Prologo
Immaginatevi una bara senza coperchio. E di passarci dentro tre mesi, vivi ma immobili. A me è successo quando avevo diciotto anni. Tecnicamente si chiama Clinitron ed è un letto che si trova solo in alcuni ospedali. A destra e a sinistra ci sono due sponde che, da sdraiato, ti impediscono di scorgere che cosa c’è di lato. Di fatto vedi solo quello che c’è nel campo visivo sopra di te: il soffitto, il tubo del neon, l’infermiera più o meno carina, la faccia di qualcuno che viene a trovarti. Stai dormicchiando ed ecco che dal nulla compare un termometro da infilare sotto il braccio o un volto amico: “Ciao Pietro, sorpresa!”. Tirato tra una sponda e l’altra, c’è il lenzuolo. Sotto il lenzuolo, niente. Il Clinitron è un letto comodissimo, ma senza materasso. Il corpo è appoggiato al lenzuolo, sollevato da un getto continuo e intenso di aria fluidificata che arriva dal basso. Insomma, un gioco di prestigio piuttosto divertente, se non fosse che, quando ti trovi sepolto dentro a un Clinitron, vuol dire che hai un grosso problema. Questi letti, infatti, hanno l’obiettivo di creare un ambiente ideale per i pazienti con pelle gravemente compro5
messa, riducendo al minimo le forze che causano la rottura dei tessuti, come calore, umidità, pressione, attrito... Sono usati da persone con ferite complesse, difficili da guarire: ulcere, ustioni o, come nel mio caso, fistole. Sembra incredibile, ma proprio dentro a questa via di mezzo tra una cassa da morto e un marchingegno per spettacoli di magia ho fatto un incontro decisivo per la mia vita. Diciamo che grazie a un letto-bara sono tornato a vivere; immobile per mesi, ho imparato a camminare. Non con le gambe, perché quelle non le muoverò mai. Ma in un altro modo, forse più importante. Di questo incontro, di tutto quello che è successo prima e dopo, vi vorrei raccontare in questo libro.
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Capitolo 1 Per agres
“È nato! È nato Pietro!” Mi hanno raccontato che il mio nonno paterno quel giorno era così felice e orgoglioso che si è messo a girare in bici per il paese a dare la notizia. All’epoca non esistevano Facebook e WhatsApp, ma credo si possa dire che grazie a lui la notizia sia davvero diventata virale, almeno nel triangolo tra l’ospedale Angelo Bellini, la casa di via Visconti e il mitico bar Lombardo. Quel giorno era il 5 dicembre 1978 e il luogo Somma Lombardo, vicino a Gallarate. Un nome di origini latine che fa intuire la collocazione molto particolare di questa cittadina, tra le più grandi della provincia di Varese: il punto più alto della strada romana che conduceva dal Lago Maggiore a Milano. La felicità del nonno era quella di tutti i nonni, specialmente quando nasce il primo nipote. L’orgoglio invece era molto legato al mio nome, perché era anche il suo. Da noi funziona così: il primogenito maschio prende il nome del nonno paterno. E così mio papà si chiama Bartolomeo, figlio di Pietro e nipote di Bartolomeo. Io sono Pietro, 7
figlio di Bartolomeo e nipote, per l’appunto, del nonno Pietro. Questo vuol dire che dovrei chiamare un mio eventuale figlio maschio Bartolomeo. Il che non fa impazzire di gioia la mia compagna. Questa tradizione non è specifica di Somma Lombardo. Lì ci sono altre usanze molto belle: la festa medievale, la fiera del Castello visconteo, la consegna dell’Agnesino d’Argento a fine gennaio. Ma la faccenda dei nomi arriva dal Sud Italia. Come del resto il mio cognome. La prima a salire al Nord fu nonna Caterina, che arrivò dalla Puglia più di cinquant’anni fa. Il marito Pietro, quello della bicicletta, era un mezzadro e coltivava terreni in una piccola località nei pressi di Conversano, provincia di Bari. Ma i soldi non bastavano a sfamare i figli, né questi, ormai grandi, riuscivano a trovare lavoro. Così, nel Natale del 1969, in un inverno che regalò neve a quintali, nonna arrivò a Somma per iniziare una storia che adesso è alla terza generazione. Nel giro di pochi mesi la raggiunsero il marito e il resto della famiglia, tranne una figlia, mia zia Benedetta, che tuttora vive in Puglia ed è il vero punto di ancoraggio con le nostre radici. Non so bene come mai i miei nonni scelsero proprio Somma Lombardo, ma so che iniziarono a lavorare, lavorare, lavorare. Erano contadini in Puglia e non poterono fare altro che restare a contatto con la terra e la natura anche qui nel profondo Nord. Nonno Pietro trovò lavoro nel giardino botanico di Villa Bellini, un edificio risalente alla seconda metà dell’Ottocento che costituisce ancora oggi un esempio pregevole di casa di corte. La residenza è circondata da un tipico giardino lombardo, la cui magnificenza è stata per anni opera di mio nonno. Fino al giorno maledetto che si portò via il capostipite della famiglia. 8
A Somma sono nato, mi sento a tutti gli effetti un sommese doc, i miei genitori e molti dei miei amici vivono qui. Ma con la Puglia è diverso: la Puglia, più precisamente quella striscia di Tavoliere che unisce Sammichele a Conversano e Cozze, ce l’ho nel sangue, e nella parte del cuore dove sono conservati i ricordi più belli. Sarà un caso ma - a parte i parenti rimasti giù - sono l’unico della mia generazione che capisce il dialetto conversanese e quando eravamo piccoli capitava spesso che, in assenza degli adulti, io dovessi fare da interprete tra anziani e giovani, in particolare con nonna Caterina, che di fatto parlava solo quello. “Annosh la mermett c’a ma mit a tavl.” “Pietro, ma cosa dice la nonna?” chiedeva con sguardo smarrito Cristian, cugino da cui mi separano solo ventotto giorni. “Dai Cristian”, rispondevo io con sufficienza, “passa la pentola alla nonna!”. Per quasi tutto il periodo delle elementari, il giorno dopo la fine della scuola partivo per la Puglia, da dove avrei fatto ritorno solo a inizio settembre. A volte la guida paziente e imperturbabile di mio padre, a volte uno di quei treni notturni con le cuccette oggi in via di estinzione, mi tenevano agganciato a una cultura che faceva parte di me. Dei viaggi in auto con papà e mamma ricordo poco rispetto a quando partivo con nonno Pietro e nonna Caterina. Il treno lasciava la Stazione Centrale di Milano la sera e al mattino, dopo un sonno in genere molto profondo, ecco i gabbiani, il mare blu e, immancabile, l’abbraccio di zia Benedetta che ci attendeva in stazione. Per tre mesi vivevo con lei, zio Vito, i nonni e i cugini (e naturalmente i miei genitori, quando arrivavano per le loro vacanze). Aiutavo - per quello che potevo - i parenti che erano rimasti al Sud nelle attività agricole. Ricordo lucidamente una scena in cui io sono dentro una grande 9
cassa di legno e gli altri dagli alberi mi lanciano le ciliegie e i fichi appena colti dagli alberi. O quando, per andare nei campi, mi mettevano in groppa alla mula: in fondo è stata la mia prima forma di peregrinazione, se pensiamo alle origini latine del termine: per agres… Ricordo i pranzi a base di orecchiette, braciole, zampina e nodini di Gioia del Colle. Ma anche la pasta sempre scotta che faceva mia nonna, il che spiega perché ora, per me, la pasta non è mai abbastanza al dente. Ricordo, soprattutto, il calore di tutti quelli che mi circondavano, quel senso di protezione totale che forse solo da bambini si può provare, proprio quando non si è ancora in grado di gustarselo fino in fondo; quella certezza innocente e ingenua che, comunque vada, la vita può essere bella. A proposito di protezione (dal Cielo, in questo caso), un giorno da un davanzale dove erano stipate decine di mandorle a seccare, è caduta una forma di ferro utilizzata dai calzolai per riparare scarpe e tacchi: era stata appoggiata male, o forse fu la mia golosità a tradirmi, mentre frugavo tra le mandorle. Fatto sta che questo pesante pezzo di ferro mi ha sfiorato la testa e mi ha rotto un dito. Quell’estate dovevo fare particolarmente tenerezza, o impressione a seconda dei casi: un bambino con un dito steccato e due gambe che non si muovevano. Un bambino disabile. Il primo a capire che qualcosa non andava è stato mio padre. Avevo quattro-cinque mesi, l’età in cui si comincia a stare seduti, magari con l’aiuto di qualche cuscino. Io niente, ero un fagotto senza nessun controllo del busto, un bambolotto come quelli con cui si inizia a giocare a quell’età. Cadevo in avanti o all’indietro, a seconda di dove pendeva la testa. Di gattonare, poi, neanche a parlarne. Allora sono iniziate le ipotesi, gli accertamenti, i consulti medici. E, a ogni visita o esame, quello che era solo 10
un brutto presentimento da scacciare via diventava una paura sempre più reale e ingombrante. Fino a che la paura è diventata certezza. Un macigno, per due ragazzi diventati genitori poco più che ventenni, che mai avevano avuto a che fare con il fantasma della disabilità. Mi è capitato a volte di sentire al telegiornale l’espressione “certezza della pena”. Non so bene che cosa voglia dire, deve essere un termine legato al modo in cui funziona, o non funziona, la giustizia italiana. Per me e per i miei genitori la “certezza della pena” è arrivata un giorno dalla Germania. Dal centro riabilitativo di Busto Arsizio, che ho frequentato fino a quattordici anni con zero entusiasmo e risultati inferiori all’entusiasmo, passavano a volte medici, ricercatori, luminari: tra questi un certo professor Baumann, tedesco. Quando mi visitò disse ai miei genitori che avrebbe potuto e voluto seguire il mio caso dal punto di vista ortopedico e che ci avrebbe aiutato a capire come mai questo bambino non camminava. È iniziato il mio secondo pellegrinaggio infantile, questa volta non sul dorso di un mulo ma sulla 131 Mirafiori di mio padre, a spasso tra Svizzera e Germania: prima a Berna, dove mi vennero ripetutamente ingessati gli arti inferiori, non saprei dirvi con quale obiettivo; poi a Basilea, in uno degli ospedali elvetici più all’avanguardia, dove cinquanta unità e istituti lavorano in modo interdisciplinare, per approfondimenti a livello neurologico; infine a Homburg, nel bacino della Saar, in uno dei primi centri in cui veniva effettuata la Tomografia a risonanza magnetica, un esame oggi diffusissimo ma nei primi anni Ottanta ancora pionieristico. E qui arrivò, per l’appunto, la sentenza definitiva, la “certezza della pena”: una fuoriuscita del midollo alla nascita, dovuta a una errata valutazione dell’équipe medica che aveva seguito il parto, 11
aveva danneggiato irreversibilmente la mia spina dorsale. Sarei stato su una sedia a rotelle per tutta la vita. Insomma, proprio quel 5 dicembre 1978, in cui il nonno Pietro correva per le strade pazzo di gioia, era stato in realtà il giorno della mia condanna. Poi è arrivato il tempo delle ricostruzioni, delle domande senza risposta, degli errori senza colpevoli. Due giorni prima della nascita, mia madre Tiziana si era sentita male. Aveva un’emorragia che all’ospedale di Somma le era stata subito bloccata, senza che però venisse visitata con attenzione. Era domenica e al pronto soccorso mancava lo specialista. Così le hanno detto che avrebbe dovuto aspettare il giorno dopo, quando sarebbe stata visitata in reparto. Il lunedì è passato il primario, senza prendere particolari provvedimenti e senza notare nulla di strano. Intanto il tempo passava. Il martedì mattina mia madre ha iniziato a stare decisamente peggio. “Mi hanno indotto il parto ma tu non nascevi”, mi ha raccontato. “Mi salivano sulla pancia, me la schiacciavano, ma niente. Eri podalico, un parto cesareo avrebbe risolto tutto: ma i medici non lo hanno capito. In ogni caso, quando alla fine sei nato, mi hanno detto che era andato tutto bene. Io ricordo solo che ti hanno tirato fuori per il sedere. E che eri viola. Questo non me lo dimenticherò mai.” Dopo i canonici due-tre giorni post parto, mia madre e io siamo stati mandati a casa. La cartella clinica era perfetta e immacolata: nessuna traccia di quella nascita così movimentata, nessun segnale che qualcosa potesse essere andato storto, nessuna prescrizione per ulteriori accertamenti. “Quando abbiamo visto che non stavi seduto”, mi ha spiegato mia madre, che è una delle donne più forti che 12
conosca, ma che quando mi parla di queste cose non riesce a non piangere, “ti abbiamo portato nell’ospedale dove sei nato. Ma nessuno ha avuto il coraggio di dirci quello che poi abbiamo scoperto: c’era stato un incidente”. È proprio questa la parola giusta, “incidente”, visto che tutti gli esami fatti in giro per l’Europa hanno escluso un problema genetico. Quante volte sentiamo la notizia di qualcuno rimasto paralizzato per un incidente? Così è stato per me. Con due “dettagli”: che l’incidente è avvenuto nei primi minuti della mia vita, segnandola per sempre. E che per questo incidente, che non è avvenuto a caso ma per precise responsabilità, nessuno ha mai pagato. Chi ha pagato senza avere colpe sono stati i miei genitori. Questo è uno dei miei pensieri fissi: quello che ci accade non tocca solo noi, ma anche quelli che ci stanno accanto ogni giorno e che ci vedono soffrire. Quanto è cambiata non solo la mia vita, ma anche quella dei miei genitori per un errore di qualcuno che si è sottratto poi alle proprie responsabilità? E quanto la mia situazione ha segnato non solo una vita, la mia, ma anche quelle di chi mi vuole bene? Penso anche (o forse soprattutto) a mia sorella Chiara, venuta al mondo cinque anni dopo, inconsapevole di quanto anche il suo cammino sarebbe stato duro e di quante sue domande sarebbero rimaste senza risposta. Ogni evento della vita, bello o brutto che sia, determina le pieghe del carattere di chi lo vive. A volte arrivo addirittura a sentirmi responsabile per tutto questo e a sentirmi in colpa per essere nato. Lo so, è assurdo, e c’è stato un giorno in cui a questa cosa ho detto basta. Un giorno in cui ho deciso che questo peso era un sasso che potevo e dovevo lasciare per strada, su una collina, insieme a tanti altri sassi simili che molti si portavano nel cuore. Ma questo momento si è fatto attendere a lungo. 13
Fatto sta che per i miei la vita è davvero cambiata. Fin da quando avevo pochi mesi, in attesa di capire quale fosse il mio problema, mi portavano tutte le settimane al Centro Aias di Busto Arsizio per fare esercizi di ginnastica che forse avrebbero migliorato le cose. Poi, una volta scoperto l’incidente, hanno sperimentato a lungo trattamenti più o meno efficaci. Ad esempio, tra i quattordici e i sedici anni, sono andato spesso fino a Lecco, in un centro specializzato, per farmi ingessare gambe e busto per correggere una scoliosi e una lordosi sempre più accentuate. D’altra parte la speranza, quando vedi tuo figlio soffrire, è l’unica cosa che non ti manca mai. Puoi essere disperato per te stesso, ma per tuo figlio - almeno così ho imparato vedendo i miei - speri sempre. Contro tutto e contro tutti. Fino al punto di farti anche prendere in giro. Quando avevo pochi mesi mia madre ha conosciuto un santone giapponese che l’ha convinta a farmi un bagno nel latte per un mese. Tempo fa ho letto su una rivista patinata che fare il bagno nel latte, o nel siero di latte, è diventata una moda tra i Vip e secondo alcuni studi questa pratica avrebbe benefici per la pelle e i muscoli. Mi piace pensare di essere stato io ad avere fatto tendenza, ma, contrariamente a quanto sosteneva il guru incontrato da mia madre, i bagni nel latte con me non hanno funzionato.
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