Per fortuna ci siamo persi

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MAURIZIO SERAFINI

PER FORTUNA CI SIAMO PERSI L’arte del viaggio imprevedibile



A Mamma Luciana detta 80 gioia (quando preparo lo zaino)



Introduzione

Un po’ di tempo fa mi trovavo nei deserti del Sud della Libia e casualmente mi sono fermato a dormire in un villaggio turistico con vista dune dell’Acacus. Là ho incontrato un pullman di italiani litigiosi che stavano facendo – o avrebbero dovuto fare – una gita aziendale. Urlavano senza sosta, accampando sempre e solo diritti. Dopo essersi rispettivamente rubati gli asciugamani a disposizione, e qualcuno ne era rimasto privo, era la volta di accusare l’organizzatore della gita. Volavano promesse di denunce perché nel programma c’era scritto che il villaggio si trovava tra le dune e invece rimaneva a cento metri di distanza dalla sabbia, e soprattutto era previsto il tuareg che cantava al tramonto nel deserto e l’uomo blu invece non s’era presentato perché era tempo di Ramadan. Dopo aver fatto finta d’essere lappone mi sono allontanato a piedi sulla cima della duna più alta. Una distesa di sabbia arrossata dai riverberi del tramonto, gli specchi lacustri di residuati marini, una carovana di cammelli che sfilava lontana, una brezza che riempiva l’anima e il senso di una libertà senza fine. Mi sentivo di appartenere armo5


nicamente al grande creato. Lontano, il vocio esasperato dei “turisti da programma” ciechi di fronte alla bellezza che avevano attorno. Neanche il sorgere di una luna piena commovente li riuscì a distrarre dalle loro aspettative disattese. In quel momento compresi ancor più di come le informazioni raccolte a casa, o dalle guide, possano essere sì delle finestre sul mondo, ma anche un limite per gli sguardi accoglienti. Ne ebbi conferma qualche anno dopo in Turchia quando, con un’amica che seguiva pedissequamente le indicazioni contenute nella sua preziosa guida, mi resi conto che ci stavamo perdendo l’anima del Paese, l’imprevedibile. Non era l’esperienza di scoperta e di arricchimento che avremmo voluto. Così, sotto i suoi occhi increduli, gettai il libro dal finestrino dell’auto in corsa. Lei stessa, a posteriori, dovette riconoscere che da quel momento cominciò il vero viaggio, quello sospeso tra realtà e sogno, quello unico e irripetibile, quello dell’esperienza viva e fulgida che torna a casa con te. In questo zibaldone sono raccolti i diari più significativi dei miei innumerevoli spostamenti in giro per l’Italia e per il mondo, vissuti seguendo non una guida turistica ma uno spirito guida. Quante volte ho voluto fidarmi di un istinto anziché di un ragionamento. Quante volte in montagna ho camminato fuori sentiero, senza mappe e senza itinerari, come se cercassi l’ispirazione per un atto creativo. Quanti errori, quanti momenti difficili e quante piacevoli scoperte. Solo in queste situazioni si acuiscono i sensi, si accendono i radar della percezione e si è pronti, come gatti, a saltare alla reazione. È l’unico modo per non andare a cercare i luoghi, ma attendere che siano loro a trovarti. In un mondo in cui ormai essere esploratori è molto difficile, mi sono così concesso un modo tutto personale di farlo: viaggiare in attesa di perdersi. 6


Oltre Rangoon

Dormo. Sogno. Io e Franco con due lunghe canne da pesca. Ma tra noi e il mare una larga e immensa spiaggia e, soprattutto, un recinto altissimo con tanto di filo spinato. La rete è infinita. Ci impedisce di raggiungere la battigia. Scavalchiamo. Subito veniamo aggrediti da due buttafuori in giacca e cravatta. Visi malesi, occhiali Ray-Ban e pistola in mano. Corriamo affannosamente tra le dune della spiaggia, inseguiti. Io e Franco ci perdiamo di vista. Sento uno sparo e un urlo. La guardia armata mi è sempre più vicina. Mi fermo con le mani in alto. Lo supplico di non uccidermi. La sua maschera si ammorbidisce. “Dove siamo, dove siamo?” chiedo a gran voce. Il buttafuori abbassa la pistola, mi intima di seguirlo. Entriamo in un edificio immenso, labirintico. Di stanza in stanza come in un percorso tra scatole cinesi. Ambiente tipo grande stabilimento termale: dottori in camice bianco che si prendono cura di pazienti, persone che chiacchierano rilassate tra loro sedute su sdraio, sale ristorante con camerieri gentili che servono a tavola, ovunque fontane. 7


“Questo è il posto più bello al mondo”, mi dice il buttafuori, “tutti sono felici e nessuno si chiede dove siamo. Nessuno può chiedersi dove siamo. Se vuoi salva la vita dovrai restare qui senza più chiederti dove siamo”. Ecco le camere, i letti, la sala giochi sembra una nave persa nell’oceano. Arriviamo alla fine. Il buttafuori spinge un maniglione antipanico, la porta si apre e siamo all’aria aperta. C’è una scala di sicurezza telescopica richiusa su sé stessa. Molto più in basso, la spiaggia. Lontano, un piccolo villaggio di paglia e bambù. “Ma questa scala se si allunga arriva fino al mare?” chiedo. “Sì, ma non è mai stata aperta”, mi risponde il buttafuori. “Proviamo. Mi piacerebbe vedere il meccanismo. Poi non farò più domande.” Pur titubante, il buttafuori si lascia convincere e si mette ad armeggiare. Con una chiave comincia ad allungarla, ma non giunge neanche a metà che interrompe la calata. È un istante: qualche passo di corsa per la scala e poi mi lascio cadere. Il salto nel vuoto non mi risveglia. Atterro sulla sabbia e il buttafuori spara senza colpirmi. Io scappo verso il villaggio, ma quando arrivo non c’è nessuno. Tutti sembrano spariti lasciando sospesa la vita quotidiana. Le palafitte sono vuote. Mi affaccio all’uscio di una casa: le braci del fuoco ancora ardenti. In un’altra la culla vuota di un bimbo ancora dondolante. Supero la merce abbandonata di una veranda di paglia ed entro in un negozio. Davanti a me uno specchio riflette la carta topografica appesa sulla parete opposta. Il tempo di girarmi e l’ombra di un uomo stacca frettolosamente la risposta al mio “dove sono?”. Mi sveglio sudato, l’immagine della mappa viva nella mia mente. Una scritta percepita al volo: IUGREM. Poi subentra il ragionamento: IUGREM, allo specchio le lettere si invertono. MERGUI. MERGUI? È un nome che non mi ricorda niente. Prendo 8


l’atlante. Incredibile. Mergui: arcipelago meridionale della Birmania. Non ne avevo mai sentito parlare. A quei tempi – il 1991 – non c’era internet e la mia banca dati era la biblioteca comunale. Queste furono le informazioni che raccolsi, rese tra l’altro incerte dagli accadimenti di quegli anni: 1) la Birmania aveva chiuso le frontiere. Nel 1990 la dittatura militare al potere era rimasta sorda al risultato delle elezioni e tenne in carcere Aung San Suu Kyi, la vincitrice. Scoppiò una rivolta popolare, specie nelle università, e la repressione militare portò a migliaia di morti. Tutti gli atenei furono chiusi e nonostante le sanzioni internazionali i generali decisero per la linea dura e autarchica. Chi ha visto la pellicola Oltre Rangoon può rendersi conto dell’atmosfera di piombo che si respirava in quegli anni in Birmania, ribattezzata dai militari Myanmar; 2) l’arcipelago delle Mergui era off limits anche per lo stesso potere militare. Un territorio inaccessibile controllato a Nord dall’esercito dei ribelli, acque solcate dai pirati e ottocento isole quasi disabitate. Quasi, perché punto d’appoggio dei moken, etnia organizzata in tribù nomadi del mare dedite alla pesca che vivono principalmente nelle baie dell’arcipelago, a bordo di navi-abitazioni familiari dette kabang. A terra le loro case sono rudimentali palafitte di bambù e foglie di palma usate per i brevi periodi stanziali tra una battuta di pesca e l’altra. “Franco questo è stato il mio sogno e queste le informazioni che ho raccolto.” “Prendiamo i biglietti e andiamo”, mi dice, “non vorrai lasciarmi morire dietro una duna, vero?”. Giusto il tempo di passare la notte precedente al volo aereo in una cella di sicurezza dei carabinieri, essere tra9


sportato la mattina seguente in manette al tribunale di Perugia ed essere condannato per oltraggio, resistenza e violenza a pubblico ufficiale – il tutto per un errore di identificazione –, e poi di corsa a Fiumicino, dove finalmente prendiamo l’aereo per Bangkok. *** Dopo quindici giorni ci siamo resi conto che di entrare in Birmania non se ne parla. Non dico Mergui, ma almeno la Birmania. Non è che la Thailandia faccia schifo, specie girata in motocicletta: il monastero dei monaci massaggiatori, i villaggi montani dell’oppio, un paio di notti tra gli sciamani karen che guardando in meditazione il cielo stellato facevano tuonare e illuminare a giorno i profili delle capanne, il bagno nel Mekong, il capodanno buddhista dove per tradizione ti tirano dei gran gavettoni d’acqua gelata mentre transiti in moto e i poetici rientri dai campi a casa delle tribù dei hmong. Ma in Birmania non è possibile: c’è la guerra. Questo ci dicono le agenzie di Bangkok. Solo una signorina in tailleur ci dà speranze, la sua agenzia è l’unica che ancora organizza un pacchetto turistico di tre giorni a Rangoon, completo di visto, volo aereo, guida governativa, albergo. Seicentocinquanta dollari a testa. Solo la capitale, solo tre giorni e una cifra insostenibile per noi. “Ma il visto è per quindici giorni?” le chiedo. “Il visto è standard ed è quello che usano i commercianti di blood pigeons, i famosi rubini di Birmania. La guida dopo tre giorni vi accompagnerà all’aeroporto e per voi non ci sarà modo di usarlo per tutta la sua estensione, anche perché non potrete allontanarvi da Rangoon. La città ha tre cinture di posti di blocco e senza l’autorizzazione del governo nessuno potrà vendervi un biglietto del treno o 10


dell’autobus.” E soprattutto noi abbiamo cinquecento dollari in due. “Vorrà dire che se non riusciamo a entrare legalmente ci proveremo illegalmente”, dico a Franco nel caos di Bangkok. La cosa straordinaria del mio compagno di viaggio è che, nonostante sia avvocato, il concetto di passare una frontiera illegalmente non lo scompone affatto. Anzi, rilancia: “Passare in Birmania dalle montagne è pericolosissimo. L’area è controllata dagli eserciti dell’oppio e i sentieri sono stati minati. Proviamo dal mare”. Dalla mappa si intuisce che il Kraburi, il fiume di frontiera, si allarga in un placido delta nella propaggine Sud-Ovest del territorio thailandese ed è costeggiato da una strada carrozzabile che tocca vari villaggi di pescatori. Il problema riguarda la costa birmana: sembra che il territorio sia disabitato e cinto da una foresta che si estende per centinaia di chilometri. Ma di questo ce ne occuperemo al momento. Nella rada di Nam Chuet che fa da porticciolo, sono quattro le barchette di legno piegate sulla bassa marea. Il fiume ormai salmastro per risacca del mare ha un’acqua ocra impenetrabile. Non lontano, forse un chilometro, la foresta della Birmania. Incontriamo Caronte e trattiamo per un passaggio. A bordo gli zaini con tutto il nostro bagaglio. La barca scivola nel fiume. Il silenzio greve è rotto solo dallo sciabordio delle onde e dal pot pot del motore. Al confine delle acque territoriali Caronte piega di nuovo verso la Thailandia. “Noi vorremmo andare di là”, “Non è possibile. Very dangerous”, ci risponde mentre con il pollice fa il segno del coltello alla gola. Insistiamo con mille baht in mano. Caronte tentenna, poi afferra il denaro e gira il timone. La barca si ferma a qualche metro dalla riva e io e Franco scendiamo nell’acqua, alta fino alla coscia. “Aspettaci qui, se non ci vedi entro mezz’ora torna a casa.” 11


Finalmente in Birmania. Entriamo nella foresta. Qualche oggetto d’uso abbandonato a terra e un sentiero che si inoltra nel verde tropicale. A ogni passo il ronzio intenso degli insetti sembra caricarsi di tensione. Dopo non più di cinque minuti incontriamo alcune palafitte di bambù nell’ombra intensa degli alberi. Una famiglia sporca, seduta, immobile e silenziosa ci guarda dalle stuoie della veranda. “Sawadee”, dico. Un bambino scoppia a piangere, i genitori restano immobili. Nell’imbarazzo stupidamente chiedo “Mergui?” indicando con la mano il verso del sentiero. Giustamente non mi rispondono. Se anche avessero capito parliamo di almeno duecento chilometri di improbabile transitabilità. “Forse è meglio se torniamo indietro.” Caronte nel vederci tira un sospiro di sollievo. *** Ranong è una squallida cittadina sul mare del Sud della Thailandia. Da lì salpano i pescherecci che, a strascico, fanno incetta di vongole nel mare dell’arcipelago Mergui. Quando tornano al porto per vendere il pescato, ci sono barche con bandiera thailandese e altre con bandiera birmana, ma i grandi acquirenti sono cinesi. Sui moli di legno spesso si affacciano taverne fatiscenti e osterie frequentate esclusivamente dai pescatori. Anche queste attività commerciali sono in mano ai cinesi. È un mondo senza donne. Da quattro giorni le facce segnate dal sole e dalle risse ci studiano di sottecchi. E noi studiamo loro. Abbiamo deciso di chiedere un passaggio per le isole, ma per farlo dobbiamo osservare bene, stare molto attenti agli sguardi, alle parole e ai comportamenti dei marinai dei vari pescherecci. Una volta saliti a bordo e preso il largo non avremmo più via di fuga e saremo irrintraccia12


bili. Qualcuno si avvicina e ci chiede cosa facciamo lì. “Al porto si vende un’ottima eroina”, ci dicono. “No, vorremmo salire in barca e andare a pesca.” La voce si sparge tra i marinai. Si presentano dei thailandesi dalle facce poco raccomandabili: “Venite con noi, salpiamo stasera”. “Vorremmo salire su un peschereccio birmano.” “Brutta gente quelli là”, dicono senza essersi mai guardati allo specchio. Da un’altra barca ci fanno cenno di salire ridendo tra loro. Defilato, un peschereccio birmano e un equipaggio di giovani disinteressati alla questione. Il capitano è un adone, taciturno e dallo sguardo fiero; un semplice sarong gli cinge i fianchi. Chiediamo a loro e la richiesta è talmente anomala che passano alcuni minuti senza che nessuno proferisca parola. Poi ci fanno gesto di salire, anche loro salpano al tramonto. Seduti sul ponte di prua con indosso una coperta dataci dal capitano per proteggerci dall’umidità, assistiamo al rito propiziatorio prima di salpare. Le preghiere sono salmodianti e profonde. Si accendono gli incensi che vengono librati in aria e posti sul dritto di prua insieme a collane di fiori. Al crepuscolo prendiamo il largo. Nessuno ci rivolge la parola. I nostri pensieri viaggiano lontano, a casa, ai nostri cari: forse non racconteremo mai di questa nostra avventura. Due giovani marinai ci offrono un bidi da fumare e poi una tazza di tè. Certo, anche per loro la situazione è insolita: gomito a gomito per tre giorni con due stranieri che non parlano la loro lingua. Forse anche loro non sono a proprio agio. A poco a poco si allargano i sorrisi, si azzardano strette di mano e l’imbarazzo reciproco si allenta. Qualche parola stentata di thailandese e scattano le risate. Dopo un piatto di riso, a notte fonda, il motore si placa e la barca rallenta in mare aperto. Tutti i ragazzi sono in fermento: comincia la pesca. Una 13


pesantissima gabbia viene fatta scivolare in acqua con l’aiuto di un argano. Poi il motore aumenta i giri e l’imbarcazione riprende la sua rotta trainando lo strascico tra i fondali sabbiosi. Di nuovo a motore spento. L’argano solleva la gabbia piena e ci vogliono le braccia forti di tutti i marinai per issarla a bordo. Inizia un lungo lavoro di ripulitura da alghe e presenze aliene, poi le vongole, enormi, vengono ammonticchiate sul ponte di prua, tra i nostri piedi, e coperte da panni bagnati. Così per tutta la notte. Al sorgere del sole, nessun segno delle isole Mergui. Ci alziamo in piedi con gli occhi stanchi a scrutare l’orizzonte come Colombo in cerca di terra. Adone corre verso di noi e con un gesto deciso ci porta nella cabina. Con le poche e stentate parole d’inglese che conosce ci fa capire che quella è zona di pirati, sempre all’erta con i loro cannocchiali. Il gesto del pollice che accompagna quell’avvertimento lo abbiamo già visto. Non è più tempo di pugnali ma di kalashnikov e sarebbe sicuramente difficile spiegare la presenza di due stranieri su un motopeschereccio birmano, fuori dalle acque territoriali. E così di giorno siamo costretti in una cabina a leggere libri di Asimov, coccolati da tè profumati, zuppe di pesce e ostriche appena pescate, sonnecchianti in attesa della notte. È pomeriggio tardi quando dal nostro alloggio vediamo sfilare le coste di alcuni isolotti dell’arcipelago. Chiediamo se sia possibile sbarcare, anche per un solo momento, ma in risposta ritorna minaccioso il gesto della lama alla gola. Ci affacciamo da prua, prima di rientrare in Thailandia, solo per pochi istanti, stupiti e in silenzio. Con le spiagge bianche e l’acqua limpida della barriera corallina le Mergui sembrano così accoglienti. “Sembrano”, ci fa capire Adone con un sorriso. È evidente che entrare abusivamente in Birmania da un arcipelago non è la strada migliore, non si va tanto lontano. C’è qualcosa nel sogno che 14


va interpretato meglio. Comunque per ora ipotesi Mergui chiusa. Il ritorno al porto di Ranong è accompagnato dagli sguardi senza compiacimento degli altri pescatori. Ma noi, da vincitori, ci facciamo largo tra il popolo curioso della banchina di legno e senza timore chiediamo un tè alla taverna del cinese. *** Ma la fascinazione del proibito non si esaurisce: la Birmania ormai è diventata una terra irresistibile. Tornati a Bangkok recuperiamo altri dollari che Franco si è fatto spedire dall’Italia. Con quelli che ho ancora in tasca arriviamo a millequattrocento: milletrecento per il pacchetto di tre giorni a Rangoon e cento per le spese di sussistenza. La signorina in tailleur però non accetta i quattrocento che tengo nel mio portafogli. I gavettoni presi al capodanno buddhista hanno bagnato la vilpelle che ha macchiato irrimediabilmente di blu il volto di Franklin, e in Thailandia una banconota macchiata è una banconota bruciata. “Nessuno prenderà i tuoi soldi. Prova all’American Bank”, mi dice, ma il cassiere della banca non può cambiarli. Però telefona alla Cia, ufficio antifalsificazioni. “Ti aspettano a questo indirizzo.” Ho le indicazioni: piano e interno di un grattacielo nel quartiere dei grandi palazzi di Bangkok. Raggiungo il piano, ma l’interno diciassette non c’è. C’è il sedici, il diciotto, ma non il diciassette. Chiedo della Cia al portiere, mi guarda allibito. Ritorno al piano, magari l’hanno messo fuori sequenza. Percorro il corridoio avanti e indietro, poi, proprio quando sto per rinunciare, sento un meccanismo scattare, mentre si apre un accesso a scomparsa nel muro. Probabilmente mi hanno visto passare dalle telecamere. Dentro, una vetrata antiproiettile con una feritoia. Introduco i dollari blu. Un 15


uomo con una lente d’ingrandimento all’occhio studia le banconote come fossero diamanti: “Non sono false”, “Questo lo so ma il problema è che non me le prendono”. “Noi non cambiamo dollari”, risponde secco. “Ok. Mi può certificare per iscritto che almeno sono buone?” Con il foglietto della Cia torno dalla signorina in tailleur. Più che il documento poté la pena e la caparbietà: i biglietti aerei sono per l’indomani. La guida a Rangoon è una giovane donna di nome Nhung, ben istruita dal governo ed elusiva a ogni domanda sulla situazione politica birmana, ma a volte i cuori si parlano al di là di ogni forma espressiva convenzionale. Durante la visita alla straordinaria pagoda di Shwedagon, o per le vie svuotate da auto e civili e riempite da militari, o nei mercati impoveriti di merce della capitale, alcune frasi lapidarie ci fanno percepire il suo dissenso. “Sono ormai guida di me stessa”, dice alludendo alla chiusura governativa nei confronti del turismo. Quando ci porta a cambiare i cento dollari rimasti al mercato nero, capisco che è il momento di chiederle di più. “Abbiamo un visto di quindici giorni, vorremmo sfruttarlo. Uscire da Rangoon.” Silenzio. Imbarazzo. Ci accompagna al nostro albergo squallido e privo di personale e ci saluta dicendo: “Non uscite dopo le dieci di sera, c’è il coprifuoco. Domani ne riparliamo. Arrivederci”. L’indomani Nhung è ben vestita, una giusta miscela di tradizione e modernità: “Abbiamo un appuntamento”, dice. Ci guida a passo svelto tra i vicoli di Rangoon, tra strade sterrate piene di bimbi che giocano, matasse di fili elettrici e gocciolii d’acqua provenienti dalle case. Le sue nocche bussano a un portone fatiscente. Ci apre un giovane che sorride e fa segno di seguirlo in casa. Al primo 16


piano entriamo in una stanza con le finestre serrate oscurate. Un tavolo e una decina di sedie sono gli unici arredi. Siamo nella sede del Comitato studentesco universitario, ovviamente antigovernativo, ovviamente illegale. Altri tre giovani studenti si intravedono nella penombra. “Siamo considerati terroristi”, ci dicono, “ma alcuni professori continuano a far lezioni, senza percepire stipendio, per chi, come noi, vuole garantirsi il diritto allo studio. E lo fanno dove non c’è luce, dove non c’è controllo militare. Ogni mese siamo costretti a cambiare luogo di ritrovo”. Continuano mentre la guida rimane a testa bassa in disparte. “Nhung ci ha detto che desiderate uscire da Rangoon. Noi, se volete, vi possiamo aiutare. L’unica possibilità è in direzione nord, verso Mandalay. Superati i posti di blocco, a settanta chilometri da qui, sarete in un altro Paese. Liberi di prendere treni e autobus. Ma non dovrete andare oltre Mandalay. Lì ci sono gli eserciti dei ribelli e dei narcotrafficanti.” Ma come fare a superare i posti di blocco? “C’è un nostro fidato che ha un furgone. Lui vi nasconderà tra gli scatoloni della merce. È conosciuto dai militari e riesce a evitare i controlli.” “E se dovessero controllare?” Non ci danno una risposta. Abbiamo un visto in corso di validità, siamo stranieri. Chissà, un foglio di via e ci rispediscono in Italia. “Per noi va bene. Cosa dobbiamo fare?” “Domani Nhung vi accompagnerà all’aeroporto. Farà il suo dovere e poi se ne andrà via. Voi invece di imbarcarvi per Bangkok comprate al duty free una bottiglia di Johnnie Walker e una stecca di Marlboro, uscite di nuovo, prendete un taxi e tornate qui. Il furgone vi aspetterà. Pagherete il passaggio con whisky e sigarette.” In albergo siamo pensierosi. La condizione di profughi è una cosa nuova per noi e non riusciamo a prevederne i 17


rischi. L’unico precedente risale a sei anni prima. Giravo in Panda in viaggio di nozze nell’allora Jugoslavia, costeggiando il Danubio oltre Belgrado mi fermò un autostoppista. Era il signor Petrescu, marinaio romeno del mar Nero. Per sfuggire al regime di Ceaus,escu aveva attraversato a nuoto il Danubio in uno dei punti più pericolosi e meno controllati e cercava un passaggio per raggiungere l’Italia. Lo nascosi nel portabagagli tra i nostri indumenti. La polizia serba mi fermò lungo la strada e diedi i documenti tremante. “Ah, italiani. Andate e buon viaggio.” Prima della frontiera il signor Petrescu scese, ci abbracciò e mi infilò seicento dollari in tasca. “Io i soldi ce li ho. Ma in Romania non me li fanno spendere”, mi disse. Sarebbe arrivato in Italia passando per le montagne. Avevamo un appuntamento al di là della frontiera ma non lo vidi più. Per noi la condizione è opposta: non vogliamo fuggire da un Paese governato dalla dittatura ma entrarci, quasi sfidandolo. E ormai il dado è tratto. Telefono alla compagnia aerea per farci spostare il volo e mi infilo nel sacco a pelo per non toccare le lenzuola sudicie dell’albergo. All’aeroporto Nhung ci saluta con una formale stretta di mano, anche se i suoi occhi parlano di un’altra empatia. Se ne va. Io e Franco compriamo il nostro passepartout al duty free e torniamo al centro di Rangoon. Ad aspettarci c’è un anziano smilzo di poche parole. Paghiamo il dovuto e saliamo frettolosamente rannicchiati nel pertugio del suo van, tra sacchi puzzolenti di iuta e scatole di merce da consegnare. Lo spazio vitale è ridotto ai minimi termini, i sobbalzi del mezzo dolorosi e i fumi di scarico del furgone spesso ammorbano l’aria. Cerco di portare il pensiero altrove per non soffrire troppo. Quando mai si è visto un profugo che viaggia comodo? È insito nello stato 18


dei clandestini. Tempo mezz’ora e il furgone rallenta, si ferma. Sentiamo il vocio dei militari e dello smilzo. Ci siamo fidati di lui al buio e ora la mia mente si riempie di ogni possibile dubbio. Sudo freddo. Poi, tra di loro, una risata distensiva e il motore riparte. Altra ora, altro posto di blocco. Anche qui l’autista mantiene il suo sangue freddo e il suo buon umore. Un militare gli chiede un passaggio e sale al suo fianco. Pochi chilometri dove li sentiamo parlare e quasi tratteniamo il respiro per non farci percepire. Poi il militare scende e saluta. È al terzo posto di blocco che qualcosa sembra non andare bene. C’è una voce di regime che sembra meno tranquilla. Con la mano batte più volte le pareti del cassone dove siamo alloggiati. Lo smilzo cerca di far valere le sue ragioni. Poi altre voci si avvicinano. Qualcuno forse lo riconosce e probabilmente sa dei suoi trasporti più o meno leciti. Per passare ci vogliono due pacchetti di Marlboro. Lo smilzo paga e lo sentiamo borbottare da solo, scontento, per il resto del viaggio. Altri venti minuti di buche e sofferenze, poi il furgone arriva al capolinea. In un’aia in mezzo alla campagna un autobus sta per partire. Scendiamo con i nostri bagagli e ci sistemiamo negli unici due posti rimasti, vicino al conducente. Ci stavano aspettando e non ho idea di come sia arrivata la notizia. Partiamo in direzione nord. Nonostante sia un pullman da cinquanta posti ci sono solo dieci persone a bordo, il resto è occupato da scatoloni accatastati fino al soffitto. Sono pieni di succo d’arancia prodotto dalla casa automobilistica Mitsubishi. *** La grande vetrata dell’autobus è lo schermo della PlayStation, le nostre ginocchia, piegate sui cartoni d’aranciata, i joystick. Comincia il videogame. Per giungere all’ultimo 19


livello, cioè la destinazione, abbiamo ventiquattro ore. L’asfalto dell’unica via che porta a nord è martoriato dalle buche e divorato dal tempo, il mezzo con cui viaggiamo senza ammortizzatori, l’autista un pazzo scatenato e fuori pioviccica. La strada è un grande sistema biologico: bambini che attraversano di corsa senza guardare, carri trainati da buoi, biciclette al centro della carreggiata, rikshaw, pedoni, giocatori di dadi seduti a terra, cani, greggi di capre, facchini che trasportano fascine enormi di canne lunghissime di bambù, e di tanto in tanto auto e pullman da superare. Il gioco consiste nel non spiaccicare nessuno a terra andando alla massima velocità possibile e suonando a più non posso il potente clacson. Dopo dodici ore di tachicardia, di mani sugli occhi, di ginocchia tumefatte, e dopo aver bevuto un cartone intero di succhi Mitsubishi – pagati ovviamente all’autista – scendiamo per sei ore di meritato riposo. Il nostro alloggio non è un albergo, neanche un ristorante, né una sala da tè. È la veranda di una segheria che fa i turni di notte. In certi momenti mi piacerebbe capire quali siano le logiche misteriose che dettano le scelte degli umani. Nel caso specifico, dell’autista. Sei ore di ipotetico sonno distesi su stuoie puzzolenti, con la sega a nastro a portata d’orecchio e diversi birmani che evidentemente mi reputano un ottimo cuscino. Ripartiamo all’alba diretti al capolinea: Taunggyi. Uno scenario spettrale ci accoglie: la città ancora fumante dopo un incendio durato una settimana. Gran parte delle case di paglia sono carbonizzate e per le strade non si vede nessuno. I nostri passi riverberano nel silenzio irreale. Franco si siede su una pietra massaggiandosi il ginocchio provato dal viaggio, è come se fosse completamente bloccato. “Vado a cercarti un medico. Aspettami qui.” Taunggyi conta cinquecentomila abitanti e io 20


non trovo nessuno. Mi inoltro tra gli sterrati e il fumo degli incendi, ancora nessuno. Tra i vicoli, nelle piazzette. Una scena da day after. Forse sono entrato nel livello successivo del videogioco. Sento da lontano urla di bimbi. Lo sguardo improvvisamente si apre su uno spiazzo enorme di terra battuta. Lungo il fiume migliaia di persone. Come mi vede, la moltitudine di bambini mi corre incontro, seguita a pochi passi dagli adulti. In breve sono circondato. Tra la folla da stadio si fa largo un uomo, parla inglese e dice di essere un insegnante. “Un mio amico ha un problema al ginocchio”, minimizzo, “c’è un dottore qui?”. Mi guarda come volesse chiedermi: “Venite a curarvi le ginocchia a Taunggyi?”. Difficile spiegare chi siamo e perché siamo finiti lì, a ogni modo la comunità si mette in moto. Il mar Rosso umano si apre per fare largo a una vecchina curva e cieca sorretta da alcuni giovani. Ha un piccolissimo sgabello in mano. “Lei può guarire il ginocchio del tuo amico. Dov’è lui ora?” “Seguitemi.” Quando torno da Franco ho più di mille persone che mi seguono in processione. Tra le polveri dello sterrato alzate dal vento il mio amico dirà di aver assistito al quadro vivente del Quarto Stato. La vecchina si siede sullo sgabello accanto a lui e, senza proferir parola, inizia a massaggiargli la gamba. Sarà stato lo stordimento della situazione o la perizia della donna, ma sta di fatto che dopo dieci minuti tutti i dolori erano passati. Di lì a poco eravamo a bordo di un vecchio taxi, in direzione del lago Inle. Dalla città del fuoco al regno delle acque. “Siamo arrivati”, ci dice il tassista, “dove vi devo portare?”. “Al lago Inle.” “Ma il lago Inle è grande.” “Per noi va bene anche qui.” 21


Mentre le ombre delle palafitte si allungano, ci inoltriamo con gli zaini nella campagna, alla ricerca di un giaciglio per la notte. Ci viene incontro un ragazzo androgino. È l’unico nella zona che non indossa il sarong ma ostenta un bel paio di jeans nuovi fiammanti. Ed è uno dei pochi che parla inglese: “Hi, I’m Jim”. Sui suoi occhi spicca un evidente trucco. Cercavamo un posto per dormire. “You are welcome at my home.” Jim, così si è voluto chiamare, era il capo ballerino della Compagnia nazionale di danza tradizionale birmana. Con il colpo di mano dei generali è stato costretto a tornare a casa da Rangoon. La madre lo guarda con naturalezza mentre si dipinge le lunghissime unghie ormai giunte alla curvatura e si ritocca il trucco agli occhi per essere ancor più maschera teatrale. Come un eunuco dedito al bel canto, la sua fisicità gli permette di interpretare ruoli femminili e maschili. Un vecchio registratore e una musica di gong e tamburi, noi seduti a sorseggiare una zuppa vegetariana e Jim a piegare il suo corpo in posture da divinità induista. Le dita ricurve all’indietro come i suoi polsi, le gambe piegate in un eterno plié e i movimenti lenti come le posizioni dello yoga. Accanto alla sua performance, un teatrino di marionette. Quando si apre il piccolo sipario le movenze e il trucco del pupazzo sono identiche a quelli di Jim. L’attore e la marionetta danzano in sincrono come un consumato corpo di ballo. A muovere la marionetta, il suo allievo prediletto. Jim non si rassegna. Pur nell’isolamento della sua casa natia, con la mente è rimasto ai grandi palcoscenici di qualche anno prima e il nostro arrivo è come se fosse stato per lui l’arrivo del pubblico. “Domani mio fratello vi porterà in barca sul lago Inle. Buonanotte.” *** 22


La piroga che solca il placido specchio del lago è lunga e stretta e quasi senza sponde. Con le mani ferme al bordo dello scafo, le dita sono praticamente immerse e ogni pagaiata è un gioco di equilibrio, perché basta un piccolo movimento per imbarcare acqua. Eppure i pescatori che silenziosi manovrano le reti adagiate attorno a grandi cesti di vimini riescono a stare in piedi nei pressi della poppa, con una gamba sulla piroga e l’altra avvinghiata al remo per guidare l’imbarcazione. Tra le poetiche risaie dove non risuona mai mezzo meccanico, alcuni agricoltori sono curvi per la pulatura. Qualcuno è al lavoro agli orti galleggianti: alghe raccolte dal fondo del lago e appoggiate su canne di bambù che formano terreni fertili coltivati a ortaggi e fiori e trainati con le corde all’interno delle anse. Un tempio palafitta è proprio al centro del lago. Attracchiamo per la visita. Due monaci buddhisti stanno sorseggiando del tè bancha seduti su dei piccoli sgabelli sotto la veranda. Ci offrono un posto all’ombra e due tazze di tè caldo. Poi silenzio. Fino al tramonto rimaniamo in silenzio a osservare quel mondo bucolico e la sua vita fuori dal tempo. Ce ne andiamo, dopo due ore, ringraziando i monaci per il lungo e insolito dialogo senza parole. A casa troviamo Jim nudo, steso su dei cuscini, mentre il suo prediletto gli è sopra la schiena per un massaggio rilassante. Ci fa cenno di uscire dalla stanza. “Domani ho prenotato un taxi”, ci dice a cena, “ci inoltriamo nella foresta, alla missione di padre Angelo. Lui è italiano come voi”. Il taxi altro non è che un pick-up che ci ricorda la qualità delle strade birmane, specie quelle minori. Arriviamo alla missione con le braccia distrutte dallo sforzo a cui siamo stati costretti per non farci sbalzare fuori dal cassone 23


dell’auto. Padre Angelo ha ottantacinque anni e una lunga barba bianca. I suoi occhi si fanno lucidi mentre ci parla in una lingua che ormai non sembra più sua: “Oh mio Dio... italiani. Entrate in casa. I miei confratelli sono stati cacciati tutti dal governo. Tutte le missioni cattoliche chiuse. Io sono l’unico che è restato. Dopo sessantacinque anni che vivo qui, e con la mia veneranda età, mi hanno considerato innocuo”. Padre Angelo è rimasto solo e chissà ora qual è la sua missione. Di sicuro è spaventato. Vuole che mandiamo via Jim: “Potrebbe essere una spia”, lo rassicuriamo “Non parla italiano”. Lo guarda di sottecchi: “Qui si vive nel terrore. Una soffiata e sei morto. Hanno chiuso tutto: le università, le missioni, le strade, i cuori della gente. Ma voi come siete riusciti a venire qua?”. Gli raccontiamo la nostra odissea: “E ora dovremmo tornare a Rangoon e non sappiamo come fare. Il visto scade fra qualche giorno”. “Con il treno da Taunggyi. È la via migliore. Quello non lo controllano mai perché non vendono bi24


glietti se non autorizzati dal governo. Ma io li posso prendere per voi. Ah... italiani.” Ci porta in cucina, cerca insistentemente dentro una credenza e ci mostra orgoglioso un pacchetto aperto di caffè Lavazza, riemerso da chissà dove, e una caffettiera Bialetti. “Me li spedì mia sorella dall’Italia dieci anni fa quando era ancora in vita. Dobbiamo festeggiare.” Padre Angelo da Lecco, partito da casa sessantacinque anni prima, ripassa l’italiano leggendo vecchi settimanali e quotidiani arrivati in missione per posta quando era possibile ricevere ancora qualcosa. Non può permettersi di perdere la lingua madre perché deve relazionare ogni giorno le attività della missione, anche se nessuno probabilmente leggerà più i suoi scritti ammucchiati sulla scrivania. Sbirciamo qualcosa dai suoi diari: vendute due galline per comprare l’olio per le lampade, e qualche pagina oltre: non posso più scrivere delle vicende politiche, i militari controllano tutto. Padre Angelo da Lecco a casa non ha più nessuno e ha deciso di morire in Birmania. Prima di riprendere il pickup ci lascia i biglietti del treno che aveva tenuto da parte per fuggire dal suo mondo nella foresta, nel caso fosse stato costretto. Due biglietti di prima classe. E sarà per noi il viaggio più comodo attraverso le pagode e le risaie dell’ormai Myanmar. Arriviamo in aeroporto a poche ore dalla scadenza del visto. Il funzionario gira e rigira i passaporti. Guarda senza sorriso i nostri volti e poi mette il timbro d’uscita. Ancora oggi, a distanza di trent’anni, quell’unica foto sbiadita, che tengo negli album di viaggio e che ci ritrae con padre Angelo sorridente di fronte alla sua missione, mi suscita una tenerezza infinita.

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