Lena

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Sanne Rooseboom

dal nederlandese di

Traduzione
Laura Pignatti
Illustrazioni di Sophie Pluim

Farfalla o falena

La settimana in cui Lena trovò un sottomarino iniziò abbastanza normale. Noiosa, perfino. Che non era così strano. Dovevano succedere ancora parecchie cose prima del grande ritrovamento. Non aveva ancora nemmeno una calamita.

Lena stava rimettendo a posto la sua stanza. L’aiutava la madre, il che non prometteva niente di buono. Era seduta sul letto di Lena con le gambe incrociate, la schiena perfettamente dritta, e le indicava le cose da eliminare.

“Quell’orsetto.”

“Ma è così carino!”

“È rotto.”

Lena si affrettò a infilare l’orsetto sotto il letto.

“Quella pila di magliette.”

“Ma sono le mie preferite!”

“Sono tutte sbiadite…”

Sei tu, che sei sbiadita, avrebbe voluto dire Lena. Ma si trattenne. Non solo perché altrimenti avrebbero litigato, ma anche perché non era proprio vero. Sua madre brillava di luce propria. I suoi bei capelli scuri e ondulati erano luminosi, i vestiti splendidi, il sorriso radioso.

“Sono comode”, disse Lena, e spinse la pila di magliette un po’ più in fondo sul ripiano, per difenderle.

“Possiamo andare a fare shopping insieme”, propose sua madre. “E comprare qualcosa di bello.”

Lena sospirò. Qualcosa di bello, cioè diverso da quello che portava di solito, chiaro. Si vedeva già in una cabina mentre sua madre le passava una dopo l’altra assurde mostruosità di colori vivaci, alla moda.

Andò alla finestra. Il piccolo canale che passava dietro la casa era immobile sotto il sole.

“Abbiamo quasi finito, mamma?” Lena voleva che lo sguardo di disapprovazione di sua madre lasciasse in pace le sue cose. Che lasciasse in pace lei. Si girò, e si guardò intorno. “Adesso è tutto a posto, no?”

Sua madre si alzò. “Be’, proprio a posto non direi, Vanessa. Ma diciamo che per ora può bastare.”

Quando era nata Vanessa, sua madre era sicura di averle dato il nome perfetto. Che sarebbe stata una bambina carina, svolazzante, colorata, come una farfalla Vanessa.

Aveva dipinto splendide farfalle sulle pareti bianche tra le vecchie travi di legno della sua stanzetta. Le comprava vestitini color pastello e le faceva ascoltare musica dolce di arpa, amata dai neonati e probabilmente anche dalle farfalle.

E per qualche tempo era andato tutto benissimo. Vanessa era una bambina buona, e cresceva allegra e contenta. Saltellava, cantava canzoncine e disegnava sul tavolo con le dita intinte nei colori come fanno i bambini. Quando sua madre riceveva una cliente nel salotto per una consulenza, la piccola Vanessa stava a guardare mentre lei prendeva le misure, faceva provare vestiti, sistemava i capelli e dava consigli per il trucco.

Sua madre rendeva belle le persone, Vanessa lo trovava magnifico. E quando lei insisteva a togliersi i nastri dai capelli, la mamma si limitava a guardarla intenerita.

Ma Vanessa cresceva. E man mano che cresceva, cominciava ad avere un suo gusto e una sua opinione sulle cose. E sempre più spesso sua madre constatava che il gusto e le opinioni di Vanessa non corrispondevano ai suoi. Vanessa amava i vestiti comodi. Che le stessero bene o no, non le importava molto. Le piacevano le cose scure, da dura, le magliette nere e i pantaloni blu notte. Vestiti che a sua madre facevano orrore.

Quando Vanessa aveva sei anni, comprò insieme a sua nonna la sua prima giacca nera. A sette cominciò a fare buchi nei pantaloni e a strappare i colletti delle camicie. Il giorno del suo ottavo compleanno si tagliò i lunghi capelli mossi e lasciò solo una ciocca che poteva drappeggiare sull’occhio sinistro come una tenda.

E poi, il giorno in cui compì nove anni e mezzo, si piazzò davanti a sua madre, puntò le mani sui fianchi, e disse che non voleva più chiamarsi Vanessa. Più che una vanessa variopinta, lei si sentiva una farfalla notturna, una falena, per brevità: Lena. Da quel momento si sarebbe chiamata

Lena. Le sembrava ragionevole, visto che era rimasta in tema di insetti volanti dotati di belle ali. Con un pennello sottile dipinse di nero tutte le farfalle sulle pareti della sua stanza. Colorò tutte le ali rosa, azzurre, verdi e rosse, di un magnifico nero inchiostro.

Il nonno e la nonna, i cugini, i vicini di casa, la maestra e i compagni di scuola, tutti si abituarono in fretta al suo nuovo nome. Anche suo padre, che viveva dall’altra parte del mondo, da quel momento nelle sue lettere iniziò a chiamarla Lena.

Era un nome che le si addiceva, lo capivano tutti.

A casa non fu altrettanto facile. Sua madre all’inizio ci aveva provato. Ma ogni volta che diceva “Lena”, faceva una faccia triste. Triste e anche un pochino delusa.

Alla madre di Lena il nome Vanessa piaceva moltissimo. Una volta, da piccola, le aveva addirittura fatto fare delle foto mentre correva allegra su un prato pieno di fiori. Le piaceva guardarle, gli ingrandimenti erano appesi nel salotto. Da nessuna parte in casa c’era una foto di Lena. Vanessa era la bambina solare perfetta per sua madre. Lena non era altrettanto allegra, non amava i colori, e, con grande orrore di sua madre – che era magrolina e minuta – era anche un po’ cicciottella.

Buio e pericoloso

Lena se ne stava in mezzo al salotto con le mani in tasca e pensava a cosa fare. Cosa fare adesso, e per tutta l’estate.

Tutti quelli che le erano anche solo un po’ simpatici erano partiti per le vacanze subito dopo l’ultimo giorno di scuola. La città d’estate diventava bollente, e noiosa. Nei giorni caldi i fumi della fabbrica rendevano densa e pesante l’aria nelle stradine strette. Chi poteva, si trasferiva nelle case di vacanza al mare.

Lena no, lei rimaneva a casa. Sua madre doveva lavorare e lei era troppo piccola per viaggiare da sola. Aveva dei libri che voleva leggere, disegni da fare, e voleva imparare a suonare la vecchia chitarra di suo padre. Forse poteva iniziare da lì.

Fuori risuonò un rombo potente e minaccioso. Lena aprì la portafinestra sul giardino. Tutte le case della strada avevano un piccolo giardino che si affacciava sul cana-

le. La città era costruita intorno al canale. In un passato lontano nel canale passavano chiatte cariche di frumento, lana e legname provenienti dal grande porto al margine della città. I sacchi, le balle e i tronchi venivano issati a riva dagli abitanti del quartiere. Ogni casa aveva ancora un robusto gancio sopra la finestra della soffitta. Anche

Lena e sua madre abitavano in una parte di uno di quei vecchi magazzini. Il grano e la lana naturalmente non c’erano più da tempo. Lena sapeva che sua madre sarebbe impazzita, se avesse trovato chicchi di grano e batuffoli di lana in giro per la casa. Tutto doveva essere a posto, lucido e pulito.

Lena andò in riva al canale, l’acqua non era più immobile sotto il sole ma era increspata da piccole onde.

“È passato di nuovo Bolwerd”, disse una voce roca.

“Quello spaccone.”

Lena si alzò in punta di piedi e salutò con la mano da sopra lo steccato il vecchissimo vicino seduto sulla sua sedia a dondolo in veranda. Aveva una giacca troppo grande e occhiali troppo piccoli. “Tutto questo baccano e le onde, quel ragazzo non ha rispetto.”

“Ragazzo?” Lena scoppiò a ridere. “Ma avrà almeno sessant’anni!”

“Mah, io ho conosciuto suo padre.” Il vecchio vicino accavallò con cautela una gamba sull’altra e si sporse un po’ in avanti. “Ritter Bolwerd. Lui sì, che era un grand’uomo. Ha sistemato tutta la città con i soldi che guadagnava.”

Lena annuì. Ritter Bolwerd era il più famoso inventore di tutti i tempi. Abitava un po’ più avanti lungo il canale, nella villa enorme che ora era del figlio.

“Quando ero bambino io, nessuno voleva vivere qui”, disse il vicino. “Le stradine erano buie e pericolose. Tutti si guadagnavano da vivere con le navi, a forza di caricare e scaricare e sollevare e spostare. Poi però arrivò il treno, e il porto cominciò a deperire. A un tratto nessuno aveva più lavoro. Nessuno!”

Lena guardò il vecchio, che aveva chiuso gli occhi. Lo lasciò raccontare, anche se conosceva già tutta la storia. Ritter Bolwerd fece costruire una fabbrica dove gli abitanti della città trovarono di nuovo lavoro. Poi comprò intere strade, fece sistemare i vecchi magazzini e illuminare i vicoli bui con alti lampioni in ferro battuto. Divenne l’eroe della città. C’era una piazza intitolata a lui, i soldi avevano il suo nome, e ogni anno si teneva una fiera in suo onore.

Ora il figlio del grande inventore sfrecciava avanti e indietro sul canale, passava sotto il vecchio ponte e ritorno. Lena vide arrivare il suo motoscafo giallo da lontano.

L’uomo al timone era dritto come un fuso, i capelli arruffati dal vento. Si avvicinò a velocità folle, poi le passò davanti lungo la riva. L’acqua agitata del canale cominciò a bagnare i giardini. Lena fece un balzo indietro appena in tempo.

“Si comporta come se la città fosse il suo parco giochi personale”, brontolò il vicino.

Lena si alzò di nuovo in punta di piedi in modo da riuscire a vederlo da sopra lo steccato. “Anche mia madre non lo sopporta. Due delle sue clienti non vogliono più venire perché una volta che erano nel nostro giardino le ha bagnate. Si sono trovate i vestiti nuovi schizzati d’acqua e con un pezzetto di alga appiccicato…”

Lena sorrise. Quel tipo con il suo motoscafo era proprio uno spaccone, ma che irritasse sua madre era divertente. Salutò il vicino.

“Torno dentro.”

Lui le fece un cenno con la mano. “Era buio e pericoloso, qui, prima che arrivasse Ritter Bolwerd.”

In cucina Lena prese un pezzo di pane e tagliò qualche fettina di formaggio. Sua madre scese le scale canticchiando. Portava un vestito bellissimo, e i capelli raccolti in una coda di cavallo drappeggiati sulla spalla. “Non vai da un’amica?” Si fermò davanti a Lena. Quando non aveva le scarpe con i tacchi erano quasi alte uguali.

Sua madre sembrava una fata, pensò Lena. Così minuta, sottile e vivace. Una fata sportiva, alla moda. Una fata fastidiosa, però.

“Sono tutti via. Lo sai, no?”

“Tutta la classe?” chiese sua madre.

“Be’, tutti i miei amici.”

“Oh.” Il suo sguardo indugiò su Lena un po’ troppo a lungo, le sopracciglia inarcate e un sorriso d’attesa sulle labbra. Lena capì. Fu come un pugno nello stomaco. “Vuoi che mi levi dai piedi.” Non guardava sua madre, il suo sguardo si soffermò sui suoi capelli scuri.

“Be’, che ti levi dai piedi…” Sua madre puntò le mani sui fianchi e poi le passò sul tessuto liscio del vestito.

“Aspetti una cliente, giusto?”

“Sì, una signora nuova”, rispose sua madre. “Vuole consigli su come vestirsi e anche dimagrire. Se va tutto bene, lavorerò con lei per dei mesi.”

“E non vuoi che veda che hai una figlia robusta che porta magliette sbiadite.” Lena si coprì l’occhio con la frangia. Adesso poteva ignorare la madre con un occhio solo.

“Non ho detto questo, Vanessa.”

“Però è quello che intendi.” Lena spalmò il burro sul pane mettendoci più tempo possibile, poi allontanò da sé il coltello sporco sul piano della cucina. Lasciò tre macchie d’unto. Bene così.

“Una passeggiatina ti farebbe bene, non credi? Pensa a come metti i piedi, delicatamente, così hai subito una postura più elegante. Non sbatterli, non è bello.”

Lena buttò il formaggio sul pane, afferrò il panino e prese la giacca dalla sedia. E senza dire più una parola uscì sbattendo forte la porta.

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