Niente paura Little Wood!

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Per mio nonno Brooke Reynolds e per il mio caro amico Brook Stephenson. Avete donato tanta luce al mondo.



#437: Il nome più scemo per uno sport è “calcio”. Esistono la pallamano, la pallavolo... perché non la “pallapiede”? Il “calcio” dovrebbe essere una specie di pugilato dove, invece che con le mani, ci si picchia con i piedi. Ed ecco il secondo nome più stupido per uno sport: “pugilato”. Quelli si pugiano in faccia, dappertutto, non solo di lato. (Esiste il verbo “pugiare”? E perché i pugilatori si chiamano anche “boxer”? Allora i nuotatori non dovrebbero chiamarsi “slip”?) #438: Un’altra parola stramba è “condire”. Non capisco perché si dica così, “con-dire”. Sarebbe bello però cambiare il sapore dei cibi con le parole. Rendere più buone le minestre con le favole, e dare un gusto piccante agli hamburger raccontando storie spaventose. Mi basterebbe con-dire a voce alta i piselli con la parola “pizza” per farmeli piacere.



Uno

#460: Cacca. Cacca scema. Scemacca. Stupicaccàggine. Caccapidaggine. Chissà se esiste questa parola, “caccapidàggine”? Genie era lì a pochi metri dalla cuccia vecchia e malconcia di Samantha, tutto preso a scribacchiare parole sul suo taccuino. Il fratello maggiore, Ernie, cercava di portare la cagnolina verso una zona pulita del cortile attirandola con una grossa pentola di pollo, pancetta, avena, verdure e avanzi di ogni tipo. “Ok, dovrebbe bastare a tenerla buona per qualche minuto” disse Ernie, soddisfatto. Andò sul fianco della casa dei nonni, prese un badile arrugginito, tornò accanto a Genie e si mise a raccogliere mucchietti di cacca di cane incrostata. “La cosa che vorrei capire è: che vorresti farci con quella schifezza?” domandò Genie, pizzicandosi i pantaloncini per staccarseli dal sedere. Quando gli aveva preparato la valigia con i suoi vecchi abiti estivi, la mamma non doveva essersi accorta di quant’era cresciuto dall’anno prima. 9


“Se metti via quel taccuino capirai” disse Ernie, dirigendosi, con il badile teso, sul retro della casa, nel punto dove iniziava il bosco. Quando fu abbastanza vicino agli alberi, Ernie si voltò verso il fratello, che subito si ficcò il taccuino in tasca. “Mi stai guardando?” gridò Ernie, per assicurarsi che gli occhi di Genie fossero puntati su di lui. Genie lo raggiunse. “Sì.” Ernie fece un sorrisetto furbo, particolarmente efficace con quei suoi occhiali scuri. Poi d’improvviso tirò indietro il badile e lo fece scattare in avanti. La cacca fu catapultata in aria e andò a spiaccicarsi sugli alberi, in mille pezzi. “E vai!” esultò Ernie alzando il badile come se avesse appena segnato il gol della vita. Genie stava lì a guardare con gli occhi sgranati e la bocca spalancata, mentre il fratello tornava a raccogliere altra cacca di cane. “Vuoi startene lì come un allocco, o vuoi provare anche tu?” domandò Ernie, indicando l’altro badile appoggiato al fianco della casa. Per niente al mondo Genie avrebbe rinunciato all’opportunità di scagliare della cacca. Fare una caccapidaggine! Per niente - al mondo. Quante volte può capitare nella vita l’occasione di catapultare cacca sugli alberi? Praticamente mai. Genie corse a prendere l’altro badile. “Raccoglila da qui” disse Ernie indicando un cumulo che puzzava ancora. Genie storse il naso ma ficcò il badile nella cacca, e fece un’altra smorfia quando sentì la punta di metallo grattare per terra; lo sollevò e seguì Ernie davanti alla fila di alberi. “Forza” disse Ernie, con un cenno del capo. 10


Genie fece un passo in avanti, impugnando il badile come una mazza da baseball, come se ad attenderlo ci fosse la battuta più importante della storia. Diede uno strattone in avanti, ma non ci mise neppure un briciolo della forza necessaria e la cacca ricadde dal badile con un tonfo umido, a neanche mezzo metro da lui. Era stato un lancio tristissimo, per poco non gli si era spiaccicata sulle Converse. Sì, erano già tutte sporche di terra, ma una cosa è la terra, e anche il fango si può tollerare; la cacca di cane invece... dalla cacca di cane non c’è ritorno. “Devi scagliarla, Genie. Scagliare.” Ernie spiegò il concetto con qualche tiro a vuoto. “Vedi quell’albero laggiù?” Genie volse lo sguardo agli alberi davanti a loro e si domandò a quale si riferisse il fratello. Era praticamente... una foresta. C’erano alberi ovunque. E Ernie non ne aveva davvero indicato uno in particolare. Aveva detto quell’albero laggiù come se ce ne fosse stato uno contrassegnato con un cartello che diceva quest’albero qui, scemo. Ma Ernie lo rimproverava sempre di fare troppe domande, e così Genie si limitò ad annuire. “Guarda e impara, cavalletta.” Ernie abbassò il badile, lo lasciò penzolare dolcemente dietro di sé, quindi ne catapultò il contenuto nel bosco. La cacca si schiantò contro un albero. Un tiro perfetto. Doveva trattarsi dell’albero che Ernie intendeva, perché alzò di nuovo le braccia in segno di trionfo. “Bang! Bang! Beccato!” ululò. “Adesso riprova.” Genie raccolse un altro mucchietto, le domande gli ronzavano in testa come quelle mosche che svolazzavano sulla... caccapidaggine. Ma perché ce n’era così tanta? Non importava a nessuno che il cortile fosse uno schifo? 11


Quand’era stata l’ultima volta che qualcuno l’aveva decacchizzato? Genie provò a imitare ogni movimento del fratello. Abbassò il badile e lo lasciò ricadere appena un po’ all’indietro per ottenere uno slancio più potente. Stiamo parlando di balistica. Roba sofisticata. “Punta a quella vecchia casa laggiù” disse Ernie, indicando il bosco. Genie si concentrò e contò. Uno, due, e al tre dondolò con tutto il corpo, come una specie di golfista sbilenco, con la poltiglia che schizzava via dal badile. Stavolta Genie era decisamente riuscito a mandarla in aria! Ma non aveva minimamente pensato a come prendere la mira, Ernie aveva tralasciato di spiegargli questo aspetto. La cacca sgusciò all’indietro, andando a sbattere contro una finestra sul retro della casa. La casa sbagliata. La casa dei nonni. “Genie!” gridò Ernie, strabuzzando gli occhi. E subito dopo si sentì la voce della nonna. “Genie!” sbraitava, “Ernie! Che caspiterina state facendo?”. Era stata la nonna stessa a dare a Ernie e Genie l’incarico della cacca, qualora voleste saperlo. I due ragazzini non avevano mai spalato cacca da un cortile, in primo luogo perché a Brooklyn quasi nessuno ha un cortile. E poi perché a Brooklyn, quando un cane fa i bisognini sul marciapiede, quasi tutti raccolgono la cacca usando appositi sacchetti di plastica. Non tutti, ma la maggior parte. Ma lì a North Hill, in Virginia, non c’erano marciapiedi. Niente palazzi di mattoni rossi con i gradini di cemento dove sedersi a guardar passare gli autobus, i furgoncini dei gelati 12


e i taxi. Niente. North Hill, in Virginia, era una località di campagna. E quando dico campagna intendo proprio campagna. Genie e Ernie se ne stavano lì in una casettina bianca sulla cima di una collina. La casa dei nonni. Per un mese. Sì, trenta giorni interi. I ragazzini erano arrivati due sere prima, dopo un lungo e scomodo viaggio sul sedile posteriore della vecchia Honda del padre. Scomodo per Genie, quantomeno, perché Ernie, in coma da cheeseburger, s’era stravaccato sul sedile come se fosse stato il suo divanetto privato, costringendo il fratello a stare schiacciato contro il finestrino per la gran parte del viaggio. Sulle prime, Genie aveva pensato di giocare a Peter Ripete imitando il russare molesto di Ernie, ma poi s’era reso conto che il fratello, dormendo, non si sarebbe minimamente infastidito. E il bello del gioco era tutto nel dar fastidio. Per distrarsi dal disagio di essere bloccato sotto la gamba di Ernie e dal silenzio fra i genitori, che in quattro ore erano riusciti a non rivolgersi mai la parola, Genie si era messo a sfogliare le pagine del taccuino dove teneva le sue domande migliori. Ad alcune aveva già trovato risposta, altre erano ancora un mistero. Posò gli occhi su una di cui s’era del tutto dimenticato:

#389: La mellivora, o “tasso del miele”, si nutre davvero di miele? Aveva provato a raccontare ai genitori che era proprio così, l’aveva letto su internet. Aveva spiegato loro che moltissime mellivore venivano punte a morte dalle api perché non riuscivano a resistere alla tentazione di assaltare gli alveari. Gli animali più caparbi e matti del mondo. “Sono tipo le donnole, però più toste, sapete? Tipo, sono piccolette, ma non si tirano mai indietro se c’è da fare 13


a botte, pure coi leoni” aveva aggiunto. I suoi genitori non gli avevano chiesto nulla sui tassi del miele, né avevano domandato perché mai gli importasse di quell’argomento, ma lui, imperterrito, aveva continuato a snocciolare di quando in quando altre nozioni. Era fatto così. Era diverso da Ernie, in questo. Genie era il tipo di bambino che teneva in tasca un piccolo taccuino rigonfio e una penna per appuntare cose interessanti non appena gli venivano in mente. L’idea era di stilare una lista - una lista numerata di tutte le cose che doveva cercare su Google, perché Genie era convinto che ogni nuova domanda portasse a nuove risposte. E che ogni risposta fosse fonte di conoscenza. E che la conoscenza aiutasse a commettere meno errori. Genie non sopportava commettere errori. Ernie, invece, era il tipo di ragazzino che portava gli occhiali da sole ventiquattro ore su ventiquattro perché tutti sapessero che era fico, e per lui il peggior errore che si potesse fare era quello di non essere fico. E di non sapersi difendere. E infatti uno dei pochi momenti in cui Ernie non portava gli occhiali da sole era quando faceva karate, disciplina che praticava da quando aveva sette anni. Era cintura marrone o, come diceva lui, “cintura nera junior”. Genie adorava assistere agli incontri e ai tornei di karate del fratello, ma non tanto quanto adorava Rischiatutto e Soliti ignoti in tv. A Ernie piaceva guardare le ragazze. A Genie piaceva costruire modellini di automobili. E a Ernie piaceva... guardare le ragazze. “Chissà se è peggio un attaccabrighe o un attaccabottoni” biascicò la mamma dal sedile davanti, quando Genie le raccontò del filmato in cui una mellivora attaccava briga 14


con un leone. Stava voltata a guardar fuori dal finestrino sin da quando erano partiti. Genie sbuffò. Fu allora che il padre regolò lo specchietto per guardarlo in faccia. “Figliolo, dimmi una cosa.” Fece saettare gli occhi stanchi dal volto del figlio alla strada. “Che cosa sai dei bradipi?” “Bradipi?” Genie ci pensò su un istante. “Be’, so che sono pigri, e non fanno che dormire” rispose riluttante, intravedendo già la trappola. “Ecco” borbottò il padre, e lo guardò dallo specchietto. “Capito dove voglio arrivare?” Genie sbuffò di nuovo. Lo sapeva esattamente dove suo padre voleva arrivare. Alla città di Genie per favore zitto e dormi. Ma Genie non si addormentò subito, nonostante l’ordine dei suoi genitori. Rimase un’oretta a guardare fuori dal finestrino come la mamma, lo sguardo fisso nell’oscurità, pensando alla sua ragazza, Shelly, e al suo migliore amico, Aaron. Si chiedeva se avrebbero fatto le solite cose che facevano ogni estate, tipo giocare con l’idrante e comprare ghiaccioli tricolore dal tizio dei gelati, senza di lui. Se avrebbero sentito la mancanza delle sue lunghe disquisizioni e informazioni su questo animale o quell’insetto, e se Shelly sarebbe riuscita a riconoscere le cimici come lui le aveva insegnato. Si domandò se Aaron avrebbe provato a far colpo su Shelly con i suoi backflip (le ragazze adorano i tizi che sanno fare salti acrobatici) e se lei avrebbe ceduto al suo dannato carisma e l’avrebbe baciato. Certo, se lei l’avesse baciato, sarebbe stato un bacio di ripiego, si disse infine. Un bacio per compensare l’assenza di lui. Niente di autentico. Genie stava lì, preso da tutti questi pensieri, in15


fastidito dal russare del fratello, in ascolto dei genitori che non dicevano una parola, profondamente incerto su cosa ci sarebbe stato ad attenderli in Virginia. La sola cosa che sapeva era perché andavano in campagna, perché lui e Ernie dovessero trascorrere un mese intero via da Brooklyn per la prima volta in vita loro. Aveva a che fare con la Giamaica. Be’, in realtà aveva a che fare con i suoi genitori che “non parlavano”. Avevano “problemi”, espressione del lessico genitoriale che, Genie lo sapeva bene, significava che forse/chissà/probabilmente avrebbero divorziato. Avevano bisogno di tempo per cercare di “capire”, così avevano detto. Quando la madre aveva accennato per la prima volta ai “problemi”, Genie aveva subito pensato ai racconti della sua amica Marshé Brown, i cui genitori avevano divorziato, e che poi non aveva mai più rivisto il padre. Quando aveva chiesto alla madre se gli sarebbe toccato scegliere con quale dei due genitori vivere, e se lui e Ernie avrebbero dovuto separarsi, la sola cosa che lei gli aveva risposto era stata “Qualunque cosa accada, io e papà vi vogliamo bene. Ve ne vorremo sempre”. Ma non aveva risposto alla domanda, e questo aveva fatto pensare a Genie che “capire” - cosa che, tra l’altro, avrebbero dovuto fare in Giamaica, nella loro prima vacanza senza figli - significasse davvero capire quale genitore si sarebbe tenuto quale figlio, e che quella sarebbe stata anche l’ultima vacanza che il papà e la mamma avrebbero fatto insieme. Già da un po’ aveva cominciato a domandarsi con quale dei due genitori avrebbe preferito vivere, mamma o papà, e lì nel buio iniziò a stilare una lista. Due liste, in realtà. 16


#439 Stare con il papà Pro: sarei al sicuro da incendi e ladri. Contro: papà lavora tutto il giorno e non c’è mai a casa. Contro: perciò probabilmente non sarei al sicuro da incendi e ladri. Pro: potrei guardare i film dell’orrore. Contro: papà non sa cucinare. Contro: papà puzza quasi sempre, per via del lavoro. Stare con la mamma Pro: sa cucinare, molto bene. Pro: non puzza assolutamente mai. Contro: non mi lascerebbe guardare i film dell’orrore. Contro: non so se saprebbe proteggermi da incendi e ladri. Contro: il che significa che dovrei proteggerla io, e io non conosco il karate! Alla fine, mentre continuava a rimuginare e appuntare i pensieri sul taccuino, Genie fu ipnotizzato dalla strada liscia e oscura, che lo cullò fino ad addormentarlo. Non s’era neppure reso conto di aver preso sonno, fino a quando fu svegliato dal grattare dei rami sui fianchi della macchina. La Honda balzellava su per la collina e i rami parevano le lunghe dita di grandi mani rigide che cercavano di ghermirlo. Era ancora buio, suo padre aveva aperto il finestrino per lasciar entrare un po’ d’aria e aveva 17


cambiato la musica da R&B lento a hip-hop anni Novanta. “Siamo arrivati?” borbottò Genie, strofinandosi via il sonno dagli occhi. Guardò fuori dal finestrino ma non vedeva altro che rami. L’auto sobbalzava e andava a singhiozzo, il padre continuava a pestare sui freni per evitare le buche. “Dio, questa strada è uno schifo” imprecò, e spense la radio per concentrarsi. Genie brancicò per il sedile in cerca della penna e prese la pagina successiva del taccuino. #440: Spegnere la radio aiuta a guidare meglio? appuntò, mentre la mamma si voltava verso di lui e gli rivolgeva un sorriso sonnacchioso. “Sì tesoro, ci siamo.” La pelle sul viso della mamma pareva tesa, e Genie si domandò se durante il viaggio avesse dormito. In realtà la pelle sul viso della mamma era tesa già da alcuni mesi. Da quando lei e suo padre avevano avuto il grosso litigio in cui lei aveva urlato, ma urlato urlato, e gli aveva rinfacciato di dedicare tutto il tempo al lavoro e ai ragazzi, e di non trovare mai del tempo per lei. Ernie e Genie erano fuori casa a prendersi a palle di neve, e Donnie Della Strada, famigerato deficiente, aveva appallottolato un quarto di dollaro nella neve e l’aveva scagliato addosso a Genie. L’aveva colpito dritto nell’occhio. Ernie era corso a controllare il fratello e quando aveva visto la moneta tra la neve, aveva cominciato a karateizzare Donnie Della Strada... per tutta la strada. Genie era corso dentro, la mano sull’occhio, e s’era ritrovato proprio in mezzo al fuoco incrociato di papà e mamma, proprio mentre lei diceva che si sentiva trascurata. Il gonfiore attorno all’occhio di Genie col tempo era passato. Ma la tensione sul volto di lei non era più andata via. 18


A ogni modo, Genie sperava che la mamma avesse dormito un po’ durante il viaggio fino alla Virginia, perché la sola cosa che credeva di sapere sulla Virginia s’era rivelata esatta. Era lontana. Davvero troppo lontana per poter stare svegli tutto il tempo. Ernie, dal canto suo, aveva dormito sempre, e dormiva ancora: la bocca spalancata lo faceva sembrare come se gli si fosse squagliato il pezzo di sotto della faccia, e gli occhiali da sole storti gli coprivano un occhio soltanto. Genie gli scostò la gamba, ma quella scattò di nuovo sulle sue ginocchia come una molla. “Ern, svegliati” disse Genie, dandogli un pizzicotto sulla coscia. “Siamo arrivati.” Ernie non si schiodava. “Ern!” esclamò Genie, così forte che la madre lo sentì e si voltò a mollare una sventola sulla gamba di Ernie. Il ragazzino si svegliò di botto, confuso, si risistemò gli occhiali e si asciugò con la maglietta una riga di bava sul mento. Mentre l’auto raggiungeva la cima della collina, dal nulla giunse il latrato di un cane. Genie avvicinò il viso al finestrino. Era il cane dei nonni? Che ci faceva in giro? Lo sapevano che si era liberato? O il nonno era sveglio a quell’ora della notte e lo stava portando a fare la passeggiatina? “Ernie, ti ricordi di Samantha?” chiese il papà, spegnendo il motore. Ernie allungò il collo per guardare dal finestrino e sbadigliò. Lui era già stato un’altra volta a North Hill, tanto tempo prima, quando aveva quattro anni. Genie non c’era venuto perché all’epoca non era che un neonato. E quella era stata anche l’ultima volta che il papà aveva incontrato 19


il nonno. Erano passati quasi dieci anni. E Genie non aveva alcuna idea del perché. Questa era dunque la prima volta di Genie a North Hill. A dirla tutta, era la prima volta in assoluto che metteva piede fuori dalla città. Era stato nel New Jersey, ma quello non contava. Ci si metteva di più ad andare dagli altri nonni, quelli materni, che abitavano nel Bronx, di quanto non ci si mettesse ad arrivare nel New Jersey. Genie non aveva mai conosciuto il padre di suo padre, il nonno, ma una volta aveva incontrato la nonna. Era venuta in visita a New York quando lui era molto più piccolo, ma non ricordava un granché di lei, a parte il fatto che somigliava al papà. Era lui senza baffi e barba, in versione vecchia signora. E odorava di sapone. Questa cosa gli era rimasta impressa. “Certo che mi ricordo di Samantha” biascicò Ernie, la voce ancora impastata per la dormita in auto. S’era finalmente deciso a smuovere la gamba e a mettersi seduto. Genie udì la catena del cane che strascinava per terra e poi scattava con un rumore secco, tendendosi. In generale non aveva paura dei cani, e non aveva paura neanche di questo specifico cane, ma era confortante, benché bizzarro, sapere che questa Samantha era legata fuori al buio. A Brooklyn, un cane lasciato fuori di notte sarebbe stato portato al canile! “Ce l’abbiamo fatta. Fuori tutti” disse il papà, e quando le portiere della macchina furono aperte e lui spalancò il bagagliaio, una luce si accese davanti alla casa. La porta si aprì e un’ombra confusa si stagliò sulla soglia come una specie di fantasma. Il cane, gli alberi, la piccola casa soli20


taria in cima alla collina - tutte queste cose, pensò Genie, erano decisamente gli ingredienti per un film dell’orrore. Una voce un po’ roca ma decisa esclamò: “Sam, zitta! Chiudi quel dannato musaccio!”. Era lo stesso genere di voce roca e decisa che Genie ricordava da tutte le telefonate da tre minuti, due volte al mese, in cui gli veniva chiesto come andava a scuola e se si stava prendendo cura del fratello e della madre, cosa che lo mandava sempre in confusione perché lui era il più piccolo della famiglia. La voce della nonna. Adesso la nonna avanzava sulla veranda e chiudeva la zanzariera dietro di sé. C’era un buio più fitto di quello che Genie era abituato a vedere fuori casa dalle sue parti, ma riusciva comunque a distinguere i fiori sulla lunga vestaglia della nonna. Il papà, con un cenno, disse loro di muoversi, e fece strada fino al primo scalino della veranda, trascinando la valigia di famiglia. La mise giù e strinse le braccia al collo della vecchia signora, forte. “Ehi, mamma.” “Gesù” disse la donna, baciandolo sulla guancia, e poi si allungò a salutare la mamma. “Ci avete messo un’eternità ad arrivare.” “Sai com’è fatto tuo figlio” disse la mamma, dando alla nonna un abbraccio più frettoloso, e poi voltandosi per accertarsi che Genie e Ernie fossero dietro di lei. “Superare di cinque chilometri orari il dannato limite di velocità è contro la legge!” Scosse il capo come se fosse profondamente infastidita dal papà: aveva in viso un’espressione che Genie vedeva spesso a casa. Ma questa volta Genie non capì, perché, be’, superare di cinque chilometri il limite di velocità era effettivamente contro la legge. 21


Genie lasciò che la madre gli prendesse la mano e lo spingesse avanti. Ernie restava indietro. “Be’, questo temo di averglielo attaccato io, cara. Sono io la super-prudente della famiglia” disse la nonna. “Entrate su, entrate. Lasciatevi guardare” proseguì tutta allegra mentre spalancava la porta. “Per di qua.” Dentro casa era buio quanto fuori. Quando la nonna premette sull’interruttore, si diffuse una luce gialla, cupa, che faceva apparire ogni cosa come in una foto sul cellulare con un filtro vintage. Si trovavano in una vecchia cucina con una carta da parati verde acqua un po’ scrostata, e un frigo color giallo scuolabus che ronzava come una lavatrice a gettoni. Il viso della nonna era un po’ rugoso, ma intorno agli occhi somigliava ancora al papà. Era la sola cosa che Genie vedeva di lei, il viso, perché tutto il resto era coperto dalla vestaglia a fiori, che sembrava più che altro un lenzuolo con un buco per la testa. “Mettetevi in fila e fatevi guardare” ordinò la nonna, mentre si sparpagliavano per il pavimento plasticoso. “Quella città ti sta infiacchendo, eh?” disse, esaminando per primo il papà. “Mamma, sono sveglio dalle nove di ieri mattina” spiegò lui, in un misto di irritazione e stanchezza. “Lo so, lo so” gli rispose lei, dandogli una pacca sulla pancia. “Se non altro vedo che mangi bene.” Poi si rivolse alla mamma: “Grazie di nutrirlo, cara”. “È un piacere, mamma.” “E guardati. La mia nuorina bella” disse la nonna, con un tono di ammirazione nella voce, mentre squadrava la 22


mamma dalla testa ai piedi. “Due figli, e sembri ancora una scolaretta delle elementari.” La mamma si morse appena il labbro e poi si lasciò andare a un sorriso. È proprio vero che nessuno resiste a una lusinga, pensò Genie. Ma la nonna mentiva: lui conosceva un sacco di scolarette delle elementari e quasi tutte erano parecchio più carine della mamma. Soprattutto Shelly. “E che forte questo ragazzone” diceva ora la nonna, procedendo lungo la fila fino a Ernie, che ovviamente portava gli occhiali da sole. “Ernie!” lo redarguì la mamma a denti stretti. Ernie si tolse gli occhiali. In un lampo. “Oooh, ma non fa niente. Come va, Ernie?” disse la nonna, e gli schioccò un bacio sulla guancia. “Bene” borbottò Ernie, sempre con gli occhi della mamma puntati addosso. “E guarda questo, come si sta facendo grande” concluse la nonna, appoggiando la mano sulla testa di Genie. “Ti ricordi di me, Genie?” Lo cinse con le braccia, e il ragazzo sentì l’odore del sapone. Lo stesso che ricordava. Lo stesso tipo che usava anche sua madre. Finita la rassegna, la nonna li condusse su per una scalinata, Ernie, Genie, mamma e papà, fino a una stanza con due grandi letti antichi. Mamma e papà crollarono all’istante, cosa tutt’altro che strana dopo una notte di viaggio. Ernie si addormentò subito dopo di loro, perché, be’, lui non aveva mai avuto problemi a prender sonno. In macchina o in una strana casa, Ernie trovava sempre un modo per andare in zzzzzzz. Ma Genie no. Lui non riusciva a mettersi a suo agio. Non era nel suo letto. Né nella 23


sua casa. E neppure nella sua città. Restò così, sdraiato nell’oscurità, su un materasso che puzzava di tristi calzini vecchi. Un materasso così sottile che sentiva le molle nella schiena, come se fosse disteso su un letto di pugni. E a rendere tutto ancora più assurdo, c’era un silenzio folle! Niente sirene della polizia, niente musica a tutto volume, nessuna coppia che litigava fuori dalla sua finestra per la strada. Niente gatti affamati, i cui miagolii, per chissà quale ragione, somigliavano tanto a un pianto di neonato. L’unico suono, a parte il russare di Ernie, era il frinire di un milione di grilli, e il gracidio di un milione di rospi che giocavano a Peter Ripete con i grilli. Impossibile addormentarsi. Non ci sarebbe mai riuscito... Il mattino dopo, con la luce del sole più splendente che si fosse mai vista, e l’odore di uova e bacon che arrivava dalle fessure del pavimento di legno, misto alla puzza dell’alluce di Ernie che si trovava proprio sotto al suo naso, Genie si svegliò. A un certo punto doveva proprio essere crollato. La mamma era già in piedi, il letto in cui lei e papà avevano dormito era già rifatto come se non l’avessero mai usato. Teneva fra il mento e il petto il bordo di una coperta colorata e afferrava il lembo inferiore per piegarla. Aveva insegnato quel trucco anche a Genie. Lui ancora non ci riusciva bene, ma lei era una campionessa. “Buon giorno” cantilenò, piegando la coperta un’altra volta e sistemandola poi sul bordo del letto. Un rettangolo perfetto. “Dormito bene?” Genie, notando le borse sotto i suoi occhi, avrebbe voluto farle la stessa domanda, ma si limitò ad annuire 24


e sgusciò da sotto la gamba di Ernie. Credeva che Ernie dormisse, ma poi lo sentì tremare dal ridere. “Ehi, Genie, che te ne pare dell’odore del mio alluce?”, Ernie balzò sghignazzando da sotto le coperte. “Ti puzza come il culo!” “Genie!” esclamò la mamma. Genie si mise a sedere mentre Ernie provava a scacciarlo giù dal letto col ginocchio. “Basta!” diceva Genie, resistendo e cercando di non cadere. “Ernie, smettila. È troppo presto per fare baccano” lo rimproverò la mamma. “Che c’è? Sto solo giocando con lui.” Ernie allungò la mano verso gli occhiali da sole, che la sera prima erano stati deposti accuratamente sul pavimento accanto al letto. La mamma gli rivolse lo sguardo da Non azzardarti!. “Dai mamma. C’è una luce assurda qui” protestò Ernie, inforcando gli occhiali con noncuranza. Le finestre non avevano tende o scuri, perciò il sole si riversava dentro incontrollato. Rimbalzava sulle assi del pavimento e sui muri gialli, tingendo di arancio l’intera stanza. Sembrava quasi di stare all’interno del sole. La stanza era piena zeppa di oggetti. Roba vecchia, tipo poster di giocatori di pallacanestro dagli assurdi pantaloncini aderenti. Un calendario sbiadito del 1985, a tema Ritorno al futuro. Un comò blu scuro, la cui vernice si stava scrostando come la pelle sul naso quando prendi troppo sole, dove stavano appoggiate medaglie e coccarde e una bandiera piegata. E un piccolo modellino rosso - un’autopompa dei vigili del fuoco vecchio stile. Genie saltò giù dal 25


letto per guardare meglio. “Attento alle schegge” l’avvisò la madre vedendolo camminare sulle assi di legno irregolare. L’autopompa era un modellino in scala, e i dettagli, la scaletta, gli specchietti... era tutto perfetto. Anche meglio di qu... oh cavolo! Aveva lasciato i suoi modellini a casa! Anche i due nuovi che la mamma gli aveva comperato apposta per questa vacanza. Stracavolissimo! Aveva appena allungato la mano per prendere il modellino, quando la nonna gridò dal piano inferiore: “Sveglia, bimbi belli! La colazione è in tavola!”. I ragazzi e la mamma seguirono il profumo di cibo per gli scalini scricchiolanti, fino all’ingresso della cucina. La nonna era davanti ai fornelli e rigirava il bacon con una forchetta. Il grasso scoppiettava ogni volta che lo infilzava, ma lei non batteva ciglio. Un uomo anziano - il nonno! era seduto al tavolo rotondo. Portava una camicia bianca con le maniche arrotolate e, come Ernie, occhiali da sole scuri. Aveva il viso degli anziani quando si sono rasati il giorno prima e la barba comincia a ricrescere, le guance erano coperte da una spruzzata di puntini bianchi. “Venite qui a salutare il nonno” disse la nonna, posando la forchetta sul ripiano e mescolando qualcosa in una pentola di rame. Fece un cenno con la testa a Genie, indicandogli la sedia libera a destra del vecchio. Ernie si mise seduto dall’altra parte, con la mamma accanto a completare il cerchio. Ernie fu il primo a parlare. “Ciao, nonno.” “Ernie. Il nostro ragazzino grande che fra poco compie gli anni.” Il nonno fece un ampio sorriso, porgendo la mano enorme. “Ci si rivede a ogni morte di papa, eh? Ne è passata di acqua sotto i ponti, figliolo.” Genie non aveva 26


idea che fosse morto il papa, ma Ernie non si stupì affatto di quelle parole e anzi allungò una mano e batté il cinque al nonno. La voce... Genie si ricordava anche quella, dalle telefonate. Il nonno era quello che gli chiedeva sempre se si stava prendendo cura del padre, cosicché Genie s’era fatto l’idea che i nonni volessero appioppare a lui l’incombenza di prendersi cura di tutti. Ernie diede una piccola gomitata al fratello, per farlo a parlare. “Ciao” mormorò Genie. “Genie.” Il nonno allungò la mano verso di lui. “Piacere di conoscerti finalmente.” Genie provò a battere il cinque, ma il nonno gli prese la mano, la serrò come in una trappola per topi, e la strinse forte. Tanto forte che Genie strizzò un occhio. Tanto forte che per poco non gli scappò di chiedere: Ehi, ma che problemi hai?. “La prima volta è sempre così.” Il nonno si protese verso di lui tanto che Genie ne sentiva l’odore - un misto di dolcezza e sudore - e abbassò la voce quasi a farne un sussurro. “Ma d’ora in poi ci conosciamo, e ci batteremo il cinque.” E gli rivolse un ghigno. Aveva i denti come quelli di papà e di Ernie. Perfetti, bianchi. A proposito di papà, Genie si chiedeva dove fosse e quando intendesse farsi vivo, magari per salvarlo da quel matto dai denti candidi. Mentre il nonno ancora gli stringeva la mano, Genie si guardò intorno, cercandolo con lo sguardo. “Lascia in pace il ragazzino, Brooke” disse la nonna, dando una pacca sulla spalla del marito, e mettendogli davanti un piatto pieno. Il nonno mollò la presa e Genie, con27


tento di essere rientrato in possesso della propria mano, si massaggiò le dita. La nonna doveva aver colto la sua inquietudine, perché domandò: “Chi stai cercando, tuo padre? È fuori. Torna subito”. Baciò il nonno sulla guancia, e poi schivò una sua sculacciata mentre tornava ai fornelli per riempire un altro piatto. I capelli d’argento erano legati in una crocchia in cima alla testa, e la vestaglia a fiori era molto più bella, vista di giorno. Anche lei era più bella. Il piatto successivo fu quello di Genie. Uova, bacon, toast e una roba bianca globulosa che doveva essere quel che la nonna aveva rimestato nella pentola. Sembrava la sbobba della prigione che si vedeva nei film. La nonna sorrise. “Spero che a voi ragazzi piaccia il semolino.” La mamma rise. “Non sanno neanche cosa sia, Mamma Harris, ma lo scopriranno oggi.” Genie infilò la forchetta nella poltiglia bianca, sperando che non sapesse di piselli. I piselli erano la cosa che più al mondo detestava mangiare. Questa roba non era verde, buon segno. Lasciò sgocciolare fra i rebbi della forchetta la pappa granulosa, che cadde di nuovo sul piatto. Guardò il fratello. Ernie pareva altrettanto preoccupato, ma portò la forchetta direttamente alla bocca e assaggiò lo stesso. Ernie era fatto così, coraggioso. Fece un’espressione come a dire che la roba bianca - il semolino - si poteva mangiare, e così anche Genie l’assaggiò. “Sa di sabbia” sbottò Genie, senza voler sputare, ma anche senza voler mandare giù. Avrebbe voluto lasciare quella poltiglia lì in bocca fino a che non si fosse dissolta da sola. 28


“Genie!” La mamma detestava quando diceva cose del genere. Al tempo stesso, non faceva che esortarlo a dire sempre la verità. E la verità, per lui, era che il semolino sapeva di sabbia. “Sabbia?” disse il nonno, con un’espressione divertita in viso. “Be’, ho una cosa per questo problema.” Spinse via la sedia proprio mentre la nonna si decideva a sedersi, e andò al ripiano accanto ai fornelli, dove c’erano tre lattine da caffè. Fece saltare il tappo di quella centrale, ci intinse le dita, e poi la richiuse. Tornò a tavola e sparse qualcosa sopra al semolino di Genie. “Prova adesso.” “Cos’è?” chiese Genie, preoccupato. “Polvere magica.” Il nonno sorrise, in maniera un po’ meno inquietante stavolta, e si mise di nuovo a sedere. “Prova.” Genie avvicinò la forchetta alla lingua, appena un tocco per assaggiare. Zucchero! E sì, adesso il semolino era molto meglio. La nonna fissava Genie intensamente, il capo inclinato come se cercasse di scoprire qualcosa. “Sai a chi non piaceva il semolino se non ci metteva prima un po’ di zucchero?” domandò. “Ah-ah. A Wood” disse il nonno. Smise di infilzare le uova con la forchetta e si fermò d’un tratto, quasi che non si potesse mangiare e pensare allo stesso tempo. “Wow. Questa è bella, eh?” “Zio Wood?” domandò Genie. “Su, mangia adesso” gli ordinò la madre. “Il nonno ha ricoperto tutto di zucchero per te.” “Per favore, non fategli venire una carie per la fine dell’estate.” Una nuova voce si materializzò nella stanza. 29


Quella di papà. Era apparso dal nulla. Si avvicinò alla tavola, baciò Genie sulla fronte, poi Ernie. Poi la nonna. Si chinò e sfiorò appena la guancia della mamma con le labbra, goffamente. Un gesto amichevole, ma non... amorevole. Ma sempre meglio di quel che toccò al nonno, cioè praticamente nulla. “Il tuo piatto è sul ripiano, ma lavati le mani prima di mangiare” disse dolcemente la nonna, come se il papà fosse ancora un ragazzino. “Sei stato in giro a giocare con quella cagnolina tutta sporca.” “Ma che vai dicendo, carie?!” interloquì il nonno interrompendola. “Ma per favore. Tu mangiavi più zucchero di qualsiasi altro bimbo nella storia, e hai ancora i denti bianchi come perle, o no? Una sola carie in tutta la vita.” Il papà non rispose e andò a sciacquarsi le mani nel lavello. Il nonno intanto impilava l’uovo sul toast, il semolino ancora sopra, e in cima a tutto quanto una striscia di bacon. La mamma guardava il papà con un’espressione inquieta mentre portava alla bocca un cucchiaio di semolino. Ernie, dopo aver studiato il nonno che costruiva la sua torre di colazione, decise di fare la stessa cosa. Peter Ripete! Genie si domandò se Ernie non avesse preso dal nonno anche la fissazione di tenere gli occhiali da sole dentro casa. Il papà si asciugò le mani su uno strofinaccio appeso allo sportello del forno e rimase lì in piedi. Non c’erano sedie a sufficienza intorno al piccolo tavolo, ma sembrava comunque non aver voglia di sedersi - quando il nonno gli offrì il posto, lui rifiutò e si mise a mangiare sul ripiano della cucina. 30


“Allora, mamma” disse, “perché non mi permetti di darti un po’ di soldi per sistemare la casa? Il pavimento al piano di sopra è tutto deformato, le tavole devono essersi ristrette: sono tutte distanziate, da sopra riesco a vedere il soggiorno”. “Non c’è bisogno di sistemare niente, figliolo” rispose il nonno prima che la nonna potesse spiccicare una sola parola. “Ci ho messo sangue e sudore in questa casa, l’ho costruita con le mie stesse mani. Sta solo invecchiando, come me. Ma sta ancora in piedi, come me.” Il nonno portò alla bocca un pezzo della torre e sogghignò. “E... come te.” Il papà alzò gli occhi al cielo e la nonna intervenne. “Ernest, ehm, è un bel pensiero. Ma conserva i soldi per i ragazzi. E la Giamaica, ok? Quando partite? Fra due settimane, vero?” “Già. E vi ringrazio tanto di aver accettato di tenere con voi i ragazzi per tutto questo tempo” cominciò a dire la mamma in tono di scusa, “questo era il solo momento in cui potevamo portarli qui, anche perché Ernest ha dovuto accettare dei turni aggiuntivi per poter racimolare due settimane di ferie”. La nonna si schermì con un gesto della mano, gli occhi lucidi. “Oh, mia cara, non c’è problema. Siamo felici di tenerli con noi” insistette. Il papà si morse il labbro e rivolse un’occhiataccia a suo padre prima di riprendere a mangiare. Genie, dal canto suo, scrutava il nonno - il viso in particolare, soprattutto gli occhiali. Ogni boccone o due tornava ad alzare gli occhi e a guardare il proprio riflesso negli occhiali da sole. Poi abbassava nuovamente lo sguardo sul piatto, in imbarazzo per aver guardato. Ma era più forte di lui. 31


“Che cosa c’è, Genie?” domandò infine il nonno, demolita la torre, ripulito il piatto. Bevve un sorso di caffè da una tazza bianca che diceva a caratteri neri Viva la Virginia, con dei cuori che sostituivano tutte le V. “Eh?” “Che cosa c’è? Non fai che guardarmi. Te l’ho detto, ormai siamo amici, dopo quella stretta di mano, e questo vuol dire che puoi dirmi tutto.” Bevve un altro sorso. “Sputa il rospo.” Adesso tutti guardavano Genie. A eccezione di Ernie, che era troppo impegnato ad ammonticchiare quel che gli restava nel piatto sull’ultimo pezzetto di toast. La mamma annuì, come a dire che Genie poteva dire qualunque cosa gli stesse passando per la testa. “Uhm” cominciò a dire, un po’ in imbarazzo. “Be’, è solo che...” Genie guardò di nuovo la madre, tanto per essere sicuro. Lei annuì di nuovo. “È solo che la mamma dice sempre che non si dovrebbero portare gli occhiali da sole in casa. Dice che fa male agli occhi, e che si sembra matti.” La mamma lasciò cadere la forchetta. Il padre sbuffò. “Papà Harris, mi...” la mamma cominciò subito a scusarsi, ma il nonno la interruppe. “Be’” cominciò a spiegare, “la tua mamma ha perfettamente ragione, ma il mio caso è diverso”. Si pulì la bocca con un tovagliolo, l’appallottolò e lo gettò sul tavolo. “Vuoi sapere il perché?” “Perché?” domandò Genie. Il nonno si protese verso di lui, tanto che stavolta Genie sentiva l’odore di caffè del suo alito. “Perché tanto non vedo già nulla, e matto lo sono da anni.” 32


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