Favole

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Illustrate da Rébecca Dautremer

Jean de La Fontaine

Traduzione di Eleonora Armaroli

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Rébecca Dautremer

Ma non è tutto. Ci sono anche: una volpe e un asino alquanto rancorosi, un gatto che non è (buono) come sembra, un topo un po’ snob e un altro che ha un gran fegato.

A pensarci è proprio assurdo! Quattrocento anni fa, un tizio è riuscito a unire in un libro: un corvo che si fa bello, una formica inflessibile, un lupo che muore di sete, una tartaruga tranquilla ma decisa, un agnello che tenta di essere astuto e una cicala che si mangia le mani.

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E poi un pesce che dice qualche sciocchezza, un usignolo adulatore, un leone che sa riflettere, un cane che scambia la realtà coi sogni e una rana che vorrebbe… già, cosa vorrebbe davvero?

Ce lo chiediamo da quattrocento anni… Insomma, dopo tutto questo elenco, continuiamo a farci un bel po’ di domande. Da quattrocento anni. Direi che questo tizio, La Fontaine a quanto pare, è riuscito abbastanza bene nel suo intento… voi che dite?

Jean de La Fontaine è un grande autore francese, conosciuto principalmente per le sue Favole. Nasce nel 1621 a Château-Thierry, oggi situato nel dipartimento dell’Aisne, in Francia.

Da quel momento, Jean de La Fontaine non ha altra scelta che cercare nuovi protettori. Nel 1665, all’età di quarantaquattro anni, arriva finalmente il successo con la pubblicazione di Contes et Nouvelles (“Racconti e novelle in versi”) e soprattutto col primo volume di Favole, pubblicato nel 1668.³

Nel 1657 il sovrintendente¹ delle Finanze del re Luigi XIV, Nicolas Fouquet, invita La Fontaine nel suo magnifico castello a Vaux-leVicomte. Ben presto, ne diventa il protettore,² consentendogli di cominciare a vivere della propria arte. Sfortunatamente, nel 1661 Nicolas Fouquet viene arrestato. Ha commesso l’errore di invitare il re Luigi XIV a una festa sontuosa: il re non ha apprezzato che uno dei suoi ministri potesse eguagliare la sua grandezza e la sua forza.

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Quelli che La Fontaine illustra nelle sue Favole, sono in realtà tratti caratteriali degli uomini.

1 Colui che dirige le finanze del re.

L’astuzia di La Fontaine consiste dunque nel sostituire personaggi umani con quelli animali, e mostrare comportamenti che ricordano quelli degli uomini. Ma la scelta di questo bestiario non è casuale: ogni animale possiede una caratteristica propria. Il leone è orgoglioso e potente come poteva essere Luigi XIV, il lupo è crudele, la scimmia ipocrita, la volpe scaltra, la formica lavoratrice e previdente…

2 I protettori offrono il vitto, l’alloggio e una somma di denaro agli artisti che proteggono.

3 Le Favole sono numerate e raccolte in Libri.

5 Jean de La Fontaine muore nel 1695, dopo aver pubblicato duecentoquaranta favole scritte in più di venticinque anni. Diverse sono molto celebri, come La cicala e la formica, Il corvo e la volpe, o ancora Il topo di città e il topo di campagna. Inoltre, alcune delle morali di queste favole sono divenute proverbi: “Chi va piano, va sano e va lontano”...

La favola è un genere letterario di origine popolare molto antico. È un breve racconto, a volte arricchito da dialoghi, per illustrare una morale che spesso incontriamo alla fine della storia. Recitare le favole permette di trasmettere un alto utilizzo della lingua francese alle giovani generazioni. In effetti, nella vita è indispensabile il buon linguaggio; questo era ancor più vero nel XVII secolo, quando la nobiltà e le persone importanti del reame si trovavano nei salotti per condividere il piacere della conversazione.

Per comporre i testi, Jean de La Fontaine si ispira ad alcuni poemi scritti da Esopo, poeta greco del VI secolo a.C. Far parlare gli animali gli permette di criticare la società, la corte, il re, senza correre rischi. Sotto Luigi XIV la libertà di espressione era ben più limitata di quella attuale e scontentarlo poteva causare non pochi guai.

Lo raccoglie la volpe e aggiunge: “Caro signore, saprà ormai ch’ogni adulatore vive sulle spalle di colui che l’ascolta.

Il corvo stava appollaiato con un pezzo di formaggio in becco, finché, seguendo il profumo lasciato, giunse la volpe che gli parlò secco: “Mio buon signor corvo, sarà certo orgoglioso, non conosco al mondo uccello più maestoso!

Così, dopo aver perso il suo buon formaggio, il corvo giurò, forse un po’ tardi, di farsi più saggio.

Che vi sia di lezione per la prossima volta”.

Il corvo, ammaliato da quanto gli dice, per mostrare la sua bella voce apre il becco e il bottino casca veloce.

Se risplende il suo canto quanto le penne del manto, di questi boschi lei è una Fenice”.

Dopo mille nottate di canti d’estate, quando la fredda corrente arrivò la cicala sprovvista si ritrovò. Di cibo non un pezzettino, neanche un briciolino.

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Così, chiese affranta qualche mollica alla sua vicina, l’accorta formica, pregandola con insistenza di aiutare la sua sopravvivenza fino al ritorno della bella stagione.

“Pagherò questa concessione entro agosto, parola d’insetto verserò gli interessi, te lo prometto.”

“Cantavi? E suppongo con gran successo. Ebbene, continua le danze anche adesso.”

Ma la formica ha una piccola manchevolezza: non presta nulla con leggerezza.

“Che facevi mentre il sole brillava?” domandò a colei che elemosinava.

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“Cantavo da quando il sole era sorto, spero di non averti recato alcun torto.”

Sempre prevarrà la ragione del più forte: lo sa bene l’agnello di cui narriamo la sorte.

“Se non eri tu, sarà stato tuo fratello.”

Si abbeverava innocuo a una limpida sorgente, finché un lupo con lo stomaco vuoto arrivò spinto da una fame potente: “Come osi intorbidare l’acqua che mi ha dissetato?”. Aggiunse poi l’animale infuriato: “Verrai punito per la tua sfrontatezza”.

“Non ne ho più.” “Allora qualcuno a te vicino: da sempre sono il mio fardello i vostri cani e i loro pastori, mi trattano in modo meschino. Esigo vendetta, è giunto il momento.” E nel bosco lo porta, ormai in suo possesso, per poi divorarlo con fomento senza equo processo.

“La sporchi”, insisté la crudele creatura, “e so che lo scorso anno di me hai malignato”. “Ma se da poco sono nato”, rispose l’agnello.

“Sire”, rispose l’agnello, “non potrà Vostra Altezza adirarsi per il mio agire; semmai dovrà convenire che il punto in cui mi disseto si trova più a valle sul greto venti passi oltre la sua figura. Non può dunque sporcarsi la corrente dove è solito abbeverarsi”.

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