Hammangi
A ovest di Tripoli, poco fuori le mura della medina, si trova una grande rotatoria che gli europei che vivono qui, usando un’immagine tipicamente islamica, definiscono “la madre di tutte le rotonde”. È la zona del Souk Thalata, lo storico mercato del martedì, e da qui si dipartono tutte le maggiori arterie della circolazione della città, la Gargaresh, la Gurgi, la Omar al Mukhtar, strade che ancora nel dopoguerra erano piste di sabbia e che ora sono importanti vie commerciali. Da una delle rampe della rotonda si dirama un’improvvisa uscita secondaria, un accesso difficile nel traffico convulso di questa zona. È una stretta strada sterrata e porta all’ingresso del cimitero cristiano di Hammangi. Questo cimitero è un ritrovo importante per tutte le comunità non musulmane di Tripoli, ed è un luogo assai singolare da molti punti di vista. Fu costruito negli anni Venti in sostituzione del vecchio cimitero cristiano cattolico e ortodosso che si trovava dentro le mura della città vecchia, nel luogo dove più tardi venne innalzato un monumento della vittoria e poi, in tempi recenti, un’impo32
nente cisterna d’acqua. Il nuovo cimitero di Hammangi venne dotato di una piccola cappella, di ossari militari per i caduti della guerra italo-turca e di ordinati campi di sepoltura per i cittadini d’oltremare. Sezioni specifiche vennero riservate alla comunità greco-ortodossa e a quella cristiana protestante. L’architettura dell’insieme, monumentale e simbolica, non tradiva i canoni costruttivi del tempo. Nei primi anni Cinquanta Hammangi subì un’importante ristrutturazione, che venne affidata all’architetto Caccia Dominioni, lo stesso che di lì a qualche anno avrebbe disegnato i monumenti funerari di El Alamein. Nella parte centrale del cimitero fu costruita un’imponente struttura fatta di arcate in pietra, un’opera che richiama in modo programmatico le antiche architetture, quasi un frammento di acquedotto romano. Negli spazi circostanti vennero disposti gli ossari per i caduti di guerra, mentre nella cripta dell’antica cappella venivano trasferite le spoglie di Italo Balbo e di altri militari caduti in Libia e insigniti di medaglie d’oro. Il cimitero continuò a funzionare regolarmente fino alla fine degli anni Sessanta ma con la cacciata degli italiani venne quasi del tutto abbandonato. Durante gli anni successivi, divenne luogo di devastazioni e vandalismo. Moltissime tombe furono aperte e saccheggiate per sottrarre ai morti gli oggetti di valore. I corpi furono dispersi tra la vegetazione e divennero oggetto di macabri rituali. Chi ha visto il cimitero di Hammangi in quei tempi ricorda immagini dolorose di abbandono e spoliazione. Recentemente tuttavia il cimitero ha ritrovato, per così dire, una nuova vita. Da un lato, le comunità che si sono insediate a Tripoli negli ultimi anni, gli egiziani copti, i nigeriani, persino i cinesi, hanno trovato ad Hammangi un posto adeguato, forse il solo possibile oggi in città, per 33
le proprie sepolture. Dall’altro, il governo italiano si è finalmente deciso a restituire una dignità a questo luogo e ha dato inizio a un progetto di risistemazione volto al recupero delle strutture costruite negli anni Cinquanta e al trasferimento delle spoglie dei nostri connazionali dalle sezioni del vecchio cimitero ai nuovi ossari restaurati. Il nuovo cimitero italiano occupa ora una piccola area all’interno di Hammangi ed è delimitato da un muro, concentrico rispetto a quello originale, costruito con il supporto di alcune imprese nazionali. Il parcheggio che precede l’entrata è deserto. Lascio la macchina e mi avvio verso un grande portone verde, soltanto accostato, che si apre con facilità. Ai lati dell’ingresso, i monumentali edifici che ospitavano gli uffici amministrativi sono ancora conservati. Passo attraverso un spiazzo ombroso, protetto da alberi secolari, che regalano un’inattesa suggestione. Ma poco più in là, lo scenario cambia improvvisamente. Mi ritrovo di fronte un grande cantiere di demolizione e costruzione. Cumuli di sabbia, gruppi di operai al lavoro, pannelli che indicano committenze e date di conclusione dei lavori. Betoniere e sacchi strappati. Ovunque macerie, frammenti di lapidi e di cemento rappreso. Sullo sfondo, murate di loculi sfondati, come un enorme alveare. Il terreno è insidioso e occorre muoversi con grande cautela. Bruno mi attende seduto su una vecchia panchina, accanto alla moglie. Sarà lui ad accompagnarmi in questa visita e a raccontarmi le vicende del cimitero e delle persone che ci sono sepolte. Lavora qui da molto tempo ed è grazie a lui che è stato possibile portare a termine questa risistemazione, apparentemente un normale progetto di edilizia civile che però ha avuto risvolti davvero fuori dal comune. Si è lavorato, infatti, su un terreno devastato, 34
dove i corpi affioravano tra gli sterpi e i riferimenti erano smarriti. Occorreva ricostruire la geometria originale del cimitero, identificare le file e le tombe, riconoscere i corpi, sistemare le spoglie in nuove cassette, provvedere alla classificazione e all’inumazione nei nuovi ossari. Mentre beviamo un tè verde all’ombra dei grandi eucalipti dell’ingresso, Bruno racconta come la parte più complessa sia stata proprio quella di dare un nome a tutti i corpi ritrovati sopra e sotto terra. Un lavoro durato anni e realizzato a partire da deboli tracce, una croce ancora in piedi, una bara con un nome, dei vecchi registri nell’ufficio amministrativo. Un incrocio di dati e informazioni da far coincidere, come un’interminabile sciarada. Bruno ha svolto questo compito con incredibile tenacia, aiutato solo dalla moglie e da un pugno di operai egiziani pagati alla giornata dall’ambasciata italiana. Per quasi vent’anni vi ha consacrato tutto il suo tempo libero, senza che gli fosse stato richiesto e senza essere pagato. Quando gli chiedo perché abbia fatto tutto questo, lui risponde con disarmante semplicità che è solo compassione per quei poveri corpi di italiani morti lontano dal suolo natio e dalle proprie radici. Compassione per chi, come lui, non ha vissuto mai in Italia ma è italiano e ha diritto a un fazzoletto di patria attorno alle proprie spoglie. Parole che esprimono un’idea comune eppure toccante, un concetto che suona nobile anche a chi, come me, è abituato a diffidare della retorica che spesso si associa al concetto di patria. * * * Una passeggiata con Bruno per Hammangi è un percorso a ritroso nella storia dell’Italia e degli italiani in Libia. Bruno conosce ogni campo, ogni tomba, i nomi e i fatti di 35
coloro che vi sono seppelliti. Storie lontane e spesso straordinarie, che ci ricordano come un cimitero sia in fondo, oltre che un repositorio di corpi, un luogo di vicende che gli uomini portano con sé nel loro cessare di esistere. Alcune di quelle vicende continuano a permanere con i vivi finché qualcuno ne serba il ricordo, si alterano e si deformano con il passare del tempo, ma poi finiscono inevitabilmente col ricongiungersi nell’oblio con i propri corpi di appartenenza, è la legge di questo nostro mondo imperfetto. È tardo pomeriggio, il sole non brucia più sulla pelle e possiamo cominciare il nostro giro. A poca distanza dall’entrata, incontriamo un primo gruppo di tombe di famiglia costruite attorno agli anni Venti. Sono eleganti costruzioni in arenaria o marmo, ognuna delle quali rimanda a stili architettonici legati in qualche modo alla famiglia che rappresenta. La prima, la tomba Bastianini, è un’elegante costruzione in cemento, ormai gravemente erosa alla base, che riproduce i modelli funerari visibili lungo l’Appia antica. Il capostipite della famiglia fu un potente gerarca fascista e la tomba da lui voluta è una testimonianza tangibile di come il mito di Roma imperiale rappresentasse una delle ispirazioni fondamentali del processo di colonizzazione. Lì accanto, in un accostamento di stili quantomeno singolare, c’è una tomba ispirata al tardo gotico dell’entroterra umbro-toscano, la terra di origine di quella famiglia, i Bettucchi. E ancora a fianco, l’architettura moresca di una cappella vuole rappresentare il tributo a una terra, il Marocco, che ha fatto la fortuna dell’uomo che l’aveva fatta costruire. Le tombe di famiglia rappresentano senza dubbio l’aspetto più interessante di Hammangi, dal punto di vista architettonico. Un altro gruppo di tombe, più tarde rispetto a queste, si trova dalla parte opposta, poco fuori 36
del muro che delimita il nuovo cimitero italiano. Si tratta di costruzioni ambiziose e curate, ispirate a quel razionalismo che tanta parte ha avuto nell’architettura coloniale, in Libia ma anche altrove. Alcune di queste sono opera di famosi architetti del tempo, come quel Di Segni che progettò molti degli edifici della Tripoli italiana e dei nuovi villaggi rurali durante gli anni del governatorato di Balbo. Certo le tombe di famiglia, soprattutto quando sono ostentazione di ricchezza e appartenenza, pongono all’osservatore un dilemma di fondo sulla vanità dell’uomo, che spesso trascende senza pudore anche i limiti della morte. Eppure alcune di queste costruzioni sono davvero pregevoli e sarebbe un peccato se non potessero salvarsi dalle ruspe che a breve faranno la loro irruzione ad Hammangi per spianare il terreno e costruire, si dice, un parco alberato. Passiamo accanto a un campo pieno di sterpaglie. Il terreno è sconvolto, rovistato, le salme sono state esumate di recente. È la sezione numero 28, quella dei bambini. Moltissimi morirono tra il 1939 e il 1940 durante un’epidemia di gastroenterite che sembra abbia decimato la prima generazione di giovani italiani nati e cresciuti in terra di Libia. Il campo è sovrastato da un’enorme magnolia, quasi ipertrofica, il cui tronco è circondato da altri cordoni legnosi, radici che salgono al cielo o rami che scendono in terra, non si potrebbe dire. Attorno a quella pianta, per un raggio di circa dieci metri, le bare sono state rinvenute smembrate e vuote, non un piccolo osso all’interno. Le radici della magnolia erano penetrate dappertutto, infilandosi tra le fessure del legno e le crepe dello zinco, assimilando nel tempo i piccoli corpi e non lasciando più nulla. Quasi una versione reale e moderna della metempsicosi pitagorica. Osservo quell’albero forte e ieratico, cresciuto su spoglie umane, e mi chiedo chi 37
possa dire veramente dove finisce il regno animale e comincia quello vegetale. Dall’altra parte del vialetto c’è un piccolo spiazzo sabbioso. Qui, fino a pochi mesi fa, sorgeva la tomba Terreni, una ricca famiglia di commercianti insediata fin dagli ultimi decenni dell’Ottocento in terra libica. La tomba era interrata e una volta aperta mostrò agli operai egiziani un’immagine di completo disordine, bare sottosopra, corpi caduti e accasciati, uno spettacolo inatteso e incomprensibile. Fu probabilmente una bomba scoppiata nelle vicinanze, mi spiega Bruno, ma gli operai non ne furono convinti e per parecchi giorni non vollero sapere di avvicinarsi allo scavo. Nel fondo della tomba, in una piccola cassetta, fu rivenuto il corpo di un giovane uomo morto agli albori del secolo. Ricordo in quel momento un nome, Gastone Terreni, il cui assassinio aveva avuto un posto rilevante nella storia degli eventi confusi che precedettero l’invasione italiana della Libia. La vicenda risale al 1908, un periodo nel quale le relazioni italo-turche erano estremamente tese a causa di alcuni fatti avvenuti nei primi mesi di quell’anno, e in particolare l’uccisione, a Derna, di un missionario francescano, frate Giustino, che stava costruendo laggiù una chiesa cristiana. Il 20 giugno di quell’anno poi, nel funduq Sidi Ben Nur, un altro italiano, Gastone Terreni appunto, moriva di morte violenta mentre la città era in fermento per la presenza di una nave da guerra italiana nelle acque di fronte a Tripoli. Il caso venne affidato alla giustizia turca che subito lo archiviò come suicidio, ma alcune testimonianze fecero intendere che il giovane era stato ucciso con un colpo alla testa sparato da distanza ravvicinata, probabilmente da un ufficiale turco. I casi di frate Giustino e di Gastone Terreni non furono certo eccezionali per l’epoca, ma vennero subito impugnati dai nazionalisti che accusarono il governo 38
italiano e le autorità di stanza a Tripoli di ignavia e codardia per aver chiuso gli occhi di fronte a fatti di tale gravità. Erano momenti in cui nei circoli nazionalisti si andava alla disperata ricerca di un pretesto per l’invasione della “quarta sponda” e questi due omicidi rappresentarono un’occasione da non perdere. Bruno conosce la storia, ma non mi può confermare che le spoglie contenute in quella cassetta siano davvero quelle di Gastone Terreni, la sua ricerca minuziosa non ha potuto arrivare a tanto. Poco male, so in fondo di essere alla ricerca di suggestioni, più che di incontrovertibili certezze storiche. Continuando a camminare raggiungiamo il limite del vecchio cimitero, il muro che ci separa da quella grande rotatoria dove le macchine continuano a circolare, infaticabili. Ci lasciamo dietro la sezione greco-ortodossa e quella protestante, anch’esse abbandonate e semi-distrutte. Costeggiando il muro, passiamo in mezzo a campi di sepoltura separati da vialetti forse un tempo ghiaiosi ma oggi a malapena riconoscibili. I campi sono invasi da erbacce e sterpi, qua e là emerge malinconica qualche croce sghemba. Ripenso agli scritti di Canetti sull’inconfessabile sentimento di superiorità che prova chi cammina tra i defunti, il sentimento del sopravvissuto. Ma qui il rapporto tra il vivo e il morto non può stabilirsi, questo in fondo non è più un cimitero, è una realtà diversa e più complessa, che suggerisce altre considerazioni. Scivoliamo accanto alle murate distrutte, l’occhio viene inesorabilmente attratto dai loculi sfondati e percepisce con apprensione le bare aperte, le lamiere di zinco strappate. Mi impongo di distogliere lo sguardo. Il terreno è cosparso di cumuli di pietre e di ogni tipo di macerie, divani sfondati, immondizia, sacchi vuoti, cestelli di lavatrice, gli scarti della nostra civiltà, occidentale orientale o islamica, 39
non fa differenza. Nel silenzio che ci circonda le suole producono piccoli fragori a ogni passo. Improvvisamente, in mezzo a tutto questo, appare uno strano monumento funerario. È come una croce sgraziata, sorretta da una base tozza che riproduce la prua di una barca. In alto, i bracci della croce sono occupati da due ali di uccello e al centro, dove l’iconografia cristiana ci ha abituato a vedere un volto sofferente, c’è un’elica. Attorno, altri pezzi di marmo sparsi fanno capire che il monumento doveva essere più grande e delimitato da cippi e altri pezzi scolpiti. È il mausoleo di Pietro Manzini, il primo pilota morto in combattimento della storia dell’aviazione. L’accostamento di questi elementi decorativi di aria e di mare può sembrare sorprendente, ma si spiega con il fatto che ai suoi albori, prima di diventare un corpo militare indipendente, l’aviazione faceva parte della marina. Ecco quindi la prua della nave, la polena, l’abbondare di gomene scolpite nel cemento. Manzini cadde il 23 agosto 1912 nel mare di fronte a Tripoli, abbattuto dalla fucileria turco-araba, e come tanti iniziatori ebbe il privilegio di un monumento ad personam. Tutti gli altri aviatori, e qui ad Hammangi ce ne sono moltissimi, sono dispersi negli ossari e non hanno ricevuto speciali attenzioni. Chissà se il monumento verrà risparmiato dai piani di demolizione, se qualcuno perorerà la memoria di questo sfortunato eroe dell’aria, prima vittima di una serie che si sarebbe drammaticamente allungata nel tempo. Continuiamo la nostra camminata. Bruno è inarrestabile, conosce tutti gli angoli di questo cimitero e da ogni tomba tira fuori una storia. Sotto quelle lapidi, a oltre due metri di profondità, è stato ritrovato un sacco contenente i resti di dieci uomini e una donna fucilati forse nell’autunno del 1911, durante le rappresaglie dei giorni di Sciara Sciat. Oltre alle ossa, sul fondo del sacco c’era una 40
manciata di proiettili, il ferro aveva resistito all’estinzione dei tessuti. Poco lontano, è stata portata alla luce una cassetta contenente pezzi di ossa accuratamente tagliate in piccoli segmenti, reperti processuali di un caso di antropofagia registrato a Tripoli alla fine degli anni Sessanta, ossa cui qualcuno volle comunque dare la dignità di una sepoltura. Proseguendo ancora, arriviamo a quella sezione di Hammangi che in tempi recenti è stata ripristinata al culto e utilizzata dalle comunità non musulmane di Tripoli. Qui le sepolture sono sommarie e avvicinano in uno spazio ridotto corpi appartenenti a culture infinitamente distanti, il nigeriano e il senegalese, l’indiano ed il cinese. Ogni tomba ha i suoi simboli e la sua lingua, chi sta sepolto in un verso e chi nell’altro, chi sotto pochi palmi di terra e chi ad almeno un metro e mezzo. Un altro effetto della globalizzazione, che qui accomuna all’ombra di uno stesso ramo le manifestazioni più intime di ogni civiltà, quelle appunto legate al culto dei morti. Molte di queste tombe sono cumuli di terra senza nome. Sono le sepolture date ai corpi che il mare restituisce di tanto in tanto alle coste di Tripoli, le spoglie dei più sfortunati tra le migliaia di migranti che a bordo di gommoni o scialuppe tentano di raggiungere Malta, Lampedusa o magari la Sicilia. Ma le tombe non sono molte. La maggior parte di quelli che non ce la fanno rimane preda del mare. Al centro di Hammangi, il nuovo cimitero italiano è una struttura sobria ed elegante che raccoglie in ossari perfettamente ordinati e classificati tutte le salme della comunità. Bruno mi fa vedere i portoni restaurati, i muri appena imbiancati, le lunghe file di loculi, le lapidi di marmo che riportano tutti i nomi dei corpi identificati (6.478 a 41
oggi, dice con una punta di giustificato orgoglio). I lavori non sono ancora terminati, ma non manca molto e la promessa è che per le prossime festività dei defunti in novembre tutto sarà pronto. Ci sarà una grande inaugurazione, parteciperanno tutte le autorità civili e religiose e Bruno avrà allora completato la sua opera titanica, opera per la quale il governo italiano lo ha recentemente insignito del titolo di Cavaliere della Repubblica. Scendiamo nella cripta della cappella. C’è odore di gesso e pittura, qui i lavori sono ormai conclusi e rimane solo qualche cassa da sistemare. La cripta è fatta da un ambiente centrale e due stanze laterali. Le antiche fotografie mostrano che nella sala principale, proprio di fronte alla scala di accesso, c’era la tomba di Italo Balbo, trasferita qui nel 1954 con la demolizione del vecchio monumento della vittoria. Alla sua destra, i componenti dell’equipaggio che lo accompagnava in quello sfortunato 28 giugno 1940, fra i quali il maggiore pilota Frailich, compagno di tanti voli transoceanici, il nipote Lino Balbo, e Nello Quilici, padre del celebre giornalista. Alla sinistra di Balbo vi erano invece le tombe delle medaglie d’oro delle guerre di Libia, il tenente colonnello Billia, il maggiore Brighenti, suicida a Beni Ualid nel 1915, e sua moglie Maria, la prima donna medaglia d’oro dell’esercito italiano, uccisa a Tarhuna nel giugno del 1915 in uno dei più gravi rovesci militari del nostro esercito. Adesso le pareti sono bianche, tutte le salme sono state trasferite a Orbetello nel 1970, l’ambiente è totalmente asettico. Nella piccola sala laterale di sinistra, appoggiate su un ripiano, giacciono ancora tutte le lapidi originali. Quella di Balbo è una lunga lastra di marmo grigio che riporta tutti i gradi militari e politici: quadrumviro, maresciallo dell’aria, governatore generale di Libia. * * * 42
Si sta facendo tardi, ma c’è ancora il tempo per una visita al piccolo cimitero militare britannico annesso al corpo principale di Hammangi. Ne varrà la pena perché questo luogo, come tutti i cimiteri anglosassoni, trasmette una sensazione di serenità che sovrasta ogni immagine di morte. Il verde è qui il colore dominante, non il verde smorto dei muri di Tripoli, ma il verde vivo dell’erba curata ed innaffiata con regolarità. Le tombe sono croci di marmo uguali fra loro, perfettamente distese in lunghe file parallele, solo i nomi e lo stemma del battaglione di appartenenza le distinguono l’una dall’altra. L’ordine e la pulizia che regnano qui rimandano a luoghi lontani e contrastano davvero con tutto ciò che conosciamo di questa città. Il cimitero accoglie i caduti delle truppe del Commonwealth della Seconda guerra mondiale. E camminando tra le tombe, si ha la più chiara percezione di quanto quella guerra sia stata globale: i caduti sono inglesi, irlandesi, indiani, pachistani, francesi delle Forces Françaises Libres, sudafricani, nepalesi, neozelandesi, australiani, kenioti, sudanesi, ebrei, perfino un olandese, l’unico olandese morto in terra d’Africa. Nomi scritti in caratteri latini, arabi, ebraici, sanscriti. Questo luogo è un microcosmo che accomuna eroi e mercenari, idealisti e vittime, uomini diversi i cui percorsi si sono intrecciati in capitulo mortis in questo lembo di terra. Avviciniamo il custode. Ci racconta che può contare su un gruppo di otto giardinieri che lavorano su questo piccolo appezzamento per mantenerlo impeccabile come lo vediamo. I fiori che adornano ogni tomba, anche quelle che non sono mai state visitate, vengono cambiati non appena cominciano a seccare. Le stesse lapidi sono sostituite all’apparire delle prime crepe. La manutenzione viene gestita con una professionalità e una disponibilità di mezzi che qui a Tripoli non può non sorprendere. 43
Osservo Bruno, il suo profilo sereno, e ripenso al suo gruppetto di egiziani pagati alla giornata. Ripenso al compito impossibile che è riuscito a portare a termine contando solo sulle proprie forze, senza l’appoggio di una struttura organizzata, senza un piano organico concepito e sovvenzionato dalle autorità. L’individuo che per passione sopperisce alle carenze della politica, la politica che per sdebitarsi elargisce un riconoscimento onorifico. Una storia in fondo tipicamente italiana, che fa da contraltare a quello che si osserva in questo cimitero britannico, dove tutto sembra rispondere a una logica chiaramente definita e l’individuo non è chiamato ad assumersi responsabilità che non gli appartengono. Mentre ci apprestiamo a uscire, un improvviso colpo di vento abbatte un’altissima palma che cade in uno spiazzo erboso fra le croci. Il custode ci rassicura, domattina al più tardi la palma verrà sostituita, nessuno si accorgerà di nulla.
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