Io sto con le api

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Dario Paladini

Io sto con le api

Conoscere, proteggere e amare un mondo in pericolo



Vi presento le api



Riti preparatori Lo si percepisce appena si arriva: un odore dolce e caldo, con sentori di fieno e caramello. È il profumo dell’alveare, si sprigiona dalla cera, dal miele e dalla propoli. Chi viene a visitare il mio apiario ne rimane sorpreso e spesso comincia a respirare più profondamente, oppure avvicina il naso ai favi per coglierlo pienamente. Gli odori, di solito buoni, sono come una musica di sottofondo nel lavoro dell’apicoltore. Il profumo dell’alveare lo sento anche nel box di casa, da cui ho sfrattato l’auto per trasformarlo in un piccolo magazzino di arnie, melari e telaini momentaneamente in disarmo. Ci sono poi le fragranze delle fioriture e anche i mieli hanno un odore che cambia in base al nettare delle piante da cui provengono. Prima di aprire le arnie, l’apicoltore segue alcuni riti. Il primo è quello della vestizione. Si indossa la tuta, gialla o bianca perché sono i colori che meno attirano le api. Alla tuta ci si affeziona: col passare degli anni diventa sempre più logora e porta i segni del proprio lavoro chini sugli alveari. Ci si sporca di cera e propoli e quelle macchioline marroni non vanno più via, divenVi presento le api

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tando piccole medaglie di cui andare orgogliosi. Si infila poi la maschera: è quella che infonde un senso di sicurezza. Una volta vestiti, ancora senza aprire le arnie, si osserva il volo delle api, il loro andirivieni. Ed è già possibile capire se sono nervose, se c’è importazione di nettare o meno, se una famiglia è più o meno forte e in forma. All’inizio mi sembrava solo un volo caotico. Ma Mauro pian piano ci ha insegnato a leggere dal volo quel che le api stanno vivendo. Terzo rito è quello dell’accensione dell’affumicatore: un barattolo di latta dotato di un piccolo mantice. Il fumo serve sostanzialmente a “distrarre” le api: prima di mettere le mani sui telaini do un paio di sbuffate e loro tendono ad andare verso il fondo dell’arnia. Per “carburante” si possono utilizzare la juta oppure i trucioli di legno bio, quelli usati per creare la lettiera per i cavalli. Il mio affumicatore, che ha ormai cinque anni, è ammaccato e un po’ annerito. E lo guardo sempre con affetto, soprattutto quando si spegne, immancabilmente nei momenti in cui ne ho più bisogno perché le api si sono un po’ innervosite. Un altro attrezzo a cui ci si affeziona è la leva. Le api sigillano con la propoli ogni fessura o spiffero. Coperchio dell’arnia e telaini sono di fatto incollati da questa sostanza molto resistente. Senza la leva l’apicoltore non riesce ad aprire l’arnia o a prelevare un telaino. Bene, ora è venuto il momento di aprire l’arnia. Acceso l’affumicatore, con un paio di sbuffate si dà inizio alle danze.

Dentro all’arnia Ci sono varie tipologie di arnie, quella che uso io si chiama Dadant-Blatt. È quella che più o meno tutti abbiamo in mente. 18


COPERCHIO

COPRIFAVO

TELAINO DEL MELARIO MELARIO

ESCLUDIREGINA

TELAINO DEL NIDO

AFFUMICATORE

NIDO

LEVA


È formata da una grande cassa in legno di abete rettangolare (detta nido), nel quale possono stare dieci telaini. I telaini sono delle cornici di listelli di legno “armati” da un sottile filo zincato sul quale è montato un foglio di cera d’api con prestampate le basi delle celle esagonali. Le api costruiscono su questi fogli cerei i loro favi, con migliaia di celle, più o meno della stessa misura. Sopra il nido c’è un coperchio di legno (detto coprifavo), mentre l’ingresso per le api è su una delle due pareti più corte. Il melario è costituito da telaini grandi la metà di quelli usati per il nido. Viene posto sopra il nido quando si intuisce (e soprattutto si spera) che ci sia una sovrabbondanza di miele tale per cui le api non lo stoccheranno solo nel nido ma “saliranno a melario”. Tra melario e nido bisogna però mettere una grata speciale, che si chiama escludiregina: i fori della rete hanno una misura che lascia passare le api ma non la regina, così si evita che depositi le uova anche nel melario. Il guadagno dell’apicoltore è il miele immagazzinato nel melario. Qualche volta c’è, altre volte no. Nulla è scontato in apicoltura. Soprattutto in questi anni caratterizzati dai cambiamenti climatici e dalla costante minaccia dei pesticidi.

A tu per tu con la famiglia Per aprire l’arnia forzo leggermente con la leva tra coperchio e nido per vincere la resistenza della propoli. Sollevo il coperchio e la famiglia si presenta in tutta la sua bellezza. Migliaia di laboriose api sono intente alla pulizia delle celle, a nutrire e sorvegliare la covata (ossia l’insieme delle larve da cui nasceranno nuove api), a costruire o riparare nuove celle, a immagazzinare 20


REGINA

FUCO

OPERAIA


nettare o miele e polline. Spesso poi mi svolazza intorno qualcuna delle api guardiane e ovviamente c’è il via vai delle bottinatrici incaricate di andare a raccogliere nettare e polline sui fiori. In base all’età, ogni ape ha un compito: le più giovani restano nel nido e si fanno le ossa con turni di ramazza. Poi man mano diventano nutrici, ceraiole, guardiane e bottinatrici. Le api nutrici sono le baby sitter delle larve e si preoccupano di dare loro pappa reale e miele. Le ceraiole invece producono da speciali ghiandole la cera, con la quale costruiscono o riparano i favi. Le guardiane stanno soprattutto all’entrata dell’alveare e vigilano che non arrivino api di altri alveari (o anche vespe) a rubare il miele immagazzinato. Sorpresi? Soprattutto quando c’è scarsità di fioriture, le api tentano di saccheggiare le scorte altrui. Mi è capitato spesso di assistere a tentativi di saccheggio e vi assicuro che è una lotta furibonda, con api in allarme che ronzano innervosite. Infine, le più anziane fanno le bottinatrici e hanno una forza che non immaginiamo. Una bottinatrice, dal peso di circa 100 milligrammi, può trasportare un carico di nettare che arriva quasi alla metà del suo peso (40 milligrammi). E, badate bene, volando alla velocità di 15-20 chilometri orari, con un battito di ali di 200 volte al secondo. Non so voi, ma io certo non riuscirei a correre veloce con uno zaino in spalla che pesa quasi la metà di me. La prima volta che ho preso in mano un telaino letteralmente ricoperto di api ho avuto paura. Non sapevo cosa fare. Poi ho messo a fuoco il mio sguardo su quel che avveniva su quel telaino e, pur restando rigido come uno stoccafisso, ho cominciato ad ammirare queste centinaia di api intente a svolgere ciascuna il proprio compito. Tutto sommato mi ignoravano, avevano ben 22


altro da fare che badare a me. Abbastanza velocemente ho poi imparato a maneggiare i telaini. Se ne prende uno e lo si alza al cielo perché sia illuminato dal sole e si possa vedere se, dentro le celle, c’è covata, oppure miele o quale tipo di polline. È la parte più bella delle tante cose che deve fare un apicoltore, perché si vede da vicino, direi “in diretta”, come si muovono, cosa stanno costruendo. Magari capita di assistere alla “nascita di un’ape”: ossia il momento in cui rompe il sottile strato di cera della cella in cui ha completato, in circa 21 giorni, la sua trasformazione da uovo a larva e, infine, a insetto. Esce dalla cella un po’ indecisa, sembra vacillare, come quando un bambino comincia a camminare. Ed è anche più chiara rispetto alle altre api. La si può seguire con lo sguardo mentre fa i suoi primi “passi” tra le altre e ben presto comincerà a dare il suo contributo all’alveare occupandosi della pulizia delle celle che dovranno accogliere nuove uova deposte dalla regina. 21 giorni per nascere, e solo il doppio per vivere: da marzo a ottobre l’aspettativa di vita di un’ape operaia è al massimo di 40 giorni (per la regina invece arriva fino a tre o quattro anni). Quando osservo una bottinatrice partire dall’alveare mi chiedo se quello è il suo ultimo viaggio. La fantasia corre e l’immagino sfinita lasciarsi andare nel cuore di uno dei fiori che sta bottinando. Magari invece viene intercettata da un uccello o da un calabrone e diventa il loro pasto. Immagine meno romantica, ma forse più realistica e sicuramente più in sintonia con la natura stessa, dove tutto è concatenato e la morte diventa vita per qualcun’altro. Un’esistenza breve, agli occhi umani, ma intensa e, soprattutto, dedicata all’alveare. L’ape mellifera, infatti, da sola non può vivere, anzi l’insieme delle api forma di fatto un corpo solo. CiaVi presento le api

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scuna concorre alla sopravvivenza e allo sviluppo dell’alveare, in altri termini al bene comune. Un esempio: all’interno dell’alveare ci sono sempre circa 35 gradi. Le api sono termoregolatrici, riescono cioè a mantenere questa temperatura, ideale per lo sviluppo della covata, con il loro corpo. In estate, quando fa molto caldo e fuori magari ci sono 40 gradi, sbattono le ali per rinfrescare l’interno dell’arnia. Nel corso degli ultimi due secoli sono stati condotti numerosi studi su come le api comunicano tra loro e come prendono le decisioni. I messaggi passano sia attraverso i feromoni (ce ne sono almeno 36 tipi in un alveare, emessi dalla regina, dalle api, dai fuchi e anche dalla covata), sia attraverso il contatto e l’emissione di particolari suoni. Ma le api ricorrono anche alla danza per scambiarsi informazioni. Fu uno zoologo tedesco, Karl von Frisch a scoprirlo alla fine degli anni Venti. Capì e dimostrò che le esploratrici comunicano alle altre api i luoghi in cui trovano fioriture con abbondanza di nettare grazie a particolari movimenti circolari sui favi. E se la fonte di nettare è molto distante muovono in maniera decisa l’addome. Fanno insomma una specie di danza del ventre. Che dire, questo loro comunicare con la danza le rende meravigliosamente simpatiche! Per questa scoperta Karl von Frisch ha ricevuto nel 1973 il premio Nobel per la medicina e la fisiologia. All’interno dell’organismo-alveare, l’ape regina ricopre un ruolo fondamentale. Ancora adesso ogni volta che la scorgo su un telaino mi viene da esclamare: “Eccola!”. Non si mostra facilmente agli occhi di noi piccoli e insignificanti umani. All’inizio è una larva come tutte le altre, ma per motivi misteriosi a noi uomini, le api decidono di nutrirla solo a pappa reale per farla diventare una regina. E come ogni regina si fa desiderare! 24


Capisci che c’è perché vedi il frutto del suo incessante lavoro di deposizione delle uova. Si muove veloce tra i telaini e come se giocasse a nascondino riesce a non farsi vedere anche se li controllo tutti. Altre volte, invece, sua altezza mi concede udienza. La si distingue perché è più grande delle altre api, con un addome più lungo, quasi avesse un mantello regale. Gli apicoltori spesso segnano con un pallino colorato il dorso delle regine (ci sono in vendita inchiostri appositi). Aiuta a trovarle più facilmente e indica anche l’età. Si usano, per una convenzione internazionale, cinque colori, con questa sequenza: rosso, verde, blu, giallo e bianco. Il 2021 è il turno del bianco e quindi marcherò con questo colore tutte le regine che nascono in questo anno. Nel 2022 si usa il rosso e così via. Io tendo a non marcarle, perché ho poche famiglie e posso dedicare più tempo ogni volta a scovare la regina. Per i professionisti il discorso è ben diverso: c’è chi ha magari 800 famiglie e ha quindi bisogno di accelerare i tempi di ogni operazione. La regina è sempre seguita da un piccolo gruppo di cortigiane, che la nutrono e la puliscono mentre lei è intenta a deporre le uova nelle celle. Con i suoi feromoni e il suo Dna dà il carattere alla famiglia su cui regna, composta di fatto da api che sono tutte sue figlie. Mi viene da ringraziarla ogni volta che si mostra, perché è rincuorante sapere con certezza che c’è e che sta regnando. Uno dei problemi più gravi che un apicoltore deve affrontare è la morte della regina. Una famiglia di api orfane è destinata a estinguersi, proprio perché non c’è più deposizione di uova e quindi non nascono più nuovi esemplari. Il problema è risolvibile principalmente in due modi: se, quando la regina muore, ci sono uova appena deposte, le api ne allevano alcune nutrendole solo a pappa reale, così da far nascere una nuova Vi presento le api

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regina. Altrimenti può intervenire l’apicoltore, che immetterà nella famiglia di api orfane una nuova regina. Ho la fortuna che Paolo ha imparato ad allevare regine e quindi in caso di bisogno mi viene in aiuto. Ci sono apicoltori che si sono specializzati nell’allevamento di api regine. Richiede una dedizione di tempo tale che non ci ho mai provato. Chissà, forse un giorno... Soprattutto in primavera, nella massa delle api si possono scorgere i fuchi, ossia i maschi. Sono più grossi e più scuri di un’ape femmina. Sono senza pungiglione e il loro ruolo è quello di fecondare eventuali regine giovani ancora vergini. La fecondazione avviene in volo. Sembra molto romantico. Magari lo è. Ma purtroppo per i fuchi, poco dopo muoiono perché perdono il loro apparato riproduttore. Durante il primo anno ho assistito, nel mio apiario, a un fenomeno meraviglioso che ogni apicoltore scongiura non accada: la sciamatura. Le api sciamano in primavera per moltiplicare la specie. Allevano una nuova regina e quando quest’ultima è nata, la regina vecchia se ne va con una parte dell’alveare alla ricerca di una nuova dimora, mentre nell’arnia rimane quella giovane col resto della famiglia. Dall’arnia escono, come un fiume in piena, migliaia di api, che si danno appuntamento in aria per poi spostarsi come fossero una nuvola e vanno a posarsi da qualche parte, formando un grappolone di api. Mi è capitato di leggere sui giornali di sciami d’api che sono andati a posarsi su una bicicletta, o in una cabina telefonica, oppure su un cartello stradale. Molto più spesso finiscono su un ramo o nell’incavo di un tronco. Si tratta di “soste” in attesa che le api esploratrici trovino un luogo dove costruire il nido. L’apicoltore con varie tecniche cerca di impedire le sciamature, perché il grappolone può andare a posarsi ovunque, anche a qualche chilometro di 26


distanza. Con il rischio di non ritrovarle. Anch’io ci provo: aggiungo telaini nell’arnia così che la regina vecchia abbia sempre spazio per la covata, tolgo eventuali nuove celle da regina. Ma che piaccia o meno all’apicoltore, ogni tanto le api decidono comunque di sciamare. Pura illusione quella di voler dominare la natura. A me la sciamatura dice una verità semplicissima: le api sono ancora in parte selvatiche e libere e il compito dell’apicoltore è quello di accompagnarle nel loro percorso di vita, di capire di cosa hanno bisogno, di aiutarle quando sono in difficoltà. E difenderle. Nel mio apiario c’è un alberello di pioppo, sul quale spesso si posano sciami di api arrivate da chissà dove. Per recuperarli mettiamo un’arnia sotto il grappolone e scuotiamo il ramo facendole cadere dentro. Per un’oretta intorno all’arnia c’è un gran ronzare, ma poi pian piano si ambientano nella loro nuova casa. In altri casi, quando magari si posano su un ramo alto di un grande albero, il recupero dello sciame diventa un’impresa acrobatica. Ricordo ancora l’ammirazione e le bocche spalancate di genitori e bambini quando uno sciame si è fermato su un albero del cortile della scuola elementare di mio figlio. All’epoca non mi dedicavo ancora alle api. Dato che il ramo era molto alto, arrivarono i vigili del fuoco con un camion gru ad aiutare l’apicoltore.

E d’inverno? Le api sopravvivono alla stagione fredda standosene nell’arnia, l’una vicina all’altra per mantenersi al caldo. Formano un “glomere”, ossia si raggruppano su uno o due telai in modo da formare una palla al cui centro c’è la regina, che viene così protetta dal Vi presento le api

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gelo. Si nutrono delle loro scorte di miele. Durante l’inverno non nascono nuove api e quindi le “api invernali” vivono tre o quattro mesi, molto più a lungo delle loro sorelle dell’estate. Nelle giornate soleggiate a turno escono per fare i loro bisogni e carpire un po’ di calore. Di solito vado in apiario quando c’è il sole perché è rincuorante vedere le api che svolazzano in un cielo terso. L’inverno è un periodo delicatissimo: rischiano di morire di fame se non hanno miele a sufficienza. Per questo l’apicoltore sul finire dell’estate e in autunno è particolarmente attento a che ogni famiglia abbia buone scorte. Durante l’inverno l’unica cosa che può fare è somministrare loro, attraverso un foro che c’è sul coprifavo, un po’ di candito, che è una pasta di zuccheri creata appositamente per nutrire le api. Se si capita in apiario durante una giornata molto fredda e senza sole non vola un’ape. E come si fa a capire se sono ancora vive? Si bussa alla loro porta! Bastano due leggeri toc toc su una delle pareti dell’arnia per sentire il brusio-ronzio della loro risposta. Ricordo ancora per bene il mio primo inverno con le api. Andavo in apiario con il cuore in gola: chissà se sono ancora vive? Forse devo somministrare del candito? Quell’anno tutte le mie famiglie sono sopravvissute. Fu per me motivo di grande orgoglio, tanto che finito l’inverno scrissi il primo post dedicato alle api sul mio profilo Facebook in cui annunciavo pubblicamente che ero diventato un apicoltore: “Ebbene sì. Da circa un anno allevo api. Cinque belle famiglie che sono riuscite a superare l’inverno. Un bel risultato per loro e una soddisfazione per me. È il mio piccolo contributo per salvare il Pianeta (qui in effetti ho esagerato, Nda). Con qualche giorno di ritardo, buona primavera a tutti!”. Purtroppo negli anni successivi non è sempre andata bene. Come è nella natura delle cose, qualche famiglia non ce l’ha 28


fatta. E pur sapendo che può capitare, mi sono sentito sconfitto. Si apre l’arnia e si trovano le api infilate con la testa nelle celle, morte mentre cercavano di succhiare l’ultima goccia di miele. Talvolta poco sopra c’è ancora il blocco di candito che avevo messo per loro oppure c’è miele nel telaino a fianco, ma probabilmente erano troppo deboli per salire o spostarsi anche solo di pochi centimetri per mangiarlo. E comincio a pensare: dove ho sbagliato? Vado a rileggermi gli appunti sul mio diario, in cui annoto ogni operazione che svolgo su ciascuna delle arnie. Consulto per l’ennesima volta i tre manuali sempre a portata di mano sulla libreria in sala. Mi confronto con Paolo e Marco. Immancabilmente ho l’impressione che qualcosa mi sia sfuggito. Soprattutto mi è difficile ammettere che la natura faccia il suo corso e che io non possa farci nulla. Poi finalmente arriva la primavera e la vita riparte, le regine ricominciano a deporre uova a ritmo sostenuto, si creano nuove famiglie, ci sono le prime fioriture di tarassaco, colza o dei ciliegi. Alle nostre latitudini da secoli la natura ha questo ritmo (anche se ora è in parte stravolto dai cambiamenti climatici), ma la nostra vita moderna, soprattutto se viviamo in città, ce ne ha fatto perdere la consapevolezza. Il freddo e il caldo, il sole come la pioggia, l’umidità o la siccità sono per noi solo un’icona nelle previsioni del tempo che leggiamo sullo smartphone e, in caso di maltempo, una scocciatura. Pensiamo di essere al di sopra degli eventi atmosferici, non immaginiamo che la nostra vita in realtà dipenda anche dalla pioggia o dal sole. Solo le calamità naturali ci riportano con i “piedi per terra” e ci ricordano che siamo parte dell’ambiente e che spesso siamo causa delle conseguenze dannose degli eventi atmosferici. Vi presento le api

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“Sei responsabile di quello che hai addomesticato” La mia vita di apicoltore hobbista, con al massimo otto arnie, è molto intensa da marzo a fine giugno, poi rallenta fino alla fine di settembre e diventa decisamente rilassata fino al febbraio dell’anno successivo. Il che vuol dire che in primavera vado in apiario ogni settimana, poi in estate dirado le visite facendone una ogni dieci giorni, mentre in autunno e inverno passo ogni due settimane. L’apicoltura mi ha confermato una semplice verità: la cura di un essere vivente richiede costanza, passione, attenzione e umiltà. Ho capito il significato profondo di quel bellissimo passaggio in cui la volpe dice al Piccolo Principe queste parole: “È il tempo che tu hai perduto per la tua rosa che ha fatto la tua rosa così importante... Gli uomini hanno dimenticato questa verità. Ma tu non la devi dimenticare. Tu diventi responsabile per sempre di quello che hai addomesticato. Tu sei responsabile della tua rosa”. E alla domanda del Piccolo Principe, “Cosa vuol dire addomesticare?”, la volpe risponde “È una cosa da molti dimenticata. Vuol dire ‘creare dei legami’”. Forse è per questo che non riusciamo fino in fondo a rispettare e salvaguardare l’ambiente naturale che ci circonda (anche quello che troviamo in città): non abbiamo un legame, non lo conosciamo. Confondiamo il significato della parola addomesticare con quella di dominare o sfruttare. L’allevamento delle api risale almeno al tempo degli egizi (oltre 3.500 anni prima della nascita di Cristo) e ha sempre avuto la finalità di ricavarne del miele. Ci sono stati e ci sono sicuramente pessimi allevatori di api, che le maltrattano o le sfruttano. Ma nella stragrande maggioranza degli apicoltori che ho conosciuto, professionisti o hobbisti che fossero, ho colto un rapporto e un legame pro30


fondo con le proprie api. La raccolta del miele non è a scapito della salute delle api. Anche perché solo una famiglia in salute produce così tanto miele da potergliene sottrarre dieci, venti o magari anche trenta chili (nelle annate migliori). Come ogni legame che si rispetti, ha anche le sue stanchezze. Non vi nascondo che mi capita di dover vincere la pigrizia, soprattutto nelle caldissime e afose giornate di luglio e agosto: con trenta e più gradi di temperatura non è proprio piacevole indossare la tuta da apicoltore. Eppure ogni volta quando ho finito la visita e sono madido di sudore mi sento meglio. Le api hanno il potere di attirare la mia concentrazione. E per quel tempo necessario alla visita, da mezz’ora a due o tre ore (faccio le cose con calma), mi distacco dal mondo circostante. Eventuali problemi o stress della vita rimangono fuori dall’apiario. Direi che le api sono, a loro insaputa, terapeutiche, mi danno sollievo.

La festa del miele Tanta cura e attenzione può essere ripagata con il miele. Non tutte le famiglie di api arrivano a produrne tanto da permettere all’apicoltore di raccoglierlo. Ma quando questa abbondanza c’è è, almeno per me, una festa. Controllo i telaini dei melari, affondo il mignolo in un paio di celle per assaggiarlo, soppeso il melario cercando di intuire quanti chili siano. Mi trasformo insomma in un golosone impaziente. E, però, è necessario imparare ad aspettare. Altrimenti si rischia di portare a casa un miele scadente, molto acquoso. Come si dice nel gergo degli apicoltori, il miele deve essere “maturo”. Bisogna rispettare i Vi presento le api

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tempi delle api. Le bottinatrici durante i loro voli, infatti, accumulano il nettare nella borsa melaria, nella quale comincia a essere trasformato grazie ad alcuni enzimi. Quando arrivano nell’arnia, le bottinatrici rigurgitano il tutto alle altre api che lo “lavorano” ulteriormente con altri enzimi e lo stoccano nelle celle. In questa fase il miele ha un’alta percentuale di acqua, che evapora con il passare dei giorni. Quando il miele ha perso buona parte del suo contenuto di acqua, le api chiudono le celle con uno strato di cera. A questo punto è possibile portare via il melario. Per legge, in commercio il miele deve avere un’umidità inferiore al 21 per cento: si controlla quindi il miele con un rifrattrometro e, se necessario, si chiudono i melari in una stanza con un deumidificatore. Tutto questo per evitare che con il passare dei mesi il miele nei vasetti cominci a fermentare. Portati a casa i melari bisogna “smielare”, ossia tirare fuori il miele dalle celle. Io lo faccio in cucina ed è un’operazione che richiede una preparazione di alcuni giorni. Cerco insomma di trasformare la cucina in una specie di sala operatoria. Sono inoltre banditi cibi e cotture che producano forti odori. Il miele assorbe molto gli odori ed è quindi meglio evitare il rischio che abbia poi un sentore di broccolo o di frittura di pesce. Arrivato il grande giorno piazzo nel centro della cucina lo smielatore, ossia un bidone in alluminio con al suo interno un cestello che ruota intorno a un perno centrale. Si mettono i telaini nel cestello e li si fa girare a forte velocità. Grazie alla forza centrifuga, il miele esce dai favi. Ci sono due tipi di smielatori: manuali e motorizzati. Un hobbista come me ha ovviamente uno smielatore manuale. E così dopo aver “disopercolato” i telaini (ossia tolta la cera che ricopre le cel32


le), inserisco nel cestello dello smielatore quattro telaini alla volta. E poi con una manovella comincio a far girare il perno. Visto che ogni telaino può pesare anche un paio di chili, l’operazione diventa abbastanza impegnativa. Di solito i primi quattro telaini prendono velocità abbastanza rapidamente. Sarà per l’entusiasmo o perché sono ancora riposato. Ma poi, man mano che il lavoro procede, il giro della manovella mi sembra sempre più pesante. Mi sento come i grandi campioni del ciclismo, che con il volto tirato e i muscoli tesi scalano il passo dello Stelvio durante il Giro d’Italia: sbuffo, tengo duro, sudo, con la coda dell’occhio scruto quanti telaini mi mancano da smielare per arrivare al traguardo. Nel frattempo la cucina e il resto della casa si riempiono del profumo di miele e cera. È così intenso che a volte alla zanzariera della cucina si affaccia qualche ape. Scalato lo Stelvio, aspetto che il miele coli pian piano dalle pareti dello smielatore in un altro bidone sottostante, passando attraverso un filtro che ferma residui di cera o altre impurità. Per velocizzare un po’ i tempi, facilito la discesa con una spatola da pasticciere. Il bidone, poi, opportunamente sigillato resterà su un ripiano della cucina per qualche giorno: durante la caduta dallo smielatore il miele incamera aria e quindi bisogna aspettare (di nuovo!) che tutte le bollicine salgano in superficie. Formano una specie di schiumetta, buonissima secondo me, che però viene eliminata perché non è un bel vedere. Tolta la schiumetta posso finalmente invasettare. Questo momento rappresenta un po’ il culmine della mia festa del raccolto, perché è guardando la fila dei vasetti colmi di oro liquido che tiro la somma di tanto lavoro. Anche moglie e figlio, che con pazienza sopportano tutto questo, sorridono. Vi presento le api

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Il miele, i mieli In questi anni ho scoperto, a partire dal miele delle mie api, che non esiste un solo tipo di miele. Esistono i mieli. Diversi per origine botanica e per il territorio da cui provengono. Nel mio caso, con arnie alla periferia di Milano e nell’Appennino Reggiano, c’è una netta differenza tra i due millefiori che riesco a produrre. Il millefiori in collina è arricchito dalle fioriture di castagno ed erba medica, per esempio, che sicuramente quello di pianura non ha (ma non per questo è meno buono!). In Italia esistono almeno una ventina di mieli unifloreali, vale a dire che derivano dalla prevalenza di un nettare di una particolare fioritura. Dal conosciutissimo miele d’acacia al raro miele di rosmarino, c’è una ricchezza di sapori e profumi che, prima di dedicarmi all’apicoltura, non immaginavo. Il millefiori dei pascoli alpini ha sentori ben diversi dal millefiori della macchia mediterranea. Quando qualcuno mi racconta che “tempo fa ho acquistato dal banchetto di un apicoltore un vasetto di miele ma poi l’ho dimenticato in qualche angolo buio della dispensa”, sono assalito dallo sconforto. Perché? Perché dentro quel vasetto caduto nell’oblio c’è tanto lavoro e c’è il racconto di un territorio con le sue magnifiche fioriture. Per farlo sentire in colpa gli racconto che un’ape può trasportare al massimo 40 milligrammi di nettare che diventeranno circa 20 milligrammi di miele: quindi per riempire quel vasetto dimenticato di mezzo chilo di miele ci sono voluti 25mila voli. Pochi sanno che esistono anche i sommelier del miele. Nel 1999, con un decreto ministeriale, è stato istituito un Albo nazionale degli esperti in analisi sensoriale del miele e nel 2004 è nata l’associazione Ambasciatori dei mieli (Ami) che organizza incon34


tri di degustazione e veri e propri corsi di formazione per chi vuole diventare un esperto assaggiatore. Nel 2017 ho partecipato a un corso di introduzione all’analisi sensoriale dei mieli organizzato dall’Ami a Milano in un bellissimo luogo che tutti i milanesi dovrebbero conoscere: il Nocetum. È un centro di spiritualità e di accoglienza per donne e bambini fondato da due monache che hanno ridato vita a una cascina, la Corte di San Giacomo, abbandonata e diroccata nella periferia sud della città. Negli anni hanno avviato, insieme a un nutrito gruppo di volontari, anche alcune attività agricole e un apiario. In una delle grandi sale della cascina ho potuto compiere un viaggio tra i sapori dei principali mieli italiani. Il corso, guidato dall’apicoltrice e sommelier Alessandra Giovannini, aveva lo scopo di insegnare le basi dell’analisi sensoriale del miele. Perché c’è un metodo ben preciso da seguire. Innanzitutto non si assaggia il miele dal vasetto (è come se un sommelier del vino bevesse direttamente dalla bottiglia), ma mettendone qualche cucchiaino in un bicchiere da degustazione. “Spatolandolo” sulle pareti del bicchiere il miele libera i suoi aromi. E si usano quattro sensi: vista, olfatto, gusto e tatto. Ci sono mieli, come quello di acacia, quasi trasparenti, oppure di un giallo intenso come quello di girasole, o ambrati con riflessi rossicci come quello di castagno. Il corso è durato quattro sabati e siamo arrivati ad analizzare anche 17 mieli in una sola giornata: sul tavolo man mano si è creata una variopinta cornice di bicchieri. Tra un assaggio e l’altro mangiavamo una fetta di mela per “pulire” la bocca. Le sorprese più divertenti però arrivano dall’esame olfattivo. I mieli hanno odori molto particolari. Dal buon odore floreale del miele di agrumi si passa a quello di “calzino” del tarassaco. Il tiglio ha invece un profumo “balsamico”. Ho anche scoperto di non avere proprio un palato Vi presento le api

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fine. Alessandra ha cercato di guidarci nel complesso panorama degli aromi, ma ammetto che ho fatto una gran fatica a orientarmi tra i sentori di floreale, fruttato, caramello, balsamico, vegetale o speziato per citarne solo alcuni. Ci vuole allenamento. Non siamo abituati a degustare un miele. Non immaginiamo quanto sia complesso e prezioso. Per Alessandra, che ha un’esperienza decennale di organizzazione di corsi e anche di semplici serate di degustazione, è diventata una missione quella di far conoscere la ricchezza del miele. “Molti associano il miele all’idea che serva per curare la tosse in inverno. Invece potrebbe entrare a far parte di quei cibi che non possono mancare nella dispensa, visto che può essere utilizzato in moltissime pietanze, sia salate che dolci. Dovremmo tenere in casa più tipi di miele: da gustare insieme ai formaggi a quello per le carni o per la tisana.” Nella mia piccolissima esperienza, posso assicurare la bontà delicata dell’insalata con fette di mela e miele d’acacia, oppure il sapore avvolgente di una salsa di senape e miele millefiori per la carne di maiale. Grazie a un amico algerino ho potuto gioire di un cous cous con miele, uvetta e frutta secca. Ci si può sbizzarrire, insomma. La vita delle api è affascinante. C’è tanta bellezza e ricchezza, ma anche tanti nemici. E non mi riferisco a quelli naturali come i predatori o i parassiti. Ogni animale ha i suoi antagonisti. Il problema siamo noi, gli esseri umani. Qualsiasi apicoltore ben presto scopre che non può limitarsi ad allevare le api, ma deve anche difenderle. Mentre difende le api difende l’ambiente e gli uomini. Per quanto mi riguarda, mi sono reso conto che potevo unire cura delle api e giornalismo. E sforzandomi di assumere il punto di vista dell’ape, ho cominciato un lungo viaggio. 36


Indice

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3 Introduzione 5 I primi passi

A scuola di delicatezza · Un apiario tutto per me

15 Vi presento le api

Riti preparatori · Dentro all’arnia · A tu per tu con la famiglia · E d’inverno? · “Sei responsabile di quello che hai addomesticato” · La festa del miele · Il miele, i mieli

37 Cattivo tempo

Dai fiori passa la vita · Piccole grandi vittime del clima

47 I nemici silenziosi

Morie improvvise in tutta Italia · Due sostanze killer, il caso del Piemonte · I grandi sequestri di terreni in Friuli

67 Si fa presto a dire miele. Occhio all’etichetta

Chi indebolisce gli alveari? · Non c’è più il raccolto di una volta · Il (non) miele cinese

77 Apicoltori straordinari

Mauro, maestro di apicoltura urbana · Nene e le api di piazza d’Armi · La rivoluzione di Paolo

92 Una lezione semplice


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