bellezze in bilico | testo | elena parasiliti
Ogni anno il duomo di milano costa 18 milioni di euro. conti in rosso? per ora no, grazie a 800 benefattori.
I
Luca Corbani
n tempo di crisi c’è chi ancora costruisce bellezza. Di notte talvolta, mentre la città dorme, rileva con sofisticati apparecchi l’instancabile lavoro del tempo, l’abbassarsi lento del terreno, la stabilità di pilastri e colonne, misura l’allineamento esatto dei capitelli, il vibrare delle vetrate all’aumento dei decibel. Godendo dell’atmosfera irreale di una cattedrale deserta. Mentre di giorno, nel silenzio interrotto soltanto dal battere di martello e scalpello, seguendo le venature rosa del marmo riproduce le statue dei santi di ieri e di oggi che verranno ospitate lungo i fianchi esterni della navata o su una della 135 guglie che hanno reso celebre il Duomo di Milano nel mondo. Un cantiere continuo, che prosegue quasi senza interruzioni dal 1387, quando il Signore di allora, Gian Galeazzo Visconti, decise 18
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di cedere le sue cave di marmo ai costruttori che fino a quel momento si erano serviti, per innalzare la basilica principale della città, soltanto di rossi mattoni, il materiale locale. Nasce così, insieme al cantiere, la “Veneranda Fabbrica del Duomo” che da oltre 600 anni unisce una parte del nord Italia, in una linea tutt’altro che immaginaria, fatta di fiumi e canali, che dalla Val d’Ossola, dove si trovano le cave di Candoglia (siamo nel comune di Mergozzo, in provincia di Verbania), arriva giù fino a Milano. Un tempo passando per la Darsena, oggi fermandosi in piazza Cacciatori delle Alpi -“il regno” dei marmisti- prima di raggiungere la cattedrale. E se agli inizi e fino a due secoli fa vi lavoravano più di 5mila persone, oggi i dipendenti della Fabbrica -ente ecclesiastico con personalità giuridica- sono appena 150. Dicono “appena” senza alcuna ironia. Perché si tratta davvero di un manipolo di uomini, tutti italiani, impegnati non solo nella “manutenzione ordinaria” del Duomo, divisi tra cave e cantieri (i tecnici sono circa settanta), ma anche tra le sale del Museo e quelle dell’Archivio, che presto –l’inaugurazione è prevista per il 3 novembre- riapriranno al pubblico dopo otto anni, e nella Cappella Musicale che cura le voci di cantori piccoli e grandi e la liturgia ambrosiana. Ma all’appello non possono mancare neppure quanti negli uffici di via Arcivescovado 1 si preoccupano di gestire le questioni amministrative e di far conoscere il tesoro racchiuso tra archi rampanti e altari. Così per far fronte ai 18 milioni di euro che ogni anno vengono spesi tra personale, progetti culturali, grandi eventi e manutenzione ordinaria, ci si affida sì ad enti locali e nazionali e al patrimonio della Fabbrica, ma soprattutto a sponsor, turisti (5milioni l’anno) e benefattori. “Fino al 2009, per circa vent’anni, abbiamo potuto contare sui 5 milioni di euro annui che lo Stato erogava per la manutenzione ordinaria e straordinaria (legge 444/89 di cui hanno beneficiato anche il teatro Petruzzelli di Bari e il centro storico di Siena, ndr), ora godiamo di un finanziamento più circoscritto, deciso dal Governo, che ci garantisce la medesima somma soltanto per tre anni, dal 2012 al 2014, in vista dell’Expo 2015”. Trasparenza e sobrietà sono le parole chiave di quanto Angelo Caloia, per vent’anni presidente dello Ior, l’Istituto per le Opere di Religione retto prima di lui dal cardinal Marcinkus e che ha contribuito a risanare, ha portato anche alla Fabbrica di cui è presidente dal 2008, un “impegno volontario, ripagato al di là di quanto si possa immaginare –dice divertito- dal privilegio di svolgere un servizio alla Chiesa e di occuparmi di un
Veneranda Fabbrica del Duomo
Luca Corbani
Maestranze al lavoro. Uno scalpellino rifinisce una delle 135 guglie. Muratori acrobati controllano i bassorilievi esterni del Duomo.
Bene comune”. Seguendo questa intuizione, nel giugno scorso ha dato vita a una vera e propria campagna di raccolta fondi, “Adotta una guglia”, “trasformando -spiega- la necessità in virtù, e facendo rivivere quello spirito di partecipazione che ha accompagnato la costruzione del Duomo per sei secoli”. Ecco allora comparire tra le pagine di un albo online, e non su una targa in pietra, i nomi dei donatori, divisi tra piccoli e grandi: chi ha versato almeno 100mila euro e si è “aggiudicato” una guglia -con atto firmato davanti al notaio e verifica legale sulla provenienza del denaro; sono circa una ventina- e chi con carta di credito, bonifico o contanti ha versato dieci, 50, mille euro. Una gara di generosità che affianca realtà come Eni e moderni mecenati come la baronessa Maria Zerilli Marimò, che hanno adottato rispettivamente la guglia di San Biagio e quella di Santa Cecilia, e 800 perfetti sconosciuti, da Italia, Francia, Usa, Hong-Kong. Tra questi anche un gruppo di estrema destra, che “si è fatto pubblicità, con la complicità della stampa, che ha parlato di sponsorizzazione a fronte di una donazione di appena 50 euro”, spiega amareggiato il presidente Caloia. A rincuorarlo per fortuna ci sono altre storie, come quella di un giovane avvocato milanese, che ha donato un pezzetto di Duomo al figlio Guillermo, appena nato o
chi insieme all’attestato, sulle terrazze del Duomo, ha chiesto alla fidanzata di sposarlo, promettendogli la stessa “eternità”. Vicende che ancora una volta si intrecciano e mescolano i confini di quello che già nel ‘300 era considerato un simbolo della globalizzazione, il Duomo e quel cantiere popolato da maestri scalpellini del nord Europa, provenienti da Praga, Renania, Germania, oltre che dalle valli del Canton Ticino. Che hanno trasmesso la loro arte alle maestranze locali, fino a renderle nel giro di pochi decenni autonome. Un tessuto di sapienza tecnica che è cuore del cantiere anche oggi. E che fa scuola a quanti sui ponteggi o in un capannone proseguono il lavoro di altri. Come in una bottega medievale, “la professionalità si acquisisce con noi: agli scalpellini infatti non chiediamo una laurea o una specializzazione in restauro, ma attitudine al disegno e una grande sensibilità, non solo manuale” spiega Benigno Mörlin Visconti Castiglione, l’architetto della Veneranda Fabbrica, che sovrintende e dirige anche il Cantiere Marmisti e le Cave di Candoglia. Prova ne è la sua storia: laureato in ingegneria strutturistica con la passione per l’architettura, un giorno dei primi anni Ottanta si è trovato a scegliere tra costruire centrali nucleari all’Enel, dove era assunto, o dedicare la sua vita al Duomo. Allora, come oggi, non ha avuto dubbi su quale “fabbrica” scegliere. | 044 | maggio/giugno 13
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