Prendimi se cado

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PRENDIMI SE CADO

Traduzione di Sara Ragusa

SEI ANNI FA

Il temporale aveva fatto saltare di nuovo la corrente, così io e Aiden ci eravamo messi a letto mentre la mamma ci leggeva una storia a lume di candela. Ricordo di aver pensato che le storie erano molto più belle in quella luce, perché la fiamma tremolante faceva danzare le ombre e il chiarore sul viso della mamma. Era come se il suo volto in movimento fosse parte del racconto, sembrava che le parole cambiassero la sua espressione toccando un interruttore dentro di lei, acceso e spento, acceso e spento.

Aiden aveva la coperta tirata su fino agli occhi, che erano spalancati e fissi sulla mamma, non batteva ciglio. La luce della candela gli faceva vibrare i capelli, neri e mossi come i miei, contro il bianco della federa. Era come se ci fossero dei piccoli vermi che strisciavano e si arrampicavano sulla sua cute; quel pensiero mi aveva fatto ridacchiare e poi spaventare.

Non so di cosa parlasse la storia, perché stavo pensando alle candele, alle luci e ai vermi, ma Aiden se la stava bevendo tutta, assetato di ogni parola.

La mamma chiuse il libro e gridammo entrambi: “Ancora una, dài! Per favore!”.

Ma, per quanto la pregassimo, non aveva voluto leggerne un’altra. Dovevamo dormire. La mattina dopo avevamo scuola (per quanto, senza elettricità, sapevamo tutti che non ci saremmo andati). Non riuscivamo mai a convincerla. All’ora di andare a letto ottenevamo sempre solo una storia… era così che funzionava. Buonanotte e sogni d’oro. Ma ci provavamo comunque. Perché… era così che funzionava.

“Possiamo tenere la candela, per favore?”

Aiden aveva paura del buio. Ma io no, perché ero più forte di lui. Io sono la più grande. Solo di tre minuti, aveva detto la mamma, ma comunque questo spiegava un sacco di cose. Spiegava perché ero sempre io a prendere le decisioni, perché ero io la capa. Aiden non si era mai lamentato di questo, perché era un fatto, e ai fatti non interessa se ti lamenti con loro, e non cambiano solo perché a te non piacciono.

Aiden, comunque, era piuttosto intelligente.

“Ashleigh, spiega a tuo fratello perché non potete tenere qui la candela”, disse la mamma.

Mi alzai a sedere e presi un bel respiro.

“Perché è pericoloso”, risposi. “Se uno di noi – probabilmente Aiden, perché sa essere parecchio goffo –, se uno di noi durante la notte fa cadere la candela, potremmo mandare a fuoco i letti e incendiare tutta la casa e bruciare noi

stessi e morire, e per questo possiamo avere solo lucine elettriche, ma non possiamo avere neanche quelle perché non c’è la corrente per colpa del temporale e abbiamo finito le pile.”

Ho dovuto fare un altro respiro profondo perché tutte quelle parole avevano cavalcato l’onda dell’ultimo e avevo i polmoni vuoti. La mamma sorrise.

“Ottima risposta, Ashleigh.” Io ero raggiante. “Anche se un po’ autocompiaciuta.” Non sapevo cosa volesse dire, ma pensai che probabilmente era una cosa buona. Lei si rivolse ad Aiden e gli sistemò le lenzuola. “Quindi uno di voi due, magari perfino Ashleigh, per quanto possa essere difficile da credere, potrebbe avere un incidente. Dobbiamo tenervi al sicuro, piccoli miei.” Lui annuì e si sentì il fragore di un altro tuono. Il bicchiere d’acqua sul mio comodino tremò. Un po’ era stato divertente, come se Aiden annuendo avesse fatto tuonare.

“Comunque se questo temporale continua così, non avrete bisogno di luci”, disse la mamma. “Ne avrete in grande abbondanza di quelle naturali. Pensate di farcela a dormire, teppistelli?”

Sapevamo tutti che la tempesta sarebbe andata avanti per ore e ore, e probabilmente non avremmo avuto la corrente per preparare la colazione la mattina dopo. Era così che funzionava di solito. E sapevamo anche che i tuoni non ci avrebbero impedito di dormire. Avevamo dormito pure in mezzo ai cicloni, e questo non ci andava neanche vicino.

“Sì, mamma”, rispose Aiden.

“Certo”, dissi io.

La mamma si sedette di nuovo sul mio letto, il che era un po’ strano e decisamente non era parte della routine.

“Credo che siate abbastanza grandi da saperlo, quindi voglio che facciate molta attenzione a quello che ho da dirvi.”

Ci tirammo su a sedere entrambi. Alla fine ci avrebbe raccontato un’altra storia? Qualunque cosa fosse, era emozionante.

“Voi siete gemelli identici”, disse. Questo lo sapevamo. Ovvio che lo sapevamo. Ci rendeva rari e specialissimi. Però non parlammo. Aspettammo e basta. “Fratello e sorella”, continuò, “con un legame indissolubile. È una cosa meravigliosa. Incredibilmente meravigliosa.”

Trattenni uno sbadiglio. Ero stanca, e alla fine non era tanto interessante né emozionante. Almeno fino a quel momento. Certo che eravamo speciali. L’avevo sempre saputo.

“Ma significa anche che avete delle responsabilità l’uno verso l’altra”, disse. “Responsabilità vuol dire che potreste dover fare delle cose che non avete voglia di fare per aiutare e proteggere l’altro. Capite cosa voglio dire?”

Annuimmo entrambi, ma non sono sicura che avessimo capito davvero. Forse per questo la mamma ci fece un esempio.

“Supponiamo che io lasci davvero la candela qui e Ashleigh la faccia cadere durante la notte…” Aprii la bocca per protestare, ma la mamma alzò la mano nella posizione di stop, quindi mi bloccai. “E tu ti svegli, Aiden, nella stanza che va a fuoco. Qual è la prima cosa che faresti?”

“Sveglierei Ashleigh e la porterei fuori dalla camera.”

“Sì, bene. Perché?”

“Perché è mia sorella, e devo proteggerla.”

La mamma fece un grande sorriso, si avvicinò ad Aiden per accarezzargli una guancia. Una fitta di gelosia mi fece trasalire. Avrei potuto rispondere io a quella domanda. Quel piccolo frammento di affetto spettava a me e sentivo il dolore della sua mancanza.

“È questo il significato di essere fratello e sorella”, disse lei. “È il significato di famiglia. C’è un vecchio modo di dire, piccoli miei, ‘I fratelli e le sorelle ti prendono se cadi’. Se qualcosa va storto, e non deve per forza essere importante come un incendio, potrebbe anche essere solo che uno di voi sia triste, o stia passando un brutto momento, l’altro dovrà sempre essere lì ad aiutarlo. Sempre! Questo è ciò che intendo con responsabilità. Tu, Aiden, dovrai sempre essere pronto a prendere Ashleigh se cadesse.” Lui annuì.

“E io prenderò Aiden”, dissi. “Lui cade continuamente.”

Perché è così goffo, pensai, ma non lo dissi ad alta voce.

“Sì”, rispose la mamma. “Dovete promettermi che vi occuperete sempre l’uno dell’altra.”

Promettemmo con tutta la solennità di cui sono capaci due bambini di sei anni. Dopo, quando la mamma aveva già spento la candela e se n’era andata per lasciarci dormire, nell’oscurità Aiden aveva allungato la mano tra i nostri due letti e aveva preso la mia. A volte era così infantile. Come quando chiamava la mamma “mammina”.

Ci addormentammo tenendoci per mano, con i fulmini che lampeggiavano d’argento e di nero e il tuono che scaricava un rullo di tamburi sulla finestra della nostra camera.

OGGI…

Aiden aveva cercato di prendermi per mano, ma ero troppo grande per certe cose. E anche lui, ovviamente. Gli mollai un calcetto sul piede così mi lasciò andare, ma se n’erano già accorti tutti. Proprio quello che mi serviva il nostro primo giorno. Mi asciugai la mano sul vestito, e poi la strinsi all’altra dietro alla schiena. Mi bruciava il viso, e più ci pensavo, più diventava bollente. Perfetto. Proprio perfetto.

Il professor Meredith, dietro di noi, aveva piazzato una mano sulla mia spalla e l’altra su quella di Aiden.

“Ma quanto siamo fortunati, eh, ragazzi?” disse al di sopra delle nostre teste. Non rispose nessuno, ma poi capii che era una domanda che non aveva bisogno di una risposta. “Oggi non si unisce a noi un solo alunno, ma due.”

Gli studenti ci fissavano. Sarebbe bello poter dire che non erano troppo interessati, che guardavano fuori dalla finestra o si mangiavano le unghie, ma la verità pura e

semplice è che ci fissavano come se venissimo da un altro pianeta. La temperatura della mia faccia salì ancora di un paio di gradi.

“Non solo”, continuò il professor Meredith, “ma sono anche gemelli identici”. C’era meraviglia nella sua voce, come se stessimo tutti assistendo a un miracolo. “Chi mi sa parlare dei gemelli identici?”

Una ragazzina in prima fila alzò la mano, ma il professor Meredith la ignorava. Immagino che alzasse sempre la mano, la secchiona che fa sentire piccoli tutti gli altri. Avevo visto dei vecchi film in cui capitava. Un ragazzino verso il fondo della classe alzò il braccio, ma con un movimento lento e insicuro. Il professor Meredith mi tolse la mano dalla spalla e me la fece comparire davanti agli occhi, con l’indice che puntava.

“Sì, Daniel.”

“Due figli nati dalla stessa madre e che sono uguali”, rispose, ma con la voce rotta e incerta. Seguì un silenzio in cui era chiaro che ci si aspettava che dicesse altro. “Nello stesso momento”, aggiunse.

“Molto bene, Daniel”, disse il professor Meredith. “Eccellente.”

La ragazza in prima fila aveva ancora la mano alzata.

“Sì, Charlotte.”

Charlotte raddrizzò la schiena e scrollò le spalle come per assicurarsi di averle allineate bene.

“Grazie, professore. I gemelli identici vengono da un solo zigote, che si separa e forma due embrioni, e questo significa che loro non possono essere gemelli identici, perché non esistono gemelli identici con sessi diversi. Quindi

devono essere gemelli semplici, generati da due ovuli fecondati separatamente.”

Si sentì una spolverata di risatine. Immagino per la menzione delle uova. Charlotte si girò sulla sedia, con l’ira dipinta in faccia.

“È vero.” Si voltò di nuovo verso di noi. “Non è così, professore? Ho ragione, vero? Glielo dica.”

“Certo che è così, Charlotte. Assolutamente corretto.”

L’insegnante si spostò davanti a noi e si strinse le mani.

“Immagino che le risate siano dovute alla menzione delle uova. Sode, fritte, strapazzate, no? Deliziose nei toast. Ma Charlotte, come sempre, ha ragione. Tutti abbiamo origine da un uovo, ragazzi. Ma non per questo siamo galline, vi pare? Qualcuno di noi sente seriamente l’esigenza di fare così?”

Si accovacciò, le nocche che si toccavano, i gomiti larghi. Avanzò verso i suoi alunni, coi gomiti che facevano su e giù, la testa che scattava avanti e indietro, chiocciando. Gli studenti all’inizio mugugnarono, ma poi risero sempre più forte mentre lui si girava davanti a loro. Mi accorsi che stavo sorridendo. Questo insegnante avrebbe potuto essere un mito, oppure molto fastidioso. Era troppo presto per dirlo, quindi mi limitai a sorridere.

Lui si raddrizzò.

“Be’, io ne ho sentita l’esigenza, questo è ovvio, ma vale solo per me, ragazzi. Quando sono di turno in cortile e vi guardo giocare, vedo correre, saltare, saltellare. Ma di sicuro non vedo nessuno che fa la gallina.” Fece una pausa. “O almeno, non ancora.” Il professor Meredith si voltò verso di noi e aprì le braccia. “Ma mi sto comportando

in maniera scortese con i nostri ospiti, che quasi di sicuro vogliono smettere di essere al centro dell’attenzione.

Diamo il benvenuto ai due nuovi membri della classe.

Lei è Ashleigh Delatour e lui è il suo fratello gemello, Aiden Delatour. Mi fate sentire quanto siamo fortunati, ragazzi?”

Applaudirono tutti, e io arrossii ancora di più. Lanciai un’occhiata ad Aiden, ma il suo volto non mostrava emozioni, come sempre.

“Volete sedervi vicini?” sussurrò il professor Meredith piegato verso di noi, quando l’applauso si spense.

“No, grazie”, risposi. “Siamo piuttosto indipendenti.”

Cercavo di essere sicura di me, ma la voce mi tremò un pochino. L’insegnante annuì.

“Allora scegliete un posto. Dove volete.”

Guardai la classe, ma non era una decisione difficile. Avevo il disperato bisogno di un’amica, e mi sembrava ovvio che anche la ragazza al primo banco, Charlotte, era nella mia stessa barca. Durante l’intervallo in cortile, pensai, i secchioni li lasciano in pace, visto che ne hanno tutti già abbastanza in classe. Inoltre, sedersi davanti era una buona strategia. Non solo per sentire tutto meglio, ma anche perché, da quanto avevo letto sull’argomento, quelli degli ultimi banchi spesso si fanno una certa reputazione. Non una reputazione molto buona. Charlotte, mentre mi sedevo, mi sorrise raggiante, ma io posai con attenzione le mani sul banco e guardavo di fronte a me.

Aiden, alla fine, si mise in fondo.

“Ogni tanto il prof Meredith può essere un po’ un guastafeste.”

Charlotte e io eravamo sedute nel porticato della scuola, sotto un enorme ventilatore. Il prof Meredith aveva controllato il suo tablet prima dell’ora di pranzo, e ci aveva detto che non potevamo uscire a giocare perché i livelli di raggi UV erano pericolosi. Non era una novità. I livelli di UV erano sempre pericolosi. Tutta la classe si era lamentata e avevamo proposto di mettere uno strato in più di crema solare e i cappelli da legionario, ma non ci aveva lasciato uscire lo stesso.

“E una gallina”, le feci notare.

Charlotte rise.

“Sì, fa sempre cose così. È divertente. Sai, alcuni professori sembra che si sforzino a essere divertenti, ma lui… non so. È genuino. Gli piacciono sul serio i ragazzi. E ci sono fin troppi insegnanti che sembrano odiarci.”

Era vero, ma non ci avevo mai pensato prima che Charlotte ne parlasse. Era chiaro che a una buona parte dei miei vecchi insegnanti i bambini non piacevano per niente, a giudicare da come ci trattavano, perfino quando facevamo lezione a distanza ed eravamo a centinaia di chilometri l’uno dall’altro. Mi chiedevo perché mai avessero scelto di insegnare. È come se a un contadino non piacessero gli animali o il raccolto, o a un dottore non piacesse la medicina.

“Perché tuo fratello sta seduto da solo?”

Diedi un’occhiata ad Aiden. Era a una decina di metri da noi, ed era solo perché tutti gli altri stavano il più vicino possibile ai ventilatori. Lui non sembra preoccuparsi per il caldo. Si limita a sudare e ad asciugarsi il viso con un

fazzoletto. A volte, quando facciamo una passeggiata in giardino, gli si formano grosse chiazze circolari di sudore sotto le ascelle. Fa un po’ schifino.

“È un tipo solitario”, risposi.

Evitai di spiegare che aveva ricevuto precise istruzioni di mantenere le distanze mentre siamo a scuola. Tutti pensano che, solo perché siamo gemelli, abbiamo questo legame pazzesco. Voglio dire, ce l’abbiamo. Abbiamo un legame. Ma non è di quelli che ti costringono a passare insieme ogni attimo, anche se Aiden ne sarebbe felice. Ha bisogno di affetto. Anche io, suppongo. Ma la differenza è che io ho anche bisogno del mio spazio e dei miei amici. È un problema di Aiden se riesce a farne a meno.

“Mi piacerebbe tantissimo avere un gemello”, disse Charlotte. “È orribile essere figlia unica.”

Lo dicono tutti, e ho imparato a non ribattere. Non rispondo che loro non devono condividere l’affetto dei genitori, o che a volte stare da soli sembra un paradiso, e che se sapessero i problemi che comporta, non sarebbero così desiderosi di crescere insieme a qualcuno che ha il tuo stesso aspetto, e pensa e parla più o meno come te. Detto questo, io ho una personalità diversa da quella di Aiden. Completamente diversa. Lui è tranquillo e sempre attento ai miei sentimenti. Io non sono così tranquilla, anche se sono molto attenta ai miei sentimenti. Una volta gliel’ho detto, ma non ha capito la battuta.

“Sì, è forte. Ma sai, noi siamo identici.”

Charlotte scosse la testa.

“Potete essere molto simili, ma non identici. Credimi, io lo so bene.”

A prenderci a scuola venne il papà in persona. La mamma era via, a Melbourne, per una conferenza di lavoro. È spesso via, che da una parte è un peccato, ma dall’altra va anche bene. Il papà cucina molto meglio della mamma, e non gli dispiace preparare le patatine. Mamma è molto “anti-patatine”. In realtà è anti qualsiasi cosa che non siano le verdure, che coltiviamo nell’orto dietro casa. Le ho fatto notare che le patatine sono verdure, ma non è servito a niente perché lei pensa che le verdure debbano essere verdi (con poche eccezioni, che non includono le patatine). A me non dispiacciono le verdure verdi, ma avendone la possibilità le mangerei fritte. Ad Aiden non importa che siano in un modo o nell’altro, visto che non mangia niente. Be’, qualcosa mangia, ma non quello che noi chiamiamo cibo.

Io e Aiden ci stavamo facendo una nuotata in piscina, mentre il papà preparava la cena. Frittata di verdure e patatine, aveva detto. Tra i miei piatti preferiti.

Devo dire la verità, se c’è una cosa in cui Aiden è più bravo di me è nuotare. Riesce a fare tutta una vasca sott’acqua, e se si impegnasse potrebbe distruggermi a stile libero. Lo so perché una volta l’ho osservato, quando non sapeva che fossi nei paraggi, e sembrava un mezzo delfino. Non potrei mai avvicinarmi a quello che fa lui. Ma quando gareggiamo, mi lascia sempre vincere. Per un soffio, come se ci avesse provato davvero ma non fosse riuscito. A volte mi piace, ma altre mi dà fastidio. Quella sera facevamo solo qualche pigra bracciata a rana.

“Che ne pensi della scuola, Aiden?” gli chiesi.

Lui scrollò le spalle e si tolse i capelli bagnati dalla faccia.

“Normale”, rispose. “Credo che il professor Meredith potrebbe essere gentile. Sai, Ashleigh? Gentile sul serio.”

“Sì. Quel genere di ridicolo che gli adulti di solito evitano.”

“Gli piacciono i suoi studenti.”

“L’ha detto anche Charlotte.”

“Charlotte diventerà tua amica?”

Stavolta fui io a scrollare le spalle.

“Forse. È presto per dirlo.”

All’improvviso non avevo più voglia di parlare, restai a sguazzare a bordo piscina e a guardare, attraverso le finestre oscurate, le colline in lontananza. Erano viola con macchie di verde, e ovattate dalla foschia dovuta al calore. L’aria della sera galleggiava. Aiden nuotava e mi lasciava ai miei pensieri.

Durante la cena, il papà ci interrogò sulla scuola. La frittata era deliziosa e le patatine croccanti, le mangiavo un boccone alla volta assaporandone la terrosità. Le avevo tirate fuori io stessa dalla terra. Aiden, come al solito, lasciò parlare quasi sempre me.

“Bene”, disse il papà. “Sono contento che il primo giorno sia stato positivo. Quella scuola ha un’ottima reputazione, non è stato facile iscrivervi.”

Lo sapevo. La retta era altissima, anche se i miei genitori potevano permettersela. Ma non accettavano chiunque. Non ho idea di quanto fosse stato complicato farci entrare, ma so che i miei avevano fatto un colloquio die-

tro l’altro e poi avevano cacciato un sacco di soldi. Quando abitavamo nel Queensland, avevamo cominciato una scuola a distanza, perché il posto dove stavamo era abbastanza tagliato fuori dalla civiltà. Invece, dal trasferimento a Sydney, avevamo avuto insegnanti privati che venivano a casa, che da una parte era un bene, ma dall’altra era anche un male. Volevo farmi delle amiche, e anche se la mamma e il papà mi dicevano che ero fortunata perché avevo il mio gemello come amico, e che un mucchio di gente ne sarebbe stata molto invidiosa, avevo detto chiaro e tondo che per me non era abbastanza. Voglio bene a mio fratello, certo, ma non è un amico. Non è qualcuno con cui possa condividere… be’, le cose da ragazze, ovviamente. Con questa scuola sarà diverso. Credo che Charlotte diventerà mia amica, ma magari anche altre ragazze. Dopotutto era il primo giorno, e avevo avuto un inizio pazzesco nel ramo amicizia.

All’ora di andare a dormire, la mamma ci aveva videochiamato dal suo hotel di Melbourne. Prima avevano parlato lei e il papà, poi lui ce l’aveva passata quando eravamo a letto a leggere.

“Com’è andato il primo giorno di scuola, teppistelli?”

Per la milionesima volta desiderai che smettesse di chiamarci così. È imbarazzante.

“Alla grande, mamma”, risposi. “Credo di essermi già fatta un’amica.”

Le raccontammo tutta la giornata, le lezioni, cosa avevamo imparato, e in particolare del professor Meredith. La mamma sorrideva, annuiva, e disse che sarebbe tornata nel giro di due giorni, sempre che i voli non venissero

cancellati, e quello era un grosso punto di domanda. Ci disse che ci voleva bene e di fare sogni d’oro, e noi le rispondemmo che le volevamo bene e che avremmo sognato dei tesori, poi la passammo di nuovo al papà.

Aiden aveva voglia di parlare, ma io non ero dell’umore. Pensavo che fosse assurdo condividere ancora la stanza a dodici anni. Non è che non era pieno di camere nella nostra nuova casa, ma la mamma e il papà non ne volevano sapere. Così di notte vi prendete cura l’uno dell’altra, dicevano. Naa, dormiamo, gli avevo fatto notare. Ma non aveva fatto nessuna differenza.

Spensi la mia abat-jour e mi voltai verso la parete, principalmente per scoraggiare Aiden dal parlare. Non avrebbe detto niente se avesse pensato che mi stavo mettendo a dormire. Ma non volevo dormire subito. Volevo ripassare tutta la giornata nella mente, riviverne ogni attimo. E sapevo che quando mi fossi addormentata, avrei sognato la scuola, il professor Meredith e Charlotte. Sarebbe stato meraviglioso.

Aiden non sogna. O così dice. Magari non se ne ricorda. Il che, se devo dire la mia, è per metà strano e per metà triste.

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