"Sardegna tra mare e miniere"

Page 1

MARIACARLA CASTAGNA

SARDEGNA TRA MARE E MINIERE Storie e luoghi da scoprire lungo il Cammino di santa Barbara



Introduzione

Andare per miniere

Andare per miniere è la proposta di questo libro che è stato anche una vacanza, un viaggio, tanti anni fa, ripreso e rifrequentato negli anni. Un viaggio attraverso il Sulcis-Iglesiente. La Sardegna del sud-ovest. L’isola della penisola Italia. Un viaggio lento, a piedi. Ma questo è anche un viaggio per chi ha voglia di avventurarsi oltre il limen, la soglia, il principio delle pagine, perché camminare e conoscere hanno la stessa urgenza: chiedono tempo, spazio, voglia di stare dentro una terra e dentro le storie di quella terra. E le storie del Sulcis sono storie di miniera, di dentroterra, storie di uomini infilati vivi dentro le budella del suolo, esistenze passate a cavare fuori minerale, vite brulicanti intorno a pozzi, cunicoli, detriti, fiammelle di carburo. Storia operaia, memoria del lavoro. Storia di un territorio ma anche storia del mondo. Un mondo internazionalista, multiregionale, che chiamava a raccolta i disperati d’Europa, i senza lavoro di tutte le lande d’occaso, ma pure le maestranze più esperte, gli ingegneri più arditi. 3


Un’identità giocata nel locale, che si declinava al globale. Andare con i piedi, la lettura, su una terra piena di carbone, piombo e zinco allora, andarci così non è tanto un camminare alla ricerca di edifici più o meno conservatirestaurati, quanto il riconoscimento della storia e della vita, della lotta e della dignità di chi ha lavorato nelle miniere. Storia di lotte per un salario migliore, sicurezza e giustizia. Storia di scioperi e di morti, di fierezza e riscatto. Come tutte le narrazioni che hanno qualcosa d’interessante le letture sono molteplici, talvolta contrastanti, partigiane. Perché la miniera nel tempo è stata luogo di costruzione di una socialità. Luogo non privo di contraddizioni, ma luogo. Luogo di sfruttamento alto, pesante, ma anche luogo in cui le comunità si riconoscevano, costruivano i loro legami. Luogo in cui la terra veniva depredata, scavata, esportata al pari di merce, al pari degli uomini che la estraevano, ma anche luogo di radicamento e appartenenza. Luogo di trasmissione di un sapere, una cultura, ma pure luogo della cultura del padrone, del rubare-prelevare tutto il possibile senza cura per il domani, i danni. Luogo del dominio dello straniero, del direttore, ma anche luogo di solidarietà, forte, fortissima, di coscienza di classe indomita e indisponibile. Luogo che metteva a forza motrice le braccia e i muscoli d’uomo, ma anche luogo dell’impiego di macchine e tecniche innovative, avanzate, come a Porto Flavia. E allora, miniere come luoghi da conoscere, raggiungere, ma soprattutto miniere come necessità. Di recuperare storie, ascoltarne. Un paesaggio carsico, da salvare. Per salvare storie di vite e imprese. Perché le miniere sono state prima di tutto, prima di diventare o sperare di essere archeologia industriale, nuovi 4


templi del benessere, beauty farm, o turismo più o meno responsabile, sono state storia d’uomini. Racconta Gerardo, ex minatore: “La Sardegna sono 8mila anni di attività mineraria; è sempre stata la nostra storia e adesso non lo è più. Ma quella storia è rimasta nel carattere della gente, anche oggi, che i padri faticano a riconoscere i figli. Non c’è più lavoro in Sardegna, in dieci anni 25mila sardi se ne sono andati. Il rischio - annotava Gerardo nel 2006 -, è che continuiamo a venderci agli altri. Perché la storia della Sardegna è sempre stata storia di vendita agli altri”. Sapere trasformare l’eredità delle lotte e della dignità strappate in pertugio di futuro, rimane la sfida aperta. Gerardo se ne è andato, sono passati tredici anni da quelle parole e la Sardegna ha perso altri 25.327 abitanti (dati Istat sul comportamento migratorio, aggiornati al decennio 2007-2017). Ma anche posti di lavoro. Nel Sulcis-Iglesiente il tasso di occupazione è sceso dal 50,4 per cento del 2008 al 43,8 per cento del 2016. La provincia di Carbonia-Iglesias nel 2017 si è piazzata al penultimo posto per Pil pro capite. Ci sono 38mila disoccupati. Leggi i numeri, ripassi la Costituzione, vai all’art. 1: “L’Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro”, deglutisci amaro. Ti fermi, ripensi a “La solitudine dell’art. 1”1 e alle sere passate ad ascoltare chi ne raccontava la nascita, vai a memoria: “Vuol dire che la fatica di qualcuno non può basarsi sul privilegio, sui titoli, ma che dentro ci sono tutte le fatiche, i compiti degli uomini, delle donne”. È un diritto, non elemosina da questuare. E il diritto, scriveva Calamandrei: “Non è fatto per me o per te… non può essere pensato se non in 1

Gustavo Zagrebelsky, Fondata sul lavoro, Einaudi 2013.

5


forma di correlazione reciproca… non può essere affermato in me senza essere affermato contemporaneamente in tutti i miei simili; non può essere offeso nel mio simile senza offendere me, senza offendere tutti coloro che potranno essere domani i soggetti dello stesso diritto, le vittime della stessa offesa”2. Già, i commenti, e poi c’è la realtà: nella sola provincia di Carbonia-Iglesias, l’ultimo rapporto Migrantes (2018) censiva 10.785 residenti all’estero. Senza contare i migranti interni, quanti hanno scelto il continente o altre zone della Sardegna. E il 37,1 per cento di quei 10mila e rotti, sono giovani sotto i 34 anni. “Dal 2008, in concomitanza con la crisi economica mondiale, noi sardi abbiamo ripreso a muoverci parecchio” dice Silvia Aru, geografa cagliaritana che ha raccontato le migrazioni in Sardegna, prima di vincere il premio 2017 Marie Curie fellowship dell’Amsterdam Institute for Social Scienze Research (AISSR) per un progetto sul sistema di accoglienza dei richiedenti asilo in Europa. Muoversi per cercare lavoro, muoversi per conoscere una terra lontana. Anche questo libro è nato dentro una vacanza, un viaggio. E vacanza è parola che viene dal latino vacans, participio presente di vacare, che significa essere sgombro, libero, ma anche: fare posto a. Se è così allora vacanza è soprattutto una ricreazione. Come a scuola, al suono della campanella. Anzi, meglio, una ri-creazione.

2

6

Pietro Calamandrei, Fede nel diritto, Laterza 2008.


Spazio, terra e inaspettate foreste

La Sardegna è soprattutto spazio e terra. Terra talvolta aspra, fatta di zolle grigie rivoltate, coltivate, ricavate tra gli affioramenti basaltici e le depressioni alluvionali. Scurita dai rovi ed esposta al cielo, un tratto d’Africa dentro il Mediterraneo. Le sue montagne sono colline, ma si credono giganti. Monti di rocce carbonatiche, eruttive e metamorfiche, addossate l’una sull’altra in dense giogaie, dai profili turriformi. Nuda roccia che nella valle dell’Orrida, del Marganai improvvisamente, inaspettatamente, diventa foresta vasta e fitta, ricca d’acqua, di frescura. Con cavità granitiche di stalattiti e stalagmiti, colonne, concrezioni tubolari e cristalli sulle pareti. La terra Sulcis e Iglesiente. Se nell’Iglesiente è montana, minerale, caverna e foresta, la Sardegna, la sua morfologia, si fa più appartata e spoglia, brulla distesa adibita a pascolo ovino, cunicolo di terra nera che frana, nel Sulcis. Qui i rilievi sono ancora più modesti, dolci. Tra Sulcis e Iglesiente, a interrompere la linea delle colline, dei rilievi, si trova la 7


depressione alluvionale del Cixerri, il fiume-confine, l’asse pianeggiante est-ovest, che si insinua tra Iglesias e Siliqua per terminare nella vasta distesa del Campidano. È acqua il sud-ovest, di sale o palude, dighe. Acquitrinosa terra distesa che s’arroventa a volte o s’innalza in modesti rilievi ricoperti a macchia. Sul monte Rosas, sul Crobu e nelle colline del Sirai e Montessu. Nel maestoso domo andesitico di Acquafredda, la più stupefacente struttura vulcanica della piana del Cixerri. Terra mista, depositi sedimentari di origine marina che hanno subito ere di affioramenti e inondazioni. Terra di natura carbonatica altrove, con fenomeni di carsismo. O vulcanica. Terre buone per il vino e, a volte, gli orti. Terra di sabbia in prossimità del mare. Granaio d’Europa, in epoca di romani imperatori, nella piana del Campidano che sta al confine di nord-est di questo racconto. Le pianure sono interrotte dalle tipiche abitazioni dei contadini, i furriadroxius (da furriai: ritornare), o dai luoghi di stanziamento dei pastori, i medàus (tettoie allungate per il ricovero del bestiame). Luoghi dove la presenza umana si riduce a quella di qualche solitario pastore. Oggi ancora più rado di ieri. Ma la zona sud-occidentale della Sardegna, il SulcisIglesiente, è anche archeologia industriale. Una geografia caratterizzata dagli insediamenti e dalle attività minerarie. Disperse tra la macchia mediterranea fatta di bassi alberi nodosi e foglie sempreverdi. I sardi vivono riuniti, non sanno lo sparso, l’abitare a semina. Loro stanno aggrappati, gli uni agli altri, si fanno compagnia in quegli spazi popolati, tra una piena e l’altra, tra paese e paese, nel bianco di un muro di calce addossato a quell’altro. Il resto è mancanza, anecumene, silenzio. Forse è per questo che sanno l’ospitalità, l’apparecchiare l’agnello più in carne all’incontro. 8


Il buio La Sardegna è buio e silenzio. Ma per sapere cos’è il buio, il buio vero, il buio che se sei abitante di città neanche riesci a immaginartelo quanto è profondo, rumoroso, basta scendere in una galleria di miniera. E spegnere la torcia. Anche solo per qualche secondo. Spegnere la luce e fermarsi ad ascoltare. L’umido sulla pelle, la voce dell’acqua portata dalle correnti dell’aria, il freddo del dentroterra. Spalancare gli occhi e non vedere nulla. Nulla, ma sentire tutto. La luce Sopra, la terra, è bosco, prato, luce, case… Sotto, la terra, è roccia, buio, parete, paura. Sopra, la terra, è ombra: lunga, corta, inesistente allo zenit. Sotto la terra, l’ombra è sempre la stessa. Sotto la terra è stretta, sopra la terra è spazio. Sotto la terra togli, sopra la terra metti. Sotto la terra è lotta, sopra la terra è egualmente. Maestrale È nome proprio di vento. Che qui soffia solitario e costante, graffiando la terra, modellando le dune e le onde del mare. Tiene l’aria pulita, è lo spazzino dei cieli che arriva da nord-ovest. In Francia, dove nasce, il suo nome è Mistral. Alla frontiera cambia nome ma non segno. Rimane un vento freddo, di raffiche irruenti, instabili, schiaffi sul viso. Porta nubi cumuliformi, a volte cumulonembi temporaleschi. È bello sentirselo sulla pelle d’estate, un po’ più rude d’inverno. Il mare La Sardegna è mare. Spiagge, cale, scogliere. Lo raccontano tutte le guide, riviste, foto. Rosse falesie d’arenaria 9


nel Sinis. Strapiombi vertiginosi e minuscoli arenili ad Arbatrax. Rotondi sassi nell’Ogliastra. Arcipelaghi di isole nell’isola. Se ti ci tuffi una volta poi te li sogni tutta la vita quelle acque, quei blu. Agitati a occidente, più accondiscendenti a oriente. Ma dal mare per i sardi son sempre arrivati gli invasori, gli stranieri. A rubarle metalli, grano, silenzi. Anche ogni nostro viaggio, visita, ne porta il rischio. Scegliere come starci, camminarci, compito affidato a ognuno. Ciascuno. L’ingegnere tedesco Carlo Marx (non il barbuto famoso, l’autore del Capitale, ma un suo più oscuro omonimo), responsabile all’inizio del Novecento della Miniera di Su Zurfuru, rimaneva incantato a vederlo comparire, oltre i boschi, quel mare di Sardegna, scorgerlo dietro le curve delle verzure di Fluminimaggiore. Ma tutto quell’incanto gli impediva di accorgersi dell’acqua delle tubature deviate che franava sopra i minatori. Oggi di minatori in Sardegna non ce ne sono più. Ma non sono scomparsi, han solo cambiato nome, mestiere, tutt’al più geografia. Notizia. I minatori di metà Novecento erano pescatori di frodo. Rubavano le mine e le facevano esplodere nel mare. Per aggiungere un poco di pesce al gramo pasto del mese. I padroni lo sapevano, ma lasciavano correre. Quando la cinghia sta all’ultimo foro stringere oltre è suicidio. Boschi e macchia Boschi di lecci, sugherete, pini domestici e d’Aleppo, macchia mediterranea, gariga, prateria steppica: piante spinose ed erbe poco appetibili per gli animali… sono i paesaggi che vi domineranno lo sguardo, i passi, se un giorno ci andrete. Che vi staranno d’intorno per tutto l’andare. Esistono diversi tipi di macchia: alta e bassa a seconda dell’altezza 10


dei suoi arbusti che non scendono mai sotto i 50 centimetri, non oltrepassano i 4 metri. Macchia mediterranea, primaria, secondaria. Distinzioni da manuali. Per chi vuole saperne basta cercarli lì. I nomi delle sue essenze maggiori: sughera (albero da macchia), ginepro, corbezzolo, lentischio, filliree, eriche, euforbie, oleastro, carrubo, mirto, rosmarino, ginestre e cisti. Nomi che sono colori, profumi. Forme. Dune di sabbia E poi c’è il mare. Molto per gli occhi, un poco anche per i bagni. Ma prima dell’acqua salata ci sono le maestose colline d’ocra delle dune di Piscinas, della Costa Verde. Il bianco abbacinante di quelle di Porto Pino, le rocce di Scivu. Ci sono le falesie di Nebida e Masua. Ma le dune hanno un nome maestro: Piscinas appunto. Qui la sabbia s’inoltra per oltre tre chilometri nell’entroterra. Le dune sono paesaggio che muta continuamente dietro gli umori del vento e del suo soffio. Del Maestrale, che le carezza e le pettina. Ci stanno i ginepri e gli sparti su quelle colline che mozzano il fiato, a tenerle ferme, radicarne la forma. Tenaci e ostinati. Si piegano al vento, stanno rasenti il suolo, vivono bassi, fitti e a cespuglio, tutto s’inventano, solo restano indisponibili alla resa. I lentischi, le filliree, i corbezzoli e i rudi olivastri, le euforbie e i cisti appena più indietro. Anche loro a far da contrasto allo spostarsi della sabbia dal colore dell’ambra. Che s’incendia al tramonto. Ma le dune non sono solo Piscinas. Nel bianco del sud, a Porto Pino, ce ne stanno altre ugualmente grandiose, struggenti. Non hanno foresta alle spalle ma stagni e pianura. Terra bassa da rubare ai coltivi. Da offrire alla Nato. Le dune stanno sotto servitù militare. Il loro poligono di tiro. Libere d’estate. Vietate quando i turisti scemano. Il 65 per cento del demanio militare italiano si trova in Sardegna. Pensi a Porto Tramatzu, Porto Pino. È il 2017 11


quando il Governo Gentiloni firma un protocollo che prevede la graduale dismissione di questi litorali e terre di pregio fino ad allora utilizzati dal Ministero della Difesa. Inizia il 2019 e qualche giornale locale esce con i titoloni che proclamano la formalizzazione dell’atto, il suo recepimento, la restituzione dell’arenile alla collettività. “Porto Tramatzu è libero. Spiaggia accessibile a tutti. È finita la servitù militare” (La Nuova Sardegna, 9.1.2019). Sei felice, esulti. Poi parli con qualche sardo, e tutti ti dicono che il liberato era, già e il solo, libero: ogni abitante del luogo ha nuotato in quelle acque, mentre gli steccati e i confini rimangono. Approfondisci appena un poco e lo trovi scritto persino nel protocollo che, al di là degli accordi, “si deve garantire la normale attività del poligono”. Anche gli indipendentisti sardi di A foras – contra a s’ocupatzione militare de sa Sardigna lo denunciano a gran voce, annotano che nulla è cambiato, mentre a pochi chilometri da lì, nemmeno otto, la penisola del Delta, “l’area di poligono di tiro di Teulada è stata definita, dagli stessi vertici militari: mai più bonificabile”. Una sentenza d’ergastolo ostativo, un fine pena mai. Allora resta la sabbia finissima, che mulina continuamente, fa onde sulle dune. E i ginepri coccoloni, gli unici a saper crescere là sopra... e quando muoiono, muoiono in piedi. Pali grigi, sbiancati dalla salsedine, ostinati e testardi, stanno. Stelle Su celu asutt’e terra. Il cielo sotto la terra. È il titolo di un libro-ricerca sulle miniere del Sulcis-Iglesiente. Narra delle luci delle lampade in sotterraneo, che ricordavano ai minatori le stelle del cielo. Forse le usavano a bussola per navigare, come i fenici, di notte sui mari. I minatori 12


navigavano nelle gallerie d’acqua e fanghiglia, tenendo a bussola un sogno: l’aperto. Anche voi regalatevi una notte sotto le stelle. Magari a Matzanni, sopra Vallermosa, vicino ai pozzi sacri d’epoca nuragica, che celebrano la sacralità dell’acqua e dove ancora anche il vento si ferma; magari una sera in cui la luna si fa rossa e grande più del sole. Oppure sulle dune di Piscinas, Porto Pino o dove altro volete, ma regalatevela una sera così. Di stelle sopra la testa.

13


L’isola

Questa terra che è impronta (fenici, greci), sandalo (latini) nel suo nome. Un pezzo di legno levigato e sbiancato dal sale e dal sole. Plasmato dagli elementi naturali. Una terra dalle vene d’argento. Dalla storia millenaria. Fatta di granito a nord, a oriente. Dove un’erosione millenaria ha messo a nudo e asportato l’antico mantello di scisti cristallini paleozoici. Lasciandogli serre e contrafforti, irti di pinnacoli, guglie e torrioni. Terra che è calcare nel suo lato centro-orientale. Fatta di impressionanti e aspre masse dolomiche, gole orride e impraticabili. Pareti verticali e strapiombanti. Forata da cavità, doline, inghiottitoi, grotte. Effetto conosciuto del carsismo. E che a meridione affiora in tavolati calcarei come isola tra i detriti scistosi. Che è roccia ripetutamente piegata e fratturata. In questa terra ogni epoca della storia ha lasciato la sua traccia. Le prime presenze umane risalgono a 150mila anni fa. I primi uomini vi giunsero a piedi, camminando sulle terre emerse, dalla Toscana all’isola d’Elba, alla Corsica. C’era 14


l’ossidiana, una pietra vetrosa, vulcanica con cui si fabbricavano armi e utensili nell’isola. Ma non erano popolazioni stabili quelle che arrivarono. Andavano e venivano, facevano bottino del necessario e tornavano da dove erano venute. Passarono migliaia di anni, finì il Paleolitico, quest’epoca della storia che è solo una convenzione per intendersi, e le prime civiltà, popolazioni stanziali, iniziarono a lasciare traccia di sé. Lasciarono tombe ipogee, grotte usate per abitazione e luogo di culto. Domus de Janas. Lasciarono nuraghi che sono fortezze-giganti. Pietre che stanno a guardia di vie e campi, da ere immemori. I nuragici erano una civiltà di pastori, che faceva guerre e sapeva navigare, estrarre metalli alla terra. Un popolo in contatto con gli altri popoli del Mediterraneo. Poi vennero i fenici nell’XI secolo a.C. e fondarono empori costieri. I cartaginesi, nel 535 a.C., e con loro cominciò la conquista dell’interno. I sardi si ritirarono nelle lande interne. Poi arrivarono i romani, i saraceni, gli spagnoli. Arrivammo noi, turisti di oggi, viandanti della modernità. Ospiti sempre a rischio d’essere i nuovi predoni. Sulcis e Iglesiente A sud, a occidente. Un triangolo antico che ha monti e mare a confine. Un triangolo di roccia e vento. Due regioni lo costituiscono, due regioni la cui morfologia, conformazione, ha dato vita a due storie minerarie diverse. Un’attività estrattiva metallifera nell’Iglesiente a prevalenza di piombo e zinco, e una carbonatica nel Sulcis. A tracciarne confine i fiumi. Il Cixerri e il Flumentepido. La depressione valliva del corso dei fiumi, racchiusa tra monti, forma un corridoio trasversale che dalla costa occidentale porta al Campidano. A nord si trovano l’Iglesiente e le vette del massiccio del Linas e del Marganai; a 15


sud la catena dei monti del Sulcis: colline vulcaniche che emergono inaspettatamente qui e là. In questa terra aspra si trova quello che è stato il principale distretto estrattivo italiano. Ma come nasce una terra così? Le rocce che costituiscono l’ossatura di questi luoghi risalgono al Paleozoico, hanno origine da depositi sedimentari in ambiente marino, in un periodo compreso tra i 570 milioni di anni fa (Periodo Cambriano) e i 280 (Periodo Carbonifero). Ma qualcuno azzarda un principio nel preCambriano, periodo più antico del Paleozoico: qualcosa come 670 milioni di anni fa. Sia quel che sia, questa terra è il fondo di un antico mare sul quale si depositarono sedimenti arenacei e argillosi con livelli calcarei. Poi il mare si abbassò, si ritirò, e si formò una piattaforma su cui sedimentarono fanghi carbonatici. E sopra a questi di nuovo sedimenti di sabbie e argille. Dove affiorano le litologie formatesi in questo modo ci sono rilievi alti e aspri, le rocce sono arenacee e argillose, il loro colore grigio scuro, verde o rosso. Sono così, ad esempio, le cime più alte dell’Arcosu (948 m). Ma anche le grandi pieghe marmoree grigio-nere nei pressi di Gonnesa e del monte Orbai. Per milioni di anni fu tutto un susseguirsi di movimenti tettonici, sedimentazioni, contrazioni, esplosioni ed erosioni. Intere masse rocciose furono piegate e spostate di chilometri, andando ad accasarsi su rocce più antiche. La nascita di questo nostro pianeta è storia di milioni di anni.

16


Le miniere

La miniera è una fabbrica a rovescio. Una schiena voltata. Uno scavo di buio. Uno scendere e lasciare. È cicatrice di terra. Se ti capita d’entrarci, visitarle anche adesso che sono ferme, quando esci non smetti di ringraziare il sole che c’è e ti asciuga le ossa, il pensiero… e ti viene solo da chiedere, a Giampiero Pinna3, come ha fatto a starsene un anno là dentro, a sottrarsi la luce, l’aperto, per mesi filati. Occupando per 365 giorni la galleria di Miniera Villamarina e il Pozzo Sella nella Miniera di Monteponi. Lui non risponde, solo ti guarda e sorride. Mette il piede in avanti e fa un altro passo. Difficile che si trovino metalli allo stato puro in natura. Di solito compaiono in miscugli che sono rocce. In Sar3

Giampiero Pinna è un geologo, da sempre sostenitore del Parco Geominerario della Sardegna, a cui ha contribuito a dare vita, nel 2001. Attuale coordinatore della Consulta delle associazioni, è anche il Presidente della Fondazione Cammino di santa Barbara e autore della guida Il Cammino minerario di santa Barbara (Terre di mezzo Editore, II ed., 2020).

17


degna piombo e zinco si trovano in filoni compressi da masse calcaree. La posizione dei minerali nell’ammasso roccioso si chiama giacimento: in esso i minerali possono essere disposti in filoni e vene. In questi casi per estrarre il minerale occorre penetrare sottoterra e qui scavare e portare alla luce i materiali utili. Talvolta i minerali, anche se non allo stato puro, affiorano alla superficie terrestre; in questo caso l’estrazione avviene all’aperto e gli stabilimenti si chiamano cave. Metallifere Sono le miniere da cui si ricavava minerale, soprattutto argento, piombo e zinco. Oggi sono tutte chiuse perché le vene dei filoni metallici più redditizi (per produrre piombo, argento, rame e zinco) sono esaurite. Le miniere metallifere sono miniere di fango e di freddo. Di correnti d’aria e caldo solo allo scoppio dei candelotti, al diffondersi delle polveri che rubano il fiato, per sempre. Le pareti non hanno bisogno di rinforzi, armamento, perché si reggono da sé pure se scavate. La roccia di silice è dura, frana poco. Le infiltrazioni d’acqua invece e lo scoppio delle mine erano il pericolo più insidioso. Il materiale si buttava giù per il pozzo, poi da lì si portava in superficie per mezzo delle tramogge. Il pozzo funzionava tutto il giorno. Su tre turni, a ritmo continuo. Le miniere, e le valli che le ospitavano, erano piene di rumori, odori. Il fragore delle mine, l’odore della blenda e della calcopirite, il rumore incessante delle laverie, delle pietre scalfite, degli argani e dei compressori. Dei mezzi meccanici. Il sibilo degli ascensori nei pozzi e della sirena. Tra tutti, forse, il rumore più bello era quello delle scarpe chiodate dei minatori sulla strada del ritorno a casa. 18


Per lo sviluppo dell’epopea mineraria di fine Ottocento furono importantissime due leggi: quella del 1840 che svincolava la proprietà del sottosuolo da quella del soprassuolo. E la legge del 1859, che disgiungeva il diritto di scoperta dalla proprietà dei suoli. Di carbone In Sardegna c’è il giacimento più grande d’Italia. Decine di milioni di tonnellate di lignite. A forte tenore di zolfo. Lignite significa che il carbone è giovane, gli mancano alcune migliaia di anni di maturazione perché possa essere una fonte energetica redditizia. Ma la guerra costava e Mussolini iniziò a sfruttarlo lo stesso, anzi, il carbone in Sardegna fu sfruttato su scala industriale fin dal 1830 come energia a buon mercato per le miniere metallurgiche. Fu però il Nostro, a dargli vero sviluppo, a far costruire due pozzi di 100 metri di profondità e chilometri di gallerie nel Sulcis-Iglesiente, nella Miniera di Serbariu. Ma nelle gallerie mancava l’aria, si moriva per asfissia. E l’acqua era troppa, inondava lo scavato, rendeva pericolosi i cunicoli, che in una galleria di carbone devono essere bassissimi. Il carbone frana, esplode, uccide addormentando. Le condizioni di lavoro erano terribili, gli incidenti troppo frequenti. Tra il 1931 e il 1960 lavorarono 14mila operai in quelle gallerie, 328 ci lasciarono la vita. Ma non fu quello a farle chiudere, si fecero due conti e si vide che le miniere erano poco produttive. Dalla Carbosarda, nel 1965, passarono all’Enel. Nel 1976, visto il blocco dell’attività estrattiva ritenuta antieconomica dall’Enel, venne costituita la Carbosulcis che, grazie ai finanziamenti pubblici, riprese l’attività. Poi l’Europa vietò di lavorare in quelle ad alta concentrazione di zolfo, a causa dell’eccesso di inquinamento, e in pochi mesi le miniere sarde furono chiuse. I terreni e i beni passarono alla Regione Sardegna 19


che nel 1995 prese in carico la Carbosulcis, quindi all’Igea, l’ex Società italiana miniere, e ai Comuni ed enti che presentavano dei progetti di recupero e riqualificazione validi. Rimasero aperte, a produzione minore, quelle di Seruci e Nuraxi Figus. Per continuare a fornire carbone all’impianto di produzione di alluminio di Portovesme. Si sognava un loro rilancio, una ripresa. A spese dei polmoni, del futuro della terra. I ricavi stavano nei conti, i costi differiti. Nel 2004 e 2006 sono stati fatti dei bandi per la ricollocazione della Carbosulcis: andarono deserti. L’anno seguente invece venne rilanciato lo sfruttamento del giacimento di lignite di Nuraxi Figus. Qui una ripresa c’era stata, interrotta però presto da una procedura di infrazione della Comunità Europea che chiese la presentazione di un piano di chiusura anche dell’ultima attività. Il piano prevedeva la fine della produzione entro il 2018 mantenendo in essere solamente una serie di attività di manutenzione, messa in sicurezza e ripristino ambientale da ultimare entro il 2027. E a gennaio 2019, dopo 170 anni di attività, anche l’ultima miniera di carbone rimasta in Italia, con il Piano concordato tra Regione Sardegna, Governo e Ue, è stata definitivamente chiusa. Oggi si punta a fare del sito minerario un polo scientifico d’eccellenza nell’ambito del progetto “Aria”. Saline Dalle miniere di sale si ricava salgemma: sale di miniera. Non ci sono miniere bianche nel Sulcis, ma a Sant’Antioco c’è il sale prosciugato dal sole e dal vento. Sale di mare, ricavato a energia eolica e solare. Deforestazione Per far funzionare una miniera serve legna. La storia delle miniere è anche la storia di boschi interi tagliati per fare 20


carbone, armare gallerie, cuocere il minerale. Storia di disboscamenti, deforestazione, deserto di vegetali. Tutta la rivoluzione industriale si nutrì di legna. A metà dell’Ottocento il carbone vegetale, in Italia, costituiva l’85 per cento delle risorse energetiche. Poi ci siamo accorti che non era più possibile continuare così, che la nostra economia ci bruciava i polmoni, ci restringeva il tempo, siamo passati al petrolio. I disboscamenti però non sono finiti con la fine dell’era delle miniere. Nel 2011, ad esempio, parte della foresta “preistorica” del Marganai è stata abbattuta per farci pellet. Un bosco, una foresta, è un ecosistema biologico complesso, qualcosa di molto fragile e delicato, che ha bisogno di energia, ma per la legge dell’entropia, l’energia passa da uno stato di ordine a uno di disordine. Da uno stato di disponibilità a uno di indisponibilità. In ogni passaggio il disordine complessivo del sistema aumenta. Ma, magia del pianeta, proprio questo disordine è “la biodiversità”. La sua “resilienza”, cioè la sua capacità di rinnovarsi senza degradarsi. Se però tu lo tagli, il bosco, la foresta, quell’equilibrio si rompe, quel “disordine” diventa ingovernabile, ferita insanabile. Tutelare la biodiversità è il compito degli umani, tenendo conto degli interessi delle comunità locali insieme a quelli di tutti gli abitanti del pianeta. Tutelare la funzione di protezione di un suolo insieme alla sua produzione di humus e capacità di aumento della fertilità, la difesa della qualità delle acque, la riduzione dell’inquinamento atmosferico... Non possiamo distruggere e basta, distruggere senza provare a vedere il tutto, l’insieme delle relazioni che una foresta è. Anche se la storia della distruzione, degli abbattimenti non è solo cosa di oggi. A distruggere la foresta, in modo 21


brutale, prima del sindaco e il suo gruppo d’amici, ci aveva già provato, nel 1856, il conte Pietro Beltrami, l’uomo definito “l’Attila della Sardegna”. La foresta sopravvisse ma, da allora, diventò fragilissima. “Oggi, per fortuna, il taglio del bosco è stato fermato ma, trovato il cavillo per arginare lo scempio, lasciati a casa gli operai, i tagliaboschi, ad assumere oggi, a Domusnovas, rimane solo la fabbrica di armi4 che, per questo, viene difesa da tutti” commenta Pierluigi Carta, ex sindaco di Iglesias, ora impegnato nel progetto di riqualificazione del Villaggio minerario di Normann. E continua: “Che alternativa c’è lì, ai 2-300 posti lavoro offerti da chi produce bombe? Le bonifiche? È dagli anni Settanta che si annunciano e non si fanno mai. Dobbiamo produrre delle proposte alternative. Certo che la fabbrica va chiusa, certo che la foresta va tutelata, non possiamo tagliare, perdere, ciò che non ricrescerà più, ma a queste persone dobbiamo un lavoro, una possibilità di occupazione diversa”. (Pierluigi Carta, 2019). Ma davvero non c’era alternativa? Per dare da mangiare, lavoro, bisognava tagliare? Quando si tratta di aree di particolare interesse l’Europa, con la direttiva Habitat, è disponibile a intervenire finanziando la conservazione di ambienti di pregio, pagando di tasca sua, comportandosi come se quel legname fosse stato realmente prodotto. L’Ue mette sul tavolo i soldi della produzione virtuale, per ettaro. È come giocare alla fattoria sul tablet: produci le4

La Rwm, la fabbrica di armi sul territorio di Domusnovas, dove vi è anche parte della foresta del Marganai, nel novembre 2018 ha annunciato il raddoppio del proprio stabilimento e la triplicazione della produzione. Con i due nuovi reparti, siti nel Comune confinante di Iglesias, la produzione passerà da 5mila a 15mila bombe l’anno.

22


gna sotto forma di bit, ma in tasca ti arrivano i soldi dell’Ue, quelli veri. Forse non lo sapevamo: non sapere, non studiare ha dei costi, non è a somma zero, e così, dopo le motoseghe nell’area di Su Caraviu, nella foresta, gli esperti, chiamati dall’Ente Foreste per redigere i piani particolareggiati, hanno barrato, sulla casella della gravità del danno, “elevato”. Archeologia industriale e mineraria Archeologia industriale è tutto ciò che rimane degli impianti dismessi: fabbriche, tonnare, ponti, pozzi, miniere, scali ferroviari… nati un tempo e resi vivi dall’incontro tra capitale e forza lavoro. Sono i documenti di pietra (ferro, legno, cemento) che sul territorio raccontano il lavoro dell’uomo. La materia che perdura di una storia passata. Archeologia mineraria è il campo dell’archeologia industriale che si occupa di ciò che resta delle “miniere”. Che sceglie, tra tutti i resti possibili, le testimonianze del lavoro passato, di occuparsi degli impianti di estrazione, i trattamenti di lavorazione, sintesi e prima lavorazione dei metalli. Un’archeologia fatta di pozzi, gallerie, scavi a giorno, laverie, villaggi. È un patrimonio e bene collettivo da preservare, presidiare. Testimonianza di ciò che siamo stati. Di ciò che ci ha permesso di essere quello che siamo oggi. Storia da conoscere, studiare, raccontare, non dimenticare. Un’area mineraria non si sceglie, un’area mineraria è già lì. Si può decidere se è conveniente sfruttarla o no, trasformarla in un’attività. Due sono le regole che la governano, che fanno di un giacimento un’impresa. La prima è la breve distanza. La seconda la presenza di acqua e legname. 23


La breve distanza è quella che deve esserci tra la cava in senso stretto, la miniera, e il luogo del trattamento del minerale. La concentrazione di sostanze minerali sfruttabili può essere anche lontana dai centri urbani, ma fondamentale è poter costruire nelle immediate vicinanze le strutture necessarie per i processi di arricchimento del minerale. È all’imbocco di un pozzo, in prossimità di una galleria che si sviluppa la vita di una miniera. Dai piazzali per la cernita agli edifici per la flottazione. Poi certo servono anche strade per farlo arrivare all’industria, perché gli ulteriori processi si compiano, ma poi appunto. La seconda condizione è la presenza di acqua e di boschi. L’acqua serve per le laverie. Il materiale veniva arricchito e cioè separato dall’inerte, proprio tramite la flottazione. E poi l’acqua è energia, energia elettrica. I boschi invece servivano per aver legna per armare le gallerie (soprattutto quelle di carbone, le metallifere si reggevano da sé) e per alimentare i forni e le caldaie. La miniera è un’impresa a scadenza, lo sai prima di iniziare che si esaurirà. Calcoli i costi e i benefici e decidi se investire nell’impresa. Fino a che il bilancio è in positivo la lavori poi restano gli scarti: gli inerti sul terreno, un paesaggio devastato, gli impianti e gli edifici tutti costruiti intorno. Tra le testimonianze più visibili restano i villaggi. Villaggi minerari in cui nelle differenti tipologie urbanistiche è possibile ancora oggi riconoscere le differenti classi sociali. La gerarchia dei ruoli veniva materializzata, nella creazione di una struttura urbanistica chiara, dove le funzioni, i livelli erano distinti e gerarchizzati. Un villaggio minerario aveva luoghi e case destinati ai dirigenti, e altri spazi, altre case destinate agli operai. In mezzo le vite-case degli impiegati, con altri luoghi e altre tipologie abitative. 24


Ancora oggi questi villaggi avvolti dalla vegetazione, stravolti dall’erosione della pioggia e del vento, ne conservano il progetto, la stratificazione in categorie, la divisione in classi degli abitanti. L’acqua La miniera non vive senza acqua. Acqua da portare e acqua da levare. Serve l’acqua per lavorare il minerale, per separarlo, lavarlo. Serve l’acqua per far girare le pompe, le turbine, per dare elettricità ai cantieri. Acqua da portare tramite condotte, prelevare da lontano. Per dar da bere alle case dei dirigenti, alla fontana comune. Si costruirono vasconi di raccolta, dighe, bacini artificiali. Sbarramenti minori o opere ciclopiche. Ma l’acqua in miniera non va solo portata. Se scendi nelle viscere della terra, trovi lì pure dell’acqua che va tolta, asportata, per poter scavare e continuare a estrarre minerale. I sistemi di eduzione delle acque furono sempre una sfida per gli ingegneri, un problema da affrontare in ogni cantiere. Si trattava di trovare il modo di far defluire le acque nel modo più economico ed efficace possibile. Non sempre fu facile, non sempre l’impresa riuscì, ma sempre si dovette tentare, affrontare la questione.

25


Turn static files into dynamic content formats.

Create a flipbook
Issuu converts static files into: digital portfolios, online yearbooks, online catalogs, digital photo albums and more. Sign up and create your flipbook.