L'amore sconosciuto

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REBECCA STEAD

Traduzione di

CLAUDIA VALENTINI



A otto anni Bridget Barsamian si era risvegliata in un ospedale, e un dottore le aveva detto che avrebbe dovuto essere morta. Forse lo intendeva come un complimento per la determinazione mostrata dal suo cuore, che aveva continuato a battere nonostante metà del sangue fosse rimasto sulla Centoquattordicesima strada, ma è molto più probabile che volesse rimproverarla per essere sfrecciata in mezzo al traffico in quel modo con i pattini ai piedi. Malgrado le apparenze, però, lei era stata attenta, aveva visto il semaforo rosso poco più avanti e le macchine. Aveva solo calcolato male la velocità con cui si stava avvicinando. Ma i pattini la facevano sentire forte e sicura, ed era facile non accorgersi di andare veloce. A otto anni Bridget adorava due cose: Charlie Chaplin e il Maggiolino della Volkswagen. Non perdeva occasione per imitare i movimenti di Chaplin: la buffa camminata a papera e il modo strambo di girare in tondo sui pattini, con le braccia distese lungo il corpo e le gambe slanciate all’infuori. L’interesse per i Maggiolini, invece, era meno estetico. Ogni volta che ne vedeva uno urlava: “Maggiolino, Maggiolone, è in arrivo un cazzottone!”, e questo l’autorizzava a sganciare due pugni sul braccio di chiunque avesse accanto. 5


Quel pomeriggio aveva visto il semaforo rosso e il traffico in strada, ma aveva anche visto un Maggiolino giallo parcheggiato in doppia fila vicino a un idrante. E così, lanciata a tutta velocità verso la Broadway, si era girata per urlare “Maggiolino, Maggiolone, è in arrivo un cazzottone!” alla sua amica Tabitha che la seguiva su un monopattino. Voleva essere certa che l’amica la sentisse forte e chiaro, perché aveva tutta l’intenzione di colpirla al braccio, due volte, non appena si fossero fermate all’incrocio, e non voleva storie. “Maggiolino, Maggiolone, è in arrivo un cazzottone!” aveva gridato. Ma Tabitha era rimasta indietro. “CHE?” le aveva urlato in risposta. Bridget, allora, aveva ripreso a dire: “Maggioli…” ed era volata dritta oltre l’incrocio in mezzo alla strada, una mossa alla Charlie Chaplin come poche altre, accompagnata dalla colonna sonora di due madri urlanti - la sua e quella di Tabitha - da qualche parte dietro di lei. Aveva saltato la terza elementare, ma il suo corpo si era rimesso in sesto. Dopo quattro interventi e un anno di fisioterapia, non mostrava più alcun segno dell’incidente. Bridget, però, non era più la stessa: a volte si bloccava quando doveva attraversare la strada, le gambe pietrificate contro la sua volontà, e poi sognava spesso di essere fasciata dalla testa ai piedi come una mummia, un incubo ricorrente dal quale si svegliava sempre scalciando senza fiato tra le coperte. Gli incubi erano cominciati quand’era ancora in ospedale. In quei giorni, che erano diventati settimane, di 6


tanto in tanto la madre portava il violoncello e si metteva a suonare ai piedi del letto. A volte quella musica creava delle figure dietro le palpebre di Bridget. Altre la faceva addormentare. Un pomeriggio Bridget si era svegliata al suono del violoncello e con voce decisa aveva annunciato: “Dopo quello che è successo mi voglio chiamare Bridge. Non mi sento più una Bridget”. Continuando a suonare, la madre aveva annuito, e Bridge era tornata a dormire. Ma non era finita lì. Il giorno in cui Bridge era stata dimessa, un’infermiera le aveva detto una cosa che le aveva fatto cambiare il modo di pensare a se stessa. Ovvero: “Tredici ossa rotte e un polmone perforato. Devi essere venuta al mondo per una ragione ben precisa, bimba mia, se sei sopravvissuta”. Una formula più gentile e intrigante per esprimere quello che le aveva detto il dottore quando si era risvegliata dopo l’incidente. Bridge non aveva potuto ribattere nulla, perché aveva ancora la mandibola immobilizzata. “E qual è questa ragione?” avrebbe volentieri chiesto altrimenti. Quella domanda, invece, le era rimasta in testa, dove aveva preso a ronzare.

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LE ORECCHIE DA GATTO

Bridge cominciò a indossare le orecchie da gatto a settembre, il terzo lunedì della seconda media. Erano orecchie nere, su un cerchietto nero. Non proprio il colore dei suoi capelli, ma quasi. Controllando il riflesso sul cucchiaio con cui stava mangiando i cereali, si stupì di quanto sembrassero vere. Di fronte a lei, sul tavolo, c’era il foglio dei compiti tutto stropicciato. Non c’era ancora nessun compito sopra, a dir la verità. A parte il nome, il foglio era vuoto. Moriva dalla voglia di disegnarci un piccolo marziano dalla faccia rotonda, nell’angolo in alto a sinistra. Invece, appoggiò il cucchiaio, prese in mano la penna e scrisse: Che cos’è l’amore? Questo era il compito da fare: rispondere alla domanda Che cos’è l’amore? Con frasi di senso compiuto. Fissava le righe azzurrine e vuote della pagina sforzandosi di immaginarle piene di parole. L’amore è… La madre una volta le aveva detto che l’amore è come una musica. Un giorno ti svegli e… la senti. “È stato così quando hai conosciuto papà?” le aveva chie11


sto lei. “Come sentire quella musica per la prima volta?” “Be’, quella musica l’avevo già sentita” le aveva risposto la madre. “E avevo già ballato con un po’ di persone. Ma quando ho conosciuto tuo padre, ho capito di aver trovato il mio compagno di ballo per tutta la vita.” Però non si poteva certo scrivere una cosa del genere. Sua madre era una violoncellista. Per lei tutto si riconduceva alla musica. Bridge strizzò gli occhi fino a vedere tanti puntini luccicanti galleggiare nel buio. Poi iniziò a scrivere, svelta. L’amore è quando ti piace qualcuno così tanto che non puoi semplicemente dire che “ti piace”, allora dici che è “amore”. Era soltanto una frase, ma non aveva più tempo. Poco prima, quella mattina, Bridge aveva notato le orecchie da gatto sulla mensola sopra la sua scrivania, dove erano rimaste dall’ultimo Halloween. Le sentì strane in testa, all’inizio, e le fecero pulsare le tempie mentre masticava i cereali, ma quando si incamminò verso la scuola, le orecchie divennero una presenza rassicurante. Da piccola, capitava che suo padre le appoggiasse la mano sulla testa durante le loro passeggiate. Era un po’ come riprovare quella sensazione. Bridge si fermò davanti all’ingresso della scuola e tirò fuori il telefono dalla tasca per scrivere a sua madre: Arrivata. :* :*, le rispose sua madre. La madre di Bridge era in treno, tornava da un concerto tenuto a Boston insieme al suo quartetto d’archi. Il padre di Bridge, titolare di un bar a pochi isolati dal loro 12


appartamento, doveva essere al lavoro prima delle 7. E suo fratello, Jamie, che faceva le superiori, usciva molto presto. Tutte le mattine si doveva fare quasi un’ora di metropolitana. Quindi non c’era nessuno in casa quella mattina a sconsigliarle di uscire con le orecchie da gatto. Anche se la sua, comunque, non era certo il tipo di famiglia in cui cose del genere vengono vietate. E lei non era certo il tipo di ragazza alla quale si poteva vietare qualcosa. Tabitha aspettava vicino all’armadietto di Bridge. “Sbrigati, la campanella sta per suonare.” “Ok.” Bridge si sistemò davanti all’armadietto e arricciò le labbra. “Uno, due…” Si sporse in avanti e stampò un bacio sullo sportello di metallo sottile. “Bellissimo. Puoi anche smettere di farlo tutte le volte, sai?” Bridge fece ruotare il lucchetto e aprì lo sportello. “Non prima della fine del mese.” In seconda media finalmente ti assegnavano un armadietto, e Bridge aveva giurato di baciare il suo tutti i giorni fino alla fine di settembre. “Hai delle orecchie” le fece notare Tab. “In più, intendo.” “Già.” Bridge allungò le mani per toccare le punte arrotondate delle sue orecchie da gatto. “Morbidissime!” “Che carine. Hai intenzione di tenerle tutto il giorno?” “Forse.” Madame Lawrence gliele avrebbe fatte togliere di sicuro. Ma per fortuna il lunedì non aveva francese. Francese il lunedì: allora sì che la vita sarebbe stata davvero ingiusta. * * * 13


Il giorno dopo le indossò di nuovo. “Un chat!” esclamò Madame Lawrence, indicando Bridge che stava prendendo posto in fondo alla classe. La testa di Bridge formicolò appena come succede quando qualcuno ti indica da lontano, ma la cosa finì lì. Arrivati a mercoledì, le orecchie erano ormai diventate parte di lei.

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