Come un arco teso

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Eugenia Dal Bò

Come un arco teso Autobiografia di una figlia del Risorgimento Diario vincitore del Premio Pieve Saverio Tutino 2019

Con il contributo di


Nota dell’editore ll diario che qui pubblichiamo è stato sottoposto al vaglio di una commissione redazionale composta dalla curatrice del libro e dai responsabili della Fondazione Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, che hanno definito i criteri di pubblicazione e hanno approvato il risultato editoriale. La normale operazione editoriale di revisione di un testo necessita di cure particolari nel caso di diari, memorie ed epistolari; per questo motivo, i criteri adottati variano in relazione al tipo di testo autobiografico pubblicato. In questo caso sono stati apportati alcuni tagli, puntualmente indicati da punti di sospensione all’interno di parentesi quadre.


Novembre 1939

È molto difficile – io penso – scrivendo di sé, rimanere nell’assoluta sincerità con noi stessi: molto facile invece, esser ingannati e tratti ad ingannare dal proprio intimo desiderio di apparire migliori di quanto siamo; molto facile modificare insensibilmente avvenimenti e caratteri delle persone care, secondo che il nostro cuore vorrebbe fossero stati. Perciò, accingendomi a richiamare alla memoria la mia vita passata, vorrei evitare questa piccola disonestà, vorrei poter rimanere nella verità assoluta, per quanto il lungo tempo trascorso, mi renda difficile il compito. Se qualcuno leggerà queste mie memorie saprà almeno che ho messo tutto il mio impegno a non deviare da questa via che mi sono imposta a priori: essere sincera anche a costo di non fare bella figura. Sono nata a Milano il 23 dicembre 1867: mio padre – veneto, anzi cadorino – era uscito da poco più di un anno (ottobre 1866) dalla fortezza austriaca di Petervaradino ultima delle varie fortezze in cui era stato rinchiuso, dopo che il processo per “alto tradimento” gli aveva inflitto la condanna a 12 anni di carcere durissimo. Il processo, durato sedici mesi, aveva avuto luogo a Venezia e proprio nell’isola di San Giorgio dov’erano rin25


chiusi i cinque imputati (dal Bò - Brinis - Morolin - Fusinato - Zanetti) ed era terminato con l’assoluzione del conte Morolin e dell’avv.to Clemente Fusinato (fratello del poeta Arnaldo) e la condanna di dal Bò e Brinis a 12 anni di carcere durissimo e di Zanetti a 10 anni. Di questa triste vicenda fu tutta piena la mia infanzia per i racconti che ne sentivo fare: la mia anima ed il mio cuore si volsero ad una sconfinata ammirazione e devozione verso il martire glorioso che aveva con tanta fierezza sopportata la pena e l’ingiustizia e che era mio padre. Egli, che aveva nel 1845 combattuto per la difesa del Cadore con Pietro Calvi e poi, fra i Cacciatori del Sile, nelle truppe comandate dal generale Zucchi, e che era stato ferito a Visco, in pieno petto da bajonetta austriaca, non parlava mai di sé; ma, oltre la mamma che, avendo preso parte attivissima alle vicende del processo, ne parlava molto volentieri, c’era in casa quando io nacqui un chioggiotto affezionatissimo a papà ch’egli aveva conosciuto in carcere, avendone conforto ed aiuto. Questa brava creatura, pescatore di mestiere, di cuore e d’animo fiero ed ardente di amor patrio, si era prestato a trasportare con la sua barca quei giovani che emigravano dal veneto onde arruolarsi nelle file dell’esercito italiano con la speranza della guerra di liberazione per le nostre terre oppresse ancora dallo straniero. Il viaggio era pieno di rischi, perché l’Austria vigilava; ogni emigrato però era un soldato di più contro il nemico della sua patria ed il buon Luigi Spagno era orgoglioso dell’opera sua. Ma, colto in fragrante, fu messo in carcere all’isola di San Giorgio dove era – ancora sotto processo – mio padre. Dopo il processo, Spagno gli fu compagno anche nelle fortezze austriache, anzi la fortuna volle che non si lasciassero più fino al giorno della liberazione del fido chioggiotto. Tornato a Venezia, questi aveva tro26


vato la famiglia distrutta: un fratello che, come lui, si era prestato all’emigrazione clandestina, morto in carcere e la madre morta di crepacuore ed oltre a ciò, la barca confiscata. Andò a portare i saluti del prigioniero rimasto lassù, alla Follina dove la mia mamma si era rifugiata, con le sue due bambine ed il figliastro, che le era caro come un figlio, presso suo padre il Sig.r Antonio Bugo, mio nonno. Andava il buon chioggiotto a portare a quelle creature il saluto del prigioniero che, pur sperando nella liberazione della patria e sua per conseguenza, era ancora in catene e sopportava stoicamente la pena inflittagli; Spagno baciava i bambini, guardava la giovane sposa afflitta e le lacrime gli cadevano copiose dagli occhi pensando al padre, al marito lontano, al Sior Eugenio pel quale egli aveva un culto. Quella sua commozione, la semplicità della sua anima e del suo cuore indussero il nonno ad invitarlo a rimanere presso di loro ed egli rimase e fece da quel giorno parte della famiglia: e da lui noi figliuoli attingemmo le semplici e commoventi narrazioni che ci parlavano dell’eroismo e della fierezza indomita di papà che era, per Luigi Spagno, un idolo e come tale venerato. [...] La famiglia era cresciuta con me e doveva accrescersi poi con un’altra piccola sorellina – Nella – e cinque figliuoli non erano pochi e mio padre non lavorava. Appena uscito dal carcere e ritornato in patria – nel 1866 – dopo la liberazione del Veneto, egli era stato consigliato a far valere i suoi diritti ad un risarcimento dei danni sofferti. L’Austria infatti gli aveva confiscato una villa e terreni a Strà, in provincia di Venezia, ed una casa in Venezia: per fortuna la dote della mamma che, per quei tempi, era cospicua, era stata, dal nonno tenuta separata. Quella non poté essere perciò confiscata e fu poi il fonda27


mento della nuova famiglia, quantunque il processo ed il resto che venne poi, ne avessero consumato buona parte. A proposito della villa di Strà – dov’erano nate tutte e due le mie sorelle – la seconda venti giorni dopo l’arresto di papà – ho sentito più volte ricordare una circostanza che dipinge i tempi e gli uomini e che io voglio notare perché fa onore alla gente veneta. Confiscati i beni dei condannati, l’Austria li metteva all’asta: i veri patriotti si sarebbero guardati bene dal comperare i beni confiscati ad un fratello benché fossero offerti per un boccone di pane; ma c’è sempre chi non ha scrupoli e fa il suo interesse dove lo trova. Così avvenne che la villetta di Strà ed i terreni annessi furono comperati da un italiano il quale pensò subito di prenderne possesso. Mio padre e mia madre erano molto ben voluti a Strà ed il compianto per la famigliola che aveva visto portare via il suo capo era stato unanime nel paese: naturale quindi che non fosse veduto di buon occhio colui che aveva tratto profitto dalla disgrazia di un suo compatriotta il quale era reo di amare il suo Paese e di volerlo libero dalla dominazione straniera. Quando il nuovo proprietario e la famiglia andarono ad abitare la villetta, trovarono intorno a loro tanta ostilità da esserne preoccupati. Nessun mercante voleva vender loro le derrate e, se non vollero morir di fame, dovettero partirsene, comprendendo a proprie spese quanto poco onorevole fosse stata la loro condotta e come la povera gente di Strà avesse più forte di loro il senso della fraternità umana. Torno sui miei passi per ricordare quanto dicevo intorno ai consigli che venivano dati a mio padre, di farsi avanti per il risarcimento dei danni subiti. Era allora Ministro delle Finanze il Leismith Doda, compagno di fede patriottica ed amico di papà mio, che gli scrisse dicendogli press’a poco così: “Tu sai come ciò ch’io feci non fu consigliato che dal cuore e 28


dall’animo che furono sempre devoti al mio Paese: per la stessa causa molti sono morti: io sono ancora vivo e sono tornato alla mia famiglia. Possono essere indennizzati i morti, i quali hanno dato tanto più di me che ho conservato la vita e posso ancora lavorare per i miei figliuoli? Datemi lavoro, non chiedo che questo.” Ed il suo compagno di fede e di ideali lo mise in posizione tale per cui l’avvenire della sua famiglia poteva essere assicurato. Le narrazioni degli avvenimenti passati, specialmente quelli che riguardavano l’arresto, il processo e la prigionia di papà mio riempirono, come dissi, la mia infanzia; in quei tempi gli animi erano ancora eccitati ed il racconto di ciò che la mia famiglia aveva sofferto interessava molto amici e conoscenti che ne chiedevano i particolari e non se ne stancavano mai. Come dicevo, papà parlava il meno possibile di sé; ma gli era caro ricordare quello che la sua Angelina aveva fatto con animo virile, sfidando spesso il carcere, per essergli di aiuto e di conforto, specialmente durante il processo. Tutte le astuzie che ella aveva escogitato per poter liberamente dire l’animo suo al marito ed informarlo di ciò ch’ella riusciva a sapere: durante il processo, ella aveva avuto, naturalmente, l’autorizzazione di portare il pranzo al prigioniero: una caffettiera a doppio fondo recava nel carcere le notizie più sensazionali che a voce, per la presenza dei gendarmi austriaci, sempre vigili, non avrebbero potuto essere dette: e riportava fuori le dolci parole d’amore e di conforto per la giovine sposa che era, così ripagata del suo zelo e della sua intelligente bontà. Mio padre, vedovo due volte prima di sposare la mia mamma, aveva ventun anni più di lei! Per alleviare la noia delle lunghe ore oziose, il prigioniero, ingegnosissimo ed artista nell’anima, aveva pensato di trar partito dai nocciuoli delle pesche che la mamma gli portava col 29


pranzo. Senza rivelare alla moglie il suo intento, con un chiodo ed un pezzo di vetro, seppe lavorare così bene i mezzi nocciuoli, da farne, infilati poi in un elastico, un grazioso braccialetto ch’egli pose, una bella mattina, al polso della sua donna. È ancora in mia mano quel prezioso pegno d’amore! Immaginate come la mia mamma ne fosse contenta: raccontò poi, orgogliosa, al marito, che tutte le sue amiche avevano ammirato il braccialetto ch’ella portava e ne erano invidiose. Questo influì a far mettere in atto un progetto che era già venuto in mente ai prigionieri: dopo il primo esempio dato da mio padre, ognuno si era provato e chi più, chi meno bene, tutti però erano riusciti a far qualche cosa e fu allora che nacque l’idea di lavorare per guadagnar denaro ed ingrossare la cassa della loro Associazione che aveva per scopo di favorire l’emigrazione dei giovani e contribuire a provvedere armi e denaro al Piemonte per la guerra. Vi si aggiungeva anche, allora, il dovere di soccorrere le famiglie dei carcerati poveri. La mamma mia, sempre pronta a concorrere con l’opera sua, portò in carcere qualche strumento che fu permesso dall’autorità militare e qualche altro, non permesso, entrò ugualmente, complice la moda della crinolina. Provvide anche delle perline, qualche pietruzza da incastrare nel lavoro, come provvide a portare fuori gli oggetti lavorati, a farli rilegare: spille, orecchini, braccialetti, bottoni da camicie e da polsi furono poi venduti a Venezia ed in tutto il Veneto, e ben pagati perché se ne conosceva la provenienza, e le signore si mostravano superbe di rivelare in tal modo il loro patriottismo. Arrivarono, i prigionieri, a tanta valentia nel loro lavoro che nacque fra di loro l’ambiziosa idea di mandare al re Vittorio Emanuele II un pegno della loro devozione: fu trovato l’emissario che si sarebbe preso l’impegno 30


di consegnare il loro lavoro ad un emigrato veneziano a Torino, il quale a sua volta avrebbe offerto a S.M. il Re Galantuomo il lavoro dei patriotti veneziani. La cosa riuscì e S.M. gradì molto il lavoro (bottoni da camicia e da polsi) ed offrì diecimila lire che andarono ad ingrossare la cassa, come tutti gli altri guadagni. Anche dopo la condanna nella fortezza in cui era relegato mio padre continuò a lavorare e poiché in Boemia e in Croazia non poteva certo avere le pesche, lavorò il cuoio che gli fu permesso di avere e fece delle cose graziosissime, sempre dedicate ai suoi cari. La mamma trovò, un giorno segnato su di un calendario, Sant’Eugenio il 2 di giugno: quell’anno il giorno due di giugno cadeva di domenica e tutta l’Italia festeggiava, come si fa ancora, solennemente, lo Statuto nella prima domenica di giugno: col calendario in mano ella andò alla direzione delle carceri e, mostrando il sant’Eugenio ivi segnato, chiese di poter portare, per far festa al marito, il pranzo per tutti e cinque gl’imputati. Le fu concesso quanto chiedeva perché non si pensò alla coincidenza della festa italiana; e la mamma attuò il suo progetto che nell’animo suo era di far celebrare ai cinque patriotti la grande festa italiana: portò in carcere un abbondante e buon desinare innaffiato da buon vino e, alla fine, lo spumante permise di brindare – sotto gli occhi dei gendarmi austriaci – allo Statuto che, per l’occasione era diventato Sant’Eugenio. Da quel giorno tutti gli Eugeni e le Eugenie di casa dal Bò e derivati festeggiano Sant’Eugenio il due di giugno; ma quest’anno, il 1939, la cosa fu sanzionata perché il Sommo Pontefice, che si chiama Eugenio, festeggia anch’egli la stessa data. Il processo andava molto in lungo e le sue sorti sembravano di più in più disperate: nacque allora l’idea dell’evasione. Chi ha presente l’isola di San Giorgio, può comprendere 31


benissimo come quest’idea abbia potuto nascere: le celle avevano una parete esterna che, bucata, avrebbe potuto dar modo ai prigionieri di effettuare la fuga, se una barca si fosse trovata pronta là sotto. Fu necessaria un’organizzazione minuziosa di tutto quanto occorresse e la mamma mia ne fu l’anima: ella portò – sempre con la complicità della moda – gl’istrumenti necessari: il nonno Bugo trovò il barcaiolo ardito che accettò l’incarico, pur avendo coscienza che pendeva sulla sua testa la spada di Damocle: e i prigionieri lavorarono durante la notte con tale prudenza che l’apertura – coperta di giorno dal letto postovi avanti – era già a buon punto, quando si accorsero che era necessaria una lanterna cieca, la quale aveva allora dimensioni tali da non poter essere nascosta nella crinolina, per quanto voluminosa. La mia mamma, allora giovanissima e molto bella, non si perdette d’animo: fece con le sue mani un bel croccante il quale – vuoto di dentro – potesse contenere la famosa lanterna: lo adornò di canditi e di confetti e lo portò al carcere col pranzo solito. Appena scesa dalla gondola, preso in mano il piatto col croccante, chiese di poter parlare col capitano di guardia. Le vivande ch’ella portava, dovevano, prima di entrare, essere esaminate dal sergente sotto gli occhi del quale ella passò col suo croccante ed entrata nell’ufficio del capitano di guardia lo pregò – rossa in volto per l’emozione e con la voce tremante – di esaminare egli stesso quel dolce ch’ella aveva fatto per suo marito, il quale non lo avrebbe gustato se fosse prima passato per le mani dei soldati di guardia. Il capitano, cavallerescamente – ed ella su questo aveva contato – la fece passare e così passò anche la famosa lanterna cieca. Ma la fuga non fu effettuata perché il poeta Arnaldo Fusinato e sua moglie Erminia Foà Fusinato, avevano dimostrato alla mamma mia il gravissimo 32


pericolo cui si sarebbero esposti gl’imputati, e l’avevano convinta ad insistere presso suo marito perché la fuga fosse sospesa, almeno fino a che fosse tornato da Vienna un frate francescano – padre Francesco Giuseppe – molto vicino all’imperatore, anzi – come si sussurrava – legato a lui da vincoli di sangue e che, comunque, aveva libera entrata a corte, il quale si era ripromesso – così dicevano i Fusinato – di ottenere l’assoluzione per tutti gl’imputati. La promessa era troppo bella per la mia mamma perché ella non accettasse l’incarico di far sospendere il tentativo che faceva tremare anche a lei il cuore; ma il ritardo fece sì che la cosa fosse scoperta e maggior rigore fosse usato presso i prigionieri. D’altra parte il padre Francesco Giuseppe era ritornato da Vienna avendo ottenuto quello che aveva promesso solo per due dei prigionieri, Marolin e Clemente Fusinato: gli altri tre, come dissi, furono condannati. L’avv.to Clemente Fusinato soffrì tanto della sua liberazione – la quale lo metteva in sospetto ai patriotti – che finì, qualche tempo dopo, al manicomio. Ho sempre udito mio padre difendere il suo compagno di fede, accusando invece il fratello e la cognata di averlo rovinato. Così finì il processo di San Giorgio, l’ultimo processo per alto tradimento tenuto dall’Austria nel Veneto: esso era stato da principio imbastito dalla Polizia, la quale ne voleva forse ingrandire le proporzioni per farsene un merito. Intervenne il Benedeck che comandava il Corpo d’Armata di Verona e lo volle avocare all’autorità militare, nauseato forse dei metodi polizieschi. [...] Questi fervidi racconti, adornati di molti particolari interessantissimi, ch’io ho qui riassunto e che da piccina io ascoltavo a bocca aperta esaltandomi, mi portarono un giorno – avrò avuto forse cinque anni appena – ad affermare che quando ci fosse la guerra contro l’Austria, per la liberazione delle terre ancora irredente, sarei andata 33


anch’io a combattere. La dichiarazione piacque molto a papà mio ed ai suoi amici che me la facevano ripetere spesso divertendosene un mondo. Chi l’avrebbe pensato, allora, ch’io avrei proprio, molti e molti anni dopo, preso parte alla guerra italo-austriaca, come infermiera volontaria? Quando io venni al mondo, a Milano, la famiglia era colà stabilita per l’occupazione di mio padre il quale viaggiava molto; ma aveva il suo ufficio a Milano. Si abitava in Corso Porta Venezia, dirimpetto ai giardini pubblici, quindi io fui battezzata – con rito ambrosiano – in San Babila che era la nostra parrocchia. Quando papà andò alla chiesa per prendere gli accordi per la cerimonia, gli fu chiesto se voleva la credenza intera o la mezza credenza: stupefatto, chiese di che si trattasse e gli spiegarono che la cosa consisteva nell’esposizione – durante la cerimonia del battesimo – di dodici piatti d’argento per la credenza intera e di sei piatti per mezza credenza: naturalmente variava anche il prezzo per la cerimonia. Mio padre che era un libero pensatore, ma che voleva adempiere i desideri della mamma – la quale era molto religiosa – stette un po’ in forse, ma si decise per la mezza credenza pensando che ciò non diminuiva la cerimonia religiosa se non nella forma esteriore. E molto spesso a quel ricordo sorrideva compiangendomi perché ero stata battezzata “a mezza credenza!”. Ho sempre ammirato i rapporti dei miei genitori su questo punto: ognuno di loro era liberissimo in fatto di coscienza: ognuno rispettava le idee dell’altro. La mamma era stata lasciata signora assoluta per l’educazione religiosa dei figliuoli ed ella che era profondamente religiosa, senza essere bigotta, era grata al marito il quale mai, né in atti, né in parole, si mise fra lei ed i loro figli. Mi ricordo che, a quindici anni, io non sapevo ancora 34


nulla delle idee di mio padre in fatto di religione: quando gli domandavamo perché non venisse a Messa con noi, rispondeva: “Io vado a Messa la mattina alle cinque, quando voi dormite ancora”. Infatti egli era molto mattiniero e noi figliuoli potevamo credere a questa sua affermazione che in seguito io ho assai ammirato come la prova di una squisita gentilezza che non voleva turbare il nostro sentimento religioso: quando poi egli si accorse ch’io andavo avvicinandomi alle sue idee, ne fu molto soddisfatto; ma non aveva mai fatto nulla perché questo avvenisse. Ho avuto molte volte la prova di famiglie devastate dalle lotte di coscienza in cui nessuno voleva cedere ed ognuno pretendeva essere dalla parte della verità; e davanti a quegli esempi ho sempre pensato con gratitudine e con ammirazione ai miei genitori che, rispettando le idee l’uno dell’altro, uniti nell’affetto e nella stima reciproca, sapevano elevarsi con l’animo ad una sfera in cui tutto si poteva comprendere. Il primo ricordo della mia infanzia fu, per molti anni, un’incognita per me: vedevo la grande scalinata con balaustra marmorea di un palazzo del quale mi apparivano anche delle sale con alti soffitti affrescati. Tutte le fiabe che la vecchia Marta in casa del nonno mi raccontava, tutti i racconti che sentivo, per me avevano la loro sede in quel meraviglioso ambiente. Tornando, all’età di otto anni, a Bologna – dove la mia famiglia aveva abitato, durante un anno, appena venuta via da Milano cioè sei mesi dopo la mia nascita – e condotta dalla mia mamma a far visita ad una sua amica che abitava nel palazzo Bianconcini, ove la mia famiglia aveva abitato sette anni circa avanti, io mi trovai – meravigliatissima – in quell’ambiente lussuoso che aveva animato tutte le favole, tutti i racconti della mia infanzia e ch’io credevo nato solo nella mia fantasia. 35


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