Se il mare finisce Racconti multimediali migranti
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Nuove spartenze Alessandro Triulzi Perciò io ho deciso assoluto andare in America non per il mio avvenire, perché io sapevo che dovevo trovare del pegio, ma per i figli poter fare tutte le scuole e potere imparare qualche professione e qualche mestiere e non essere schiavo al lavoro e alla miseria. Così ho deciso di lasciare la mia terra nativa ed emigrare in America. Tommaso Bordonaro, La spartenza, Premio Pieve 1990, Einaudi 1991
Così il contadino siciliano di Bolognetta, Tommaso Bordonaro, arrivato a New York con moglie e figli nel 1947, spiega la sua “spartenza amara” dall’Italia del dopoguerra in un racconto poi consegnato all’Archivio diaristico di Pieve Santo Stefano. La lingua “rocciosa” e “selvaggia” di Bordonaro - che Natalia Ginzburg molto amò e volle premiare insistendo per la pubblicazione da Einaudi - non può non richiamare i racconti delle varie “spartenze” verso l’Italia scritti da migranti arrivati da noi e raccolti in questo volume: quattro donne con ricche esperienze di integrazione alle spalle, sette giovani uomini tra i 19 e i 30 anni (l’età media nel continente africano) arrivati in anni recenti; alcuni di loro già cittadini italiani, altri ancora sotto protezione umanitaria, oppure “irregolari” sotto ricorso, provenienti da nove Paesi del mondo (Argentina, Camerun, Costa d’Avorio, Etiopia, Gambia, 5
Guinea, Mali, Romania, Sudan). Questo lo spaccato delle storie finaliste del concorso DiMMi (Diari multimediali migranti) 2018, che è anche l’anno della svolta politica populista e del maggiore accanimento contro l’immigrazione cosiddetta “irregolare” in Italia. Difficile dire in che misura questi racconti rappresentino la straordinaria diversità dei percorsi umani e di accoglienza da cui scaturiscono, ma certo riflettono alcune costanti del racconto di sé e confermano la felice intuizione del concorso DiMMi, quest’anno giunto alla sua quarta edizione, che ha permesso l’acquisizione nell’Archivio di Pieve di quasi 350 racconti di persone migranti che risiedono o hanno soggiornato nel nostro Paese. Questi testi, scritti in italiano e alcuni nella lingua di origine, costituiscono una straordinaria fonte di informazioni per gli storici futuri e sono la prima prova generale di espressione di sé da parte di persone straniere che vivono e operano nel nostro Paese, e concorrono alla diversità del suo patrimonio culturale già ricco di proprie lingue e culture. È questo linguaggio pittoresco e sgrammaticato, come scrive Cristina Ubah Ali Farah nelle pagine che chiudono questo volume, di grande potenza espressiva ed empatica, che accomuna i giovani avventurieri che arrivano dell’Africa occidentale - così viene chiamato in questa parte del mondo chi parte per un viaggio verso l’ignoto (“In questo diario”, scrive Thierno, “proverò a raccontare la vita che conducevo prima di mettermi in strada per un’avventura senza destinazione”) - o le più articolate Loredana, Fernanda, Ametula o Clementine, il cui maggiore controllo della lingua rivela comunque il suo continuo e straordinario rimescolio (“la parola che identifica me è Mescola”, scrive Fernanda). Se i primi si esprimono spesso con l’italiano di sopravvivenza imparato a scuola, o con docenti particolarmente dedicati al loro arrivo in Italia, tutti mo6
strano uno straordinario talento espressivo nella scrittura dell’italiano anche quando usano parole mischiate e giri di frase che rivelano termini e modi di dire delle lingue e culture di origine, spesso porose, a loro volta mescolate o nascoste sotto declinazioni linguistiche multiple. Così l’avventura di imbattersi nell’italiano e di sceglierlo come lingua del proprio avvenire si pone in parallelo con il più grande “avventurarsi nel suo futuro”, come lo definisce Thierno, quando improvvisamente lascia il suo piccolo villaggio in Guinea e decide, poco più che decenne, “di andare via da casa mia, per lo scopo di farmi un futuro migliore”. È nella capitale, Conakry, che viene colpito non solo dalla “luminosità dei palazzi” e dal viavai continuo di “gente [che] vagava dappertutto […], molto diversa dalla vita che si conduce nei paesi interiori dove la mattina tutti si alzano e gia prendono la strada per i campi”, ma dallo scoprire che il primo strumento di sopravvivenza nel luogo di arrivo - non importa se in Africa o altrove - è l’apprendimento della lingua parlata nel posto. Così strada facendo Thierno impara, oltre il fula dell’infanzia e il francese, le varie lingue dei Paesi che attraversa - prima il bambara, poi l’arabo libico, fino all’italiano che studia “giorno e notte nella rabbia e nella speranza di poter continuare gli studi”. Sono ragazzi cresciuti in fretta quelli che arrivano da noi, quando non soccombono prima, perché hanno imparato a diventare presto adulti in un “futuro scurato” (Franky) e ad affrontare il male attraverso le dure regole e i gravosi adattamenti di un viaggio che richiede continue sfide di sopravvivenza, di lotta, di determinazione. Sanno bene, come scrive Thierno, “che vuol dire crescere senza una persona affianco il quale ti raddrizza”, e quanto sia importante in ogni momento avere vicine persone amiche e alleate che di volta in volta ti permettono di affrontare 7
“l’inferno del mondo” (come lo chiama Madassa) e la insostenibile situazione di continua attesa di un futuro migliore da intravedere o sognare attraverso il buio del deserto. Così ancora Thierno: “Dormire nel deserto del Sahara per la Libia è stato un viaggio oltre le stelle che formano il firmamento. […] All’improvviso non era la stella che ho visto, ma solo la sua luce in ritardo di distanza. Il sole sta per sorgere siamo sempre piu vicini al primo villaggio libico”. È questo il brusco risveglio di un bambino-adulto precoce che intuisce che dietro il chiarore ipnotizzante delle stelle si nasconde la minaccia di sempre nuovi pericoli. Ciò che stupisce, e maggiormente attrae, in questa catena di racconti è la varietà di motivazioni che ispira, a volte costringe, la scelta di “avventurarsi” nell’ignoto e determina i percorsi umani e le ripetute insidie tese a catturare, detenere, e rilasciare dietro pagamento questi camminatori del mondo globalizzato in cerca di un incerto avvenire. Così Thierno sceglie di lasciare casa in cerca di un futuro migliore per lui e per la madre che vive di stenti; Karamoko perché non può pagare le spese mediche per i genitori, che soccombono entrambi (come succede anche al nonno di Franky che muore perché non può pagare l’ospedale) e perché la guerra civile divampa nella Costa d’Avorio in fiamme per la contestazione congiunta di ribelli, bande di strada e jihadisti; Rijkard perché si scontra con la madre rispetto alla scelta di vivere liberamente la propria sessualità, contrastata e demonizzata dalla famiglia, e per il ripetersi di un modello censorio e oppressivo nella nuova relazione di disuguaglianza in cui si trova impigliato; Madassa perché indotto da una serie di rapporti di “protezione”, in realtà di sfruttamento in quanto lavoratore straniero, che lo costringono a un viaggio “inaspettato” di totale irregolarità e violenza. 8
In queste auto-narrazioni il prima e il dopo del percorso migratorio viene ricomposto nel racconto degli autori restituendo alla propria storia la necessaria doppia valenza del qui e del là di ogni camminante transnazionale contemporaneo. Ma altri viaggi sono dettati da motivazioni diverse: il trasferimento in Italia di Loredana al seguito di un connazionale che sposa e da cui ha un figlio; Fernanda, “emigrata per amore”, che fonda in Toscana un teatro capace di portare gli altri “a esprimersi” liberamente per “vederli uscire dal guscio e raccontare se stessi”. Oppure Clementine, che vuole proseguire gli studi universitari e mantenersi con i propri mezzi in Italia dove trova marito e la felicità. Mentre Ametula arriva in Italia per seguire il fratello espatriato in Canada ma viene bloccata a Roma perché non ha più i mezzi per andare avanti, eppure vive, si adatta, e piano piano si abitua a convivere in dignità con la sua emarginazione. Altri autori, come Franky, volutamente affidano alla scrittura il ricordo dell’infanzia nella ospitale comunità contadina che la famiglia lascia per la capitale (“Douala la bella”) dove è costretta a vivere in un alloggio malsano “di 5 metri di altezza su 3 metri di base” in cui lui e i quattro fratelli e sorelle stentano a dormire. “Nella propria casa è la storia che ci avvolge, fa parte del nostro atteggiamento mentale, ci protegge al suo interno, neanche la morte si libera del nostro calore e della nostra presenza, [ap]partenendo alle gioie, [e alle] sofferenze che abbiamo provato lì dentro. Allora dirò che non ho mai avuto una casa propria, non sapevo neanche come chiamarla, una scatola o un luogo semplicemente, di passaggio.” La lotta per la sopravvivenza è particolarmente dura per il giovane camerunense che descrive il coraggio e la forza per andare avanti nella società autocratica del Camerun di Paul Biya in carica da trent’anni; come pure 9
per il gambiano Bakari che, ricordando il razzismo che circonda la partita di calcio giocata a Follonica tra la squadra di tutti bianchi, in cui gioca lui e una squadra “all-black” di rifugiati, viene colpito dall’incitamento di uno dei suoi compagni di squadra “Ragazzi non dobbiamo perdere contro questi cani che parlano turco”, e riflette su quel dolore più intenso del perdere una partita di calcio, di chi è vittima costante di pregiudizi e commenti razzisti. Sul lungo, faticoso e disumano viaggio transahariano e poi mediterraneo, i giovani migranti confermano quello che tutti sanno e molti negano: che il “passaggio a ovest” dall’Africa subsahariana alla Libia è oggi nelle mani di trafficanti agguerriti collusi con le autorità locali e il traffico internazionale di esseri umani, che la Libia non è oggi, e non era ieri, un porto sicuro a cui approdare o da cui partire. E, inoltre, che dal 2008, da quando il giovane regista rifugiato etiopico Dagmawi Yimer, in Come un uomo sulla terra (2008), registrò con una telecamera i racconti dei suoi compagni di viaggio intrappolati nelle prigioni di Gheddafi, il “sistema Sinai” di imprigionamento e tortura dei migranti con richieste via cellulare di “riscatti” estorti alle famiglie e lo sfruttamento intensivo di forza lavoro schiava prelevata nei vari campi di internamento, si è esteso a macchia d’olio anche oltre i confini della Libia intaccando strutture, pratiche e codici etici delle società tradizionali stravolte dalla ricerca esasperata del profitto. Il dettagliato racconto di viaggio di Dominique Boa apparso nel volume DiMMi Parole oltre le frontiere (Terre di mezzo Editore, 2018) viene qui confermato dai brani laceranti di chi ha da allora percorso la stessa strada, subìto le stesse violenze. Sia Thierno che lavora in Algeria come manovale a giornata prima di arrivare a Tri10
poli tenuta in scacco dalle milizie armate: “sono pagato pochissimì […] mi trovo in un paese dove la discriminazione razziale regna la sua piena era […] i paesi nordisti [cioè del Nordafrica] sono dei paesi che credono di essere fuori dell’Africa”. Sia Karamoko cha passa per il nodo cruciale di Sebha, la base logistica dei trafficanti, e percorre in tre giorni il deserto libico in un camion coperto malamente da un telone con decine di uomini e donne impilati ognuno tra le gambe degli altri (“Faceva tanto caldo e le donne piangevano e anche gli uomini piangevano. Ma anche litigavano perché erano troppo stretti”) per poi ritrovarsi in un campo di detenzione vicino Sabratha dove verrà rinchiuso insieme a 700 altri migranti tenuti in ostaggio. Sia infine Madassa che con riluttanza percorre il suo “viaggio inaspettato” attraverso “l’inferno del mondo” che così riassume: “Ho passato 27 giorni in prigione, in questi 27 giorni ogni giorno è peggio, loro ci facevano lavorare come dei schiavi. A volte ci colpiscono. Mangiamo ogni tre giorni e beviamo acqua salata”. Il sistema ormai è dichiaratamente concentrazionario; alla sua base, annota Thierno, “c’è una rete di trafficanti organizzati dagli stessi africani che fanno parte della sicurezza per il controllo del flusso, ogni km ci sono vari posti di polizia, alla fine sono tutti corrotti”. Cruciali, in queste situazioni di difficile sopravvivenza sono le solidarietà che si accendono all’interno di singoli e gruppi che si aggregano durante il viaggio, le amicizie e le alleanze che si temprano nella comune e necessaria rete di autodifesa che istintivamente viene messa in atto per opporsi al male, le strategie di adattamento e i molteplici riposizionamenti (identitari, religiosi, linguistici) che ognuno di loro di volta in volta attua, a cui si sottomette, è costretto a cedere. Così esprime il suo pensiero Madassa invitato da un trafficante a partire dalla Libia in 11
guerra ben conoscendo l’esito, spesso mortale, del viaggio in mare: “Mi ha lasciato con i miei doubi, se penso al mare, allo stesso tempo penso a tutto quello che ho vissuto da casa fino a qui. Penso che se attraverso il mare o se resto nel mare in ogni caso i miei problemi saranno finiti. È in questi condizioni che mi sono dato alla morte, e ho accetato. Ho chiamato il suo amico chi è vicino al mare a ‘Zabrata’ chi deve mi inserire nel suo prossimo viaggio”. Si va in Europa, si arriva in Italia, attraverso queste strettoie. Lo conferma Migrante, che preferisce rimanere anonimo, con i disegni inviati dalla casa circondariale di Agrigento che intitola Viaggio dall’inferno all’inferno. È chiaro che chi riceve, accoglie, lenisce, o semplicemente dà ascolto e attenzione a chi esce da questo tipo di esperienze deve rispettare le quattro regole di Spinoza riprese da Pierre Bourdieu ne La miseria del mondo (Mimesis 2015) - “non deplorare, non ridere, non giudicare, ma semplicemente comprendere” - affinché si inneschi una rete non solo di empatia ma anche di appartenenza, che è quello che ha spinto gli autori a esprimersi con la gravità e la leggerezza, di chi “esce dal guscio […]”. Scrive Fernanda: “Io so quanto è importante, quanto è necessario, anche io ho avuto chi mi ha capito, chi mi ha aiutato… essere parte di quella catena è per me la sensazione di essere nel posto giusto”. È bello ascoltare parole così nell’Italia di oggi, ci rinfranca, ci fa sentire più uniti. Dobbiamo essere grati a queste voci corsare e sgrammaticate perché ricostruiscono con le loro parole monche, senza accenti e senza doppie, la grammatica dei nostri stessi legami di solidarietà e di sopravvivenza, ci fanno intravedere, e anche sperare, in un nostro e loro futuro comune, non più “scurato” come oggi appare. 12