Scusi, ma perché lei è qui? Storie di intelligenze umane e artificiali

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Umanità digitali Andrea Ciucci

Scusi, ma perché lei è qui? Storie di intelligenze umane e artificiali Prefazione di

Maria Chiara Carrozza Umanità digitali



Andrea Ciucci

Scusi, ma perché lei è qui? Storie di intelligenze umane e artificiali

Prefazione di Maria Chiara Carrozza Presidente del Consiglio nazionale delle ricerche



A papa Francesco, perché è colpa sua!



Prefazione

Il diario è un prodotto e un genere letterario che riassume memorie personali e testimonianze storiche e sociali. Ha carattere essenzialmente autobiografico e introspettivo, ma spesso assume un importante valore storiografico come fonte, in quanto testimonianza diretta di fatti vissuti dall’autore, seppur narrati in modo soggettivo. Ma proprio la soggettività esprime il bisogno di mettere a fuoco la profondità e l’essenziale verità di questi fatti, secondo la percezione di chi ha assistito agli eventi o ne è stato parte attiva. Le pagine di questo libro di don Andrea Ciucci rappresentano il diario di un protagonista e di un testimone di un progetto culturale dai connotati del tutto inediti, sia per la natura dell’istituzione che lo ha promosso – la Pontificia accademia per la vita –, sia per l’oggetto, l’itinerario e la metodologia di ricerca che lo caratterizzano. Un progetto ispirato dall’attenzione al cambiamento epocale che l’umanità sta affrontando e dall’interesse 7


per i progressi nei campi di frontiera della ricerca scientifica e delle tecnologie, con un particolare riguardo per le acquisizioni più recenti e le prospettive di sviluppo nel campo dell’intelligenza artificiale e della robotica. Un’attenzione e un interesse riassunti dall’esortazione di papa Francesco a entrare nei territori della scienza e della tecnica e a percorrerli con coraggio e discernimento, esprimendo la necessità di orientare queste conquiste al servizio dello sviluppo umano integrale, di rispettare la dignità di ogni persona e quella di tutto il creato, nella consapevolezza che questi progressi “possono rendere possibile un mondo migliore se sono uniti al bene comune” e non aumentano le diseguaglianze e le discriminazioni nella società. Nel 2019 l’Assemblea generale dell’Accademia ha inaugurato un percorso biennale di studio specificamente dedicato alle questioni etico-antropologiche connesse all’evoluzione dell’intelligenza artificiale e della robotica. Un progetto che ha portato i maggiori esperti mondiali di questi settori a confrontarsi in maniera libera e creativa sui fondamenti epistemologici e sui principi etici alla base delle rispettive discipline – caratterizzate da un progresso costante ed estremamente dinamico – e sulle loro ricadute e prospettive a livello culturale, civile, politico e giuridico nella vita dei singoli, dei popoli, delle nazioni, dell’intera umanità, a partire dai benefici e dai rischi derivanti dall’applicazione dell’intelligenza artificiale nel quotidiano. Una logica di confronto sincero ed esente da ogni pregiudizio, che ha generato il desiderio e il gusto di lavorare insieme, riuscendo a proporre iniziative, 8


indirizzi, regole e buone prassi capaci di delimitare i perimetri, indirizzare lo sviluppo e disciplinare l’utilizzo dell’intelligenza artificiale, coniando espressioni come “algor-etica” e “robo-etica”, fondate su principi come trasparenza, inclusione, responsabilità, imparzialità, affidabilità, sicurezza e privacy, uso per scopi pacifici e sostenibilità ambientale. Un itinerario che non si è fermato alla dimensione dei principi e delle regole astratte, ma che ha condotto a indagare la portata e l’incidenza reale delle applicazioni di queste discipline e delle relative tecnologie nei vari settori della vita umana: dal settore biomedico con le realizzazioni in ambito chirurgico e riabilitativo, ai campi – vastissimi – dell’assistenza alla persona e delle neuroscienze, alle applicazioni nei settori dell’agricoltura e dei trasporti, fino alla progettazione di robot dalla notevole autonomia decisionale, che sostituiscono moltissime attività umane mimando l’intelligenza naturale attraverso algoritmi sempre più complessi e raffinati. Non è una novità che negli ultimi anni il progresso dell’intelligenza artificiale e le sue molteplici applicazioni nei vari campi della conoscenza stia registrando un livello di crescita di tipo esponenziale, come evidenziano i dati raccolti da tutte le agenzie mondiali. L’intelligenza artificiale è sicuramente una delle tecnologie abilitanti alla base della cosiddetta “quarta rivoluzione industriale” e uno dei vettori fondamentali per indirizzare e accompagnare le grandi transizioni che le società contemporanee stanno affrontando, in particolare quella ecologica e quella energetica. 9


In virtù della sua pervasività e della sua intrinseca capacità di mutare i rapporti sociali, l’intelligenza artificiale sortirà un impatto culturale dirompente e – di conseguenza – influirà potentemente sulla dimensione politica. La sua diffusione e la sua capacità di sortire cambiamenti sociali dovranno pertanto confrontarsi con la dimensione del bene comune, in uno scenario di riferimento geopolitico e istituzionale profondamente intrecciato con le logiche dello sviluppo tecnologico e del “possesso” delle diverse tecnologie. La fluidità e dinamicità di questo quadro presenta delle grandi potenzialità per lo sviluppo umano, ma anche enormi rischi di fronte a potenziali situazioni di ingiustizia, iniquità e sfruttamento. Una delle sfide legate all’evoluzione dell’intelligenza artificiale consiste pertanto nella costruzione di solidi impianti etici e chiari riferimenti legislativi e regolamentari, ispirati al principio universale di uguaglianza. Un’uguaglianza che – in questo settore – parte dalla garanzia dell’accesso alle tecnologie e della loro fruibilità per tutti, senza distinzioni rispetto alla provenienza geografica, all’età, al ceto sociale o alle condizioni economiche. Queste (e altre) grandi problematiche si possono leggere in filigrana nelle pagine di don Andrea, dedicate a registrare e commentare gli incontri, le riunioni, i gruppi di lavoro, i meeting realizzati nelle grandi istituzioni internazionali, i centri di ricerca, le sedi diplomatiche, i cosiddetti “palazzi del potere” e i grandi siti culturali in tutto il mondo. Sedi presso le quali ha svolto con competenza ed entusiasmo il proprio ruolo di animatore di un dibattito su come sia possibile vi10


vere in modo autenticamente umano questa nostra epoca contraddistinta dal progresso tecnologico; suggerendo a scienziati, decisori politici e rappresentanti istituzionali la necessità di ancorare ogni visione di futuro a un’idea di “umanesimo scientifico”; proponendo una visione della scienza animata dalla costante tensione a migliorare le conoscenze e la vita sulla Terra e orientata al conseguimento della pace e di uno sviluppo integrale e armonico, poggiando le proprie basi sull’evidenza scientifica come metodo e sul bene delle persone come obiettivo, con una particolare attenzione alla risoluzione delle situazioni di fragilità e ingiustizia. Scorrendo questo diario si legge la passione profonda di don Andrea – spesso condivisa dai suoi interlocutori, pur nella diversità dei ruoli e delle appartenenze culturali e religiose – per l’uomo e per la persona come soggetto di diritto. Una passione che richiama alla necessità di una riflessione per rinnovare i sistemi di diritto tendendo a uno Ius novum universale, profondamente umanocentrico. La rivoluzione tecnologica e le transizioni in atto devono necessariamente prevedere un loro confronto con la logica dei diritti umani, facendo proprio l’assunto della centralità della persona e l’obiettivo di aiutare questa a realizzarsi integralmente nel rispetto degli altrui diritti e libertà, nel solco tracciato alla metà del Novecento dalla Carta delle Nazioni Unite e dalla Dichiarazione universale dei diritti umani, con il valore della eguale dignità di tutti i membri della famiglia umana al centro di ogni sistema di diritto universale. 11


La narrazione di don Andrea descrive tanti incontri con le persone – in primis scienziati e tecnologi – e racconta di un sistema di relazioni (ben diverso e più profondo di quello delle connessioni, nel quale siamo immersi) costruito con pazienza e tenacia, in nome di un’idea di unità opposta alla frammentazione, cifra interpretativa della nostra epoca. Un’unità costruita da tanti impegni personali, accomunati dal desiderio di dare un senso allo sviluppo della scienza e alla sua trasformazione in tecnologia, per raggiungere tutte le persone e migliorare la loro vita. Un percorso che punta all’inclusione e che non si esime dal toccare problematiche particolarmente crude e punti dolenti, come quelli che riguardano il continente africano, con le inaccettabili disparità rispetto al mondo occidentale, con i profondi squilibri causati dalle tante forme di sfruttamento al quale è sottoposto, anche a seguito dei processi necessari al progresso della ricerca scientifica e alla sperimentazione e produzione delle tecnologie. Ma la necessità di unità passa anche dal confronto con le sintesi e i linguaggi dell’arte, dimensioni capaci di dare uno sguardo sul mondo e risposte radicali a domande di senso altrettanto radicali – come il significato della sofferenza, o i bisogni immateriali impliciti nell’esistenza di ognuno di noi – rappresentando il massimo di realtà profonda muovendo dal minimo di realtà sensibile. La lettura del diario di don Andrea e la scrittura di queste righe di presentazione mi hanno rammentato un sogno e un desiderio che ha attraversato tutta la 12


mia vita di scienziata: riuscire a coniugare l’attività di ricerca con il miglioramento della vita delle persone. Un’aspirazione che accomuna tante donne e tanti uomini di scienza, e che nel progetto promosso dall’Accademia per la vita hanno trovato un enzima e un catalizzatore capace di generare interesse, entusiasmo ed energie finora impensabili. Una spinta a cercare di cambiare i destini dell’umanità, studiando come le tecnologie abilitanti, l’intelligenza artificiale, la data science, il quantum tech, la robotica possano contribuire a rendere migliore la nostra esistenza, lottare contro la disuguaglianza, essere uno strumento di pace piuttosto che una causa di sofferenza. Le pagine di don Andrea raccontano la nascita e l’evoluzione di questo progetto, germinato all’interno di un’istituzione vaticana a cui papa Francesco ha chiesto di porsi in dialogo con le tradizioni culturali e religiose più diverse per discutere sul senso della vita umana e tutte le implicazioni di natura etica che accompagnano l’esistenza, con una prospettiva libera e innovativa, e che si pone in linea di relativa discontinuità rispetto agli approcci classici della bioetica cattolica. L’insegnamento che la sottoscritta e moltissimi partecipanti a questa avventura culturale abbiamo tratto è innanzitutto di ordine metodologico: per cambiare il mondo occorre viaggiare e confrontarsi a cuore aperto, incontrare le persone, scambiare le idee, ascoltare le posizioni di tutti senza prevenzioni e dogmatismi, usando approcci, modelli e linguaggi meno astratti e ideologici rispetto al passato, più ancorati alla realtà 13


e ai bisogni dell’uomo, con un metodo induttivo che muova da situazioni e bisogni concreti. E poi, diffondere questo messaggio di apertura con tutti coloro che si dimostrino disponibili a una sincera collaborazione su tutte le piste di possibile confronto, alla ricerca di un orizzonte comune, di un ethos condivisibile, di un radicamento che regoli il vivere e l’agire. Mettendo in comune l’inquietudine – chi della ragione, chi della fede, chi di entrambi – che nella ricerca e nel confronto riconosce il senso dell’alterità e del bisogno dell’altro, e la responsabilità reciproca. Quella di don Andrea è la testimonianza di un impegno e di una passione per cucire i rapporti e tessere la tela di uno sforzo comune, profuso da tante persone che nel dialogo costruttivo, aperto e sincero hanno trovato una motivazione più forte per sviluppare una scienza orientata al bene dell’umanità. Maria Chiara Carrozza Presidente del Consiglio nazionale delle ricerche

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Scusi, ma perché lei è qui?


Nota dell’editore Nella collana Umanità digitali utilizziamo, nell’angolo in basso delle pagine o più raramente nell’angolo in alto, i codici QR (abbreviazione dell’inglese quick response, risposta rapida): se li inquadrate con l’apposita app dallo smartphone siete indirizzati, a mo’ di bibliografia, ad alcuni siti a cui si fa riferimento nel testo (e nella breve didascalia che li accompagna). AI (tutto maiuscolo) è l’acronimo di artificial intelligence. In italiano il corrispettivo acronimo è IA, intelligenza artificiale.


Cuciture Il dialogo è sorprendente

Palazzo dell’Itu - Ginevra

“Scusi, ma perché lei è qui?” Me l’avevano detto che sarebbe andata proprio così, anzi, se io mi trovo a un coffee break in una sala dell’Itu a Ginevra è proprio per questo. Non mi aspettavo però che accadesse così presto, meno di dieci minuti dall’inizio della distribuzione di quella strana bevanda nerastra e calda che svizzeri e americani chiamano caffè. Non sono un volto conosciuto, né un’autorità nel mondo dell’intelligenza artificiale, anche il nome riportato sul badge tutto colorato non dice niente a nessuno e poi è così piccolo che il mio interlocutore certo non è stato attratto da questo. La colpa è della camicia. Questa sì, si vede, anche da lontano: fresca, senza pieghe malgrado il passaggio in valigia sull’aereo da Roma, nera e, naturalmente, senza cravatta. 17


Non ricordo il nome del primo interlocutore, mentre ho ben in mente Francesca Rossi che mi avvicina dopo un paio di minuti dal primo incontro e mi pone la stessa domanda. È il primo di tanti incontri con lei, pluripremiata scienziata italiana, docente di informatica in una mezza dozzina di università del mondo, amante dei gatti, responsabile mondiale (e saggia) della ricerca sull’etica dell’intelligenza artificiale aperta da Ibm alcuni anni fa. Intuisce che sono italiano e il dialogo, nel comune idioma natio, va subito al cuore della questione: cosa ci fa a un congresso mondiale sullo sviluppo dell’intelligenza artificiale, organizzato dall’agenzia delle Nazioni Unite per le telecomunicazioni (Itu), un prete? Nell’arco della mattina racconto almeno altre cinque volte che lavoro per un ufficio vaticano che raduna più di 160 grandi scienziati provenienti da tutto il mondo. Diverse nazionalità, campi di specializzazione, culture, fedi religiose, tutti però accomunati dall’intuizione che la scienza è a servizio della vita degli uomini e delle donne che abitano questo pianeta mezzo malato. Per questo si chiama Pontificia accademia per la vita (Pav) e per questo mi trovo a Ginevra a un convegno intitolato AI for Good: l’intelligenza artificiale per il bene. È da qualche mese che in Accademia riflettiamo sull’impatto che le nuove tecnologie hanno sulla vita delle persone e sulle sfide che pongono. La persona che mi ha invitato a Ginevra è anche quella che, nel primo pomeriggio, mi presenta a uno dei due organizzatori del congresso: Amir Banifantemi. Anche lui non indossa la cravatta, ma non è un prete, per quanto ab18


bia studiato dai gesuiti in Francia. Di origine iraniana, vive a Los Angeles con Modje, la moglie simpaticissima che qualche tempo più tardi ho accompagnato in una sfortunata visita vaticana, programmata esattamente il giorno di una chiusura straordinaria della basilica di San Pietro. La maglietta che indossa riporta il logo dell’evento: AI for Good. È uno dei temi di cui si occupa, fortemente convinto che le nuove tecnologie possano davvero offrire una grande opportunità di miglioramento della vita umana e per cui vale la pena togliersi anche la camicia, e rimboccarsi le maniche. Anche a lui spiego il motivo della mia presenza, ringraziando Giovanna Abbiati, comune amica appassionata di contaminazioni di temi e persone che ha costruito questo incontro, e chiudiamo la conversazione con il rituale scambio di biglietti da visita. Tutto sembra finire così e trascorro il resto del pomeriggio ad ascoltare presentazioni di progetti di utilizzo dell’intelligenza artificiale nell’agricoltura africana e nei sistemi educativi dei villaggi indiani. A fine giornata, arricchito, come spesso mi accade, per le molte cose che ho imparato e dei molti biglietti da visita che ho raccolto, sto per avviarmi all’uscita quando Amir si avvicina e mi chiede se posso partecipare alle 7.30 del mattino successivo a una colazione con un’altra dozzina di persone: presentano un progetto giapponese e gradirebbe la mia presenza. Del progetto giapponese non ho saputo più nulla dopo la colazione ginevrina (questa sì di un qualche valore gastronomico, caffè escluso naturalmente), ma con Amir abbiamo iniziato a parlare e confrontarci diCuciture

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verse volte. È lui a sollecitare me e la realtà che rappresento sull’urgenza di una visione etica dell’intelligenza artificiale, nei fini e nei mezzi. Saggio tessitore di relazioni, ci coinvolge in una serie di tavoli di riflessione sul tema: occasioni veloci, alla pari, dove ognuno condivide i suoi saperi e le sue opportunità; e dove ognuno si paga il conto del ristorante e dell’albergo, condizione non banale di libertà che imparo progressivamente a custodire, in un mondo dove girano soldi in quantità iperboliche: non sono sul conto spese di nessuno. Le sorprese però non finiscono. A partire da quell’incontro nasce il gruppo AI Common: da tutto il mondo si ritrovano ingegneri, economisti, matematici, informatici e... un prete. Amir mi chiede di parlare sempre all’inizio delle sessioni. Davanti alle mie più che fondate resistenze, reagisce con educata fermezza (Amir è un uomo dai tratti squisiti): “Abbiamo bisogno di collocare il nostro lavoro, abbiamo bisogno di avere ben chiaro perché ci ritroviamo, il motivo del nostro impegnarci insieme. Questo puoi metterlo a fuoco tu”. La proposta mi riempie di orgoglio e insieme di preoccupazione: cosa posso dire davanti a Yoshua Bengio (uno dei massimi esperti al mondo di machine learning, premio Turing – il Nobel dell’informatica – 2019) e prima dell’intervento di Francesca Rossi?

Mila Institute - Montréal

La mia prima introduzione la offro a Montréal, al Mila Québec AI Institute, il centro di ricerca fondato 20


da Bengio, meta di centinaia di dottorandi e ricercatori provenienti da tutto il mondo. Il luogo sembra tutto fuorché un’università (almeno così come sono stato abituato a vederle): all’ingresso si trovano il ping-pong e il bar autogestito poi, accanto agli armadietti dove si possono depositare i doposci (siamo a Montréal, in Canada, ed è pure appena finito l’inverno), parte una lunga serie di spazi aperti di lavoro, intervallati da una decina di enormi scatoloni in legno che assomigliano a delle roulotte senza ruote, dove ci si può trovare insieme a due o tre persone per un breve incontro di lavoro riservato. Al centro, gli studi di Bengio e dei suoi assistenti, spesso con pareti di vetro. La stanza dove ci raduniamo (siamo una cinquantina di persone) non ha naturalmente la forma di un auditorium: sei/sette tavoli rotondi dove si cambia posizione a seconda del gruppo di lavoro cui si partecipa nei 45 minuti successivi. Nessun badge (mi forniscono un’etichetta adesiva con il mio nome stampato), nessuna cartelletta (tutto è elettronico) e il consueto pessimo caffè. Mentre parlo, faccio scorrere sullo schermo una serie di volti umani: donne e uomini, anziani e bambini, belli e brutti, asiatici, africani ed europei. Solo l’ultima immagine non è casuale e lascio che rimanga sullo schermo per un tempo più lungo: una magnifica fotografia di una mamma con in braccio il suo figlio neonato. Per questo, per loro, noi siamo qui. Ne sono convinto e capisco che ho colto nel segno, quando Amir mi chiede di tenere la stessa presentazione alla nuova edizione di AI for Good nel 2019 a Cuciture

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Ginevra. Qui il salone è decisamente più grande e più comodo, e la folla più ampia. Ai massimi specialisti di macchine sofisticatissime parlo degli uomini. Il mio scopo non è quello di mostrare la differenza, sempre più complessa da riconoscere, tra gli umani e le loro macchine intelligenti. La domanda che mi sta più a cuore è un’altra: come possiamo vivere in modo autenticamente umano questa era tecnologica? L’immagine della mamma con il suo bambino rimane sul mega schermo per quasi un minuto. È di lei, anzitutto, che mi parla l’ingegnere indiano che mi ringrazia alla fine dell’intervento perché – mi dice – “mi ha ricordato cosa sono qui a fare davvero!”.

Avenue de la Paix - Ginevra

A un seminario con 150 scienziati del gruppo AI Common scelgo invece alcune opere d’arte contemporanee. La giovane addetta al funzionamento delle presentazioni, abituata a diapositive piene di tabelle e grafici, è spiazzata. Progressivamente, il dettaglio del filo grossolano con cui Alberto Burri tiene insieme brandelli di sacchi di iuta in uno dei suoi famosi quadri con le famose “cuciture”, mostra la forza e il significato della questione etica nel mondo contemporaneo. E non c’è raffigurazione migliore dell’urgenza di una regolamentazione giuridica dei sistemi di intelligenza artificiale che il sovrapporsi di triangoli e rettangoli verdastri con cui Paul Klee, in uno dei suoi dipinti dedicati al tema della città, raffigura la complessità della convivenza umana. 22


Da lì in poi sul mega schermo scorrono solo presentazioni di elenchi puntati, tabelle e diagrammi. Ma forse ora sappiamo meglio a cosa potrebbero servire. Esco dal congresso, e come sempre quando mi trovo a Ginevra, vado davanti al Palazzo delle Nazioni, la sede centrale delle molte agenzie delle Nazioni Unite che hanno base nella città svizzera. L’enorme viale chiuso dal palazzo si chiama, giustamente, Avenue de la Paix, ed è marcato da quasi duecento pennoni da cui sventolano le bandiere di tutto il mondo. Non mi lascio però andare al passeggio rilassato in un luogo tanto ameno; la mia meta è una sedia rotta – le manca una gamba – che si trova proprio in mezzo alle bandiere. No, non è una panchina che non vede uno straccio di manutenzione da decenni: qui siamo in Svizzera! Anzi, la sedia è stata recentemente restaurata e rimessa al suo posto, qualcuno dice dopo non poche resistenze politiche, con le sue tre sole gambe ben in vista. Broken Chair, “sedia rotta”, è una scultura in legno alta 12 metri, opera dell’artista svizzero Daniel Berset, realizzata nel 1997 in occasione di una delle più grandi campagne contro le mine antiuomo che ogni anno uccidono o mutilano un numero impressionante di persone; nel 2020 si sono registrati 2.492 morti e oltre 4.500 feriti, più della metà bambini, 7 al giorno, uno ogni 4 ore. Vado lì e mi fermo per qualche minuto davanti a questa scultura, le giro intorno, per ricordarmi di loro, dei bambini con le gambe rotte perché saltati oggi su una DANIEL BERSET, CHAIR mina, e le loro famiglie disperate, e i loro BROKEN (1997) Cuciture

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popoli in guerra... Sono loro, e l’intera umanità che così tanto fatica a vivere in pace, il motivo per cui mi trovo in quel magnifico posto, dove incontro persone davvero interessanti, dove ho la possibilità di dire parole che spero importanti. La serata non è però ancora finita. In questo genere di incontri c’è quasi sempre una cena, ed è qui che la camicia che mi contraddistingue si prende, talvolta, la sua rivincita: attorno alla tavola la conversazione vira facilmente su temi più personali e il tono è ancora più sciolto. Talvolta i miei commensali non resistono: molti di loro non hanno mai mangiato con un prete e l’ultimo loro incontro personale con un rappresentante del clero spesso risale all’infanzia. Le prime domande sono naturalmente sul Vaticano: “È vero quello che dicono?”, “Ma lei The Young Pope su Netflix l’ha visto?”. Poi capita che qualcuno inizi a parlare di sé, di quello che pensa su alcuni temi fondamentali della vita, e racconti qualcosa della sua esperienza religiosa. Ascolto e racconto anch’io qualcosa della mia esperienza: a tavola le storie sincere rendono i piatti più saporiti. A Montréal la conversazione è intensa e si protrae per tutta la serata e non importa se, il giorno seguente, prima di partire, uno dei commensali, un giovane canadese, con grande gentilezza mi chiede di salutargli mia moglie.

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e l’avevano detto che sarebbe andata così… Non sono un volto conosciuto, né un’autorità nel mondo dell’intelligenza artificiale, anche il nome riportato sul badge non dice niente a nessuno, e poi è così piccolo che il mio interlocutore certo non è stato attratto da quello. La colpa è della camicia. Questa sì, si vede, anche da lontano: fresca, senza pieghe malgrado il passaggio in valigia sull’aereo da Roma, nera e, naturalmente, senza cravatta. Lavoro per un ufficio vaticano che raduna più di 160 grandi scienziati provenienti da tutto il mondo. Diverse nazionalità, campi di specializzazione, culture e fedi religiose, una sola frontiera: AI for Good, l’intelligenza artificiale per il bene. Un viaggio entusiasmante, da Babylon a New York, da Montréal a Teheran, tra uomini, robot, computer quantistici e il futuro che è già qui. Wonderful! Prefazione di Maria Chiara Carrozza, presidente del Consiglio nazionale delle ricerche ANDREA CIUCCI È coordinatore della sede centrale della Pontificia accademia per la vita (Santa Sede) e segretario generale della Fondazione vaticana RenAIssance per l’etica dell’intelligenza artificiale. PhD in filosofia contemporanea, lavora sui nessi tra antropologia, etica ed esperienza religiosa, con particolare riferimento alle nuove tecnologie, alla condizione giovanile e familiare, al cibo. Twitta come @donciucci.

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