MARINA LAZZATI
DA MAI PIÙ AAppuntiPER SEMPRE di viaggio
Ai nostri figli, Martino, Ilaria, Giovanni e Giacomo, e ai loro cammini sui sentieri della vita. A Camilla che ci ha fatto diventare nonni. A mia madre che era al mio fianco quando a lui si è fermato il cuore.
Incipit
“Mamma oggi ti faccio un regalo: andiamo nel tuo amato bosco a cercare funghi.” Si sa, cercare funghi può essere una grande gioia ma anche un gran patimento. Io mi riconosco nella seconda opzione. Non amo camminare scrutando per terra, cercando qualcosa che non apprezzo poi così tanto. Quel giorno, dopo aver salutato Marco al mattino presto mentre usciva di casa per andare a fare una gita, ero libera da impegni e avevo deciso di dedicarlo a mia mamma e farle il più bel regalo che potesse immaginare. Era stata appena dimessa dall’ospedale dopo un breve ricovero per un Tia (Transient ischemic attack-attacco ischemico transitorio), e per lei, quasi novantenne, andare a raccogliere funghi era come toccare il cielo con un dito. Siamo partite con la sua auto, una Yaris di colore grigio metallizzato, in verità un po’ tardi per trovare funghi. Erano circa le 10 del mattino. La giornata era molto calda anche in alta montagna. Il cielo azzurro e un po’ afoso. Per raggiungere il suo luogo preferito e “segreto” avremmo dovuto percorrere circa mezz’ora di strada in valle, l’En5
gadina, e poi deviare in una piccola carrozzabile per arrivare al bosco. Proprio poco dopo il bivio, di colpo sentii un dolore potente al cuore che quasi mi paralizzò. Non volevo spaventare mia madre e quindi, senza dirle nulla, semplicemente rallentai. Sulla strada secondaria, grazie a Dio, non stava arrivando nessuno. Accostai l’auto con una scusa banale. Quasi non respiravo. Il dolore continuava e pensai che mi stesse venendo un infarto. “Com’è possibile un infarto proprio ora? E come faccio qui sola con la mamma?” Prima dell’estate avevo fatto parecchi controlli medici, anche l’elettrocardiogramma, e andava tutto bene. Provai a toccarmi il braccio sinistro ma, sempre per non allarmare la mamma, decisi di riprendere a guidare piano piano. Intanto pensavo: “Quando torno a Milano chiederò un nuovo appuntamento al cardiologo perché questo dolore non mi piace affatto!” Arrivammo fino all’ampio parcheggio in cui finisce la stradina. Entrammo a piedi nel bosco con i nostri cestini. Il dolore al cuore misteriosamente scomparve così come era arrivato. Ci volle qualche tempo per mettere insieme i pezzi di quella giornata, e riuscire a collegare il dolore acuto e il momento in cui l’infermiere dell’ospedale di Samedan – di cui ricordo ancora oggi il volto –, qualche ora dopo, mi dice: “Ecco signora, questi sono gli effetti personali di suo marito”. E mi consegna in un sacchettino trasparente la sua fede e il suo orologio, oltre allo zaino e ai vestiti insanguinati. Attonita e smarrita li guardo e, non so come, noto che l’orologio ha smesso di funzionare. Marco deve aver preso un gran colpo, penso, anche l’orologio si è fermato all’ora in cui è caduto sulle rocce, ha battuto forte il collo ed è morto. Le 10.25. 6
Lo stesso momento in cui, nell’auto con la mamma, rallento e accosto per il dolore che mi stringe il cuore e mi toglie il fiato. A distanza, senza alcuna comunicazione, i nostri corpi si erano parlati. Il suo ci stava lasciando, il mio accusava il dolore. I corpi di una coppia che si ama sono uniti e quando uno dei due lascia la terra l’altro rimane ferito. Non mi era mai capitato prima di quel giorno di sentire solo con il corpo un evento che accadeva a distanza e apparteneva alla mia vita. Il corpo precedeva il resto di me. Il corpo è stata la sentinella dell’esperienza più dolorosa della mia vita. Le riflessioni, che nel tempo ho coltivato, si fanno carne: sento che la vita non ha fine, è un’unica vita, solo che dopo la morte prende una nuova forma, misteriosa e incomprensibile. Anche il corpo che ho amato e che insieme al mio ha generato vita, non può finire solo in polvere. Lì ho avuto l’intuizione della resurrezione dei corpi. Sento che siamo immersi in un mistero molto più grande di noi e più grande di tutto quello che riesco a vedere, capire e sentire. Non temo l’immensità che non riesco a comprendere: semplicemente mi fido e mi affido a Dio e all’immensità per scoprire che l’amore supera la morte. E la morte la vedo come la porta che ci permette di continuare la vita in forma diversa: anche il corpo può prendere una nuova forma e così continuare ad amare.
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Linee verticali e orizzontali
Se il dolore si annida nella nostra vita come ospite indesiderato, allora si è davanti alla grande sfida di trovare una strada insieme al dolore. Iris Paxino
Il dolore per un lutto non ha unità di misura. Ogni dolore è unico, come lo sono le relazioni. Oggi so che non aiuta, anzi fa male paragonare i differenti dolori. “Non c’è dolore più grande che perdere un figlio o un genitore quando si è piccoli…” Sono frasi che non mi consolano, anzi mi feriscono. Osservo che chi esprime questi pensieri non ha subìto una grave perdita familiare. Ho scoperto, invece, che chi vive un lutto importante sa che i dolori non sono confrontabili, non si possono pesare o misurare. Sono solamente unici e totali. Il giorno in cui mia cugina mi scrisse “non vedo più futuro nella nostra vita” aveva da poco perso la figlia, la loro unica figlia, e mi sono di colpo tornate in mente le linee con cui all’università ho imparato a visualizzare le relazioni familiari per costruire il genogramma, uno strumento di lavoro che poi ho sempre utilizzato: le linee orizzontali rappresentano le relazioni paritarie, quella tra coniugi e quella tra fratelli; la linea verticale rappresenta le relazioni tra le generazioni, che per definizione non sono paritarie, in particolare quella tra genitori e figli, che 9
attraversa il tempo. Se viene a mancare una persona che sta sulla linea orizzontale si perde la condivisione della vita, la condivisione più intima e profonda; ogni gioia e ogni dolore non si può più “vivere con”. Viene a mancare il “con” della vita. Se, invece, scompare una persona sulla linea verticale si perde “il prima” (i genitori) o “il poi” (i figli) della vita. Il prima si sa, a un certo punto diventa naturale poterlo perdere, ma se accade troppo presto diventa molto arduo il cammino da percorrere senza chi si prende cura di noi, senza il principale punto di riferimento. Perdere il poi appare invece contro natura perché si perde il futuro, il guardare oltre a noi. Avrei voluto dire a mia cugina “condividi più che puoi il tuo dolore con chi ti è accanto e ti ama” e intanto, per quanto riguarda me, sono grata al futuro che mi si apre innanzi guardando i nostri figli e nipoti. Le nuove generazioni sono ri-generanti. Mi fa riflettere che per alcuni lutti familiari ci sono delle definizioni sociali; difficili da accettare sulla propria pelle, ma esistono e rendono visibili e riconoscibili chi vive in quello stato: vedovi e orfani. Per altri non ci sono affatto: chi perde un figlio, una figlia o un fratello, una sorella come vengono definiti dalla società? Un’amica ha scritto un bel libro che ha questo titolo Orfana di mia figlia. Non trovava altri termini per definirsi. La morte ha capovolto una relazione: orfani sono due genitori. A loro una figlia è stata “rapita” dalla vita.
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Quaderni
Scrivere non è niente più di un sogno che porta consiglio. Jorge Luis Borges
“Marina scrivi; puoi scrivere, anche un libro.” “Forse sì, non ora però, è troppo presto.” Sono nello studio di Rita, che si sta prendendo cura di me, qualche settimana dopo il 26 agosto, il giorno che ha stravolto la mia esistenza. Il 26 agosto 2017 porta in sé una fine e un inizio. Il dolore al cuore è tornato più volte. Il corpo frantumato l’ho vissuto a lungo. Ho avuto bisogno di trovare qualcuno che si prendesse cura di me e lo rimettesse insieme. Tutta abitata dal dolore la vita mi chiede di ri-partire; sì, perché il tempo su questa terra non si ferma mai, va sempre avanti. E se anche volessi bloccarlo, anzi, se volessi farlo tornare indietro, anche solo di un giorno o di qualche ora, non potrei. Da lì, dal dolore profondissimo, devo ri-cominciare a vivere giorno dopo giorno, notte dopo notte. “Signora ha capito cosa è successo?” Non rispondo, non ho la forza, devo solo sdraiarmi sul lettino del Pronto soccorso dell’ospedale di Samedan. L’energia vitale se ne è andata dal mio corpo. “Sì, ho capito, forse 11
ho capito”, dico con un filo di voce. Come posso non capire? Tutto intorno mi dice ciò che non posso, non voglio sentire e capire: “Marco non c’è più, Marco è morto”. In una scena surreale Francesca, nostra nipote, sua compagna di gita e unica testimone, risponde all’interrogatorio della Polizia. Io sdraiata, respiro a fatica e ascolto cosa è successo... “E poi improvvisamente è caduto in modo banale, forse gli è scivolato un piede o una mano o si è spostato un sasso sotto un piede, non so, è caduto all’indietro ha battuto il collo, la testa e… è rotolato giù qualche metro…” Hai ragione Rita, scrivere fa bene, aiuta, perché tutti i pensieri, le parole, i ricordi, i desideri non riescono a stare nella testa e nel cuore, vanno depositati. Da allora li scrivo, di quando in quando, su quaderni che tengo vicino al mio letto e li dedico tutti a Marco come se fosse un diario di viaggio pensato per lui. Ora, dopo anni, gli voglio dare una forma, un ordine e pensare di scrivere un libro può essere ancora più d’aiuto non solo a me, forse anche ad altri. È arrivato il momento. Ci provo. Vorrei raccogliere pensieri, riflessioni, incontri, fatiche di un viaggio che è iniziato e che continua, senza sapere quando finisce; so, però, qual è la méta. “Il viaggio non finirà nel nulla ma in un abbraccio.” Ho letto questa frase di Ermes Ronchi il giorno di Pasqua del 2018, la mia prima Pasqua da sola, alla fraternità di Romena, e mi piace pensare a un abbraccio come méta del viaggio. Un abbraccio forte, infinito ed eterno. Un viaggio nel tempo, così come lo conosciamo noi su questa terra inizia nel passato, si prolunga nel presente (mai più) e va verso futuro (per sempre). Sul cammino scopro tanto di me stessa, degli altri, del mondo; accolgo 12
nuovi incontri, osservo con un sguardo rinnovato, ma non ho più il compagno di vita al mio fianco: Marco. Chissà, mi piace pensare che mi possa ancora accompagnare, come può fare solo lui, fino alla mèta dove l’Amore non può che essere per sempre.
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