo quasi del tutto esclusa dal monsicurezza sulla pubblicazione, per una sorta di merito acquisito (e sacrosanto). In questa terra di mezzo si situa la mole più vasta della poesia italiana contemporanea, che aspetta ancora di essere conosciuta, poiché fa fatica a trovare un canale di diffusione attraverso l‘editoria; e fa fatica senz‘altro anche perché i suoi autori, per il paradosso di cui sopra, tendenzialmente non comprano e non leggono libri di poesia. Come vedete ci si trova punto e a capo: non è il mercato che crea o demolisce di volta in volta la percezione della poesia, ma il contrario; cambiando l‘atteggiamento pratico, in questo caso acquistando più libri di poesia, c‘è la possibilità di creare una svolta economica e culturale in grado di riportare la letteratura poetica davvero in auge come merita. Se scrivo le mie poesie sperando in un riscontro dalle «alte sfere», ma nel contempo io stesso non acquisto e non leggo alcun libro di poesia, come posso pretendere anche solo di sfiorare quelle sfere? A me il sillogismo pare di una chiarezza quasi disarmante, di quelle che lasciano un mezzo sorriso amaro sul viso, come dire «era così semplice...»: i detrattori e gli inguaribili pessimisti potranno sempre obiettare che si tratterebbe, in quel caso, della proverbiale «goccia nel mare»; ad essi come d‘usanza risponderò citando «Cloud Atlas» (romanzo di David Mitchell, poi film di Andy e Lana Wachowski): «e che cos‘è l‘oceano, se non una moltitudine di gocce?». Un malizioso potrebbe perfino arrivare a sospettare che chi scrive poesie a ripetizione, fregiandosene, sbandierando la propria arte (con parenti e amici, s‘intende), e lamentandosi del fatto che nessun editore più massiccio dei «perché». Perché tutti scrivono e nessuno legge, per tornare all‘estremizzazione di Benigni? La mia impressione è che ciò sia dovuto alla nuova percezione dei concetti di «livellamento» e di «democrazia», imposti soprattutto dalla rivoluzione tecnologica. Il modello della Rete sta progressivamente uscendo dalla Rete: Internet è il Messia giunto come l‘avverarsi dell‘Utopia in cui ciascuno ha libertà di parola, di opinione e di giudizio. Come spesso capita, dalle ottime premesse siamo giunti al disastro: imperversano e proliferano infatti gli auto-didatti , in ogni campo, non ultimo (abbiamo visto) quello della poesia, poiché ciascuno si sente in diritto (e ormai quasi in dovere, direi) di far valere la propria personalità, il proprio ego sopra quello degli altri, contro quello degli altri. Come in una legge della giungla virtuale. Perciò, se ho visto un buon numero di video-tutorial su Youtube dove qualcuno sostiene di spiegarmi «come si fa» una poesia (ci sono anche questi...), non ho bisogno d‘altro per diventare un poeta degno di essere riconosciuto e ricordato. E‘ davvero così? E da questa domanda scendiamo direttamente all‘ultima, con cui vi lascio, spero, a pensare per dire la vostra. Abbiamo parlato di scrittura e lettura, di chi scrive senza pensare che sia necessario leggere. Qual è la vostra posizione? Pensate che leggere, o aver letto, sia necessario per scrivere, in poesia così come in prosa? Credo che la mia opinione sia già emersa a sufficienza nelle righe precedenti, ma posso sintetizzare dicendo che scrittura e lettura sono le due facce di una stessa medaglia, la medaglia più dorata che abbiamo, perché getta la sua luce su tutte le altre. Non dimentichiamoci di lucidarla, di tanto in tanto.

IL GUARDIANO

Di notte, capita, vi sogno lassù belli e diversi che a malapena come stormi inordinati di giorno riesco da qui a distinguervi, a fingere per me poi anche in voi qualche vita che non sia più accartocciata alla riva come il giornale di un giorno prima.

Non ho vite qui, che la mia da dentro da guardare e da fuori, monologo improvviso e lento – non ho pubblico che le onde quando scelgono di nuovo di muovere intorno tutto il mare, ché è tutto silenzio qui altrimenti, e il rumore lo devo immaginare.

Al sole mi annoio, lascio la barba sopra di me a disegnare il tempo su questa timida terra d’isola che mezzo sguardo la raccoglie tutta; mi annoio e canticchio piano, con gli occhi alle vostre urla pulsanti, ai richiami a me, al lavoro del faro, alla notte.

Il mio mestiere è guidare per voi quella torre alta d’intermittenza e intermettere le luci gentili sull’acqua che ogni notte vi mando, intermetterle tra voi e il mondo – dico quello che sistema le barche in corrente, fuori o nel vostro tempo.

Come la luce che tenue e verde rossa a lampi fragili spingo a voi, così vi so scanditi, vi do forma e vista a brandelli, vaga interrotta perché non vediate troppo lontano per darvi il tempo di costruire il tempo, senza farlo appassire.

Fermo e vecchio ancora raccolgo sguardi da voi, sogni – sono il dio d’intervallo per il cammino, e spero in voi un cambio a tenere il tempo, con lui il faro, almeno fino al prossimo mattino.

PIAZZA VERDI

Sui sassi smargiassi che ostentano scritte sciupate dal poco criterio dei passanti, l’aria sfrigolante (acciaio e tempra) vibra di fragole inzuccherate nelle bocche dei bambini festanti, alcune più rosse a terra, sbeccuzzate dai pennuti che con voce pluritonale si fanno testimoni nella piazza di questo scolorìo del mondo, fiottante sotto portici di sangue o pomodori, tra gli allori dei laureati, troppo stralampati fin dalle due di pomeriggio, con le bottiglie in mano, i bicchieri già versati. II Sui gradini li scruta paziente e interloquisce la barba folta di chi non so ma vedo sempre intimidatorio forse vate di allocuzione pomeridiana, di visioni da dopopasto, di un futuro di passaggio. Mi guarda monocolare, mi branca m’afferra arranca e dice

-Ah le piume dei gabbiani che mi intoppavano la giacca quando salso tra i flutti irretavo le code dei pesci pizzicavo il riccio scoglioso catramavo l’anziana chigliae dice di sospiri e amori -forse nessunodileggiati sulle calate di mezzo mondo, dice delle conchiglie senza perle del rollio trasmutatore dell’uccello natatore.

Eppure a me dice i minestroni materni da rifiuto gargantuesco i fili delle sarte sugli usci intonaco-cadenti le grida dei fratelli che mai ho avuto, piedi di sabbia tra il sartiame.

Alessandro Mantovani

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Fischi
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I

CASA NOSTRA - NELLA PIOGGIA

Nel silenzio creato dai chili di peonie, rimbecca quell’acacia fallita sul cruscotto di uno scrittoio improvvisato tra una pausa e il suo passato: di lui, persona vaga, delay, amore forte. La casa beve vesti e camice e spunta la foglia emunta testa di ricordi -far corona al sognolavata via famiglia d’amore, un pigiama per terra, e tranquillo per tutto il grigio bosco un canto della notte -al messaggio vocale di corvi e di bianconiscopriremo la natura claustrale del balcone di casa, nella noia a gesti felici posseduta; E frugifera, viola, Passeggiante, mai sola, nostra, casa.

SOFFIA CHE SOFFIA

Il vento fa principalmente due cose: 1. spazza, rovescia, strappa, smarrisce e 2. soffia proprio come soffio io. Si porta via tutta la polvere che scaccio [sempre a fiato da questa stupida scrivania (su cui mi spolmono, mi sfianco di soffi) e con lei si porta via sovente anche la scrivania, nel gorgo del tutto che è bratta cangiante di oggetti, cose, situazioni e altri umani. Soffia senza inspirare, si secca la bocca di soffi e tutto dentro, tutto dentro a tutti quei colori finisce per il fiato che soffia vento. Tutto dentro la moltitudine delle cose tranne me, che a soffiare e inspirare sono rimasto bello solo soletto a frugare l’aria cercando appigli.

Federico Ghillino

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nel piccolo mondo s’infrange gli echi delle stelle a poco a poco la mia vita si libera dal suo guscio frutto maledetto frutto poroso così ché l’anima in solitudine possa navigare nell’infinito oceano astrale occhi di madre che d’un lampo la vita han dato madre! Madre! Madre! Il richiamo infinito il richiamo che sostiene l’universo tenendo tra le dita l’esistenza! Eppure dobbiamo sognare per abbracciare nei nostri petti le stelle per poter ancora chiamarci per nome dobbiamo ancora sognare per poter capire! Semplicemente penso nonostante le brutte facce della gente penso mi faccio di poesia domando, morendo cos’è l’amore? Ho un ricordo e impreco –non te ne andare! –abbraccio di madre quel che resta del giorno corto prima che il tramonto muoia nella città ciminiera annego nel sole di oggi ore tranquille come docili donne sui miei occhi il precipizio dello spirito luce del mattino ma qual è la vita vera… la mia, la tua, [di chi è questa vita? Un libro, che mai può fare un libro in questa città di drogati per la guerra! Eppure nonostante il pensiero sia impiccato penso, penso di poter pensare cerco la sicurezza del volo infinito! Jacopo Catozzi

nonostante tutto e tutti penso once d’oro del cielo mani di madre crisalide dell’eterno gente che entra in negozi-gabbia [per non uscirne più dentro la canonica il sabba cosmico gente che parla e con parole forgiano spade ho il cuore di mia madre al di là del fiume che barrisce etereo grigioargenteo sangue del mio sangue mestruo cosmico placenta lunare cadono giù corpi sfitti al sole d’un luglio che non è luglio d’un ritrovarsi che è poi morire macchine che vanno verso città perverse ove banchieri sbucati da bugigattoli oscuri svendono l’anima al miglior offerente once calde del cielo che nome ha questo dio? Ho le lacrime di mia madre poeta che fui…marinaio dell’Ade meglio farsi in vena che l’assuefazione tossico-economica cervelli connessi polvere pesante smog allucinogeno il trip dei benpensanti! Il mio sentire è una stella luce, lacrime bagnate, profumate addormentandomi nell’aria della vita triste bambino limpidi istanti che annullano ciò che non è solo come un astro color rossa rosa che innaffiano il cielo con il fuoco tutto immensamente segreto segreto che quasi non si vive! Per coloro che ancora invece vivono a goccia a goccia il loro sangue

LA POESIA DEL MESE

Jacopo Catozzi è nato a Forlimpopoli il 22 marzo 1987. Non vi diciamo altro su di lui per motivi di spazio e preferiamo far parlare i suoi versi.

CORRENDO NELLA LUCE Nuvole cariche di fango l’orizzonte barrisce senza senso eppure e nonostante io penso semplicemente penso mentre macchine vanno e vengono a volte si fermano, dove vanno e cosa tentano? Mentre bombe cadono e fiumi di corpi al sole un sole che muore anche lui semplicemente io penso

terreno del mio.

le relazioni e spinte che compongono un universo assai più

iscritta, facendomi approfondire, quasi paradossalmente,

vermi alla facoltà di Economia quale attualmente sono

Parallelamente i miei studi mi hanno portata ad iscri -

genere. Da allora vivo su un altro pianeta, uno tutto mio!

lettura trasformatasi poi in un’amore per la letteratura in

Ho coltivato fin dai primi anni di scuola la passione per la

ottobre del 1992 nel grigio di Alessandria.

Mi chiamo Bianca Abrate e sono nata il 15

Irrisorio e terreno. Bianca Abrate

Fondale di un pensiero

Dei granelli di sabbia componenti il fondale.

Persa fra l’infinità numerabile

Perla rara, dal fluire lambita

Chiusa nella stretta della notte.

Tra le tenebre di un palmo

LE POESIE DEI LETTORI

Venere in cui m’immergo Fluttuando Di tra i tuoi petali

Nel riverbero della luce bianca.

Mi scompone il suo orizzonte,

Sbocciata dalla schiuma di un mare in tempesta.

Mossi dal vento, inebriati del suo profumo.

Le vibrano intorno incantati fili d’erba

MARGARITA Leucantemum volgare

la nostra idea possa farvi piacere ed invitiamo chiunque sia interessato a scriverci!

poesie. Quindi, ringraziando coloro che senza timore si sono mostrati e si mostreranno, speriamo che

amici, conoscenti e sconosciuti che ci hanno fatto pensare ad uno spazio dove raccogliere tutte le loro

’idea di Le poesie dei lettori è nata dalle richieste di collaborazione che abbiamo ricevuto da

INTERLUDIO + ZONA FRANCA

Questo mese vi presentiamo uno speciale riguardante un poeta contemporaneo: Alberto Bertoni.

Alberto Bertoni vive e lavora a Bologna. In aggiunta alla sua vasta opera in ambito di critica letteraria, ricordiamo le seguenti opere di poesia: Lettere stagionali (Book Editore, Castel Maggiore 1996); Tatì (ivi, 1999); Il catalogo è questo. Poesie 1978-2000 (Il cavaliere azzurro, Parma 2000); Le cose dopo (Aragno, Torino 2003); Ho visto perdere Varenne (Manni, Lecce 2006); Ricordi di Alzheimer (Book Editore, Castel Maggiore, 2008 e 2012), Il letto vuoto (Aragno, Torino 2012); Traversate (Sef, Firenze 2014).

PISTARDS

Un volo di pistards al velodromo Vigorelli di via Arona dove avevano suonato i Beatles e dove nel ricordo i velocisti sfrecciano ancora Gambe d’acciaio nelle sfide di fantasmi e mondi capovolti quando vinceva chi partiva dietro e quando chi faceva l’andatura dopo un giro si piantava sul legno della pista o sul cemento la ruota piegata, il corpo teso nel surplace lungo a volte una mezz’ora e il lampo, il colpo di reni o di coda valevano molto meno del guizzo di quei muscoli da fermo erme metafisiche capaci d’immobilizzare anche te e tuo padre nel retro dei bar poveri di allora il campari allungato se pioveva ma col bel tempo invece la gazosa sintomo già d’autunno il video lampeggiante in uno stremo di bianco e nero E dalla maglia iridata solo a tarda sera conquistata l’ultima scia d’arcobaleno

Alberto Bertoni

Inedito tratto dalla serata di poesia Recordare, Teatro delle Passioni, Modena, 14 aprile 2015

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AFORISMI DI BIRKENAU 14 marzo 2015

I

Commentare è capire, ma i pensieri oggi sono fermi: non marciano, marciscono

II

Il lavoro uccide: dall’aria, dalla vita rende libero

III

Uno stabilimento avanzato: non ci lavoro, ci vengo lavorato

IV

Lager è Campo, Deposito, Covo, in italiano: ma Lager per me da oggi è coppia di mani senza corpo, fossa di fango, bisogno

V

Nell’acqua si fa tutto, Narciso e il resto, basta passar oltre il laghetto del Crematorio III, non affondare nella cenere, nel gesto

VI

Non hai torto se dici che la cosa più agghiacciante è camminare nel fango come se niente fosse un passo dietro l’altro

A decidere è un capo come tutti mediocre con un segno del dito anche oggi che piove

VII

Non ricordo più come si dice in tedesco, prigioniero, però prigioniero mi sento, mi sogno, mi segno

VIII

Nella zona femminile, la baracca dei parti: il sostantivo plurale maschile per l’atto più da donna che si può, non un popolo, la festa in inglese, il ritorno dei nati

IX

Accarezzo la pietra, ti sento fra le dita, ma tu cosa vuoi dirmi, bambina del disegno, cinesina in tunica viva?

X

Il pollice destro, immobile nell’ombra, decide per la vita, ma l’altro trafigge il cavallo di lato, ronzino mezzo zoppo, stanco

XI

Questa sauna qui con le nostre non c’entra, spoliazione tatuaggio doccia fuoco/ghiaccio asciu-

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gatura senza uno straccio, e appena fuori, nell’angolo, i pennelli da barba i thermos le chiavi e lenti - alla fine - stanghette o custodie degli occhiali

XII

Fisionomia, fotografia cucita in valigia, ad ogni controllo sfuggita

XIII

Un’arancia mezza secca, forse spagnola, la mente vuota, davanti a uno slancio di betulla, taglio di bianco nel nulla: oggi non lo pulisco, sta’ tranquilla, lo schizzo di fango sulle ciglia

XIV

Un’ora al giorno in pieno prime time, sul computer portatile e lo smartphone, ad ogni tedesco, ogni giorno di quest’anno, settantesimo anniversario, ogni giorno oggi compreso, ripeto: ad ogni madrelingua tedesco, somministrare una ad una le foto di figli e madri, dei seni strozzati, degli sguardi

XV

Per ultimo, ricordo il numero del gancio dove giace il mio vestito, in fila fiduciosa verso il forno, gusto di pane buono e l’abbandono

XVI

Una vita è anche le morti che contiene, le procedure e le violenze che cambiano i ricordi nella mente

Alberto Bertoni

AFORISMI

DI BIRKENAU – ALBERTO BERTONI, 14 APRILE 2015. di Alessandro Mantovani

Stando alla data in epigrafe al testo, Alberto Bertoni Stando alla data in epigrafe al testo, Alberto Bertoni -parole sue- “legge agli altri e a se stesso per la prima volta” gli Aforismi di Birkenau esattamente un mese dopo il viaggio ispiratore ad Auschwitz. La serata che fa da cornice, dal nome antico di Recordare, è una lettura di poesie sulla memoria, ma, evitando le tautologie, tra le voci del trio modenese (Alperoli, Bertoni, Rentocchini, da cui appunto nel 2011 esce una raccolta omonima alla serata in cui tutti e tre si confrontano col tema della perdita parentale) si scorge una liturgia più profonda e nutrita: il Recordare è qui un ri-andare col cuore e la mente, un impegno umano assunto con dignità matura e coscienziosa e un modo peculiare di intendere la poesia stessa, il cui sguardo sa guardare indietro (più che avanti) con occhio tenero e saggezza da vendere.

In questo quadro di ricordi personali, episodi vagheggiati e nomignoli di infanzie lontane, per nulla pesante, anzi oscillante tra il brio e il sussulto (complici la fisarmonica e il contrabbasso, armi nelle mani dei musicisti), gli Aforismi di Birkenau sono un unicum che apre l’intera occasione con forza lapidaria e immaginifica. Se l’immagine che li precede è quella del

poeta come minatore, che “scava nell’io come nel noi”, non sembra un movimento a ritroso inaspettato o in disaccordo al tema, quello che parte dalla memoria collettiva e punta, anzi si puntella, sul ricordo indelebile del memento quid sumus. Si sottende, in questo modo, alla dimensione intimistica (attributo tipico della dimensione memoriale), un’altra questione: la memoria collettiva. Con gli Aforismi di Birkenau, torna forte e sgomitante il sentimento corale dell’umanità, del poeta che parla al noi e di noi, non di sé, strettamente legato alla realtà oggettiva dalla quale si impone il canto e il dovere di cantarla, riportando la poesia all’arcaica funzione di guida. Di fronte all’indolenza memoriale, all’ignavia del ricordo, alla superficialità banale che accarezza le maggioranze, Bertoni scaglia il sasso: il dolore e la perdita sono una necessità umana da contrapporre al nulla fagocitatore, che dissolve nel non essere qualunque cosa in ogni tempo.

“Una vita è anche le morti che contiene, le procedure e le violenze che cambiano i ricordi nella mente”, ecco il suggello finale che, se da un lato riconcilia entrambe le dimensioni umane, quella privata e quella pubblica, dall’altro lascia emergere l’incrinatura lesiva propria del processo memoriale: tutto ciò che abbiamo dentro resta, ma rimane ineluttabilmente

sfalsato e irrimediabilmente cambiato da ciò che nella vita si subisce, fino addirittura ad arrivare all’estremo della deformazione (“Che strana la memoria: ci consente di ricordare ciò che non abbiamo vissuto.” scrive Juan Gabriel Vasquez nel suo ultimo libro, Le reputazioni), che, in quanto tale, non deve mai avvenire al fine di non perdere la verità insita nel vissuto, e proprio per evitare ciò nasce la scrittura. Ecco come emerge potente il senso aforismatico: dire seccamente ciò che è stato, ricordare il “segno del dito del capo”, parte per il tutto, che sia però memoria pulita ed aderente al vero e al visto, essenziale condizione che fa del poeta un chroniqueur dalla negata visione totale (il male è troppo grande, impossibile da essere abbracciato o concepito da umana mente), ma ben saldo negli scorci di cui è testimone. Ciò che infatti traspare dalla forma scelta è una scrittura episodica, non fluente, continuamente interrotta da buchi di afasia che pesano nell’economia della comunicazione tanto quanto il detto, assumendo la funzione di boccate d’aria: il poeta cetaceo riemerge al silenzio musicato per sfiatare quel male impraticabile annidato nei suoi occhi e poi sul foglio, di cui, però, bisogna dire. La struttura polimerica è perciò sì aggregante sul piano del tema, ma pare continuamente balbettata, sforzata, non finita. La parola di Bertoni negli Aforismi di Birkenau è quella parola che risponde alla domanda sull’esistenzialità della poesia, implicita nell’affermazione di Adorno nel 1949 (“fare poesia dopo Auschwitz è un atto di barbarie” e dunque: è ancora possibile fare poesia?), in maniera affermativa, ma sente su di se tutto il peso del tragico che questa scelta comporta. È una lingua che lotta per sillabare, per affermare una verità indicibile, rimasta aggregata come materia ai resti tangibili dello scempio, le “stanghette o custodie degli occhiali”. Perciò il favellare non ha il tempo di soffermarsi lungamente, di concedersi sollazzi recitativi o divagazioni; l’orrore da indagare a fondo costringe all’impossibilità di indugio: il linguaggio si condensa, assume il concetto stretto perdendo le eccedenze e diventando acuto, afferrando il senso perfetto delle cose; una vista conica e precisa, ma circoscritta ad una lente dal diametro modesto che non permette alla visione d’insieme di esprimersi compiutamente: “la cosa più agghiacciante/è camminare nel fango/ come se niente fosse/un passo dietro l’altro”. Questa logomachia volta all’imposizione del verbum, opposto all’horror vacui del silenzio e quindi della dimenticanza, oltre ad essere contrastiva rispetto al tempo odierno della beata ignoranza, figlia dell’egoismo e del soddisfacimento -peraltro al ribasso- dei propri bisogni (“i pensieri oggi sono fermi: non marciano, marciscono”), è spinta in primo luogo da una necessità umana di tramandi che il poeta sente come necessari da accogliere e ritrasmettere, sapere secolare di imperdibile importanza, e, in secondo luogo, essa è

mossa anche da un bisogno impellente dettato dalle cose che spinge per la sua realizzazione verbale fin dal livello materico: “Lager per me da oggi è coppia di mani senza corpo, fossa di fango, bisogno”. Un ulteriore sviluppo dei componimenti approda all’ambito dialogico. Il poeta, presente come fisicità in movimento all’interno del luogo, dialoga apertamente con voci e oggetti in staticità perenne, con fantasmi e ricordi, emanati dalla concretezza della visione: la “bambina del disegno”, la “mezza arancia secca”, la “betulla”, “i pennelli da barba i thermos le chiavi e lenti”. I residui della realtà, reificata in queste poche comparse, anch’essi -forse più di tuttifanno parte dell’atto di ricordare, unici segni ancora effettivamente tangibili, e interloquiscono, forse involontariamente e automaticamente, con colui che osserva. Oltre a ciò, anche le voci dei morti diventano protagoniste, si sostituiscono all’identità del cantore, coincidendo perfettamente col suo io e identificando una medesima tonalità. Così non si sa oltre dove finisca l’essere umano in visita di conoscenza al campo di concentramento, dove cominci il dialogo con i morti di cui egli si fa testimone e dove il suo stesso apparato fonetico sia utilizzato da altri per parlare, per avere ancora una piccola, sparuta possibilità di essere ascoltati (in quanto veri e non raccontati) e dunque ricordati. A tutti, però, è negato il completamento fisionomico, appaiono in quanto tali, spiriti bloccati in un gesto, subito o fatto, in una memoria pregna di disillusione: “Per ultimo, ricordo il numero del gancio dove giace il mio vestito, in fila fiduciosa verso il forno, gusto di pane buono e l’abbandono”. Per concludere, non serve certo Claudio Guillén o qualche esimio teorico della letteratura per ricordarci come di fronte a uno spaesamento umano (“Non ricordo più come si dice in tedesco...”), dovuto alla vertigine tematica, verticale verso l’alto o il basso che sia (l’estremo sacro, l’estrema morte, l’estremo amore), la struttura poematica tenda a rinforzarsi per reggerne il peso virando verso la chiusura delle proprie forme, sebbene qui solo accennata (viene in mente Caproni e la sua esigenza di ritorno al sonetto negli anni del secondo disfacimento mondiale, che qui ancora siamo chiamati a ricordare, proprio come mezzo di ‘’sopportazione del male’’). Ed ecco dunque i righi minimi infarcirsi di assonanze, allitterazioni, rime, tutte in modo parco, ma a innervare i distici/tetrastici di un ritmo strutturale che sembra ossigeno per le parole, l’unica condizione in cui esse possono sopravvivere e continuare a battersi per penetrare come aghi nella mente o nel cuore dell’uditore ed essere monito, non sbandierato come dito imperioso o moralista, ma derivante dall’esperienza umana e diretta dello squallore e della paura indicibili, che taciuti, però, non possono rimanere.

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