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L’UNICA via d’uscita

Traduzione di Samanta K. Milton Knowles

Era tutto così triste. Con il fango e il freddo e tutte le cose che non servivano. Tutti gli oggetti che venivano buttati in un mucchio nella discarica, oppure venivano schiacciati in un container blu.

Così a posteriori penso a tutto ciò che è successo quell’inverno. Ovviamente penso alla discarica, e alla montagnola dietro la scuola.

Piuttosto spesso penso ai topi. Sia a quelli normali che correvano squittendo in mezzo ai tostapane e al ciarpame, sia a quegli altri. I topi di fogna, che appestavano la vita dell’unica persona che aveva il coraggio di essere sé stessa.

Forse quel tipo di topi esisterà sempre. Forse non ce ne libereremo mai.

Però ci sono anche le anemoni dei boschi.

In primavera le anemoni sbocciano come piccoli sistemi solari sul pendio tra la discarica e la strada. Allora nei corpi delle persone ribolle qualcosa.

È stato Krister a raccontarmi dei sistemi solari. Del fatto che probabilmente ce ne sono infiniti.

E ora io racconterò di lui. Di Krister, mio fratello.

Racconterò cos’è successo durante quell’orribile inverno.

PARTE 1

KRISTER E IO

TUTTI I PASSEGGERI DEVONO SCENDERE

“Devi scendere qui”, disse l’autista dell’autobus.

“Ma…” replicai.

Il tipo mi guardò e prese a tamburellare con le dita sull’enorme volante.

Aveva la barba grigia e la coda di cavallo.

Le porte si aprirono con uno sbuffo e l’autista fece un cenno con la testa in direzione del freddo buio.

Le uniche cose che si vedevano, là fuori, erano pini e lampioni e brutta neve grigia. Una pista ciclabile entrava dritta nel buio e spariva. Non avrei mai ritrovato la strada di casa.

“Su”, disse l’autista. “Forza, vai. Non possiamo rimanere qui a far entrare aria fredda.”

Come se fossi stato io ad aprire.

Cominciai a sentir bucare nella pancia, punture fredde e cattive. Se avessi aperto la bocca sarei scoppiato a piangere, lo sapevo, quindi non dissi niente. Salutai solo con la mano, e poi scesi. Giù, verso le terre selvagge e l’ignoto.

Era febbraio e faceva un freddo glaciale, e le lacrime si congelavano in perle taglienti sulle guance. Probabilmente sarei morto, lì nel bosco. Sarei morto assiderato nella notte per essere ritrovato la mattina dopo da un corridore solitario.

“Non perderti nei pensieri”, mi aveva detto papà quando stavo salendo sull’autobus. “Poi ti vengo a prendere io, ok?”

Avevo risposto “ok” e poi ci eravamo abbracciati e papà aveva detto che ero proprio coraggioso ad andare agli allenamenti di pallamano da solo e avevo sentito un calore spandersi in tutto il corpo.

Adesso invece tremavo dal freddo.

Mi ero perso nei pensieri, proprio come aveva sospettato papà, e all’improvviso l’autobus si era fermato ed era rimasto fermo e l’autista aveva cominciato a gridare che tutti i passeggeri dovevano scendere e io mi ero guardato intorno e mi ero reso conto che tutti i passeggeri ero io.

“Capolinea per tutti i passeggeri”, aveva gridato l’autista nel microfono, e la sua voce era rimbombata nell’autobus vuoto.

Mi sedetti sotto la pensilina, ma faceva freddissimo anche lì.

“Papà”, dissi ad alta voce, ma non c’era nessuno che potesse sentirmi.

“Krister”, dissi poi, perché in qualche modo il suo nome mi faceva sentire più al sicuro.

Come se Krister potesse arrivare volando come un supereroe a salvare il suo fratellino. Ecco come mi sentivo quando pensavo a lui.

Ma Krister non sapeva volare. Krister non era un supereroe.

Poi pensai a Naima, la mia migliore amica. Sognai di mancarle, e tutte le cose belle che avrebbe detto al mio funerale. Sarebbe stato un funerale piccolo, solo per i più

intimi. Krister e papà e Naima. E Zouzou, ovvio. Zouzou della discarica dove passavamo le giornate. Pensai che magari avrebbe potuto cantare qualcosa. Mostrami come tornare a casa forse poteva essere adatta… Papà la ascoltava sempre in cucina…

In quel momento sentii uno sbuffo familiare. Tipo quello delle porte dell’autobus.

E qualcuno che diceva qualcosa. E un motore rombante.

Alzai lo sguardo e vidi la barba grigia. Ma vidi anche un paio di occhi gentili.

“Dai, salta su!”

Non sapevo cosa dire.

“Ti porto io”, disse l’autista, e credo stesse sorridendo sotto i baffi.

“Non c’è bisogno”, bisbigliai.

Non so proprio perché dissi in quel modo, mi uscì e basta. Forse l’autista mi faceva un po’ paura.

“Sì, dai, ragazzino, salta su”, disse. “Forza.”

E alla fine ero lì seduto sul primo sedile dell’autobus, con dita dei piedi e lacrime congelate, e la barba che mi chiedeva scusa.

“Scusa”, disse. “Mi sono sentito maledettamente in colpa. Non si può buttare fuori un ragazzino in quel modo.”

“No, hai ragione, non si può”, dissi, tirando su con il naso.

“Al capolinea”, disse lui.

“In mezzo al nulla”, dissi io.

Scoppiò in una risata roboante.

“Eh no, bisogna essere proprio fuori di testa!”

“Un gangster.”

Rise ancora, con la sua risata.

“Ma volevo solo andare a casa!” disse poi.

“Anch’io”, dissi. “Lo voglio quasi sempre.”

Poi mi chiese come mi chiamavo e quando gli risposi che mi chiamavo Kaj mi disse che era un bel nome. Del suo, di nome, Percy, non dissi niente. Appoggiai la testa al finestrino e guardai il mondo che passava là fuori. Era come se non avessi mai pensato a quanto fosse grande, il mondo.

Così tante case, così tante piazze, e tutte le piazze erano praticamente uguali. Solo i nomi delle pizzerie erano diversi.

Me ne stavo seduto lì a guardare. Mi sentivo così piccolo, e allo stesso tempo grande.

Vedevo i palazzi alti e tutte le finestre illuminate.

Vedevo i parchi e le piazze e i ponti.

Ovunque abitavano persone! Persone come me.

Tutte le vite che scorrevano, proprio come la mia e quella di Krister e quella di papà.

Fu come se, su quell’autobus, proprio quella buia e ghiacciata sera d’inverno, avessi capito davvero che era infinito.

MIO FRATELLO

“Lo è”, disse Krister. “L’universo è infinito e probabilmente ci sono infiniti universi.”

Ero tornato a casa e Krister aveva telefonato a papà e papà aveva spalancato la porta e mi aveva abbracciato e io avevo pianto ancora un po’ e anche gli occhi di papà erano diventati lucidi. Adesso era tutto a posto. Eravamo seduti a tavola e papà aveva fatto gli spaghetti e c’era il gelato per dessert. Io avevo detto quella cosa del mondo che era infinito.

“Cioè, infiniti universi?” domandai.

“Universi paralleli, proprio così”, disse Krister. Krister sapeva tutto. Perlomeno di questo tipo di cose.

Papà sospirò. Non gli piaceva l’idea. Diceva che se ci fossero infiniti universi paralleli avrebbe voluto dire che in un altro universo c’era un papà con due figli proprio come noi, con la stessa neve brutta e sporca fuori dalla finestra, ma dentro il piccolo appartamento faceva caldo e c’erano le luci accese e uno di quei figli, quello più piccolo, aveva appena rischiato di perdersi in un buco nero verso Fagersjö o come diamine si chiamava, ma era stato riaccompagnato a casa da un autista barbuto di nome Percy che aveva gli occhi gentili. Però. In quell’altro universo non c’erano gelati in freezer.

“Proprio così”, disse Krister.

“E in un altro ci siamo solo io e papà, ma nessun Krister”, dissi, sperando che si arrabbiasse almeno un po’.

Ma come al solito Krister disse solo: “Proprio così”.

Poi chiesi di quel nome che l’autista gangster gentile aveva detto di avere.

“Percy”, dissi. “Ci si può davvero chiamare Percy?”

“In realtà no”, disse papà.

“Proprio così”, disse Krister.

Poi parlammo un po’ di cosa fare quando ci si perde. Cioè, secondo Krister non si poteva dire che ci si perdeva, perché si era sempre dove si era, ma io capivo cosa intendesse papà. Mentre ero seduto sotto la pensilina dell’autobus a pensare al mio stesso funerale mi ero sentito abbastanza perso.

“Magari bisognerebbe avere un telefono”, dissi. “In modo da poter chiamare il proprio fratello.”

“Forse sì”, disse papà.

Poi io e Krister ci mettemmo sul divano a guardare video di Star Wars e a mangiare il gelato, anche se in realtà era vietato mangiare il gelato sul divano. Era l’aspetto più bello del perdersi: la serata diventava speciale, con regole diverse e una bella atmosfera.

“Fortuna che ritrovato ti sei”, disse Krister con la voce da Yoda.

Risi.

“Fortuna che c’è il gelato in freezer”, dissi poi.

Ma in realtà la cosa migliore in assoluto di questo universo era che lui esisteva ed era sdraiato lì accanto a me. Lui, Krister, mio fratello.

Per me era un po’ come Yoda in Star Wars.

Lui aveva la Forza. The Force.

Certo, a volte litigavamo, ma quasi sempre per delle stupidaggini, e poi ci passava subito, perché era difficilissimo litigare con Krister. Se ne stava lì a guardarmi mentre gridavo e lanciavo cose da tutte le parti. Colle stick e telecomandi. A lui non importava. Lui non gridava mai e non picchiava mai e se si arrabbiava andava solo a sedersi alla scrivania e continuava a fare le sue cose.

E quando andavo a chiedergli scusa, dopo che papà mi aveva abbracciato e consolato e sgridato un po’ perché lo sportellino delle batterie del telecomando si era rotto, allora Krister diceva solo che era tutto a posto.

“Vieni, Kaj”, diceva poi. “Ora vieni ad aiutarmi.”

Come se lui avesse bisogno di aiuto.

Krister, che era il più bravo in tutto.

Era il più bravo della scuola ed era il più bravo a leggermi i sottotitoli ad alta voce quando guardavamo un film.

Era quasi sempre Krister a venirmi a prendere a scuola, e a volte anche Naima tornava con noi.

Krister era il più bravo a trovare l’autobus giusto e sapeva sempre esattamente che ore erano anche senza guardare il telefono. Era il più bravo a trovare cose nella discarica da poter usare per il nostro robot. Allora il suo volto si illuminava come un’anemone dei boschi appena sbocciata. Un’anemone con grossi occhiali neri e capelli rossi arruffati.

Il robot sarebbe diventato come C-3PO. In realtà io avrei preferito un R2-D2, ma era un’idea di Krister quindi decideva lui.

Era il più bravo a inventare e il più bravo a disegnare, mio fratello. E a fare gli aeroplanini di carta. Una volta ne aveva fatto uno che era volato fuori dalla nostra finestra, era planato sopra la strada ed era atterrato sul balcone di Naima. Era stata solo fortuna, aveva detto lui, ma in tal caso era il più bravo anche nell’avere fortuna.

In fondo c’era solo una cosa in cui non era molto bravo.

Ed era essere come tutti gli altri.

Però era una cosa bella. Papà lo diceva sempre. Che bisogna essere sé stessi, diceva. Che bisogna averne il coraggio.

Krister ne aveva il coraggio. Oppure non poteva fare altrimenti. Be’, era com’era.

Solo che questo causava un bel po’ di problemi.

Tipo quella storia di Sacke, per esempio.

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