Appennino atto d’amore. La montagna a cui tutti apparteniamo

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A Peppe, amico fraterno e insostituibile compagno di viaggio. Ad Anna, che mi lascia andare sapendo che ogni volta tornerò piÚ ricco nel cuore e nello spirito, e a Rebecca, figlia adorabile verso cui nutriamo infinito amore. A mia madre, che non mi ha mai detto di non andare.



Prefazione di Paolo Rumiz

Tutte le volte che devio verso il baricentro montuoso del mio Paese dopo aver attraversato gli ingorghi, la conurbazione edilizia, il caos e la volgarità della costa, mi capita di pensare a una cosa. È un riflesso quasi automatico. Mi lascio alle spalle la fatidica linea di battigia dove vanno a spiaggiarsi un po’ tutti - vacanzieri, indigeni, terremotati e clandestini - e, appena prendo quota verso le terre del silenzio, ecco che la domanda fatale mi fulmina. Questa: ma come fa l’Italia ad abbandonare l’Appennino? E soprattutto, come fanno queste terre, che sono al centro del centro del Mediterraneo, a sentirsi marginali? E quando finalmente mi infratto, con delizia da contrabbandiere, nelle pieghe di questa ramificata dorsale per assaporare una certa distanza dal mondo, ecco che un secondo pensiero mi invade, con la forza di un’evidenza incontrovertibile. Una percezione lucida, sotto forma di domanda, anzi di molte domande. Che cos’altro è Roma se non la figlia dei transumanti d’Appennino, il quartiere invernale dei pastori discendenti dai popoli d’Asia che tanto tempo fa portarono qui un certo modo di abitare il 5


territorio, e poi il grano, l’orzo, i semi della senape, i papaveri e persino i cani che oggi chiamiamo maremmani? Da dove - mi chiedo - se non da questi monti nasce la civiltà latina che fino al primo secolo avanti Cristo non ha dato al mondo nessuna letteratura o filosofia, ma in compenso ha prodotto una perfetta organizzazione dello spazio attraverso un fenomenale corpus di leggi? Che altro è il Lazio se non il punto d’incontro degli armenti e delle greggi che in autunno scendono dal monte? E che cosa, se non una prodigiosa fertilità della terra e la presenza di ben tre mari così facilmente raggiungibili dal monte per via di transumanza, ha fatto sì che gli abitanti delle steppe accettassero di abitare qui nonostante i terremoti? Ricordo bene quando accadde la prima volta, dopo una traversata primaverile dei monti Sibillini ancora striati di neve e le faglie dell’ultimo terremoto ancora più visibili in superficie data la mezza stagione. La piana di Castelluccio, con la sua steppa quasi mongolica che di lì a poco si sarebbe risvegliata nella multicolore fioritura delle lenticchie, mi parve il centro dell’universo. Ma il pensiero si formulò nel modo più completo quando, nell’estate dello stesso anno, andai a Camerino con un’orchestra sinfonica di giovani europei alla quale avevo prestato la voce come narratore. La sera dello spettacolo, una luna monca uscì dalle magnifiche torri di Camerino, e le stelle cadenti ci regalarono la percezione nitida della rotazione terrestre tra le nebulose e le costellazioni dello zodiaco. Sì, davvero, eravamo nel cuore dell’Europa e del Mediterraneo. Nella pancia di quella penisola che, meglio della Grecia e dell’Iberia, si prolunga verso altri mondi additandoli come vocazione e destino. Un terremoto aveva appena svuotato decine di paesi e Camerino stessa, che era ancora ingombra di macerie. La vedevamo stupefatti da fuori, dal complesso, intatto, della 6


città universitaria. Quelle montagne avevano scontato millenni di sismi distruttivi, ma mai una simile desertificazione. Il motivo ci fu presto chiaro. La montagna non porta voti. Non vale la pena occuparsene, ti fanno capire i politici con i loro silenzi. In quota rimanevano solo gli innamorati e i più forti. Ma tutto - la burocrazia, la politica, le leggi globali del marketing - diceva loro di mollare. Chi te lo fa fare: ecco cosa si sentivano dire. Era la prima volta che un terremoto rischiava di celebrare il de profundis di un mondo; diventava l’alibi per sdoganare l’incuria, il sigillo finale dell’abbandono. Attraversando per più di un decennio questo mondo arcano con i piedi, la macchina, il treno o la bicicletta, fino a penetrarne le pieghe più intime, ho tratto una convinzione profonda, lucida, incontrovertibile: se l’Italia perde l’Appennino, perde se stessa. È in Appennino la sua anima, la sua identità pastorale troppo spesso fraintesa anche dai piccoli potentati locali pronti a svendere il loro territorio per un piatto di lenticchie. Per questo il libro di Paolo Piacentini arriva al momento giusto e colma un vuoto di interesse che ha dello scandaloso. Guai a voi che rinnegate l’Italia, la sua storia, la sua geografia, la sua gente.

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Appennino, atto d’amore

Se qualcuno, in questo momento storico, mi dovesse chiedere a quale partito o area politica appartengo, gli risponderei che appartengo all’Appennino. Appartengo a un territorio. Appartengo a una terra che ti dà molto e che ha bisogno di essere ricambiata con amore in termini di conoscenza e di cura. Uno dei mali del presente è il vivere senza la consapevolezza di essere parte della geografia dei luoghi in cui si abita (in Italia lo studio di questa straordinaria disciplina è stato quasi affossato). La montagna italiana ha bisogno di un progetto di ampio respiro, capace di sporcarsi le mani affrontando le contraddizioni del presente. La montagna non vota, ma fa sentire la sua presenza quando viene dimenticata e abbandonata. Dobbiamo avere le idee chiare: va detto con forza che la presenza dell’uomo, equilibrata, sostenibile e capillare, è fondamentale. Non ci può essere cura e manutenzione della montagna se il presidio umano non è diffuso; solo così la 9


ricostruzione post sisma può non dimenticare le piccole frazioni, anche le più sperdute. In questo senso sono agli antipodi di chi teorizza e auspica la vittoria della natura selvaggia sull’uomo. L’Appennino è equilibrio tra uomo e natura e ogni metro della sua terra è permeato dalla storia umana, così come lo sono anche i territori interni alle aree protette. Ecco perché, per quello che posso, cercherò di appartenere sempre di più alla politica dei fatti concreti, a quella che ascolta i suoni della terra e ne sa riconoscere i segni, a quella delle persone che si stringono forte per costruire nuove comunità solidali, perché queste sono la mia storia e la mia passione. Lascio ad altri l’impegno nobile di chi lavora nelle istituzioni, a noi il compito di fargli da pungolo.

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Un territorio ferito

Da Riomaggiore a Castel Madama, dal mare della Liguria alla nostra amata terra, il Lazio. Un viaggio a piedi tra sette regioni, una sorta di interminabile saliscendi appenninico che io e Peppe avevamo programmato da anni, finalmente stava per iniziare nella primavera del 2009: non poteva esserci migliore occasione per affrontarlo che la festa prolungata per i nostri cinquant’anni. Era un’avventura nata dal bisogno di conoscere, passo dopo passo, le ferite e le minacce contro cui lottano quelle montagne che ci sono entrate nel cuore quando avevamo solo vent’anni. Montagne ferite dagli interminabili trafori, e da preservare dai mega impianti eolici proiettati verso il cielo come lame affilate circondate da boschi secolari. Al profondo desiderio di toccare con mano gli scempi, ma anche le esperienze virtuose, che popolano l’Appennino, all’improvviso si aggiunge il terremoto dell’Aquila. Ormai il nostro viaggio era pronto e questa tragedia non ha fatto che alimentare, con nuova linfa, la volontà di andare ad abbracciare lentamente la spina dorsale del Paese, toccando, appunto, anche i luoghi del sisma. 11


Nel 2016 l’Appennino che io e Peppe avevamo attraversato nel 2009 è ferito nuovamente con una durezza che forse nessuno avrebbe mai immaginato. Prima Amatrice, Accumoli, Arquata e gli altri piccoli borghi radicati nella mia memoria e in quella di tanti amici escursionisti che da decenni calpestano i paesaggi dei monti della Laga. Poi, quando sembrava che la terra piano piano volesse tornare tranquilla, è arrivata la serie di scosse che più a nord ha colpito duramente Norcia, Visso, Pieve Torina, Muccia, Camerino e tutta una vasta area, disseminata di piccoli centri, che circonda i Sibillini. L’ultima sequenza, che sembra rendere interminabile l’agitazione di queste montagne, è stata quella del 18 gennaio 2017, che ha disseminato la paura fino a Roma, tornando a incutere timore all’Aquila, ancora con sofferenze profonde da rimarginare. È a queste terre che sembrano non avere pace che voglio dedicare il racconto di questo viaggio di novecento chilometri, ma prima voglio dare voce, con estrema franchezza, alla realtà odierna e alla mia visione di una possibile rinascita di queste aree. La prima immagine che mi torna in mente pensando alle tragedie e ai drammi che hanno vissuto le popolazioni colpite dalle sequenze sismiche del 2016, è quella del vescovo di Rieti, che ad Amatrice, in una tristissima giornata di lutto, con coraggio e con lo sguardo fisso verso l’interminabile distesa di bare, ha affermato a chiare lettere: non è il terremoto a uccidere, ma è l’uomo che con le sue opere crea le premesse perché ciò accada. È da questa verità, pronunciata indicando la meraviglia delle montagne che da sempre si agitano e accompagnano la storia coriacea e allo stesso tempo fragile dell’umanità appenninica, che bisogna ripartire. Bisogna avere il coraggio di guardare in faccia la realtà per squarciare, tutti in12


sieme, il velo dell’ipocrisia. Le comunità dell’Appennino per rinascere hanno bisogno di verità, di affrontare la propria terra ferita con la lucidità di chi sa che non potrà essere tutto come prima. Cosa vuol dire ricostruire com’era e dov’era, secondo lo slogan del governo dei giorni successivi ai terremoti di agosto e ottobre? Per un attimo è sembrata l’indicazione più giusta, in contrapposizione alla scelleratezza delle new town innalzate all’Aquila per dare un’impressione di efficienza e velocità, ma che hanno generato spazi abitativi senz’anima. Davanti a un recupero che si preannuncia lento e molto problematico, si sta sviluppando un interessante dibattito su come ricostruire in modo intelligente e innovativo, seguendo un po’ quell’idea delle smart land tanto cara ad Aldo Bonomi. Un’intuizione forte che mette al centro della rinascita delle nostre montagne la coesione sociale, l’utilizzo delle nuove tecnologie, la tutela del paesaggio, la fruizione corretta degli ambienti naturali e storico-culturali, in un processo che coinvolga pienamente le comunità locali rendendole partecipi del loro futuro. La ricostruzione fisica dei luoghi, delle case, dei palazzi storici non ha senso se non è accompagnata dalla ricostruzione di una comunità che se ne prenda cura. A un anno dalla scossa distruttiva del 24 agosto, durante la commemorazione davanti alle macerie ancora lì a segnare il dolore, il vescovo di Rieti ha nuovamente usato parole molto forti, che vanno dritte al cuore del problema, dicendo tra le altre cose che non si tratta di ricostruire l’identico, ma l’autentico, con il coinvolgimento pieno delle comunità. Oggi le tecniche edilizie più avanzate possono garantire, nella maggior parte dei casi, la ristrutturazione con criteri antisismici degli edifici storici danneggiati, e renderli capaci di affrontare la massima potenza dei terremoti appenninici. Questa opzione, dove possibile, va pra13


ticata mettendo in campo le migliori imprese del settore, con il controllo dal basso delle comunità locali, per evitare, come è successo, che una scuola ristrutturata con criteri antisismici crolli di nuovo nello sgomento generale. Un centro storico come quello di Camerino, per fare un esempio, danneggiato nella misura del novanta per cento, ma che ha subito solo qualche crollo parziale, potrebbe diventare un progetto pilota, con cui dimostrare la fattibilità di una ristrutturazione radicale, che in alcuni casi può prevedere anche l’abbattimento e la ricostruzione di edifici storici. Una volta verificata l’effettiva impossibilità o non opportunità di operare una ristrutturazione sicura dei centri storici, non è uno scandalo pensare a edifici nuovi e più sicuri, rispettando i vincoli paesaggistici e mantenendo le comunità in loco in spazi urbani che abbiano una loro anima. Lo dico con estrema franchezza, non deve essere più accettabile una ricostruzione che al sisma successivo ci veda assistere a nuovi crolli. Nelle mie frequenti visite alle zone del sisma ho acquisito, quasi come dato scientifico inappellabile, il fatto che dove si era ricostruito bene dopo il terremoto del 1997 - o dopo quelli ancora precedenti - gli edifici hanno resistito anche a seguito della tremenda scossa del 30 ottobre 2016. Non vuol dire che le strutture non abbiano subito danni anche importanti, ma quello che si è evitato è stato il crollo, e quindi la tragedia. Il dato dimostra come le dure parole contenute nell’omelia del vescovo di Rieti davanti alle bare di Amatrice fossero tragicamente vere. Molti parlano di “strategia dell’abbandono”, io la chiamerei semplicemente “assenza di interesse”, che forse è ancora peggiore, perché è il segnale di una completa man14


canza di consapevolezza di quanto la montagna sia davvero il cuore pulsante del nostro Paese. Oggi va di moda il termine resilienza mutuato dalla fisica, ed effettivamente le nuove comunità dell’Appennino devono ri-progettarsi non dimenticando l’antico, ma nemmeno rimanendo ingessate in modelli socio-economici senza vitalità. Per avere un futuro le nostre amate montagne devono aprire spazi di vita a quei nuovi residenti che scelgono di allontanarsi dalla città per recuperare una dimensione dell’esistere più vicina ai ritmi della natura. È questo innesto, spesso rappresentato da giovani appassionati e competenti, che può dare nuovo vigore e aiutare la ricostruzione delle comunità. In questo modo l’ambiente montano può rendersi autonomo da quella cultura urbana che si è infiltrata perfino tra le valli più inaccessibili determinando, anche tra i pochi rimasti, una lontananza siderale dal territorio. L’Appennino ha bisogno di tanto amore, di persone che la mattina alzino lo sguardo oltre le case del piccolo borgo per andare a coltivare la terra, nel senso più ampio possibile: a prendersene cura. Abbiamo bisogno di comunità solidali che accolgano anche l’arrivo di migranti. Lo “straniero” è stato sempre accettato con generosità tra le comunità statiche dell’Appennino, perché ha portato energia fresca e ha iniziato un positivo ricambio generazionale. Si tratta di un processo che deve avvenire con una certa naturalezza, creando sempre di più le premesse per un’accoglienza effettiva. Per affrontare non solo i terremoti, ma anche l’altrettanto disastroso dissesto idrogeologico causato dai cambiamenti climatici, c’è bisogno di comunità consapevoli di quanto il territorio richieda conoscenza e manutenzione quotidiana. Non solo bisogna ricostruire in modo diverso e forse in alcuni casi in luoghi diversi, ma bisogna 15


applicare in concreto le azioni di mitigazione e adattamento ai cambiamenti climatici attraverso piccole ma fondamentali opere quotidiane di messa in sicurezza del territorio. Lo Stato e le Regioni devono attivare una vera strategia nazionale per le aree interne, andando oltre al modello ideato da Fabrizio Barca, economista, coordinatore della Strategia aree interne ed ex ministro per la Coesione territoriale. Quel modello, avviato nel 2012, ha moltissimi pregi, ma parte da dati statistici che oggi forse andrebbero almeno in parte rivisti e aggiornati, perché ad esempio a determinare la marginalità di un territorio non è solo la distanza da alcuni servizi essenziali (come quelli sanitari, le infrastrutture o i trasporti), ma una certa idea di sviluppo che continua a essere urbanocentrica. Uno dei limiti dell’odierna Strategia aree interne risiede nel non avere una forte visione di sistema, perché l’individuazione di aree ben delimitate permette di finanziare progetti molto mirati, ma che rischiano di rimanere delle isole, in particolare se le Regioni non fanno del tutto la loro parte. Il problema della montagna italiana, che rappresenta più del cinquantacinque per cento del territorio nazionale, non può essere affrontato per aree scelte solo con criteri statistici di carattere generale, in buona parte condivisibili, ma ha bisogno di una vera politica di sistema. Nel progetto Ape (Appennino Parco d’Europa), nato nel 1994 e divenuto il più importante progetto di sistema avviato in Italia per la conservazione della natura e lo sviluppo sostenibile, c’era una visione d’insieme che provava a superare la parcellizzazione rappresentata dalle isole dei Parchi o dalla diffusione infinita della progettualità locale estranea a un piano di sviluppo territoriale più ampio. L’Appennino e le Alpi sono la colonna vertebrale dell’Italia, una colonna che sarà sempre più fragile con riper16


cussioni drammatiche per tutta la nazione. Bisogna costruire una chiara strategia di messa in sicurezza e cura del territorio che venga applicata giorno dopo giorno, con nuovi modelli dell’abitare che io chiamerei “comunità consapevoli”. Oggi alla montagna italiana serve un salto di qualità, una visione unitaria e una governance di sistema. Serve una vera nuova alleanza equilibrata con le città, accompagnata da una rivoluzione culturale che aiuti la costruzione di una moderna consapevolezza. Non sono solo i territori interni ad avere bisogno di comunità resilienti e consapevoli, anche gli abitanti delle città devono cambiare il modello culturale che tende a creare una separazione netta tra due mondi in realtà interdipendenti. La montagna non può continuare a essere, nell’immaginario collettivo, il luogo del divertimento stagionale, del weekend mordi e fuggi, ma deve diventare lo spazio geografico dove vivono comunità che custodiscono il bene più prezioso del nostro meraviglioso Paese, un bene che appartiene a tutti e che comprende risorse materiali e immateriali fondamentali alla nostra esistenza. In questo scenario l’Appennino, forse più delle Alpi, ha bisogno di essere ri-conosciuto; è paradossale che la consapevolezza del suo valore spesso non si trova nemmeno tra chi vi risiede da sempre. Chi decide di conoscere un territorio con la forza delle gambe, del cuore e della mente si connette con la parte più profonda degli elementi naturali: entra in empatia con se stesso e con il mondo. Quando calpestiamo per giorni il suolo, sospesi tra terra e cielo, non possiamo aver voglia di distruggere quello che vediamo ma disponiamo l’animo all’accoglienza dell’infinito, che vuol dire distacco dal possesso e amore per la fruizione sobria di quello che la Terra ci dona. Si comprende allora come non si possa 17


disporre senza limiti e senza cura del luogo che ci ospita, perché dietro l’apparente fisicità inerte del territorio pulsa una vita straordinaria, patrimonio di biodiversità animale e vegetale di cui siamo semplici custodi. Il territorio va trattato con amore perché le sue risorse naturali sono essenziali non solo per i residenti delle montagne ma per l’intera popolazione italiana e tutto ciò va conservato per le future generazioni. L’uso razionale della terra è fondamentale, visto che sono state le attività umane dei secoli passati a plasmare i nostri paesaggi: l’aggressione di strade e villaggi prima e l’abbandono degli ultimi decenni hanno amplificato fenomeni drammatici come il dissesto idrogeologico e l’erosione. Il futuro delle comunità dell’Appennino e delle aree interne dell’Italia è legato a una nuova identità, in cui la sostenibilità ambientale e sociale diventano centrali. L’Appennino, e in generale il sistema montano e collinare, può essere il prototipo di un nuovo modello socio-economico che spezza la dipendenza dall’attuale modello urbanocentrico che tante devastazioni ha determinato nel tessuto delle piccole comunità rurali. Parafrasando il profetico Pier Paolo Pasolini, possiamo dire che la distruzione della cultura rurale ha provocato una ferita che sarà difficile ricomporre. Oggi le nostre montagne, dopo gli anni dell’abbandono, hanno bisogno di nuovi abitanti in cammino verso la sostenibilità ambientale e sociale. Serve un nuovo patto tra città e campagna in cui i giovani possono e devono recitare un ruolo fondamentale. Lo sappiamo, la montagna e i territori marginali non hanno un peso politico, ma se nel nostro Paese il voto si basasse sulla rappresentanza territoriale e la disponibilità di risorse naturali, i popoli della montagna sarebbero invincibili in qualsiasi competizione elettorale. 18


Dobbiamo lavorare per far crescere una cultura che ridia un senso all’appartenenza territoriale, poiché solo un’appartenenza attiva e responsabile ci può salvare dai cambiamenti climatici in atto e dalla continua perdita di biodiversità. Gli appelli di grandi personaggi, come Mario Rigoni Stern, che hanno deciso di non lasciare mai le “terre alte”, possono aiutarci a segnare la rotta per il futuro. Una nuova alleanza tra città e montagna vuol dire che l’abitante dei grandi spazi urbanizzati deve avere piena coscienza di quanto la sua vita quotidiana incida sulla tutela delle risorse naturali custodite tra valli, altopiani e cime per fare propria l’urgenza di un legame indissolubile. Le scuole potrebbero svolgere un ruolo molto importante se nei programmi venisse reintrodotto lo studio della geografia, soprattutto di una geografia moderna che agli strumenti di conoscenza classici unisca l’applicazione delle nuove tecnologie. Lo studio di questa scienza è stato prima banalizzato e poi quasi cancellato, come se fosse possibile comprendere la nostra storia senza conoscere i territori che l’hanno ospitata e in parte determinata. Il geografo ci aiuta a inquadrare meglio, nella dimensione spazio-temporale, quali sono stati i primi processi di urbanizzazione, spesso selvaggia, delle nostre pianure e valli, conseguenza anche del drastico spopolamento dei territori interni. Per aiutare questo processo di recupero dei territori interni e la nascita di nuove forme dell’abitare la montagna, anche l’atto di camminare può svolgere un ruolo importante, attraverso l’escursionismo giornaliero e il trekking. Le nostre montagne custodiscono paesaggi meravigliosi - ricchi di storia, cultura e natura - che spesso si trovano in aree protette, luoghi ideali dove camminare in vacanza. È stato proprio questo girovagare a piedi tra crinali, valli 19


e piccoli borghi che ha caratterizzato la mia vita e ha alimentanto l’amore che nutro per l’Appennino; il viaggio che mi appresto a raccontare ha rafforzato per sempre questa sensibilità. Non si tratta certo di una guida escursionistica, ma di una narrazione intima, quasi un diario, che nella quotidianità del viaggio riporta con passione le voci dell’Appennino. È l’avventura di due vecchi amici che, passo dopo passo, hanno costruito un legame inossidabile e, dopo aver calpestato ogni angolo delle montagne abruzzesi e laziali, decidono di spingere il loro sguardo lento e profondo verso altre latitudini, fino a ieri toccate solo per pochi giorni. Un camminare a mente libera e a mani vuote per lasciarsi riempire dalle storie che nascono spontanee dall’incontro con le genti appenniniche e che, a ben vedere, aggiungono un volto umano al quadro - a tratti drammatico - delineato in questa introduzione. Ho integrato questi appunti di viaggio riflettendo sugli sviluppi che hanno interessato quei territori dal 2009 al 2017, con l’intento di far di queste pagine un appassionato appello alle comunità e alle forze politiche.

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