L’abisso non ci separa

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NICOLA MARANESI

L’abisso non ci separa Storie allo specchio di arrivi e partenze Illustrazioni di

VELASCO VITALI



Introduzione NICOLA MARANESI

In questo libro incontrerete la piccola Francesca e la piccola Elona, che raccontano con le stesse parole il momento della loro partenza. Francesca è nata a Marina di Carrara nel 1929 e nel 1937 prende una nave, con la madre e la sorella, per raggiungere il padre in Etiopia. Elona è nata in Albania nel 1985 e la nave che la trasporta con la famiglia, nel 2000, è diretta in Italia. Gli occhi di Carola e di Dominique vedono invece il medesimo orrore: la morte in mare. L’italiana Carola solca l’Atlantico nel 1947 diretta in Argentina mentre Dominique parte nel 2013 dalla Costa d’Avorio per attraversare prima il deserto, poi il Mediterraneo, e approdare in Sicilia. La gratitudine del friulano Antonio nei confronti del popolo americano, che lo accoglie nel 1920 e gli dà lavoro, riecheggia nella riconoscenza della nigeriana Joy verso la città di Trento, che nel 2016 le offre una nuova casa e un nuovo inizio, dopo che è stata costretta a fuggire dalle persecuzioni subite in Africa perché nata albina. E poi ci sono le acrobazie linguistiche di Armando al suo arrivo a Londra, nel 1956, che fanno rima con quelle di Clementine all’aeroporto di Roma nel 2008. E poi... Latitudini diverse, epoche diverse, contesti diversi. Identico il vissuto. Esistono analogie impressionanti tra i racconti di emigrazione degli italiani all’estero e quelli degli immigrati nel nostro Paese. L’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano 3


accoglie le storie di vita degli uni e degli altri. Dal 1984 riceve diari, memorie e lettere di uomini e donne, giovani e anziani che sono partiti dall’Italia e hanno vissuto in tutto il mondo. Da alcuni anni ha iniziato a raccogliere anche le testimonianze di chi in Italia è arrivato, partendo dai quattro angoli del mondo. Ne sono giunte a centinaia grazie al concorso DiMMi, acronimo di Diari Multimediali Migranti, ideato proprio per dare voce ai racconti degli immigrati di prima e seconda generazione che vivono o hanno vissuto nel nostro Paese. In questo volume, ispirato alla trasmissione Io vado via andata in onda su Radio 3 tra il maggio e il giugno 2019, si intrecciano le voci di chi è partito e di chi è arrivato. Venti italiani cittadini del mondo e venti cittadini del mondo italiani, a due per volta, narrano la loro partenza, il loro viaggio, il loro arrivo, lo smarrimento, il disagio, il successo, i fallimenti. E molto altro ancora. Come due amici che si incontrano dopo tanto tempo e ricordano, un po’ per uno, passandosi la parola, i momenti più belli e quelli più brutti di una grande avventura vissuta insieme. Questa raccolta di racconti migranti, che vede l’Italia come punto di snodo di arrivi e partenze, è perciò il frutto di un lavoro lungo e quotidiano, svolto da un’istituzione – l’Archivio dei diari – e dalle persone che la animano e che credono nella prospettiva culturale dell’abbattimento delle barriere, della riduzione delle distanze. O meglio ancora, come simboleggia il titolo di questo volume, nel superamento della separazione determinata dall’abisso che si è spalancato di fronte ai nostri tempi. L’abisso del mare che separa le terre emerse e inghiotte ogni giorno vite umane. L’abisso artificiale che è stato creato ponendo l’esperienza migratoria come spartiacque tra un “noi” e un “loro”. Nel 2003 Giuseppe Sparacino, nato a Sambuca di Sicilia ed emigrato a Prato nel 1960 per lavorare prima in un’impresa edile e poi in una filanda, affidava alle pagine della sua memoria scritta, depositata all’Archivio di Pieve, questa lunga riflessione: “Voi non ci crederete ma io ho lasciato la mia Sicilia, il mio dialetto, i miei amici, i miei parenti per passare da 4


oggetto a soggetto; c’è una semplicissima ‘S’ di mezzo. Come facevo, allora, a spiegare a mia madre, che emigravo per una ‘S’? e non per andare a fare fortuna? Che il problema non era accumulare un gruzzoletto, quando per loro il gruzzoletto era fonte di sicurezza, di vita e di certezza basilare? Tutto questo avveniva nel 1960. E ora? E ora!? Nelle baracche dove sono ammassati i nuovi emigrati, di tutte le razze e colori, che cosa succede? Come vivono? Di che cosa hanno riempito la loro valigia? I loro parenti, i loro amici saranno andati a salutarli al torpedone? Le loro mamme avranno pianto, il pianto straziante della separazione dai loro figli? Il loro viaggio sarà stato disperato tra i disperati? A mio modo di vedere... la naturale aspirazione dell’uomo a cercare spazi di sopravvivenza umana e civile non ha epoche; prima lo si capirà, e prima vivremo meglio nel nuovo contesto di globalizzazione, dove il mondo diventa sempre più piccolo e l’uomo sempre più cosciente di essere uomo. Qual è, mi domando, la differenza tra la mia emigrazione, tra l’emigrazione dei ventisettemilioni di emigranti italiani del secolo scorso e gli attuali emigranti dalla Nigeria o da qualsiasi altro angolo della terra? Non c’è nessuna differenza! L’unico denominatore comune è: la fame, l’emancipazione, i diritti; i diritti, che dovrebbero essere, sempre, diritti di tutti e mai privilegi di pochi. La differenza è solo temporale: i carri bestiame di allora si equivalgono con le carrette del mare di adesso. Le ingiurie, i modelli di accoglienza sono uguali e gli immigrati di oggi sono uguali agli immigrati italiani nel mondo di trenta, cinquanta o ottant’anni or sono e... saranno uguali a tutti coloro che emigreranno per fame e per sete. E che ci piaccia o no, finché non sarà soddisfatta la fame e la sete dei paesi più poveri, con qualsiasi mezzo legale o illegale, a rischio della vita, con arroganza o con umiltà ci sarà sempre gente che cercherà di venire a raccogliere le briciole del nostro spreco e a bere l’acqua delle nostre fontane”. C’era arrivato quasi vent’anni fa Giuseppe Sparacino. Aveva visto con lucidità quello che ancora oggi molti si ostinano a non vedere. Prima della cosiddetta “Primavera Araba”, prima 5


dello scoppio della guerra in Siria, prima della congiuntura che ha determinato l’esplosione dei flussi migratori dall’Africa e dal Medio Oriente verso l’Europa. Dal 2003, quando Giuseppe scriveva le sue memorie, al 2010 l’Italia ha ricevuto via mare 144mila immigrati, contro gli oltre 800mila del settennio successivo (2011-2018). La data che ha segnato la storia dei flussi migratori nella rotta del Mediterraneo Centrale (Libia-Italia) è il 3 ottobre 2013, quando al largo di Lampedusa 368 migranti sono annegati a causa di un’avaria del barcone che avrebbe dovuto portarli verso una vita migliore. Da allora la strage nel Mediterraneo non si è più arrestata. Circa dieci anni prima, Sparacino aveva previsto che un istinto di sopravvivenza insopprimibile avrebbe portato folle di disperati a morire sui barconi. Perché conosceva quella strada, perché era stato un migrante. L’esercizio della memoria in tema di migrazioni conduce ben oltre la rappresentazione del “come eravamo”, oltre la formula del “anche noi siamo stati migranti”. Indica una strada per interpretare il presente e superare quel dilemma che è dentro ognuno di noi, e che Giorgio Gaber sintetizzava in modo efficace in una delle sue più belle prose recitate: l’incubo di Un sogno in due tempi, pubblicata nell’album E pensare che c’era il pensiero (1995). Gaber sogna di trovarsi in mezzo al mare su una piccola zattera e di scorgere in lontananza un uomo che si avvicina nuotando. L’uomo sembra in pericolo di vita, rischia di annegare: dovrebbe aiutarlo, ma viene assalito dal dubbio tra l’accoglienza e il rifiuto dell’altro. Allora solleva istintivamente il lungo bastone che gli serve da remo, ancora indeciso se porgerlo come appiglio o utilizzarlo per percuotere, e... si sveglia. Si sforza però di riprendere sonno per capire come sarebbe andata a finire, per sapere quale scelta avrebbe compiuto. Il sogno continua ma, colpo di scena, alla rovescia: ora è lui che nuota affannosamente verso una zattera, e si sbraccia chiedendo soccorso all’uomo che gli rema incontro. A parti invertite, Gaber non ha più dubbi: lui è, ed è sempre stato, per l’accoglienza. Invece, riceverà una terribile bastonata da 6


colui che ha preso il suo posto sulla zattera. Le due scene del sogno ben rappresentano il nostro presente e il nostro passato, in un mutare di posizioni che è ciclico. Sono in realtà una stessa scena, e noi oscilliamo tra la zattera e il mare. La memoria è il nostro pendolo, l’unico strumento che ci permette di unire i due momenti, di non scappare di fronte al problema dell’“altro”, di non arroccarci dietro al rifiuto di qualcosa che ha fatto parte del nostro passato, fa parte del presente e farà parte del futuro. La zattera e il mare aperto sono i due tempi di un’unica oscillazione che possiamo tracciare grazie all’esercizio della memoria. Dentro e fuori non più come posizioni contrapposte, ma come un’unica posizione nella quale collocarci di continuo, nel medesimo tempo, di là e di qua. “Un giorno si sparse la voce che un bambino di pochi mesi non ce l’aveva fatta era morto nella notte. Verso le 3 del pomeriggio 3 tocchi di campana hanno dato l’addio ad un piccolo essere chiuso stretto dentro un lenzuolo con una grossa pietra e una lunga corda, il cappellano lo ha benedetto in nome del Padre e il piccolino è scomparso lasciando dietro di se il dolore dei genitori.” Nella sua memoria scritta Carola Zanchi, una delle autrici protagoniste di questa raccolta, racconta così la morte di un bambino alla quale ha assistito mentre attraversava l’oceano per raggiungere l’Argentina, nel 1947. Ero all’Archivio dei diari quando mi sono imbattuto nella sua testimonianza, nell’estate del 2015, pochi mesi dopo la nascita di mio figlio. Pochi giorni prima della morte di Alan Kurdi: chi ha visto la foto del suo corpo di bambino riverso senza vita sulla spiaggia di Bodrum, in Turchia, non può avere dimenticato. Alan era un piccolo siriano di 3 anni, naufragato con la famiglia mentre cercava di scappare dalla guerra per raggiungere dei parenti in Canada. Sulla barca che si è rovesciata c’erano anche la madre e un fratello poco più grande di Alan, entrambi morti. Solo il padre, che ha visto sparire nei flutti l’intera famiglia, è riuscito a salvarsi. La fotografia del corpo di Alan sulla battigia è stata mostrata dai media di tutto il mondo ed è diventata un emblema 7


della crisi dei migranti, che in quei giorni raggiungeva picchi di tragicità. Si è detto e scritto che quello scatto avrebbe avuto sulle coscienze dell’umanità gli stessi effetti prodotti dall’immagine della bambina vietnamita con la pelle bruciata dal napalm, o del bambino con le braccia alzate nel ghetto di Varsavia. È andata così per me, e per chiunque abbia avvertito l’oscillazione di quel pendolo. L’esercizio della memoria mi ha fatto vivere nel medesimo istante il dramma raccontato da Carola, una mia potenziale nonna, e quello di Alan, un mio potenziale figlio. L’impatto emotivo che ne è scaturito, e le riflessioni successive, hanno dato impulso alla ricerca d’archivio da cui nasce questo volume. L’ostentazione mediatica del cadavere di Alan Kurdi ha sollevato un dibattito sulla legittimità di pubblicare la foto di un bambino morto sulla prima pagina di un giornale, o di trasmetterla in televisione. Per alcuni è stata una scelta sbagliata e lesiva del rispetto che va riconosciuto a ogni essere umano. Per altri è stata una scelta dettata dal proposito di risvegliare, attraverso quel drammatico resoconto della realtà, le coscienze sopite. Se questo è vero, io non vorrei attendere il reiterarsi dell’apoteosi del dramma per perseguire lo stesso obiettivo. Si può fare molto anche semplicemente recandosi in un luogo aperto al pubblico come l’Archivio dei diari, e dedicando tempo alla lettura di storie di vita di persone immigrate che somigliano, in tutto e per tutto, alle storie di vita dei nostri nonni, dei nostri figli, di noi stessi. Si può fare molto pubblicando l’intreccio di queste storie, laddove diventano vissuto comune. Ogni volta che all’uso strumentale e propagandistico dei temi della migrazione, basato per lo più sulla rappresentazione della minaccia e dei numeri, si sostituisce la narrazione delle vicende individuali, collocate nel contesto collettivo, le coscienze si risvegliano. Si infrangono le barriere dell’indifferenza e della paura. È il significato di questo volume: ogni mano che ne sfoglierà una copia, toglierà una manciata d’acqua dall’abisso che ci separa. 8


Ci incontriamo nella memoria SILVIA SALVATICI

La prima volta in cui Nicola Maranesi mi ha parlato di questo volume e del progetto di cui rappresenta una tappa d’arrivo ho subito manifestato il mio interesse, ma ho anche mantenuto – lo confesso – qualche riserva. Le mie perplessità nascevano soprattutto dal fatto di aver notato spesso un facile ricorso al parallelismo “quando i migranti eravamo noi”, utilizzato magari in buona fede ma in maniera meccanica, tanto da risultare poco utile se non addirittura controproducente. Infatti l’associazione acritica fra le esperienze migratorie di oggi e quelle passate degli italiani finisce per offrire pochi strumenti di comprensione e per fare appello a una solidarietà fondata sull’orgoglio nazionale, piuttosto che sul riconoscimento dei diritti. Inoltre il rischio è quello di de-storicizzare il fenomeno migratorio, descrivendolo sempre uguale a se stesso. I miei timori si sono però immediatamente dissipati quando ho letto il volume, capito meglio il progetto culturale da cui prende le mosse e colto l’immagine complessiva restituita dal mosaico delle testimonianze sapientemente selezionate e combinate. In questo libro ciascun racconto è ricondotto – brevemente ma efficacemente – al contesto e alle vicende specifiche che hanno determinato tanto le partenze di uomini e donne dal proprio Paese, quanto le condizioni del loro arrivo altrove. Il quadro è dunque molto articolato ma nello stesso tempo unitario, e rende immediatamente evidente che le migrazioni sono parte integrante della storia, rappresentano una delle compo9


nenti costitutive della vita delle società contemporanee. L’affresco collettivo ricostruito attraverso le singole voci collega le esperienze individuali dei migranti alle trasformazioni dell’Italia, dell’Europa, dell’ordine internazionale, spesso richiamando l’attenzione su aspetti meno conosciuti, che richiedono ulteriore riflessione. I trasferimenti verso i territori coloniali, per esempio, che certo per l’Italia furono di minore entità rispetto ad altri imperi europei, ma non per questo ebbero meno importanza, tanto per l’esperienza delle persone – come appare dal diario di Francesca Pennacchi – quanto per il tentativo di trasformare l’Africa Orientale Italiana in un possedimento non solo militare. O ancora la continuità delle migrazioni oltre confine anche negli anni Sessanta – come nel caso di Mauro Nerucci, trasferitosi in Canada – che ci mostrano un altro volto del miracolo economico, quello dell’incapacità di offrire a tutti un’opportunità di occupazione. Il viaggio di Elona Aliko dall’Albania all’Italia ci ricorda invece che la fine della guerra fredda e il “crollo del comunismo” hanno portato anche all’intensificazione e al mutamento dei movimenti migratori, che a loro volta hanno contribuito a cambiare il volto delle società europee dagli anni Novanta a oggi. E sono poi diverse le testimonianze raccolte in queste pagine (come quelle di Dominique Boa, di Joy Ehikioya, di Ibrahim Khaleel Jalloh) che consentono di mettere a fuoco il nesso – tangibile e drammatico – fra i rivolgimenti politici che nell’ultimo decennio hanno attraversato il mondo arabo, dal Medio Oriente al Nord Africa, e il netto incremento degli arrivi di migranti in Italia. Proprio i frammenti di autobiografie ci fanno vedere come le statistiche sui flussi migratori degli anni recenti – opportunamente riportate da Maranesi nell’introduzione – riflettono l’urgenza della fuga da guerre e persecuzioni. Uomini e donne scappano con nuove traiettorie, sempre più lunghe e pericolose, che spesso non riescono a percorrere fino in fondo, per arrivare a destinazione. Insomma i racconti di chi è arrivato lasciano intravedere i progetti migratori interrotti o falliti, che sono anch’essi parte della storia. Le pagine di questo libro dimostrano nel 10


loro insieme che se non mettiamo i migranti e le migrazioni al centro, la storia del mondo contemporaneo risulta incompleta, incomprensibile. L’associazione delle testimonianze sulla base di argomenti comuni (la separazione, il viaggio, il lavoro...) è tutt’altro che un semplice espediente narrativo. Piuttosto nasce dall’esigenza di sottolineare la ricorrenza di alcuni temi nel racconto dei migranti, portata alla nostra attenzione senza facili semplificazioni. Lungi dal voler suggerire l’idea di un’esperienza migratoria sempre uguale a se stessa, l’intreccio di racconti proposto da Nicola Maranesi ci esorta a riflettere sull’impatto delle migrazioni sulle vite individuali, mettendo in evidenza assonanze e specificità. Pensiamo per esempio all’ostilità delle comunità “di accoglienza” di fronte alla differenza incarnata dai migranti, non solo dal colore della loro pelle, dalla loro lingua, dalla loro religione, ma anche dai loro gusti alimentari, dalle loro abitudini, dai loro abiti. Questa stessa ostilità è sperimentata tanto da Quaisera, arrivata ancora bambina dal Pakistan in Toscana, quanto da Alice, una ragazzina migrata dalla Toscana al Galles. Per entrambe la scuola è il luogo delle tensioni, del rifiuto, dell’isolamento, del vero e proprio bullismo nel caso di Quaisera. È proprio lei, nelle pagine del suo diario, a cogliere con stupefacente lucidità le ragioni di tanto ostracismo: “Ho capito che la colpa non era la mia”, scrive, “ma degli altri che mi consideravano una minaccia”. La differenza fa paura perché è percepita come un pericolo per l’apparente omogeneità su cui si fonda la coesione comunitaria. Le pagine dei diari selezionati ci parlano di due ragazzine che devono affrontare le medesime difficoltà e lo fanno potendo contare su risorse analoghe (in primis l’affetto e il sostegno della famiglia) ma trovandosi in situazioni molto diverse, che cambiano l’intensità del loro disagio. A differenza di Alice, Quaisera ha già vissuto, con sofferenza, cinque anni lontano dal padre, emigrato in anticipo sulla famiglia. Non parla una parola di italiano, e l’impossibilità di capire e farsi capire è un vero tormento; il Paese da cui proviene è lontano, anche solo 11


mantenere contatti con parenti e amici è tutt’altro che semplice. Alice e Quaisera, difficoltà e sentimenti analoghi che si declinano attraverso condizioni e dunque esperienze migratorie diverse. Uomini e donne, bambini e bambine, che viaggiano e approdano in luoghi diversi, vivono in epoche storiche differenti: tutti sono però accomunati da un medesimo bisogno, quello di raccontare le loro storie attraverso la scrittura. È proprio questo bisogno, intercettato e valorizzato dall’Archivio Diaristico di Pieve Santo Stefano, a consentirci di esplorare la dimensione soggettiva delle migrazioni, il modo nel quale vengono ricordate e narrate, a dispetto – non di rado – della scarsa dimestichezza con la lingua in cui si scrive. Il progetto DiMMi, Diari Multimediali Migranti, appare dunque lo strumento straordinariamente efficace attraverso il quale l’Archivio Diaristico Nazionale – insieme alla sua ampia rete di partner – ha saputo non solo riconoscere cittadinanza alle memorie dei migranti, ma anche documentare la trasformazione della società italiana e dimostrare di essere un archivio vivo, aperto, ricettivo, in continua trasformazione. Il volume di Nicola Maranesi è la dimostrazione di tutto ciò, e anche di molto altro che non sono stata capace di esprimere in queste poche righe di introduzione. Silvia Salvatici è storica e docente di storia contemporanea all’Università degli Studi di Milano. È ospite ricorrente e membro del comitato scientifico del programma di Rai 3 Passato e presente.

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Quaranta storie contro una deriva (mediatica) MONICA D’ONOFRIO

Utilizzare la potenza evocativa della radio per restituire dei nomi, e paradossalmente dei volti, alle storie dei migranti e delle migrazioni che hanno per snodo l’Italia: le vicende di chi ha lasciato questo Paese in cerca di fortuna e quelle di chi è arrivato per la stessa ragione. È l’idea di fondo da cui è nato il progetto radiofonico a cui si ispira questo libro: lo speciale di Nicola Maranesi, a cura di Laura Palmieri, Io vado via. 20 storie di chi parte 20 storie di chi arriva, tratte dai diari raccolti dall’Archivio di Pieve Santo Stefano e dal concorso DiMMi, Diari Multimediali Migranti, andato in onda a Radio 3 Suite tra il 27 maggio e il 21 giugno del 2019. È la risposta che abbiamo scelto di dare, con i mezzi a nostra disposizione, alla richiesta inascoltata di soggettività da parte degli individui che arrivano, e di quelli che vanno. Spesso attraverso i media sentiamo parlare indistintamente di migranti, rifugiati, clandestini, extracomunitari, come fossero sinonimi. Una poltiglia terminologica da cui emerge la contrapposizione tra un “noi” nazionale e un “loro” ostile, considerato come blocco unitario e antagonistico, in cui scompaiono le storie degli individui e dei gruppi. Trovare in rete, sui giornali o in televisione storie singole di emigrati italiani è impossibile, salvo rari casi. Trovare storie individuali di immigrati è ancor più raro. Immaginare che qualcuno le possa porre in relazione, alla ricerca delle possibili differenze e probabili analogie, è pura utopia. 13


Eppure ogni comunicatore, ogni giornalista, sa che il racconto della vicenda individuale, sia essa drammatica o favolosa, ha una capacità di penetrazione nel pubblico incredibilmente superiore a ogni astrazione. Nonostante questo a oggi, su tutti i mezzi di comunicazione e soprattutto in quelli visivi, è netta la prevalenza della raffigurazione dei migranti come gruppo indifferenziato piuttosto che come singoli individui, ed è rara la presenza delle voci dei migranti come soggetti attivi della comunicazione. Pensiamoci un po’: a parte qualche eccezione, nessuno raccoglie mai la testimonianza diretta di un migrante, magari attraverso un’intervista. A nessun immigrato è concesso di autorappresentarsi, come autore di reportage o di inchiesta. Le loro esperienze non si tramutano (quasi) mai in “fonte” primaria su cui basare il racconto che li ha, o meglio li dovrebbe avere, per protagonisti. Non è un caso: ogni lacuna se non può essere considerata come voluta non va neppure liquidata come casuale e può essere interpretata come il segnale di un processo di deumanizzazione, messo in atto per creare distanza, volutamente o inconsciamente. Sui media i migranti vengono descritti come massa indistinta: la scelta di rappresentarli in questo modo ha un’implicazione sul pubblico, genera minore empatia, e oscura quelle storie individuali che invece possono produrre risorse, costituire valori, svelare identità. Bisogna colmare alcune grandi lacune tematiche, anche pronunciando parole che, in modo sempre apparentemente casuale, sono sparite dal lessico di chi racconta le migrazioni. Una su tutte, alla quale questo libro dedica invece un intero capitolo intitolato “Carte in regola”, è la parola “documento”. I documenti vengono sistematicamente esclusi dai percorsi narrativi dei comunicatori che rappresentano la realtà migratoria. Si evita di richiamare un oggetto, un simbolo che, collegato all’identità di una persona, lo identificherebbe nella sua specificità descrivendolo in termini umani. Inoltre, ignorando il racconto dei documenti, dei migranti che li possiedono e di quelli che non li hanno, si crea confusione fra regolari e irregolari, si dimentica che la “regolarità” non è una condizione 14


dell’essere, bensì la relazione giuridico-amministrativa di una persona, in un determinato momento storico, con uno Stato. Una relazione sottoposta a regole che cambiano, nei diversi luoghi e nel tempo. Non abbiamo mai visto, e forse non vedremo mai, un migrante con un documento in mano impegnato a far riconoscere le proprie generalità, o a determinarle. Lo vediamo, e forse continueremo a vederlo a lungo, su di una nave, in una tenda, in un centro di accoglienza o in un campo profughi, lungo una frontiera. Uomini e donne, anziani e bambini, sempre ammassati, incolonnati, sempre comunque disposti in schemi che suggeriscono la metafora del flusso, continuo e ostile, in ingresso. Questo volume, e il progetto radiofonico a cui è ispirato, propongono una narrazione in controtendenza rispetto a questa deriva mediatica. Con quaranta racconti in cui l’“io” narrante è l’assoluto protagonista, con quaranta storie di vita che, partendo dagli individui e intrecciandosi tra loro, rivelano come, al di là delle epoche e dei contesti geografici, l’esperienza migratoria rappresenti un legame normale e quotidiano, in termini di vissuto comune, tra gli italiani e tutti i popoli del mondo. Monica D’Onofrio è giornalista e curatrice della trasmissione Rai Radio3 Suite.

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NOTA AL TESTO L’abisso non ci separa è un racconto collettivo sulle migrazioni, realizzato attraverso le testimonianze di 40 autori di diari, memorie, lettere: 20 autori sono nati in Italia e sono migrati ovunque nel mondo; altri 20 sono nati ovunque nel mondo e sono migrati in Italia. Le testimonianze di chi è partito dal nostro Paese, e di chi nel nostro Paese è arrivato, sono state scelte e abbinate sulla base delle affinità relative a specifici risvolti dell’esperienza migratoria: la partenza, l’arrivo, la separazione dal nucleo familiare, l’impatto con le barriere linguistiche ecc. Il vissuto comune è l’unico criterio che è stato utilizzato per la scelta delle testimonianze e per l’abbinamento tra di esse, prescindendo dal contesto geografico e dal momento storico in cui è avvenuta l’esperienza migratoria di ognuno. I cenni biografici sulla vita degli autori, e una pur essenziale contestualizzazione storica e geografica delle loro vite, sono affidati agli snodi narrativi racchiusi tra gli abbinamenti di testimonianze, che spesso narrano ampi archi temporali. Di queste sono state selezionate le sole parti ritenute più rappresentative di specifici risvolti dell’esperienza migratoria. I necessari tagli

apportati ai testi non sono stati segnalati con i convenzionali segni grafici per non appesantire la lettura. La natura delle scritture contenute in questo volume è popolare, e quanto mai difforme per provenienza geografica, temporale, livello di scolarizzazione degli autori. La scelta compiuta è stata quella di non intervenire sugli errori grammaticali o sintattici, sulle espressioni dialettali degli autori di lingua italiana, sulle forme espressive anche più stentate degli autori di lingua straniera che hanno compiuto lo sforzo di esprimersi in italiano (solo in tre casi i racconti sono stati tradotti dalla lingua nativa). La trascrizione dei testi è perciò fedele a quella degli originali, gli interventi redazionali sono stati minimi e si sono limitati a operazioni di uniformazione del discorso diretto e a minime correzioni quando è sembrato evidente che l’errore fosse dovuto a semplici distrazioni degli autori, a errori di trascrizione, refusi. I pochi interventi correttivi si presentano in forma di parentesi quadre. Il comune denominatore delle testimonianze di migrazione racchiuse in questo volume è il luogo in cui vengono custodite, l’Archivio diaristico nazionale di Pieve Santo Stefano, che le ha raccolte attraverso la sua attività ordinaria e grazie al concorso DiMMi - Diari Multimediali Migranti.


L’abisso non ci separa





Io che non volevo partire

Era l’8 agosto 2000. Mia madre mi svegliò alle 5 di mattina. Mi sembrò molto strano. Quando mi alzai vidi lei e mia sorella con le valige in mano, fui sorpresa. Poi mia madre mi spiegò che dovevo vestirmi perché saremmo partite per l’Italia. In quel momento non capii niente, era tutto strano. Ero costretta a incontrare quel paese che non volevo conoscere. Mi vestii e preparai le valige con un macigno nel cuore. I miei genitori e mia sorella scesero le scale del condominio mentre io per ultima chiusi la porta della mia dolce casa. Le ero davanti, guardavo le scale di casa mia dove trascorrevo il tempo con i miei amici; in quel momento i ricordi mi sembrarono come dei cavalli impazziti, non riuscii a distinguerne uno dall’altro. La confusione dominò la mia mente e una sensazione indescrivibile si impadronì di me: fu tristezza. Ad un tratto una mano si appoggiò sulla mia spalla, fu mio padre, mi disse di scendere perché tutti mi aspettavano. Una volta arrivata all’ingresso del palazzo, vidi mio zio con la sua Mercedes color latte, rovinata dalle aride strade albanesi. Salii in macchina e proseguimmo il viaggio verso Valona, il secondo porto albanese. Durante il viaggio in macchina mi addormentai e persi l’ultima vista del mio paese, il posto dove ero nata e cresciuta. Quando mi svegliai eravamo arrivati a Valona. Mio zio e mio padre andarono a parcheggiare la macchina mentre io, mia madre e mia sorella ci sedemmo al bar a fare cola-

ELONA ALIKO Albania, 1985

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zione. L’orologio segnava le 9:00, il traghetto sarebbe partito alle 11:30. Per tutto il tempo rimanemmo al bar, a parlare e aspettare con ansia il momento della partenza. Quel momento che vorrei dimenticare per tutta la vita. L’orologio segnò le 11:00, era ora di andare. Ci avviammo verso la dogana, primo ostacolo da superare per raggiungere il traghetto. La confusione la faceva da padrona. Era pieno di persone che andavano e tornavano, ridevano e piangevano, urlavano e tacevano, litigavano, spingevano, come se una volta oltrepassato il confine ci fosse la terra promessa. In tutto quel caos, il mio unico pensiero era per mio padre e la solitudine che lo avrebbe accompagnato nei giorni a seguire: sarebbe dovuto stare da solo senza il suo “caro amico”, come mi chiamava lui. Il momento atteso arrivò, fui prelevata di peso dal poliziotto di dogana che utilizzò tutta la sua forza per farmi spazio in mezzo alla folla delira[n]te ed ad un tratto mi trovai dall’altra parte del vetro, avevo lasciato l’Albania, la disperazione, per l’Italia, la speranza. Con la disperazione lasciai anche il mio cuore, nel trambusto della dogana non riuscii a salutare mio padre, che era rimasto dall’altra parte del vetro, non gli era permesso attraversare il confine verso la speranza. Mi appoggiai al vetro con le mani e lo vidi, tutto il suo essere esprimeva in modo inconfondibile e indimenticabile il suo dolore, la sua paura e il suo amore. Sarei rimasta attaccata a quel vetro per un tempo indefinito ma dovetti procedere verso la nave, e fu così che pian piano la figura di quell’uomo esile e tenace svanì. Fui davanti al traghetto ma con lo sguardo continuai a cercare mio padre. Salii sulla nave e subito mi diressi verso la poppa, continuai a cercarlo in mezzo alla folla e lo trovai. Lui mi salutò con la mano e se ne andò, anche se lontano vedevo le sue lacrime, percepivo la sua tristezza. Iniziai a piangere disperatamente, fu l’unico modo per sfogare la mia rabbia e il mio strazio. Il tempo volò e mi trovai in mezzo al mare infinito. Tutta quell’acqua mi mise paura ma fu anche uno spettacolo meraviglioso. Mi sentii vuota, i miei unici amici furono le la22


crime e il mare, arrabbiato come me. La mattina dopo arrivammo a Brindisi, fu tutto diverso. Mio zio venne a prenderci al porto e ci porto a Caravaggio, dove vivo tutt’ora. Durante il viaggio in macchina guardai incuriosita le campagne, i casolari, le case, la gente, ma soprattutto le strade e autostrade: non ne avevo mai vista una. Al mio sguardo risultò tutto perfetto, nuovo, attraente e da scoprire.

E

lona Aliko salpa da Valona verso l’Italia l’8 agosto 2000; è nata in Albania il 4 settembre 1985 e ha quindici anni quando lascia

il suo Paese. Per tutta la vita ricorderà l’alba di quel giorno, la sveglia alle cinque, l’inconsapevolezza di quello che stava accadendo. Il senso di totale smarrimento e sradicamento, la costrizione ad andare verso una nuova vita che non desiderava. La disperazione accompagna l’arrivo a Caravaggio, in provincia di Bergamo, e l’approccio con l’Italia. Elona non può iscriversi a scuola perché è una clandestina, comprende che le viene negato un diritto fondamentale, come è quello all’istruzione. Si sente vittima di un’ingiustizia che a poco a poco spegne ogni entusiasmo, ogni interesse di vita. Un nuovo inizio le viene offerto dall’incontro con la responsabile di zona dello “Sportello minori stranieri a scuola”, che le propone di frequentare quotidianamente lo spazio interculturale gestito dal servizio. È una vera svolta verso l’integrazione, e verso la normalità di un percorso esistenziale che da quel momento in poi riprende a costruirsi, giorno dopo giorno. Ma il ricordo di quell’alba di sradicamento non sbiadirà mai: Elona lo ha fermato nel tempo attraverso una memoria. Il suo racconto sembra l’eco, neppure troppo lontana, di molti altri racconti di giovani ragazze e ragazzi, bambine e bambini italiani, emigrati con le famiglie nel corso del secolo passato. Uno lo richiama nel profondo, nei toni e nei contenuti: quello di Francesca Pennacchi. La mano di una madre poggiata su una spalla, poche parole pronunciate con tono perentorio per svegliare una bambina dal torpore del sonno. Un gesto familiare, quotidiano, che anche per la piccola Francesca, proprio come per Elona, si trasforma in una mattina

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del settembre 1937, nel preludio a una nuova vita di sradicamento. Di emozioni, di scoperte e paure. Quella mattina Francesca, che è nata a Marina di Carrara e di anni ne ha otto, sale per la prima volta nella sua vita sopra un treno, che la porta a Livorno, da dove si imbarca – sempre per la prima volta nella sua vita – su di una nave. È diretta ad Addis Abeba, in Etiopia, per raggiungere il padre, uno dei tanti italiani emigrati per lavorare in quella che tutti i giornali dell’epoca ormai chiamano Africa Orientale Italiana. Così dal maggio 1936 Benito Mussolini ha voluto che fossero denominati i possedimenti coloniali nel Corno d’Africa. Al suo arrivo Francesca troverà, oltre al conforto dell’abbraccio paterno, un Paese povero, con poche case e molte capanne sparse tra le colline. E un equilibrio familiare precario, che si spezzerà definitivamente nel 1940, quando l’ingresso dell’Italia nella Seconda guerra mondiale costringerà il padre a partire per Massaua, lasciando le figlie e la moglie in condizioni di povertà e in pericolo di vita.

“Alzati, è ora! Il treno non ci aspetta!” La mano leggera della mamma mi scuote con dolcezza e le parole mi arrivano sussurrate... ho ancora tanto sonno, e sotto le coperte si sta bene, al caldo, complice del sonno... il treno... non sono mai stata su un treno... forse sto sognando... ma improvvisamente mi viene in mente tutto. Dobbiamo partire per un paese lontanissimo, misterioso per me: l’Africa! Ma anche il treno è già per me qualcosa di straordinario, perché io non sono mai stata su quel mostro rumoroso che ho visto spesso passare scuro lungo ed urlante e, ogni volta che l’ho visto correre via, ha portato i miei pensieri oltre le montagne, le mie bellissime montagne bianche di marmo, confini del mio mondo. Salto giù dal letto con la sensazione di essermi svegliata ad una nuova vita. Mi hanno detto che il treno mi porterà a Livorno, dove mi aspetta una grande nave, così grande che neppure riesco ad immaginare, e che la nave mi porterà via... FRANCESCA PENNACCHI Marina di Carrara, 1929

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“via”... questa parola mi fa provare un certo malessere, ma si unisce anche all’immagine del babbo che mi aspetta in quella terra lontana. Il babbo... quanto tempo è passato da quando mi sentivo felice perché posava la sua grande mano sulla mia testa, mi sembrava volesse dirmi: “Non devi avere paura di nulla, sono qua io.” Sono passati tre anni e la sua immagine è come sfocata nella mia memoria; ora riesco a vedere soltanto i suoi occhi chiari o il suo sorriso, ma tutta la sua figura mi sfugge. È ancora buio fuori eppure i miei cugini sono già alzati, anche gli zii ed i nonni sono già in piedi, ma non c’è aria di festa, sembra che nessuno sappia cosa dire ed allora chi prende una valigia, chi guarda se ci sono ancora dei vestiti da mettere a posto e chi sta in un angolo come il nonno, senza far nulla. Io e mia sorella siamo vestite tutte di nuovo; con le calzine bianche ricamate dalla mamma a fiorellini rosa ed azzurri, le scarpe di vernice lucidissima ed un bel fiocco nei capelli. Ci si guarda tutti in silenzio per un po’, sembra che non si sappia che cosa dirci, poi mi ritrovo tra le braccia dell’uno e dell’altro che mi tengono stretta stretta; particolarmente lungo è l’abbraccio della nonna, che sembra non voler finire e nel quale vorrei restare; ma finisce, e mi accorgo che il caro viso è bagnato di lacrime; sento molto sgomento e mi chiedo: “Vado così lontano? Non ritornerò più?”. Lo zio Raoul che ci accompagnerà a Livorno non parla, i miei cugini ci guardano e ci toccano per dirci quello che non riescono a dire a parole, la zia Maria cerca di sorridere e la mamma mi sembra triste, preoccupata... non è contenta la mamma di andare dal babbo? Forse non rivedremo più la nonna, il nonno e tutti gli altri? Il nonno se ne sta in disparte e, dopo averci salutate, si gira e se ne va senza guardarci. Il treno ci porta via; avevo sempre desiderato salire su un treno e fare un viaggio, ma ora provo quasi paura e vorrei non esserci salita. Nessuno parla, tutti e quattro guardiamo fuori dal finestrino gli alberi che, come fantasmi nella luce opaca dell’alba, corrono via, dietro di noi... 25


La nave sarà piena di gente, penso, lì troverò molti amici; mi hanno detto che è come una città con tanto di ristorante, bar, piscine e c’è anche il cinema... provo ad immaginare come sarà bella la vita in mezzo al mare su quella nave immensa e piena di divertimenti, così dimentico anche il mio dolore... ma il treno si è fermato: siamo arrivati a Livorno, ormai è giorno pieno. Che confusione! La mano della mamma tiene la mia così stretta che quasi mi fa male e mi trascina come se fossi una cosa; provo una sensazione di fastidio per essere trascinata così. Finalmente la voce dello zio: “Ecco la nave!”. È immensa la nave, è veramente bellissima, è proprio come una città nel mare! Sale con noi anche lo zio. Alcuni uomini in divisa bianca ci sorridono gentili: “Benvenuti a bordo del Francesco Crispi”! Il tono della loro voce è cordiale ed a me si allarga il cuore e quasi non mi accorgo che lo zio mi sta abbracciando; lo zio non mi aveva mai abbracciata sino ad ora, non abbracciava mai nessuno lui! Ora invece ci tiene tutte e tre strette a sé e piange anche lui sempre severo, serio anche quando scherzava. Lo zio scende dalla nave e ci abbandona qui da sole. La mamma, senza dire una parola si dà da fare a spostare i bagagli, a raggrupparli insieme, a consegnarli ad un marinaio perché li porti nella nostra cabina, poi ci prende per mano, me e mia sorella, e ci trascina al parapetto della nave: “Lo zio è là, lo vedete?” e ci indica un punto in mezzo alla folla; è là infatti, piccolo, solo... non è più lo zio che mi ha sempre messo in soggezione, ora mi fa un po’ pena e vorrei tanto tornare da lui per dirgli quanto gli voglio bene. L’urlo della sirena è acuto stonato, mi sembra cattivo e vorrei prendere per mano la mamma e mia sorella, scendere a terra e correre dallo zio per tornare a casa. Ma la nave si muove, prima impercettibilmente poi lentamente, e la banchina si fa sempre più lontana mentre lo zio, sul quale teniamo gli occhi fissi quasi a tenerlo legato a noi con lo sguardo, è sempre là, immobile, ed io vedo soltanto lui in mezzo alla folla, piccolo 26


e triste, sempre più piccolo, finche non lo vedo più... qualcosa mi stringe il cuore e rivedo i volti, come ombre, dei miei cugini, dei miei zii, dei miei nonni, della nonna... ora vorrei proprio piangere liberamente, perché questo nodo che mi è venuto in gola mi soffoca; la mamma mi stringe più forte la mano, almeno così mi sembra, e la voce di Miriam è rassicurante: “Non piangere, andiamo dal babbo, non sei contenta?”. Sì, certo che sono contenta di andare dal babbo; cerco di immaginare il suo abbraccio, il suo viso, ma allora perché sento tanto dolore?

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Ho visto la morte in mare

Era il giorno 6 di Ottobre 1947, in quel giorno il mio destino era tracciato, dovevo cosi affrontare un lungo viaggio senza la speranza di un ritorno. In ogni occasione di dolore il cielo è sempre grigio, pieno di nebbia, quasi volesse piangere insieme a chi soffre, io soffrivo di una maniera troppo grande! Quando arrivai a Genova insieme a mio marito e il piccolino di un anno e mezzo vidi la nave già pronta che aspettava. Forse presa dalla disperazione mi venne da odiare mio marito, non lo volevo più era lui la causa di questo allontanamento, non ragionavo e dicevo: “Perché Signore per uno solo, doverne lasciare tanti; lasciare gli affetti più cari, coloro che mi avevano dato la vita e per più di 20 anni si sono sacrificati per farmi crescere bene, dandomi la fede e una educazione che credo di avere ancora oggi”. Si doveva partire per l’Argentina, ma dove era? A scuola l’abbiamo vista sui libri di geografia, nessuno la conosceva, nessuno sapeva dirmi qualche cosa era come chiudere gli occhi e gettarsi nel nulla senza sapere una meta, dove si stava per arrivare a che cosa si andava incontro, quale avvenire ci era riservato, tutto era immaginazione ma nulla di concreto. Anche la nave era come il mio stato d’animo brutta e tozza non aveva il profilo di una nave moderna, era una nave da guerra. Quando il ponte fu a posto incominciammo a salire

CAROLA ZANCHI

Sansepolcro, Arezzo, 1922

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molto lentamente come se in cima ci fossero dei sbirri ad aspettarci, quando tutti furono saliti piano piano la nave incominciò a muoversi, molti erano sul ponte, con i fazzoletti in mano umidi per il pianto agitandoli e salutando; io e il mio bambino ci eravamo chiusi su quella che era la nostra cuccia sentivo di non resistere a tanto dolore. Quando si uscì per respirare un po’ d’aria fresca eravamo già in alto mare lontano ormai da quelle cose che erano state la ragione del nostro vivere. I primi giorni passarono un po’ bene poi si incominciò a sentire che qualche cosa funzionava male cioè l’alimentazione e l’assistenza medica, i pasti erano sempre a base di scatolame, baccalà asseccato che perfino ci camminavano dei bachi sopra, mai una frutta solo 2 volte la settimana ci davano delle porzioni di cocomero. Posso dire di aver mangiato durante il viaggio solo quello, anche lo stomaco sentiva il mal di mare e in continuazione si correva, a volte non si arrivava in tempo, e così arrivarono le cose più tragiche. C’erano molti bambini, qualcuno già camminava altri piccoli di pochi mesi, incominciò uno a sentirsi male poi tutti, il medico di bordo disse che tutti i bambini erano malati di salmonellosi e interite acuta i medicinali i più importanti non c’erano, era difficile in quella maniera andare avanti poterli curare, come fare? povere mamme, quanto dolore, vedere quei piccolini soffrire così senza poter fare niente, anche le mamme che nutrivano i bambini con il loro latte gli venne a mancare perché soffrivano la fame. Un giorno per essere esatta era il 16 di ottobre si sparse la voce che un bambino di pochi mesi non ce l’aveva fatta era morto nella notte. Verso le 3 del pomeriggio 3 tocchi di campana hanno dato l’addio ad un piccolo essere chiuso stretto dentro un lenzuolo con una grossa pietra e una lunga corda, il cappellano lo ha benedetto in nome del Padre e il piccolino è scomparso lasciando dietro di se il dolore dei genitori. Ci rimaneva ancora una settimana di viaggio potevano accadere tanta cose così tremende, la paura e l’ossessione si era impadronita di ognuno di noi, le giornate si facevano lunghe, 32


ormai il nostro pensiero era solo uno di arrivare in tempo per poter salvare le nostre creature, se il viaggio doveva ancora essere più lungo le speranze erano poche. Così arrivò anche quel giorno dopo 23 giorni la nave si fermò il ponte fù di nuovo messo al suo posto e piano piano si arrivò a terra, finalmente era l’Argentina. Le autorità ci accolsero molto bene forse erano state avvisate del nostro stato di salute, molte erano le ambulanze che ci trasportarono all’ospedale, quando si entrò tutte le attenzioni erano per noi, le 4 pareti erano adornate di grandi manifesti di tanti colori con delle scritte che noi certamente non si sapeva leggere, si chiese e ci risposero: “Bienvenidos queridos hermanos” che voleva dire benvenuti carissimi fratelli.

C

arola Zanchi nasce a Sansepolcro, in provincia di Arezzo, nel 1922. Nel 1945, alla fine della guerra, si sposa. Nel 1947 per le

difficoltà a trovare lavoro, è costretta con il marito e un figlio di appena un anno, di nome Giovanni, a partire per l’Argentina. Oggi Carola non c’è più, e Giovanni è diventato nonno, ma non dimentica quello che la madre gli ha ripetuto per anni: che è sopravvissuto per miracolo a quel viaggio, e che il prete sulla nave che attraversava l’oceano, aveva insistito per ungerlo con l’olio santo, perché le malattie che si erano diffuse a bordo avrebbero potuto uccidere anche lui, come era successo a quell’altra piccola creatura che i genitori avevano visto sparire in mare, inghiottita dai flutti. Dalla memoria di Carola affiora però un bilancio positivo degli anni vissuti all’estero: fatta eccezione per il drammatico viaggio di andata la famiglia Zanchi vivrà felicemente per 16 anni in Sud America prima di fare ritorno in Italia. È l’accoglienza ricevuta all’arrivo in quel Paese straniero a fare la differenza per gli emigranti italiani: “Bienvenidos queridos hermanos”, benvenuti carissimi fratelli, dice un cartello che trovano dispiegato in ospedale, dove vengono indirizzati dopo lo sbarco per ricevere cure e soccorsi. Anche per Dominique Boa, immigrato in Italia dalla Costa d’Avorio nel 2015, il momento dell’accoglienza, nel suo caso del salvataggio,

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resta indimenticabile. E anche Dominique lo racconta in un diario. Nato nel 1988 in una famiglia contadina molto numerosa e da un padre poligamo, come è d’abitudine nella tradizione locale, Dominique è l’unico dei tanti fratelli e sorelle a conseguire un diploma e a iscriversi all’università. Frequenta la facoltà di Lingue ad Abidjan, ex capitale della Costa d’Avorio, e partecipa attivamente alla vita politica del Paese, militando nel movimento giovanile del Fronte Popolare Ivoriano. Nel novembre 2010 la contrapposizione tra gli schieramenti politici si trasforma in guerra civile. La vita di Dominique è in pericolo e non basta nascondersi, tornare a vivere nel villaggio di provenienza. Capisce che se vuole sopravvivere deve lasciare il Paese in cui è nato e i genitori sono i primi a sostenere, moralmente ed economicamente, il viaggio verso l’Europa che vuole intraprendere per scampare alla violenza. Un primo tentativo di fuga, nell’agosto 2013, viene interrotto all’aeroporto di Casablanca in Marocco. Ma Dominique non si perde d’animo e prende la strada più pericolosa, pur di riguadagnare la libertà: quella che passa attraverso il deserto del Sahara, conduce al Mediterraneo e di lì in Europa. Parte l’11 agosto 2013: dopo un viaggio travagliato e pieno di interruzioni forzate e sopraffazioni, arriva in Sicilia il 10 giugno 2015, e da lì viene trasportato a Padova. In Italia Dominique richiede che gli venga riconosciuto lo status di rifugiato politico, perché è a causa delle persecuzioni subite che ha deciso di scappare da casa. Ma la burocrazia dell’accoglienza, o della non accoglienza, segue logiche oscure e tortuose, e a inizio 2020 Dominique è ancora in attesa che venga riconosciuta la fonte di ogni suo dolore.

Ormai la Libia e i suoi problemi sembraCosta d’Avorio, 1988 vano essere dietro a noi. Ma tutto non era ancora conquistato perché bastava una pattuglia di soldati di mare o un cambiamento meteorologico e tutto era perduto. E allora ci avrebbe atteso la prigione o la morte. Ma avevamo chiesto a dio di proteggerci contro le intemperie di ogni genere e di condurci verso la nostra destinazione. DOMINIQUE BOA

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All’inizio tutti i passeggeri avevano un viso preoccupato. Ma dopo un’ora tutto sembrava essere normale. Verso mezzogiorno di colpo il motore si arrestò. Scese un silenzio lugubre e il capitano cercò di riaccenderlo ma senza successo. Un grande panico si impossessò di noi. Le donne ma anche gli uomini più robusti piangevano. Durante questo tempo i più coraggiosi intensificavano la preghiera per chiedere aiuto a dio, altri provavano a travasare l’acqua che entrava nell’imbarcazione a causa delle onde. Quanto a me pensavo fosse arrivata la fine. Il capitano che aveva nelle proprie mani la vita di circa 100 anime, diede un’occhiata nel serbatoio poi rapidamente aumentò il livello di benzina e si gettò nel mare per revisionare le condizioni del motore. Azionò nuovamente il motore ma nulla di fatto. Finalmente alla terza volta il motore rispose. Un ouf di sollievo si sentiva così come gli echi d’Alleluyah. Oh God! Thank you Jesus, gnamin yé da wa si, merci seigneur! Allah ham dhum lila. Fu un momento difficile da sopportare. Era veramente terribile aver a che fare con la morte senza poter difendersi. Ciascuno di noi ringraziò il proprio dio perché eravamo scampati alla morte. Ma il viaggio non era terminato. Erano le nove quando il responsabile della bussola ci annunciò che eravamo fuori dal territorio libico e tunisino. Ad un certo punto il capitano chiamò il servizio di salvataggio marittimo dispiegato dall’Unione europea per salvare le anime in pericolo nel mare. Dopo circa quindici minuti abbiamo visto apparire due elicotteri sopra le nostre teste. Dopo circa trenta minuti abbiamo avvistato una grossa imbarcazione di colore bianco. Dopo una quarantina di minuti abbiamo ricevuto la loro chiamata. Poi essi chiamarono una seconda volta e ci dissero che avevano localizzato la nostra posizione ma che sfortunatamente non potevano soccorrerci perché noi li avevamo superati largamente. 35


Comunque ci dissero di continuare nella stessa direzione e che avremmo trovato un altro gruppo di salvataggio entro un’ora. Appresa la notizia e si doveva soffrire ancora un’ora mentre l’acqua cominciava a penetrare sempre di più. In quel momento tutti erano affaticati, stressati, alcuni vomitavano di qua e di là, i pianti, le lamentazioni avevano preso il sopravvento nell’imbarcazione. Quell’ora sembrava non passasse più. In quel momento il capitano ordinò di distribuire i succhi e i dolci per darci un po’ di forza. Nel frattempo i nostri occhi erano rivolti verso l’orizzonte per cercare di avvistare la nave che ci avrebbe aiutato. Stavamo anche finendo la batteria del telefono e dunque ogni comunicazione si stava interrompendo. Alla fine ci rimase solo un bidone di carburante di riserva. Saremmo stati in balia delle onde se per caso avessimo finito le nostre riserve e non avessimo incontrato la nave di salvataggio. Dopo un’ora e mezza di navigazione avvistammo una grossa imbarcazione. Senza esitare il capitano si diresse con le sue ultime energie verso quella. Cominciammo a produrre dei rumori, alcuni gridavano, altri avevano dei fischietti per farci sentire in modo che venissero a soccorrerci. In questo tempo un grande dissapore e una confusione totale si impossessò del battello perché improvvisamente il capitano aveva rifiutato di riaccendere l’imbarcazione, con il pretesto che avrebbe potuto essere messo in stato di arresto e messo in prigione per aver trasportato dei migranti clandestini. Poi alcuni dei suoi compagni gambiani lo avevano costretto a forza a condurci verso i soccorsi. Nel frattempo l’imbarcazione ondeggiava e aveva perso la sua stabilità a causa delle onde. Alla fine il capitano aveva accettato di trasportarci a qualche metro dalla nave ed egli si nascose tra i passeggeri. Molto rapidamente i soccorsi arrivarono con due piccoli battelli e tirarono il nostro verso la nave. 36


Era la guardia costiera italiana. Una volta arrivati ci raccomandarono di non spingere e che tutti sarebbero stati soccorsi. Poi cominciarono uno ad uno prima i bambini le donne incinte e poi gli uomini. Dopo distrussero il nostro battello e smontarono il nostro motore. Dopo le cinque del mattino che avevamo lasciato la costa libica solo verso le 15 abbiamo ricevuto i soccorsi. Una volta sulla nave della guardia costiera italiana ero felice. Mi mancavano le parole per ringraziare dio che ci aveva salvato, avevamo vinto il mare. Mi sentivo pieno di vita sicuro e il sentimento di gioia si leggeva nel volto di tutti i passeggeri. Tutti bagnati abbiamo preso la direzione dell’Italia. Sentii che una nuova epoca stava per cominciare nella mia vita. Un capitolo di tranquillità e di pace. Arrivammo alla costa siciliana il 10 giugno 2015 alle 11 del mattino. Traduzione dal francese di Enio Sartori.

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