Santiago mi disse
Il Cammino di Santiago de Compostela è stato il regalo della mia famiglia per i miei cinquant’anni, nel 2011. Hanno dovuto insistere perché l’accettassi. Fare il Cammino era un desiderio che coltivavo da tempo, ma nel momento in cui stava per concretizzarsi, lo sentivo come un pericolo. “Voglio restare con voi”, ripetevo per paura. “Va’”, insisteva mia moglie Lorenza, “va’, va’, va’: è per fedeltà alla fonte che il ruscello se ne allontana e si trasforma in torrente, in fiume, in oceano, in sale, in azzurro.” Alla fine, ho ceduto. Sono partito il 29 maggio 2011. Mi sento un peso, una pietra… Santiago, liberami da me… Ed è bastata la prima tappa, con la ripidissima discesa su Roncisvalle, per farmi sentire tutta la mia fragilità… Santiago, non mi sono allenato a sufficienza, non ce la farò mai a percorrere a piedi 790 km, mi si è già infiammato il tendine della rodilla destra, mandami una pomata e una ginocchiera… La pomata è arrivata, la ginocchiera pure e per ventisette giorni ho camminato spedito. Quando il 24 giugno 2011, festa del mio patrono Battista, alle ore 9.32 sono entrato in cattedrale, goccio-
lante come una fontanella, per abbracciare la statua del santo, ero pronto per ascoltarlo. “Dal prossimo anno camminerai nella tua terra. Non diventerai uno di quei noiosi che ritornano da me ogni anno e accumulano cammini di Santiago come se fossero pacchi di pasta nella dispensa. Batterai il piede sulla terra dei tuoi avi, là dove vivi”, così mi disse, senza che potessi esercitare alcun diritto di replica.
Detto, fatto.
Ho iniziato il cammino di Lombardia il 9 giugno 2012, una settimana all’anno, fino al gran finale del 9 giugno 2019. Otto anni, cinquanta tappe, 1.150 km complessivi, un milione e quattrocentomila passi. Ho seguito un percorso che non c’è in nessuna guida, che ho inventato di anno in anno, che non ha nessuna pretesa di presentarsi come un modello da replicare paro paro. Mi hanno accompagnato in alcuni tratti splendidi compagni: tutti uomini, nessuna donna. L’assenza di donne non è stata una scelta, è andata così, chissà perché. È stata invece una scelta ben consapevole, scaturita forse dal lato femminile della mia psiche, percorrere strade normali e contesti ordinari, alla portata di ogni scarpa: un cammino terra terra, sotto questo profilo un cammino assai particolare, direi unico. Infatti, ci sono tanti bei sentieri lombardi che portano in luoghi splendidi, solo il mio ha deciso di passare tra capannoni e discariche. Ho messo il calcagno in tutti i 12 capoluoghi di provincia, ho battuto la pianura, la collina, la montagna, ho bagnato il piede nei principali laghi e fiumi: un modo per esaltare le diversità della regione. Per mangiare a mezzogiorno mi son bastati un panino e un frutto, la sera sono andato in trattoria. Per dormire mi sono infilato nei B&B (sempre troppo costosi per le tasche di un viandante). Qualche volta il desco e il letto sono stati offerti da amici. E sono state le cene e le notti migliori.
Nel cammino, nel suo evolversi di anno in anno, ho cercato la rigenerazione. Avverto infatti da tempo che non stiamo vivendo una delle solite crisi, che non è un’epoca di cambiamento, ma un cambiamento d’epoca, come ripete frequentemente papa Francesco. Anche l’epidemia Covid, esplosa sei mesi dopo la fine del cammino (e a cui farò riferimento nel capitolo conclusivo), è la conferma che stiamo vivendo un’apocalisse, ovvero la fine di un mondo (non del mondo), meglio ancora la fine di un modo di vivere e di lavorare.
Nell’apocalisse ho cercato la rigenerazione, e non una rigenerazione qualsiasi, ma la rigenerazione del corpo. Io non credo a chi mi invita a pensare all’anima e al suo destino. Nessuna animula vagula blandula. Io credo al corpo e alla sua resurrezione (anche prima della morte), alla nostra fantastica trinità fisico-psico-Spirituale. Scrivo Spirituale con la maiuscola, perché è Dio dentro di noi, che pulsa in ogni cellula, ogni sospiro, ogni battito dell’intelletto, ogni spinta della volontà.
È il nostro corpo al centro del tourbillon. Si trascina stanco per eccesso di emozioni, informazioni, sollecitazioni, attese. Subisce bombardamenti quotidiani e non ce la fa più, alza bandiera bianca, si esaurisce, si ammala. Un tempo i nostri avi dovevano fare i conti con la peste, oggi le patologie predominanti sono neuronali: il sole nero della depressione, i disturbi della personalità e dell’attenzione, l’iperattività, la nevrastenia paralizzante, la follia.
Per rigenerare il mio corpo non mi bastavano più i libri, le teorie, le dottrine. Non mi erano più sufficienti le regole, le procedure, gli statuti. Sentivo la necessità di un’esperienza diversa, olistica, che mi prendesse tutto, portandomi prima in alto e poi infilzandomi definitivamente in questa terra che è la mia terra, dove sono stato generato, dove vivo con i miei cari, dove presto morirò.
Con questa tensione sono partito.
Per cinquanta giorni, passo dopo passo, ho provato il risveglio dei sensi: la pelle che torna reattiva all’arietta; le papille gustative che titillano per le pietanze della tradizione; l’olfatto che s’impregna del profumo dei campi; gli occhi che vedono lo sfavillio delle acque; le orecchie che avvertono il chiacchiericcio delle foglie.
Per cinquanta giorni, aiutato anche da chiese, santuari, madonne, crocifissi, ho cercato il contatto mistico con ciò che sta sotto, nell’estremo fondo, dove l’ultimo nucleo non è materia, ma Vento, lo stesso Vento che in origine aleggiava sulle acque e che ora continua a soffiare in ogni uomo e nel pelo degli animali e nei fili d’erba.
Per cinquanta giorni, attraversando più di 300 comuni, ho immaginato la politica del futuro, la Lombardia integrale, in cui lavoro e giustizia si incontreranno, cemento e asfalto diminuiranno, evasione fiscale e mafia scompariranno, lentezza e velocità si baceranno.
Insomma, per cinquanta giorni ho sperimentato un movimento sensuale-mistico-politico. Di quel che mi è successo tento di dar conto in questo testo.
Non sarà il solito inno alle virtù terapeutiche del camminare. Ormai lo sanno anche i sassi che, quando si cammina, si sistemano i parametri fisici: pressione, colesterolo, glicemia. Bevi il doppio, mangi la metà. Sputi veleni, incameri fantasie.
Troverete le tappe, è bello rivedere su carta i nomi dei paesi attraversati dal vivo. Però non troverete altri dati. Non ho usato il contapassi, ho fatto a spanne un calcolo complessivo. Non volevo passare il tempo a contare. Son già troppi coloro che misurano le calorie perse al minuto durante la corsetta serale o i secondi impiegati a fare due vasche a stile libero. Le nostre giornate sono strapiene di numeri. Se tutto è calcolato, non sei in cammino, ma in ufficio.
Leggerete, più che le descrizioni dei percorsi e delle città, i pensieri accesi dai luoghi incontrati. Ho capito bene che il mio io avvizzirebbe se non ci fosse una terra con cui comunicare. Il resoconto avrei voluto renderlo più fluido e avvolgente. Resto uno scrittore-per-caso, che scrive per disperazione, quando non riesce a toccare, cercando nelle parole carne sotto altra forma.
Leggerete una specie di confessione. Anche se non ho raccontato proprio tutto. Siamo già circondati da gente che riversa in pubblico le proprie parti più intime. Il cammino rifonda pure il senso del pudore. Ci insegna a custodire segreti che, a loro volta, ci custodiranno.
Leggerete una sorta di manifesto esistenzial-politico. A tutti coloro che in questo tempo di apocalisse cercano un’uscita, offro quel che ho scoperto lungo la via, che sento vibrare nelle viscere e che mi sta aiutando a vivere meglio: un sentimento di fiducia verso me stesso, gli altri, il mondo, come se la prevalenza fosse del buono e del bello. Nell’estremo della sera intravedo l’estremo del mattino. Un nuevo sol se levanta.
1ª tappa
Milano - Monza (20 km)
9 giugno 2012
Percorso: Milano - Sesto San Giovanni - Monza
Per iniziare il cammino mi è bastato il dixit di Santiago. Non ho cercato il consiglio di parenti, amici, colleghi, perché mi avrebbero consigliato male. L’idea che hanno di me è ormai sorpassata. Io sono già partito da me. Ho già perso un numero consistente di cose e di persone, ho già perso molte parole e il ricordo di molti eventi del passato. E alla fine di questo nuovo cammino vorrei perdere ciò che continuo a chiamare incautamente “io”.
La notte prima della partenza non ho dormito per le domande. Cosa sto facendo? Sono impazzito? Perché camminare sulle vie ordinarie in mezzo al traffico? Se proprio volessi rallentare non potrei andare a camminare su qualche bel sentiero? Domande che mi facevano paura. Le ho sotterrate, ne ho messe sopra delle altre: ho fatto bene lo zaino? Non sarà troppo pesante? E le scarpe, non mi daranno problemi? Le mie gambe reggeranno? Verrà qualcuno con me? La sveglia è suonata alle sei e mi ha trovato già in piedi, con la maglietta colorata e i pantaloncini corti, pronto a entrare nella partenza. Nella partenza si può solo entrare. Ed appena entrati, appena il piede tocca la strada, arriva la calma. Adesso sì che sarei pronto per dormire. Con calma attraverso il mercato, che ogni sabato colora via Osoppo. Con calma mi dirigo verso piazza del Duomo. Ho appuntamento con Andrea, un digital communication manager dai bellissimi capelli rasta, che ha deciso di farmi compagnia per la prima tappa. Andrea non arriva, è già in ritardo di mezz’ora. Il tempo per permettermi di vedere e salutare - con una coinci -
denza che farebbe stappare lo champagne a uno psicoanalista - don Franco, l’assistente di quand’ero il responsabile dei giovani dell’Azione Cattolica. Lui sale il sagrato, va a santificarsi al pontificale per i preti novelli, io scendo i gradini per battere la strada. Quando, passata un’altra buona mezz’ora, Andrea spunta dal fondo della piazza con la criniera al vento, può iniziare ufficialmente l’avventura. Procediamo decisi e contenti verso nord: corso Vittorio Emanuele, corso Venezia, corso Buenos Aires, piazzale Loreto, viale Monza. Oltrepassata a buon passo tutta Sesto San Giovanni, a Monza arriviamo presto, senza neanche essere troppo sudati. Andiamo subito all’Antica Trattoria dell’Uva, che sarà il tetto per la notte. Il proprietario, incuriosito dal nostro aspetto, pone domande e non sembra credere alle risposte. “Stanno barando”, pensa dentro di sé. Come se il nostro fosse un gioco. Ai suoi occhi siamo oggetti non identificati, dei mezzi disadattati, dei Forrest Gump minori.
Mangiamo davanti al duomo, guardando la splendida facciata a righe orizzontali in marmo bianco e scuro. Il piatto da nouvelle cuisine non ci sazia, niente di paragonabile al risotto alla monzese, quello a base di zafferano e con salsiccia luganega. Andrea mi saluta per tornare nelle braccia della sua bella e io resto solo nelle braccia di questa città, che conosco dall’infanzia - sono nato a Carate Brianza, 10 km più a nord, il sabato scendevo con la zia per fare la passeggiata nelle vie del centro -, verso cui provo attrazione e rigetto.
Monza ha negozi alla moda, studi professionali di livello, un parco meraviglioso e una storia assai importante. Durante il periodo longobardo fu designata capitale estiva del regno e resa famosa dalla regina Teodolinda. Nel duomo è custodita la corona ferrea, usata fin dal Medioevo per incoronare i re del Sacro romano impero. La Villa
Reale, voluta da Maria Teresa d’Asburgo e realizzata in soli tre anni, dal 1777 al 1780, dall’architetto Giuseppe Piermarini in stile neoclassico, fu dimora degli austriaci e poi dei Savoia, fino all’assassinio del re Umberto, il 29 luglio 1900, per mano dell’anarchico Gaetano Bresci.
E allora cosa trasforma l’attrazione in rigetto? La mentalità ristretta, tendente alla conservazione, che si è ulteriormente consolidata nel 2004 con l’istituzione della Provincia di Monza e Brianza. A che serviva un’altra Provincia? Un inutile appesantimento della burocrazia italiana. La città, invece di puntare in alto e di interagire con il mondo, si è accontentata di un modesto risultato. Monza è una bella lumacona, che ama rinchiudersi nel guscio.
Vado a messa, è la festa di Pentecoste, scenda lo Spirito sui miei passi. Ceno in un locale della movida. Lo scoppio del temporale mi fa correre in anticipo verso il letto.
2ª tappa
Monza - Calco (26 km)
10 giugno 2012
Percorso: Monza - Villasanta - Arcore - UsmateCarnate - Ronco Briantino - Verderio - Paderno d’Adda -
Imbersago - Arlate - Calco
Sono le 6.30 del mattino e non c’è nessuno che mi gridi come in Spagna “Ultreya! Suseya!”, il “Più avanti! Più su!”. Il cielo è grigio-squalo e scende acqua torrenziale. Ficco le mie scarpe dentro le pozzanghere. Passo davanti al santuario di Santa Maria delle Grazie, attraverso per un tratto il Parco di Monza e mi dirigo verso Villasanta. Non incontro nessuno. Piove così forte che dopo cinque minuti
sono già fradicio. Non contento dell’acqua che c’è fuori, inizio a piangere. Acqua nell’acqua. Scatta lo stesso meccanismo che si è ripetuto un numero infinito di volte durante il Cammino di Santiago: mi si apre il rubinetto. Io sono uno che piange. Non mi è stato facile accettarlo, ancora adesso quando mi succede in pubblico cado nell’imbarazzo, perché le lacrime non sono previste dal bon ton, sono segno di debolezza. Siamo tutti degli pseudostoici, e il pianto è una tentazione, le virtù sono l’aplomb, la compostezza, l’atarassia. Ciò che gocciola viene percepito dalla gente di cultura come puzza di bruciato, come un imbroglio da cui stare lontani. Certo, ci sono lacrime e lacrime: lacrime superficiali, melò, addirittura false lacrime, lacrime non convinte, “lacrime di coccodrillo”. Ma queste, sotto il temporalone, sono lacrime vere, intrise di sofferenza. Piango per tante cose insieme, per la morte di mia mamma, per quello che non ha funzionato al lavoro, per i mancati riconoscimenti in politica, per i miei eccessi di rabbia e per i miei eccessi di cuore (ci sono stati pure questi, forse più frequenti di quelli di rabbia). Piango per questo mondo che mi ripropone sempre la solita indigeribile polpetta. Ormai lo so che il mondo vuole la ripetizione addormentata del mondo ma, ogni volta che vedo lo stesso copione, continuo a rimanerci male. Piango anche perché ho paura di ciò che sto facendo, un cammino strano senza capo né coda, in mezzo alle rotonde autostradali e ai capannoni industriali. Un’allucinazione per dar retta a chi? A un Santiago che mi ha parlato senza neanche muovere la bocca.
Le lacrime seguono la pioggia. Appena spiove, anch’esse se ne vanno. Mi asciugo guardando l’ardito ponte di ferro di Paderno, realizzato tra il 1887 e il 1889, dalle officine di Savigliano. Seguo l’Adda fino ad Imbersago, mi fermo per un panino all’imbarcadero di Leonardo: un battel -
liere, con apposite tenaglie, sta facendo scorrere il traghetto lungo il cavo metallico che collega le due sponde, sfruttando la corrente del fiume.
Tra Imbersago e Arlate c’è il santuario della Madonna del Bosco. Quanti lombardi sono arrivati in pellegrinaggio in questo luogo! Tra loro si conta anche papa Giovanni XXIII. Salgo la lunga scalinata. Vorrei essere un uomo della tradizione e custodire la memoria di coloro che hanno bagnato con le loro lacrime e il loro sudore la terra di Lombardia. La memoria allarga gli stretti limiti del presente. Il breve spazio angosciante del nostro giorno, dov’è subito sera, diventa smisurato nel collegamento con la storia di chi ha vissuto, lottato, amato prima di noi. Concludo la tappa nell’unico ristorante-albergo di Calco: la Locanda di Saunière. Strano nome, preso dall’abate che, a fine Ottocento, avrebbe ritrovato un presunto tesoro nella località francese di Rennes-le-Château, ancora oggi meta di migliaia di amanti del mistero e cercatori di tesori. L’ambiente si presenta semplice ed accogliente. La posizione invece è assai sfortunata. La via Nazionale ha più traffico di una tangenziale. Nella notte c’è da piangere per tutti i tir che sfrecciano sotto la finestra.
3ª tappa
Calco - Lecco (25 km)
11 giugno 2012
Percorso: Calco - Airuno - Valgreghentino - OlginateGarlate - Galbiate - Sala al Barro - Civate - ValmadreraMalgrate - Lecco
Alle 7 del mattino, fuori dalla locanda, mi aspetta Silvano, l’amico del cuore. Intendo per cuore il Cuore di Lombar-
dia, un circolo fisico-telematico che due anni fa abbiamo avviato quale atto di amore per la nostra terra. Proviamo ad occuparci della vita culturale, sociale, politica della Lombardia. È la nostra terra, dove viviamo per nascita o per scelta, a cui vogliamo un gran bene, consapevoli delle tante risorse che vi sono, e che proprio per questo vorremmo diversa e migliore. Cos’è che non va? L’economia, l’immigrazione, la gestione del territorio, il traffico che ci romba attorno in questo preciso momento, mentre entriamo in Valgreghentino. Sì, tutto giusto, ma l’esistenza di questi problemi non giustifica il risentimento, la rabbia e la cattiveria che sgorgano a fiotti appena parte un dibattito. Quanta durezza sotto questo cielo! La Lombardia non va come dovrebbe e non riesce più a risolvere i problemi con laborioso e tenace realismo, com’è nella sua tradizione, perché le è cambiato il cuore. Se le parole avessero un prezzo, se ci fosse una borsa delle parole, “cuore” varrebbe ormai pochi centesimi. Troppe canzonette. Troppi buonismi a buon mercato. Ma alla fine c’è, in ciascuno di noi, una spinta irresistibile che riporta sempre lì, al centro del centro. Diciamo cuore non alla maniera dei rotocalchi, come il campo affettivo alternativo all’ordine razionale, ma in termini giudaico-cristiani, come il luogo in cui si realizza l’unità della persona (l’ebraico lo chiama lebh, la tradizione cristiana “il senso dei sensi”). Il cuore lombardo (non lumbard!) in questi anni è cambiato. Si è fatto di pietra. La diagnosi è chiara: sclerocardia, con nociva tendenza alla delinquenza. Ma niente è irreversibile. Questo cuore indurito può ancora tornare di carne, riprendere a pulsare nel modo giusto, senza paure, senza violenze, senza razzismi, con profonda e umana compassione.
Silvano e io andiamo spediti, perché vogliamo salire al più presto al monastero di San Pietro al Monte, posto
dalle qualità terapeutiche. Dal paese di Civate impieghiamo meno di un’ora a percorrere il sentiero ciottolato che nell’ultima parte sale a gradoni. Sono 300 m di dislivello che facciamo indossando idealmente sul capo la corona ferrea della regina Teodolinda, perché longobarde paiono essere le prime pietre risalenti al 750 d.C., poste dall’ultimo re longobardo Desiderio in ringraziamento per la miracolosa guarigione dell’occhio del figlio Adelchi. L’attuale complesso, composto da due chiese, quella di San Benedetto, più piccola, e l’abbazia vera e propria, dedicata a san Pietro, è successivo, appartiene all’epoca del grande romanico, tra l’undicesimo e il dodicesimo secolo.
Al monastero ci aspetta Aldo, volontario degli Amici di San Pietro, che ci guida alle scoperte delle bellezze antiche. L’incontro con il bello fa bene al cuore, che si dilata per sentire meglio le forze (le sistole) e le forme (le diastole) in cui lampeggia il mistero delle cose e dell’uomo. Non solo le forze - emozioni, affetti, passioni - perché, prima o poi, ci troveremmo sul piano inclinato della confusione e della dispersione. Non solo le forme - misure, confini, proporzioni - perché altrimenti avremmo dei fossili, realtà dai contorni distinti, ma morte. Ci vogliono sia le forze sia le forme: la vera bellezza spinge, ferisce, incalza e allo stesso tempo acquieta, placa, rende composti. Noi facciamo un’immersione di due ore nell’Apoteosi finale del Cristo e nel Trionfo dei Giusti, sulla falsariga dell’Apocalisse di san Giovanni, e poi, con cuore dilatato, riscendiamo in mezzo al cemento e all’asfalto. Attraversiamo la zona industriale di Valmadrera, che bella non è, arriviamo a Malgrate e finalmente ci sorride il lago. Alla sua vista sistole e diastole cantano in coro.
4ª tappa
Lecco (in treno fino a) - Abbadia LarianaVarenna (17 km)
12 giugno 2012
Percorso: Lecco - Abbadia Lariana - Mandello del LarioOlcio - Lierna - Varenna
L’appuntamento è alle 8 con Virginio, il sindaco di Lecco. Con lui posso parlare in libertà, lo conosco dalle superiori e sono stato pure il suo testimone di nozze. Quindi ho potuto provocarlo: “I politici non si sporcano le scarpe, la politica non va più a piedi, e invece le vostre suole servono per pattugliare il territorio. Vieni con me!”. Lui ha accettato la provocazione e almeno per tre ore mi terrà compagnia. La mattinata non è delle migliori, piove a catinelle. Ci vediamo in stazione, perché per il primo breve tratto saremo costretti a prendere il treno.1 Incredibile a dirsi, da vent’anni non è possibile andare a piedi da Lecco al paese successivo, Abbadia Lariana. I 3 km di lungolago che per secoli sono stati il naturale collegamento tra i due abitati sono stati sequestrati dalla superstrada, diventando off limits per i pedoni. Incredibile la situazione, e incredibile la rassegnazione di tutti gli abitanti e la latenza dell’amministrazione pubblica. Virginio tenta di calmarmi, preannunciandomi l’avvio dei lavori per la ciclopedonale.2
Alla stazione di Abbadia Lariana ci attendono per un saluto il sindaco Cristina con l’assessore Domenico. Sono loro ad indicarci dove comincia il Sentiero del Viandante, tracciato nel 1992 dall’Azienda promozione turistica di Lecco e dalla Comunità montana Lario Orientale, ormai un classico dell’escursione dolce non solo per lombardi ma anche per svizzeri e tedeschi (per loro il Viandante è
diventato il Traumpfad, “il sentiero di sogno”). Procediamo in direzione della chiesa di San Giorgio. Sulla sinistra, nonostante le nubi, possiamo ammirare oltre il ramo del lago il Moregallo, i Corni di Canzo e il San Primo.
Mentre saliamo verso Maggiana e Rongio, Virginio mi racconta le sue fatiche di sindaco. L’uomo pubblico, in effetti, deve mettere nel conto un sacco di lavoro e di incomprensioni. Chi sta dentro al suo buco, al suo “particulare”, sta al riparo dalle critiche, dalle maldicenze, dalle inchieste giudiziarie così facili a scattare. Chi invece si espone, rischia molto, soprattutto la sua pace.
La questione si ripropone in ogni epoca. Chi fa il Cincinnato nei campi potrebbe dire: non guardo al di là delle mie siepi, non vado più in là di questi solchi, mi basta un pugno di sementi, il pungolo dell’aratro, e che Dio mandi a tempo giusto la pioggia e il sole. Chi è uomo di cultura potrebbe ragionare: i libri non mordono, la ricerca intellettuale esalta e soddisfa, meglio stare nella torre della mia solitudine soddisfatta, piuttosto che rompermi il capo con l’organizzazione di scuole, conferenze, dibattiti. Chi ha una fabbrica o un negozio potrebbe sostenere: contribuisco al benessere del mio paese lavorando e dando lavoro, non ho altro tempo da spendere, non posso perdere i ritmi del giorno e della notte. Invece, per fortuna, sono ancora tanti quelli che resistono alla tentazione di rompere ogni legame con le cose pubbliche e accettano i rischi conseguenti. Onore ai Virginio, alle Cristine, ai Domenico che, senza paura e senza risparmio, sopportano le tribolazioni della politica.
Scendiamo fino a Olcio. Saluto il sindaco, che rientra in sede. Lascio il sentiero del sogno per la più prosaica strada del lungolago. Mi ripartono le lacrime. Acqua nell’acqua. Arrivo a Varenna e trovo una stanza per dormire nella casa della signora Maria. Il pomeriggio si mette
sul bello e ho tutto il tempo di visitare il giardino botanico di Villa Monastero, 2 km di terrazzamenti sul lago, con essenze esotiche e mediterranee. Da una panchina mi godo l’ora che volge il disio e ai naviganti - e ai camminanti, aggiungo io - intenerisce il core. La sera sono a cena da Giorgio, Nunzio e Mauro, tutti e tre consiglieri comunali. Allertati da Virginio, vogliono raccontarmi le loro vicissitudini. Sono in gamba. Sono avversi alle macchinazioni e agli intrighi. La passione politica scalda ancora il loro petto. Il passaggio delle idee, sottile come quello del sangue nelle arterie, continua fino a notte fonda.
1 Alla fine del cammino saranno solo cinque i tratti non percorsi a piedi: Lecco - Abbadia Lariana (4ª tappa), Malonno - Capo di Ponte (14ª tappa), Isola Dovarese - Pessina Cremonese (26ª tappa), Codogno - Senna Lodigiana (37ª tappa), Vigevano - Morimondo (41ª tappa).
2 A tutt’oggi la ciclopedonale è incompiuta. Il tracciato si ferma in località Lecco Pradello. La conclusione dell’opera è stata inserita tra i lavori per le Olimpiadi invernali MilanoCortina 2026. Dal mese di maggio 2021 è stato aperto il tratto del Sentiero del Viandante da Lecco ad Abbadia Lariana.
5ª tappa
Varenna - Colico (25 km)
13 giugno 2012
Percorso: Varenna - Bellano - Dervio - Corenno PlinioDorio - Olgiasca - Piona - Colico
Appena mi sveglio, sento i due Giovanni che fanno parte di me: uno è quello sedentario, abituato da troppi anni
alle giornate di ufficio, tra i vivi, o coloro che lo sono in apparenza, l’altro è quello nomade, che cammina da solo, tra presenze invisibili, delirando. Oggi sarei nelle condizioni ideali per far vivere il secondo Giovanni. La pioggia
ha ripulito i colori, il sole è nitido, il lungolago è senza traffico. Invece arriva lei, l’ansia. Quali siano i suoi sintomi sulla mia psiche e sul mio fisico, mi pare ormai di saperlo, dopo tanti anni di convivenza litigarella. Invece non mi è ancora del tutto chiara la sua origine e del perché sia così diffusa. Vedendo l’acqua trasparente del lago, mi vien da pensare che l’ansia abbia uno stretto collegamento con la menzogna. Chi è costretto a fingere e a mentire, a proporsi per quello che non è, consegna se stesso alle fauci di un’agitazione divorante. Il doppio gioco di chi inganna la moglie o un socio può essere scoperto in qualsiasi momento, ed è chiaro che in quell’animo non c’è mai pace, ogni squillo di telefono, ogni scontrino di bar, ogni parola detta nel sonno possono smascherarlo: l’ansia gioca con lui come la zampa del gatto con il topo. Solo che oggi l’ansia è un fenomeno talmente generale che non lo si può ricondurre solo agli amorazzi clandestini o a qualche truffa dall’esito incerto. Cosa ci sta succedendo?
Viviamo fuori dalla sincerità, impegnati giorno e notte a recitare ruoli fasulli, spacciandoci per quello che non siamo. Non stiamo facendo niente di troppo grave, in fondo ripetiamo quello che fanno gli altri e quasi non ci accorgiamo più del teatro al quale partecipiamo. Non c’è una colpa precisa da nascondere, uno scheletro che possa uscire dall’armadio per denunciarci. C’è però una vibrazione perenne, un tremore che non ci lascia in pace, un’insicurezza che ci obbliga a fuggire. Il cuore ci avverte che stiamo imbrogliando, che sotto i piedi non abbiamo nulla di vero e di solido, solo assi e botole da palcoscenico.
L’ansia scema vedendo il bel promontorio di Piona e sentendo l’ora media dei cinque monaci rimasti nel convento. L’ansia scompare del tutto a Colico, dove mi attende, avvisato da Virginio, il sindaco in carica, Raffaele.
Bel tipo, il Raffaele. È riuscito in un’impresa storica: rompere, con l’aiuto di una lista civica, il predominio leghista. Ed è così gentile e ospitale che, appena entrato in casa, mi fa subito vedere il letto in cui dormirò. E se fossi una spia? E se fossi un malnatt? Raffaele si fida ciecamente, mi porta a visitare il municipio, mi fa girare la cittadina, illustrandomi orgoglioso le opere della sua amministrazione. Alla sera organizza una cena nel giardino con incantevole vista sul lago. Dai discorsi intorno al tavolo, scopro l’importanza che ha avuto ed ha ancora nella zona del lago e in Valtellina l’Operazione Mato Grosso. È un’associazione di volontariato nata alla fine degli anni Sessanta, quando un gruppo di giovani, guidato dal padre salesiano valtellinese Ugo De Censi, decise di andare ad aiutare padre Pedro Melesi in Brasile, a Poxoréu, nello Stato del Mato Grosso. E se il vero antidoto per la nostra ansia fosse un’attività di volontariato? E se la guarigione dipendesse da un’esperienza di verità, secondo gli ordini di padre Ugo, cioè fare fatica - fare bene le cose - essere coerenti - pagare di persona - aiutare chi ha bisogno?
6ª tappa
Colico - Ardenno (25 km)
14 giugno 2012
Percorso: Colico - Delebio - Rogolo - Piagno - Cosio
Valtellino - Morbegno - Campovico - Paniga - DescoMasino - Ardenno
È mattina presto e già imbocco il Sentiero Valtellina, la ciclopedonale che si snoda lungo la valle. Sulla destra svettano le Orobie, sulla sinistra le Retiche, in mezzo corre l’Adda, un gran bel fiume, per lunghezza il quarto
in Italia. Il suo nome viene dal celtico abdu, acqua corrente. Anche adesso l’acqua va veloce, corre, sta prendendo la rincorsa per buttarsi nel lago. Vorrei imitarla e buttarmi da qualche parte per scacciare definitivamente l’ansia, che pure oggi ha deciso di tenermi compagnia. Quando la sua onda arriva, divento il suo schiavo, lo schiavo permanente del mio spavento. Tutta la mia attenzione è per il cuore, lo spio, perché temo che si fermi. È assai difficile spegnere l’ansia. Ed è assai difficile, più in generale, trovare un equilibrio interiore. Lo dico per me, lo dico per molti che mi stanno intorno. Spesso non ho misura, pencolo da un estremo all’altro. Da una parte sono l’ottimista che sente i venti sempre favorevoli anche se infuria la bufera, che ride e canta e si esalta in ogni occasione, anche le più stupide, dall’altra sono il pessimista cronico, un lamentoso che intorno a sé cerca solo conferme alla sua cupa visione dell’esistenza. Chi è il mio io più fastidioso? La scelta è ardua, entrambi riescono a irritarmi per la mancanza totale di elasticità. Tutto va bene o tutto va male sono due modi ostinati per ignorare la mobilità delle cose, che non se ne stanno ferme per sempre sotto un albero fiorito o in fondo ad un crepaccio. Ormai ho un’età in cui invece dovrei essere saggio ed equilibrato, gestendo l’imprevedibilità della vita e sapendo cosa pensare e come comportarmi quando la ruota gira. Ma la saggezza e l’equilibrio non vengono da soli, se non preparo il terreno temo di ritrovarmi presto nel folto gruppo dei vecchi istupiditi e malinconici.
Rompe il mio loop mentale l’arrivo a Morbegno, dove oso bussare alla porta del sindaco, Alba, un nome, una promessa. Mi riceve subito ed è contenta di spiegarmi l’importanza di questa località, il principale nodo commerciale della Valtellina, storicamente il punto di collegamento tra la Repubblica di San Marco e le terre svizzere.
La città in passato era continuamente angariata dagli straripamenti dell’Adda e dalla diffusione della malaria nel fondovalle, tanto che il nome Morbegnus deriverebbe dal latino morbus. Anche Morbegno, quindi, ha impiegato un po’ di tempo a trovare il suo equilibrio. Dopo aver fatto una breve sosta nel bar della piazza, riprendo la strada, sulla sinistra della valle. Cammino e mi viene in mente di tutto e di più. Il pensiero va dalle pagine di un libro, si ferma a un ricordo ridicolo, corre su una previsione, esita, si contraddice, si perde e si ritrova, chiede in prestito una riflessione, l’abbandona per una paura. Cammino e non incontro nessuno, neanche l’homo salvadego, il selvatico peloso come un orso, che vive in una grotta e che impugna una clava per farsi rispettare. Questa figura mitica, posta nello stemma della Lega delle Dieci Giurisdizioni che per un periodo governò da queste parti, rimanderebbe agli albori del carattere retico, ai sentimenti spirituali infusi in questi luoghi e nei suoi abitanti prima del cristianesimo, e sarebbe ancora in libera circolazione nei boschi della valle. Come nessuno avvista lo Yeti himalayano, così anch’io non incrocio il salvadego valtellinese. Invece ad Ardenno mi viene incontro, appena sceso dal treno, un uomo vero, in carne ed ossa, molto civilizzato: Emanuele il professore. La sera sarà divertente nell’agriturismo Le case dei Baff.
7ª tappa
Ardenno - Albosaggia (25 km)
15 giugno 2012
Percorso: Ardenno - Forcola - Selvetta - ColorinaFusine - Cedrasco - Caiolo - Sondrio - Albosaggia
Oggi la Valtellina è più bella della val Pusteria. Conviene vedere di nuovo ciò che si è già visto, vedere in estate quel che si è visto in inverno, vedere con il sole quel che si è visto con la pioggia. Camminare dove in precedenza si è passati con la macchina è come conoscere quel luogo per la prima volta. Proseguiamo sul sentiero Valtellina con il piacere di camminare con calma. Del resto, Emanuele è uno degli uomini più calmi che conosca. Gli invasati del cammino di Santiago dicono che un giorno in cammino equivale ad un mese di vita normale, e che un mese in cammino supera di gran lunga la vita trascorsa dalla nascita al giorno di partenza. Un giorno sul cammino di Lombardia invece vale solo un giorno, ma è un giorno vissuto senza la fretta dell’orologio, senza essere fagocitati dalla rapidación , termine spagnolo che in italiano suona più pesante: rapidizzazione. Parlo con Emanuele, che di mestiere fa il sociologo, dell’incremento della velocità che travolge il ritmo della nostra vita. “Tutto scorre” diceva il filosofo Eraclito, ancor prima dell’era cristiana, ma ciò che cambia è la velocità con cui lo fa, tanto che oggi diremmo “tutto corre”. Il ritmo lo impone l’immagine, il suono, la notizia via social. Il virtuale, con il suo peso minimo, può viaggiare molto più velocemente, in un’infinità di minuti in meno, rispetto al corpo, col suo carico di carne e ossa, con la stanchezza delle sue ginocchia che, magari, come nel mio caso, cominciano pure a fare male. La rapidación è un problema, innanzitutto, fisico, una sfida a un organismo composto di ben 238 membra, ciascuna con il suo peso specifico. Ma non c’è solo la gravità della materia a doversi ritirare dinanzi al competitor alato e volatile. Sono la storia, la sensibilità, l’interiorità, il metabolismo che vengono colpiti e che devono alzare bandiera bianca. Emanuele e io proviamo a contrastare questo fenomeno con il piacere della conversazione. La conversazione è
merce rara: infatti, a differenza della chiacchierata infarcita di banalità e dei monologhi logorroici, è il parlare che pone le domande e ascolta le risposte, che non si affretta alle conclusioni, che prende sul serio le parole dette e le medita per entrarvi in profondità. La conversazione risulta piena di fascino se ci sono domande poste senza complessi e raccolte senza imbarazzo. Noi due ci parliamo in scioltezza. Non abbiamo paura di apparire deboli. Ci raccontiamo anche i nostri sogni, sia quelli notturni sia quelli diurni. I sogni della notte macinano i resti di quanto non si è digerito, e spesso sono sussulti di dolore. Nella notte ritorna quanto è stato rimosso, domina l’io censorio che non permette la gioia piena e intride di assenzio ogni boccone che si mangia. Meglio, molto meglio i sogni del giorno, che inventano ipotesi, lanciano progetti, inseguono ideali. I realisti a oltranza, quante volte ce l’hanno detto, proprio a noi due: ma che sognate, quello che conta è fare i conti con la realtà! Non hanno tutti i torti, non hanno tutta la ragione. L’idea disincarnata è vuota, il fatto senza l’idea non sa dove andare. Toccano veramente nel segno coloro che, aiutati da conversazioni prolungate, riescono a unire ideale e reale.
A Sondrio la notizia del cammino è arrivata prima di noi, rapida come un fulmine, promettente come un sogno a occhi aperti. Ci vengono incontro per salutarci il vicesindaco Michele e l’ex consigliere regionale Marco. La loro presenza ci commuove, brindiamo felici a questo incontro inaspettato. Mentre Emanuele ritorna a Milano dai suoi libri, io busso alla porta del B&B. Sorpresa: tutto esaurito. Mi tocca riprendere lo zaino e salire per altri 4 km fino ad Albosaggia dove mi aspetta, in fondo al paese, la splendida Ca’ Murada.
8ª tappa
Albosaggia - Tirano (30 km)
16 giugno 2012
Percorso: Albosaggia - Piateda - Carolo - Castello dell’Acqua - San Giacomo - Tresenda - Stazzona - Villa di Tirano - Tirano
Partenza alle 7.10, discesa fino al piano e ripresa del sentiero della Valtellina per arrivare quanto prima a Tirano. Cammino da otto giorni e si fa viva la voglia di tornare a casa. Il percorso costeggia sempre l’Adda e offre paesaggi spettacolari, inimmaginabili per chi guarda la valle solo dal finestrino di una macchina. Passo attraverso piccoli borghi che sembrano fermi nel tempo, non ancora toccati dalla piovra cementificatrice.
Mi tornano in mente le centinaia di facce incontrate l’anno prima sul cammino di Santiago. Alcune sono sfocate, altre molto nitide, come quelle di Gino e di Jack: due icone roventi, che bruciano rimanendo intatte. Nel cammino il corpo sviluppa dei sensi che noi conosciamo appena durante la vita di ogni giorno. Per questo in nessun momento mi sento né solo né abbandonato. Sento tante presenze amiche intorno al mio zaino. Cammino in una grande sfera invisibile, circondato da angeli. Angeli, e voi chi siete? Siete le presenze benigne, che ispirano e potenziano il positivo, avendo dissolto tutto il resto: i vittimismi, le lamentazioni, il cattivo umore e soprattutto la noia. Mi aiutate a tenere gli occhi spalancati su tutto: lo scarabeo iridato sulla foglia verde di ortica, il fiore bianco che sbuca tra le pietre, la gemma che ingravida il ramo. Mi spingete a vedere i terrazzamenti, pieni di vigneti, sull’altra parte della montagna. Che spettacolo! Ammiro il risultato degli sforzi di migliaia di uomini lungo centi-
naia di anni per coltivare una terra ostica e impervia. Da quelle viti che sembrano incollate alla parete escono i grandi vini della valle: Sassella, Grumello, Inferno, Valgella, Sfursat. Li ho gustati più volte, ma oggi non si può, fa troppo caldo, è scoppiata la suprema estate.
Con il passare delle ore cammino senza pensare più a niente, il sole a picco mi fa quasi chiudere gli occhi. Arrivo a Tirano alle 13.50. Sono stremato, disidratato, entro nel bar sulla piazza del Santuario e ingollo un litro e mezzo di acqua fresca. Mi riprendo e, prima di andare verso la stazione, vado a trovare la Madonna. Non è una delle tante, è la patrona della Valtellina. Secondo la tradizione, il 29 settembre 1504, in un orto, apparve a un signore del luogo, Mario Omodei, chiedendogli di edificare un tempio in suo onore. Cosa che il Mario subito fece, con l’aiuto di un popolo intero. Perché alla Madonna si obbedisce, è lei col suo ventre, col suo latte e la sua inimicizia alle guerre, la conservatrice dell’umanità. A quante generazioni valtellinesi avrà dato sostegno? È il refugium peccatorum , anche di quelli che non ce la fanno a immaginare un perdono, la consolatrix afflictorum, la speranza di tutti i diseredati, la ianua coeli, che fa entrare senza documenti nel porto di Dio.
Accanto alla Donna del cielo, se c’è un maschio sulla terra che ha voce in capitolo, questi è solo lui: l’organo. Nel santuario c’è infatti un grandioso organo, uno dei più elaborati d’Italia. Mi piacerebbe sentire le sue voci, tutti quei rombi e sospiri e zufolii, e finire questo primo anno di cammino con un momento sonoro, che mi faccia gustare la liberazione dal tempo e dallo spazio, un anticipo di eternità. Da piccolo ho passato ore ad ascoltare organisti, a vedere le loro mani sui tasti, i loro piedi sui pedali. E mi sembrava che a un certo punto quel drago di canne, mantici e pomelli suonasse da solo: erano le
dita del Creatore a ritrovare sulla tastiera gli antichi empiti della Genesi.
L’organo non suona e quindi nel silenzio ho il tempo per due ultime preghiere. Una all’antica: “Ti chiedo grazia per questa nostra terra, la grazia di raccolti rigogliosi, la grazia di biade e frutti abbondanti senza che spiriti maligni possano guastarli”. Un’altra più intima: “Venga il tuo seno, aiutaci a vivere semplici, tienici la mano ora e fino all’ora della nostra morte”.