Paolo Nori
A cosa servono i gatti
Illustrazioni di
Andrea Antinori
Da sempre ho avuto la passione per gli animali di qualsiasi genere. In tenera età portavo a casa topi e una volta ebbi la costanza di giocare con un gatto morto per tutto il tempo che marinai la scuola. Jaroslav Hašek
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uando mi hanno proposto di pubblicare A cosa servono i gatti, son stato contento. Quando poi mi hanno proposto di farlo illustrare da Andrea Antinori, sono stato perplesso. Per dei motivi, non so come dire, massonici. Di società segrete. Che non hanno niente a che fare con la qualità delle illustrazioni di Andrea Antinori che sono, sarete tutti d’accordo, bellissime. No. Io e la Battaglia, la mia bambina, abbiamo qualche cosa in comune, per esempio il fatto che ci chiamiamo Nori, di cognome. Mi ricordo quando con sua mamma siamo andati all’ospedale, all’ufficio dove si registrano i nomi dei bambini, e la mamma della Battaglia ha detto che sceglieva il mio cognome, mi ricordo l’impiegata le ha chiesto: “È sicura?” e io che mi son chiesto: “Ma cosa vuole, questa qua?”. Comunque la mamma della Battaglia era sicura, e io e la Battaglia ci chiamiamo tutti e due Nori. 9
Allora quando con la Battaglia, che lei era piccola, ci succedevano delle cose brutte, tipo che aspettavamo alla fermata dell’autobus, un giorno che pioveva, e passava una macchina e c’era una pozzanghera e la macchina ci spruzzava addosso l’acqua della pozzanghera, noi quando succedevano questi piccoli disastri, davamo la colpa agli Antinori. Cioè era chiaro, per noi, che quando non riuscivamo a ottenere quello che volevamo era per via che c’era una società segreta, questa massoneria degli Antinori, che si era messa in mezzo per ostacolarci, impedirci di ottenere i risultati che, con le nostre qualità, avremmo meritato di ottenere. Allora, adesso, è passato del tempo, la mia bambina è cresciuta, anche se ci divertiamo ancora moltissimo, insieme. Andiamo per esempio in palestra insieme, e spesso nessuno dei due ne ha voglia, e a me vien da pensare che è bello condividere le passioni con qualcuno con cui sei in sintonia. E anche raccontarsi le cose. Ieri, per esempio, siamo andati al ristorante io e lei, a tornare mi son messo a raccontarle i miei incidenti stradali. Ci siamo molto divertiti, la passeggiata è durata quaranta minuti, non sono riuscito a finire, continuiamo domani, ma non volevo dir quello, volevo dire che, anche se la Battaglia è cresciuta, quando mi hanno proposto di pubblicare A cosa servono i gatti con le illustrazioni di Andrea Antinori, io mi son sentito in dovere di chiedere il permesso alla Battaglia. “Non 10
vorrei”, le ho detto, “che fosse una mossa degli Antinori per rovinarci”. Lei ci ha pensato un po’ e poi mi ha detto: “Mah, non so... Io gli darei una possibilità”. E allora è andata a finire così. Gli abbiamo dato una possibilità. E adesso vediamo. Paolo Nori Casalecchio di Reno, luglio 2021
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i avevano chiesto di parlare di gatti, di scrivere un libro che parlasse di gatti, e io, dal momento che erano sedici anni che vivevo insieme a una gatta, gli avevo detto di sì, volentieri. Era, se non ricordo male, il 2010, e un anno dopo, a febbraio circa del 2011, mi avevan chiamato, mi avevano chiesto: “Ma hai scritto?”. “Che cosa?” “Dei gatti.” Non avevo scritto. Allora mi ero messo a scrivere, avevo scritto un po’ di cose che cominciavan così: Dal momento che sappiamo benissimo che più si dice una cosa più quella cosa diventa grande, e vera, per fare la cosa che ho fatto è stato utile il fatto che in quel periodo mi dicessi continuamente che non valevo niente. 13
Poi c’era una specie di lamentela, che rileggerla adesso, era strano, mi lamentavo del fatto che non ero più grasso, era come se la mia grassezza, che avevo combattuto per anni, averla, in un certo senso, vinta, mi sembrava come di aver perso una delle ragioni che mi facevan star male, come di essermi staccato di dosso un pezzo di me, non so se mi spiego, non era normale. Poi descrivevo il posto dov’ero, periferia di Bologna, lavoravo di sera, era già quasi scuro, si sentivan le macchine che passavano sulla Porrettana, tutta gente che tornava a casa da lavorare, descrivevo la mia stanza, il mio piccolo studio privato, che poi era anche la mia camera da letto, nella mia casa nuova, appena trasferito in provincia, a Casalecchio di Reno, località Croce, avevo acceso un mutuo che non facevo nessuna fatica a pagare e avevo addosso una cosa che mi sarei messo a piangere. Ero così stanco. Avrei voluto tornare indietro. Volere frenare. Mi era già successo un paio di volte, vivevo a Parma, allora, c’era l’affettatrice, adesso non avrei potuto, avrei dovuto perlomeno uscire e comprare un’affettatrice, e un prosciutto disossato, e sedici pacchi famiglia di pan carrè e otto tubetti di maionese e tornare in casa e andare a letto e quando ti svegli mangiare, e poi tornare a letto, e quando ti svegli mangiare, e una televisione, mi 14
sarebbe servita una televisione, per non pensare, annullare tutti gli impegni per un paio di mesi e uscire di casa dopo due mesi con quei ventisei chili in più e poi ripartire con tutti i nuovi difetti da mettere a posto, una dieta, e l’impressione, piacevole, di non essere adatto, sentirsi in difetto, mi mancava il difetto, non che fossi perfetto, trovare un momento, due mesi, per dirmi, nella mia testa: “C’è tempo, non è ancora ora, torniamo indietro, sfacciamo giù un po’ di roba, dopo poi ripartiamo, adesso distruggere, non è ancora ora”, non potevo più farlo, avevo quarantasette anni, non ero un bambino, neanche un ragazzo, non potevo fermarmi, non potevo più farlo, dovevo tenermi le cose, non ero più come prima, ero anch’io come gli altri, ero uguale, non ero poi niente di particolare, dovevo esser contento, non avevo più neanche le vene varicose, mi occupavo di quello di cui si occupavano tutti, ero niente, e incapace, non riuscivo a pensare più a niente di originale, ero diventato un’altra cosa, ero diventato, chiamiamo le cose col loro nome, una merda, ecco, adesso andava bene, potevo ricominciare, avevo pensato, e in quel momento il gatto aveva cominciato a miagolare, cioè, più che miagolare era una specie di rantolo. Che poi, il mio gatto, era una gatta, anche se, poverina, aveva un nome da gatto, che poi era un nome da uomo, si chiamava Learco. Se fossi tornato indietro l’avrei chiamata Fufi. 16
Forse. Non ero sicuro. Non lo sapevo. Avevo come l’impressione che sarebbe stato tutto un altro gatto, o meglio, un’altra gatta, se si fosse chiamata Fufi. Proviamo a chiamarla Fufi, avevo pensato. Proviamo a vedere se il nostro rapporto migliora. Non lo so, cosa mi succedeva, in quel periodo. Tornavo a casa che ero contento, dopo due ore non ero più contento. Mi succedevan delle cose stranissime, in quella casa. Soprattutto di sera, e soprattutto il lunedì sera. Venivo da tre ore di lezione, dove di solito arrivavo stanco e venivo via che non ero più stanco e nel salire le scale mi dicevo: “Bravissimo, adesso traduci due ore e poi vai a dormire”. E mi trovavo, dopo due ore, sdraiato sul letto, a guardare qualcosa su YouTube, il lunedì notte, con una scarpa sì e una no. E eran cose che non mi interessavano. Con dei toni, proprio, che non solo non mi interessavano, non mi interessavano. E le due pagine non le avevo tradotte. E ero stanchissimo. 17
E avevo mangiato tutte le merendine della Battaglia. E Fufi miagolava. E sapeva miagolare in un modo che non sembravano miagolii, sembravan dei versi gutturali. E pensavo di non avergli cambiato la sabbia, andavo a vedere, la sabbia l’avevo cambiata. Allora pensavo di non avergli dato da mangiare, andavo a vedere, da mangiare gliene avevo dato. Allora pensavo di non avergli dato da bere, guardavo, da bere gliene avevo dato. Allora pensavo che volesse due carezze, gli davo due carezze, due di numero, che non avevo tempo, e poi tornavo sul letto a guardare le cose che non mi interessavano. E mi ero appena steso sul letto che Fufi si metteva a miagolare. Che poi non è che miagolasse, faceva quello stesso verso di prima che mi faceva star male. E mi veniva su una cosa che mi chiedevo: “Ma perché, io, il lunedì sera, mi tolgo una scarpa sì e una no?”. Mi riducevo in un modo stranissimo, e non era così, i primi tempi. I primi tempi, in quella casa, c’era tutto un traffico di trapani, di cacciaviti. Mi trovavo bene, coi cacciaviti. I cacciaviti a stella eran degli strumenti, da un certo punto di vista, stupefacenti.
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