Alice nel Paese delle meraviglie

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NEL PAESE DELLE MERAVIGLIE

Lewis Carroll & Valeria Docampo Traduzione di Claudia Valentini


Ondeggia la barca ignorando gli schemi Nel meriggio di sole e calura Zigzaga e procede senza tanti problemi Governata con piglio e gran cura. Son manine sottili che imbracciano i remi E guidan la nostra avventura. Poi Tre-pidanti nell’afa accanita Insorgon le bimbe compatte Voglion la storia, la voglion servita E non di quelle già pronte e già fatte. Io vorrei solo godermi la gita Ma si perde sicuro se con tre si combatte. Tuona la Prima con aria imperiosa:

Fantasia non è certo un pozzo profondo

“Comincia, o mi viene la noia!”

Io annaspo cercando una svolta

Interviene Secunda un po’ meno astiosa:

Poi mi azzardo a dire ormai rubicondo:

“Più stramba, se no non dà gioia!”

“Narrerò di più un’altra volta”.

“Rime e nonsensi fan la storia briosa”

S’alza allora un ruggir fremebondo:

Dice Terzia. “Non hai scorciatoia!”

“Racconta! Ora è già un’altra volta!”

Tacciono infine le tre bimbe belle

Così nasce delle Meraviglie il bel paese

Rapite dal mio raccontare

Con le sue avventure snocciolate

Di una fanciulla e di marachelle

Una dopo l’altra, tante e tutte attese

In un mondo di bestie assai rare.

A bocca aperta dalle bimbe adorate,

Oh, come ridon le tre a crepapelle

Ché già il tramonto incendia le nuvole sospese

Sognando di poterle incontrare.

E indietro ritorniam tra gran risate. Oh, cara Alice, è per te questa storia Portala con mani gentili Là dove Infanzia incontra Memoria A intrecciare i loro due fili E trasformare in ricordi di gloria Sogni, speranze e avventure infantili.

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Nella tana del Coniglio



A

lice cominciava a non poterne più di starsene lì seduta sul prato con sua sorella

senza fare niente. Aveva sbirciato un paio di volte nel libro che lei stava leggendo, ma non c’erano né immagini né dialoghi. “E a che cosa serve un libro”, si era domandata Alice, “senza immagini e senza dialoghi?”. Così si era messa a pensare (per quel che riusciva, dato che il gran caldo di quel giorno la rendeva indolente e instupidita) se il piacere di creare una coroncina di margherite poteva valere lo sforzo di alzarsi e andare a raccogliere i fiori, quando all’improvviso le sfrecciò accanto un Coniglio Bianco dagli occhi rosa. Alice non ci trovò niente di strano, né ugualmente le parve strano sentire d’un tratto il Coniglio borbottare tra sé:

(quando poi le capitò di ripensarci più avanti, le venne in effetti il dubbio che avrebbe già dovuto insospettirsi, ma in quel momento le parve la cosa più naturale del mondo). Quando, però, il Coniglio tirò fuori un orologio dal taschino del panciotto e si fermò giusto il tempo di dargli un’occhiata per poi ripartire di gran lena, Alice scattò in piedi, perché si rese conto che mai in vita sua aveva visto un coniglio con indosso un panciotto dotato di taschino, né tantomeno con un orologio da tirarvi fuori. Bruciante di curiosità, prese a corrergli dietro attraverso il campo, giusto in tempo per vederlo scomparire in un’enorme tana sotto a una siepe. Senza fermarsi nemmeno un secondo a riflettere su come avrebbe fatto poi a uscire di là, Alice lo seguì. La tana si allungava per un bel tratto come un cunicolo, ma poi scendeva di colpo in verticale, talmente di colpo che Alice non ebbe nemmeno il tempo di fermarsi a pensare e si ritrovò a cadere in quello che aveva tutta l’aria di essere un pozzo molto, molto profondo.

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E in effetti o si trattava davvero di un pozzo molto profondo, oppure era lei che precipitava molto lentamente, perché mentre cadeva ebbe tutto il tempo di guardarsi intorno e di domandarsi che cosa le sarebbe capitato. Innanzitutto tentò di guardare verso il basso per capire dove sarebbe atterrata, ma era troppo buio e non si vedeva nulla. Allora prese a osservare le pareti del pozzo e si accorse che erano arredate con mensole e credenze, con tanto di cartine e quadri appesi qua e là con un chiodo. Passando davanti a una mensola allungò una mano e prese un barattolo. MARMELLATA D’ARANCE, c’era scritto sopra, ma, con suo grande disappunto, Alice si accorse che era vuoto. Non se la sentiva di gettarlo via per paura di uccidere qualcuno là sotto, così lo riappoggiò su un’altra credenza che le capitò a portata di mano. “Bene, bene”, si disse. “Dopo una caduta come questa, che cosa vuoi che sia uno scivolone lungo le scale? A casa penseranno che sono diventata una gran coraggiosa! Ah, non farò un fiato nemmeno se dovessi cadere dal tetto!” (E su questo non nutriamo il minimo dubbio.)

E se non avesse mai smesso di cadere? “Chissà quanti chilometri avrò già percorso?” si domandò a voce alta. “Sarò ormai vicina al centro della Terra. Dunque, vediamo: se così è, allora dovrebbero essere seimila chilometri, mi pare…” (Perché, dovete sapere, a scuola Alice aveva imparato un sacco di cose e se da un lato quello non le sembrava certo il momento giusto per mettere in mostra le sue conoscenze, dato che non c’era nessuno ad ascoltarla, rimaneva dall’altro un’ottima occasione per ripassare.) “… Sì, esatto, la cifra è giusta. Ma allora chissà a quale latitudine e a quale longitudine mi troverò!” (In realtà non aveva la minima idea di che cosa fosse la latitudine, né tantomeno la longitudine, ma le erano sembrati i paroloni più giusti da sfoderare in una tale situazione.) “E se invece attraversassi tutta la Terra?” ricominciò a chiedersi poco dopo. “Chissà che buffo sarà risbucare fuori in mezzo a quelli che camminano a testa in giù! Gli Antipotici, mi pare che si chiamino…” (E per fortuna non c’era nessuno ad ascoltarla, pensò stavolta, perché quel termine non le suonava affatto corretto.) “… Però dovrò chiedere senz’altro in che Paese mi trovo. Mi scusi, signora, siamo in Nuova Zelanda oppure in Australia?” (E tentò di fare un inchino, ma… provateci voi a fare un inchino mentre state precipitando nel vuoto! Pensate di esserne capaci?) “Se le faccio una domanda come

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quella, però, la signora penserà che sono una bambina ignorante! No, meglio non chiedere nulla. Magari lo trovo scritto da qualche parte.” E continuava a cadere, cadere e cadere. Dal momento che non c’era nient’altro da fare, Alice andò avanti coi suoi ragionamenti. “Dinah stasera sentirà la mia mancanza, poveretta!” (Dinah era la gatta.) “Speriamo che gli altri si ricordino di darle una ciotola di latte all’ora del tè. Oh, povera Dinah. Quanto mi piacerebbe averti qui, sospesa nell’aria con me! Ma in aria non ci sono né topi né ratti, purtroppo. Be’, potresti sempre dare la caccia ai pipistrelli, che in fondo, sai, non sono poi tanto diversi. Ma saranno davvero come ratti per i gatti? Chissà.” Piano piano Alice cominciò ad assopirsi, e intanto continuava a ripetersi mezza addormentata: “Saran ratti per i gatti? Saran ratti per i gatti?” e a volte: “Saran gatti per i ratti?”, perché, in fondo, non sapendo darsi una risposta, era indifferente il modo in cui si poneva la domanda. Ormai dormiva proprio e aveva appena cominciato a sognare di procedere mano nella mano con Dinah mentre le chiedeva: “Dimmi un po’, Dinah, ma un pipistrello è come un ratto per un gatto?”, quando d’improvviso – thump! thump! – atterrò su un mucchio di rametti e di foglie secche, e la caduta era giunta al termine. Non si era fatta nemmeno un graffio e balzò in piedi in un secondo. Guardò in alto, ma era tutto buio. Davanti a lei partiva un altro lungo cunicolo che il Coniglio Bianco stava percorrendo di corsa. Non c’era un secondo da perdere, Alice scattò in avanti come il vento e gli arrivò abbastanza vicino da riuscire a sentirlo borbottare mentre svoltava l’angolo: “Per tutte le orecchie! Per tutti i baffi! È tardissimo!”. Lei svoltò lo stesso angolo un attimo dopo, ma il Coniglio non si vedeva già più da nessuna parte. Alice si ritrovò tutta sola in un corridoio basso e lungo, illuminato da una fila di lampade che pendevano dal soffitto. C’erano tante porte lungo le pareti, ma erano chiuse a chiave e, dopo averle provate tutte da un capo e all’altro del corridoio, Alice prese a camminare mesta mesta avanti e indietro domandandosi come avrebbe fatto a uscire di lì. D’un tratto si trovò davanti un tavolinetto a tre gambe, fatto interamente di vetro. Sopra c’era soltanto una piccola chiave d’oro. Alice intuì subito che sarebbe servita per aprire una delle tante porte, ma, ahimè, o le serrature erano troppo grandi, o forse era la chiave a essere troppo piccola, fatto sta che le porte rimasero tutte ben serrate. Rifacendo il giro una seconda volta, Alice s’imbatté in una tendina bassa che prima non aveva notato e che nascondeva una porticina alta sì e no una quarantina di centimetri. Provò a inserire la chiave d’oro nella serratura e con grande gioia scoprì che era proprio della misura giusta! Alice spinse la porta e scoprì che conduceva in un piccolo passaggio non più grande della tana di un topo. Si schiacciò a terra e in fondo a quel passaggio scorse il giardino più bello che avesse mai visto in vita sua. Che voglia che aveva di lasciarsi alle spalle quel corridoio buio e stretto per correre libera tra quei fiori coloratissimi e quelle fontane zampillanti, ma purtroppo la porticina era talmente piccola che non riusciva nemmeno a infilarci dentro la testa. “E anche se ci riuscissi”, pensò la povera Alice, “mi servirebbe a

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poco aver la testa di là senza le spalle. Ah, quanto vorrei potermi accorciare come un cannocchiale! Potrei sempre provarci, però, se solo sapessi da che parte cominciare”. Perché, capirete, quel giorno erano già successe parecchie stramberie e Alice cominciava ormai a pensare che rimanevano poche cose al mondo davvero impossibili. In ogni caso non aveva senso restarsene ad aspettare lì davanti alla porticina, così tornò al tavolinetto sperando in cuor suo di trovarci sopra un’altra chiave, o almeno un manuale di istruzioni per accorciare le persone come cannocchiali. E invece vi trovò una bottiglietta (“Che di sicuro prima non c’era”, osservò Alice) con un bigliettino legato al collo sul quale si leggeva:

scritto in lettere eleganti e belle grandi. Si faceva presto a dire “BEVIMI”, ma la saggia Alice non avrebbe di certo obbedito in fretta e furia. “No, prima guardo bene”, si disse. “Devo verificare che da qualche parte non ci sia scritto ‘veleno’.” Ne aveva lette a bizzeffe, infatti, di storie di bambini ustionati, divorati da bestie feroci, o caduti vittime delle cose più terribili, solo perché avevano dimenticato quelle poche e semplici regolette che s’imparano dai propri amici: ovvero che se l’attizzatoio è rosso infuocato finirà per scottarti, se lo tieni in mano troppo a lungo, o che se t’infili la lama di un coltello troppo a fondo nel dito, quello quasi certamente finirà per sanguinare. Lei, invece, ricordava benissimo che se si beve a grandi sorsate da una bottiglia con su scritto “veleno”, poi non ci si sente troppo in forma. Comunque, per fortuna, su quella bottiglia la parola “veleno” non c’era scritta, così Alice si convinse ad assaggiarne il contenuto e, trovandolo di suo gradimento (sapeva infatti di crostata alle ciliegie, crema pasticcera, ananas, tacchino arrosto, caramella mou e pane caldo imburrato), in men che non si dica se lo scolò fino all’ultima goccia. * * * “Ah, come mi sento strana”, disse subito dopo. “Mi sembra quasi di accorciarmi come un cannocchiale.” E infatti era proprio quello che le stava capitando: non era più alta di venticinque centimetri. Le si illuminò il viso al pensiero di essere della misura giusta per varcare la porticina e raggiungere finalmente quel giardino bellissimo. Per prima cosa, però, attese qualche minuto per vedere se continuava a restringersi ancora. Un pensiero che, sotto sotto, la metteva un po’ in agitazione. “Perché magari va a finire”, ragionò preoccupata, “che mi consumo del tutto, come una candela. Chissà come sarei al quel punto”. E tentò d’immaginarsi l’aspetto della fiamma una volta che la candela si è spenta, perché proprio non ricordava di aver mai visto una cosa del genere. Dopo un po’, constatando che non succedeva più nulla, si decise a raggiungere il giardino, ma, ahimè, quando si trovò davanti alla porticina, la povera Alice si rese conto

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di essersi dimenticata la chiave d’oro e, una volta tornata indietro per recuperarla, si accorse che ormai non arrivava più a prenderla. La vedeva lassù in alto attraverso il vetro del tavolinetto e provò ad arrampicarsi su una delle tre gambe, ma era troppo scivolosa. Dopo aver tentato e ritentato inutilmente, la povera bimba si abbandonò a terra in preda allo sconforto e scoppiò a piangere. “Ma insomma, che senso ha star qui a piangere in questo modo?” si rimproverò con voce piuttosto severa. “Ti consiglio di smetterla subito! In questo preciso istante!” Di solito si dava dei consigli molto validi (sebbene poi li seguisse solo di rado) e a volte si rimbrottava in modo così duro da farsi venire le lacrime agli occhi. Una volta si era quasi presa a schiaffi per aver barato durante una partita di croquet contro se stessa. A quella bambina così particolare, infatti, piaceva tantissimo fingere di essere due persone. “Ma che senso ha adesso”, pensò la povera Alice, “fingere di essere due persone? Piccola come sono, basto a malapena a farne una!”. E in quel momento lo sguardo le cadde su una scatolina di vetro sotto al tavolo. L’aprì e ci trovò dentro una tortina piccolissima sulla quale campeggiava una scritta graziosa composta da tanti piccoli ribes:

“E va bene, la mangio”, disse Alice. “Se mi farà crescere, prenderò la chiave. Se mi farà rimpicciolire ancora, riuscirò a passare sotto alla porta. In un modo o nell’altro arriverò in quel giardino, succeda quel che deve succedere!”

Così ne assaggiò un pezzettino e cominciò a chiedersi tutta agitata: “Vado su? O vado giù?”. Si teneva una mano sopra alla testa per avere il polso della situazione. E quale fu la sua sorpresa, quando si rese conto che era rimasta della stessa taglia. Che poi, a voler essere sinceri, è proprio quello che di solito succede se si mangia una torta, ma Alice si era ormai talmente abituata ad assistere a tutte quelle stramberie, che rimase un po’ delusa nel vedere la vita procedere stupida e banale come sempre. Così si rimise all’opera e in men che non si dica si spazzolò tutta la torta.

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La deposizione di Alice


“P

resente!” gridò Alice, che nella foga del momento si dimenticò di quanto era

cresciuta negli ultimi minuti e si alzò in piedi così di scatto da travolgere l’intero banco della giuria con il lembo della gonna, facendo ruzzolare tutti i giurati sulla folla sottostante e mandandoli a gambe all’aria sparpagliati di qua e di là sul pavimento. Quell’immagine le ricordò la boccia dei pesci rossi che aveva rovesciato per sbaglio la settimana prima. “Oh, chiedo scusa!” disse allora mortificata e si mise a raccoglierli uno a uno il più velocemente possibile, perché in testa continuava a ronzarle l’incidente con i pesci rossi ed era convinta che, se non li avesse recuperati alla svelta e riposizionati al loro posto nel banco della giuria, sarebbero ben presto morti tutti. “Il processo non può riprendere”, dichiarò il Re con voce molto seria, “finché tutti i giurati non saranno di nuovo al proprio posto. Tutti”, ripeté con un’occhiataccia in direzione di Alice. Alice si voltò verso il banco della giuria e si rese conto che, nella fretta, aveva sistemato la Lucertola a testa in giù: la povera bestiolina, infatti, agitava la coda tutta triste, incapace di muoversi. Allora corse subito a liberarla e la sistemò nel verso giusto. “Non che cambi poi molto”, si disse però. “Mi pare che il suo contributo al processo resti sempre quello, in un verso o nell’altro.” Non appena si furono riavuti dallo shock e dal trambusto, i giurati recuperarono lavagnette e gessetti e si rimisero al lavoro prendendo a scrivere bravi e diligenti i dettagli dell’accaduto. Tutti, tranne la Lucertola, che sembrava ancora troppo scossa e se ne stava seduta con la bocca aperta e lo sguardo imbambolato rivolto al soffitto. “Che cosa sai tu di questa faccenda?” domandò il Re ad Alice. “Niente”, rispose lei. “Niente di niente?” insistette il Re. “Niente di niente”, rispose Alice.

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“E questo è un elemento rilevante”, commentò il Re rivolto ai giurati. Quelli avevano appena iniziato ad appuntarlo sulle proprie lavagnette, quando il Coniglio Bianco saltò su a interromperlo: “Irrilevante, intende dire Sua Maestà, ovviamente”. “Irrilevante, ovviamente, intendo dire”, si affrettò a correggersi il Re, che poi bofonchiò tra sé e sé: “Rilevante – irrilevante – irrilevante – rilevante”, come a cercare di capire quale delle due parole suonasse meglio. Così, andò a finire che alcuni membri della giuria trascrissero “rilevante” e altri “irrilevante”. Alice vide tutto in modo molto chiaro, perché si trovava talmente vicina da riuscire a sbirciare direttamente sulle lavagnette. “Ma tanto”, si disse, “non fa alcuna differenza”. In quel momento il Re, che intanto si era messo a scrivere alacremente sul suo taccuino, gridò: “Silenzio!” e prese a leggere ad alta voce: “Articolo numero quarantadue: Ogni persona alta più di due chilometri è tenuta ad abbandonare l’aula”. Tutti si voltarono di colpo verso Alice. “Ma io non sono alta due chilometri”, obiettò lei. “Oh, sì”, insistette il Re. “Anzi, così a occhio, direi pure quasi tre”, aggiunse la Regina. “Be’, comunque io non me ne vado”, s’impuntò Alice. “E poi questo articolo non esiste. Ve lo siete inventato adesso.” “È l’articolo più antico del codice”, affermò il Re. “Be’, se così fosse, allora dovrebbe essere il numero uno”, ribatté Alice. Il Re si fece di colpo pallido in viso e richiuse il taccuino con uno scatto. “Venga emesso il verdetto!” ordinò alla giuria con voce bassa e tremante. “Prima ci sono altre prove da esaminare, Vostra Maestà”, saltò su lesto lesto il Coniglio Bianco. “È appena stato recapitato questo documento.” “E che cosa ci sarebbe scritto?” domandò la Regina. “Non l’ho ancora aperto”, rispose il Coniglio Bianco. “Ma sembra una lettera, scritta proprio dall’imputato a… qualcuno.” “Ah, be’, per forza”, osservò il Re. “A meno che non l’abbia scritta a nessuno in particolare. Fatto piuttosto insolito, vorrei ben dire.” “A chi è diretta?” domandò uno dei giurati. “A nessuno in particolare”, rispose il Coniglio Bianco. “Infatti sull’esterno non c’è scritto nulla.” Poi dispiegò il documento e aggiunse: “Non è una lettera, mi correggo. È una poesia”. “Scritta nella calligrafia dell’imputato?” domandò un altro membro della giuria. “No. E questo mi pare un dettaglio davvero peculiare”, rispose il Coniglio Bianco. (Con grande confusione della giuria.) “Be’, avrà sicuramente copiato la calligrafia di qualcun altro”, insinuò il Re. (Con grande sollievo della giuria.) “Chiedo venia, Vostra Maestà”, intervenne il Fante. “Ma non l’ho scritta io, e non può essere provato il contrario, dato che non è firmata.”

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“Il fatto che non l’hai firmata”, s’inalberò il Re, “peggiora soltanto la situazione. Avevi di sicuro qualcosa da nascondere, altrimenti avresti apposto il tuo nome come tutti gli uomini onesti”. Un tripudio di applausi accolse quelle parole: era la prima vera cosa sensata detta dal Re quel giorno. “Questo prova la tua colpevolezza”, inveì la Regina. “Ma non prova proprio un bel niente, invece!” intervenne Alice. “Non sapete nemmeno di che cosa parla!” “Leggila”, ordinò allora il Re. Il Coniglio Bianco inforcò gli occhialetti. “Da dove inizio, Vostra Maestà?” domandò intimorito. “Inizia dall’inizio”, rispose il Re ossequioso. “E procedi fino alla fine. A quel punto interrompiti pure.” E così il Coniglio Bianco si apprestò a leggere i seguenti versi: Mi han detto che l’hai vista E che a lui di me hai parlato Di me dice: “È un asso in pista, Ma col nuoto è assai negato!”

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Per lei non son partito (e sappiamo essere il vero) Ma se insiste e punta il dito Che ne sarà di te, oh mio fiero? Io una a lei, e loro a lui ben due Poi tre ne hai date tu Son tornate come tue Eran mie e non tornan più. Ma se io o lei finiamo Invischiati in questo affare Io e te li liberiamo Lui ci conta, il criminale. Sei tu per me oracolo, Ben prima che lei fe’ Ad essere un ostacolo Tra lui, noi due e voi tre. Ma non dir che a lei piaceva Un segreto ha da restar Nessuno lo sapeva Non deve trapelar! “È la prova più schiacciante raccolta finora”, commentò il Re fregandosi le mani. “E quindi ora la giuria può beniss…” “Se anche uno solo di loro è in grado di spiegarmela”, lo interruppe Alice (che in quegli ultimi momenti era cresciuta talmente tanto da non provare più alcun timore a interrompere il Re), “darò a ognuno di voi mezzo scellino di tasca mia! Io non ci vedo un briciolo di senso”. I giurati si affrettarono tutti a scrivere: “Lei non ci vede un briciolo di senso”, ma nessuno si lanciò nel tentativo di spiegare il documento. “Be’, se non c’è alcun significato, tanto meglio”, prese allora a dire il Re. “Così ci risparmiamo la fatica di doverlo cercare. Anche se non sono poi così sicuro”, proseguì aprendo la pergamena sulle gambe e sbirciando il testo con un occhio solo. “Io un po’ di significato ce lo vedo, in fondo. Dice: ‘Ma col nuoto è assai negato’. Be’, tu non te la cavi bene in acqua, no?” domandò al Fante. Il Fante scosse la testa affranto e rispose: “Vi sembro il tipo?”. (Decisamente no, dato che era fatto interamente di cartoncino.) “Fin qui, torna tutto”, disse il Re, che proseguì a leggere e borbottare tra i denti. “Ecco:

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Sappiamo essere il vero si riferisce alla giuria, naturalmente. E Io una a lei e loro a lui ben due, poi tre ne hai date tu parla proprio esplicitamente delle tartine, non può essere che così!” “Ma poi prosegue! Son tornate come tue, c’è scritto!” puntualizzò Alice. “E lo credo bene! Infatti erano le mie! E ora eccole lì!” tuonò il Re trionfante indicando le tartine. “È sotto gli occhi di tutti! E poi dice anche: Ben prima che lei fe’, e tu hai per caso fatto qualcosa, mia cara?” domandò rivolto alla Regina. “Mai fatto niente in vita mia!” rispose la Regina furiosa, che nella foga scagliò in aria un calamaio centrando in pieno la povera Lucertola. (Parc… ehm Marcella intanto si era arresa e aveva smesso di scrivere con il dito sulla lavagnetta, dato che non lasciava traccia alcuna. Ma come si vide piombare addosso quella cascata di inchiostro, la Lucertola prese a scrivere tutta accalorata per non sprecare nemmeno una delle gocce che le colavano giù dal musetto.) “E allora non fa niente!” disse il Re guardandosi intorno con un sorrisino compiaciuto. Ma la battuta venne accolta con un silenzio raggelante. “Era solo un gioco di parole!” s’imbufalì il Re. Al che ovviamente tutti risero. “Venga emesso il verdetto”, tuonò poi, per la ventesima volta quel giorno. “No, no!” proruppe la Regina. “Prima la sentenza, poi il verdetto!” “Ma che stupidaggine è mai questa?” intervenne Alice a voce altissima. “Prima la sentenza e poi il verdetto, ma come vi viene in mente?” “Chiudi il becco!” la rimbrottò la Regina viola in volto. “Ma non ci penso neanche!” reagì Alice.

strillò la Regina con tutta la voce che aveva in corpo. Nessuno si mosse.

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“Ma chi vi credete di essere?” tuonò Alice (che intanto era cresciuta ancora fino a raggiungere la sua statura normale).

A quelle parole l’intero mazzo di carte schizzò in aria e le si rovesciò addosso come una cascata. Lei reagì con un urletto, mezzo di paura e mezzo di rabbia, e provò a scacciarle via agitando braccia e mani, quando tutto d’un tratto si ritrovò di nuovo sul prato con la testa appoggiata in grembo alla sorella, che le toglieva delicatamente dal viso alcune foglie cadute dagli alberi.


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