Se per vestirci spogliamo il pianeta
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embrano vicende lontane, invece ci toccano molto più di quanto possiamo immaginare. È probabile che il 90 per cento di quello che abbiamo nell’armadio sia intessuto di storie simili perché, nel mercato globale, capita sempre più spesso che la lavorazione di uno stesso indumento si svolga in più continenti. Prendiamo ad esempio il ciclo produttivo di un capo semplicissimo e usato da tutti, di qualsiasi età, razza e condizione: la T-shirt. Inizia in un campo di cotone di Cina, India, Pakistan o Uzbekistan, dove contadini e braccianti lavorano a contatto quotidiano con quintali di pesticidi chimici classificati come pericolosi dall’Organizzazione mondiale della sanità. Basta una sola goccia di un certo prodotto, l’Albicarb, sulla pelle di un uomo per ucciderlo; ma questo viene comunemente usato nella coltivazione del cotone in 26 Paesi. Ogni anno, secondo quanto denunciano la Fao e l’Oms, tra l’1 e il 3 per cento dei lavoratori agricoli muore per avvelenamenti acuti da pesticidi e un milione viene ricoverato per disturbi provocati dal contatto quotidiano con le sostanze tossiche con cui vengono irrorati i campi. Anche i bambini, impiegati molto spesso nelle lavorazioni agricole, sono esposti agli stessi pericolosi veleni. Ma continuiamo a seguire il viaggio ideale della nostra T-shirt. Una volta raccolto, il cotone sarà trasportato in un’altra area del pianeta, magari in Africa o in America Latina, dove il lavoro di filatura e tessitura costa poco. Poi, per ricevere il colore giusto, si sposterà probabilmente in qualche zona ancora più povera, dove
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non esistono norme contro l’inquinamento e si può tingere scaricando liberamente le acque reflue nella roggia più vicina. Con un altro viaggio la T-shirt approderà in un laboratorio del Bangladesh o della Turchia dove sarà tagliata e cucita; nuovo trasporto verso un’altra zona dove sarà opportunamente “stampigliata” ed etichettata prima di finire, stirata e imbustata, sullo scaffale di un negozio o un grande magazzino di Milano, Roma o Londra. Così, oltre al carico di chimica legato alla lavorazione, la nostra “sana”, semplice, innocua, T-shirt avrà richiesto l’uso di ettolitri di petrolio per muovere tutti i camion, aerei o navi che l’hanno fatta girare intorno al mondo, contribuendo a liberare nell’atmosfera terrestre enormi quantità di CO2. Il peso sull’ambiente è un altro, terribile risvolto della globalizzazione della filiera del tessile. È detto comune che basta guardare la tinta dei fiumi cinesi per capire quale colore andrà di moda la prossima stagione. E non è solo una battuta. La Cina sta davvero inquinando massicciamente l’acqua, il suolo e l’aria del suo immenso territorio, oppresso per l’80 per cento da una persistente nube di fumi, polveri e veleni di ogni tipo che attaccano la gola e il sistema respiratorio. Una nube che entra poi nel vasto sistema terrestre di circolazione dei venti, sparpagliando il suo carico su tutto il pianeta. Ftalati e formaldeide sono stati trovati anche nei tessuti adiposi dei pinguini. Emblematico, per dimostrare l’impatto del settore moda sull’ambiente, è il caso della lana cashmere. Oggetto del desiderio di stuoli di consumatori, il cashmere si ottiene dal sottovello (cioè la parte più morbida) di un tipo di capre originario degli altipiani dell’Asia, selezionato per vivere nei climi freddi e ostili delle alte quote. Una fibra particolarmente preziosa, perché è dieci volte più leggera e più calda della lana, e rara, perché se ne producono solo 5 milioni di chili all’anno in tutto il mondo. Il cashmere più bello e pregiato proviene, però, dagli altopiani della Mongolia interna cinese, un territorio dal clima rigido dove se per vestirci spogliamo il pianeta
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le capre vivono benissimo perché sono rustiche anche nell’alimentazione: mangiano rovi, cardi, ortiche e qualsiasi tipo di vegetale riescano a trovare, lasciando il terreno completamente spoglio. Negli anni passati, viste le alte quotazioni del cashmere mongolo, le autorità cinesi avevano varato degli incentivi per promuovere gli allevamenti. Il semplice ragionamento “più capre = più cashmere = più soldi” non ha però tenuto conto di due effetti negativi. Il primo, molto prevedibile, è stato l’abbassamento repentino del prezzo della fibra dovuto all’aumento dell’offerta; il secondo è stato l’ipersfruttamento dei pascoli che, date le abitudini alimentari di questi animali, sta accelerando la progressiva desertificazione di vaste zone della Mongolia. Le ripercussioni si sono cominciate a vedere anche nella capitale Pechino, colpita a più riprese da violente quanto insolite tempeste di sabbia. Il governo è corso ai ripari eliminando gli incentivi dati agli allevatori per aumentare i capi e puntando sulla selezione genetica per migliorare la qualità, ma è come chiudere la stalla quando i buoi sono scappati. Difficile arginare l’avanzata del deserto una volta che l’equilibrio del suolo è stato irrimediabilmente compromesso. Nel frattempo, l’espansione della domanda innescata dai prezzi più convenienti viene oggi soddisfatta grazie a incroci di razze capaci di dare più lana, però di qualità molto più scadente. Per questo il golfino di cashmere comprato a un prezzo stranamente abbordabile si rivela diverso da quella nuvola di calda morbidezza che avevamo sognato. Il cashmere sostenibile che parla italiano Anzi toscano visto che la prima capra cashmere italiana è nata quindici anni fa nel Chianti, grazie all’intuizione e alla tenacia di una veterinaria americana trapiantata nel Senese. Nora Kravis aveva il problema di liberare da rovi e piante infestanti il terreno che aveva appena comprato e qualcuno le suggerì di prendersi una o due capre, che avrebbero fatto pulizia senza bisogno di macchinari. L’intuizione giusta fu quella di non
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accontentarsi di capre qualsiasi, ma di prenderne alcune provenienti da ceppi cashmere siberiani, neozelandesi e della Tasmania che facevano parte di un progetto Cee sull’adattamento delle “capre da fibra” al clima europeo. Sulle colline senesi si sono ambientate benissimo, dopodiché l’incrocio dei primi riproduttori con capre autoctone ha creato la vera capra cashmere italiana. Applicando attente e sistematiche selezioni genetiche correlate alla qualità e alla quantità di fibra prodotta, ogni generazione è andata via via migliorando e oggi il cashmere made in Chianti è un prodotto di alta qualità, apprezzato e ambìto da una clientela internazionale. Si tratta, chiaramente, di un mercato di nicchia, ma la domanda è spesso superiore al prodotto disponibile. La caratteristica più interessante, però, è il sistema di allevamento adottato. Niente animali rinchiusi nelle stalle e rimpinzati di mangimi. Le capre cashmere “toscane” vivono sempre all’aria aperta in uno stato semi-brado, scegliendo d’istinto le piante che possono fornire gli elementi necessari al loro benessere, con il risultato che producono più fibra e di migliore qualità rispetto agli esemplari allevati in stalla. E siccome mangiano quello che altri animali (come le “cugine” pecore) disdegnano, Nora Kravis non ha più avuto problemi di rovi e sterpaglie sui terreni della sua azienda: ci pensano le sue capre cashmere a tenere a bada le erbacce infestanti. I proprietari dei terreni vicini hanno cominciato a chiedere “a nolo” qualche capra, ben felici di avere una squadra di “operatori” che lavora in silenzio, con scrupolo, accuratezza, senza inquinare e che è anche un piacere per l’occhio. Visto il risultato, altre aziende più lontane hanno voluto sperimentare questi “decespugliatori” naturali che non hanno bisogno di pezzi di ricambio. La cosa si è allargata e adesso le capre cashmere vanno a pascolare su argini di fiumi, campi incolti e abbandonati, terreni marginali e inutilizzabili, bonificando, migliorando, riciclando le biomasse e trasformando il degrado in fibra di lusso senza alcun consumo di carburanti fossili. Insomma, una perfetta macchina da riciclaggio a zero consumo ambientale che, grazie al modo di brucare selettivamente le infestanti, lascia spazio alle piante se per vestirci spogliamo il pianeta
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autoctone con conseguente aumento della biodiversità: l’esatto contrario della desertificazione dei pascoli nei principali Paesi produttori. “Brucare non bruciare©” è lo slogan (coperto da copyright) di questo nuovo sistema per tenere puliti i terreni, realizzando allo stesso tempo un prodotto ad alto valore aggiunto. Ora anche la Regione Toscana si è accorta delle potenzialità offerte dalle capre cashmere presenti sul suo territorio e le ha inserite nel piano di sviluppo e gestione delle risorse rurali. Per cominciare, una squadra di capre è stata “assunta”, con tanto di contratto, da un ente pubblico, un consorzio di bonifica che ha ingaggiato gli operai a quattro zampe per migliorare una serie di terreni marginali, dove sarebbe impossibile (oltre che più oneroso) intervenire con mezzi meccanici. E all’orizzonte si annunciano già analoghe richieste da parte delle Province di Siena, Arezzo, Firenze...
Effetto denim: un mondo in blu
Il più globalizzato dei capi di abbigliamento è anche quello che richiede una delle produzioni tessili più inquinanti in assoluto. Come si sa, il tessuto jeans è composto da fili di catena (ordito) tinti in blu e fili di trama lasciati nel loro colore grezzo naturale. La tintura utilizzata è l’indaco (o, in inglese, indigo), che un tempo era ricavato da una pianta, la Indigofera, e oggi viene prodotto sinteticamente in laboratorio. Oltre alla particolarità della tessitura “bicolore”, c’è anche quella della tecnica di tintura che è completamente diversa da quella normale, perché i fili sono colorati solo all’esterno mentre l’interno, il cuore, resta grezzo: in campo tessile è chiamato effetto indigo o effetto denim. È questa caratteristica che permette ai blue jeans di invecchiare in modo naturale senza che le fibre perdano compattezza e resistenza, a differenza di altri tessuti che si stingono e mostrano evidenti segni di usura solo quando il materiale è ormai
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logoro, liso e inservibile. Questo risultato si ottiene praticando una tintura “per ossidazione”, vale a dire che i fili vengono fatti passare in una grande vasca di colore e poi fatti uscire e lasciati esposti all’aria; poi entrano in una successiva vasca di colore e di nuovo vengono lasciati a prendere aria. E così via, da un minimo di 4 a un massimo di 24 volte a seconda del grado di blu desiderato. Nei Paesi del Nord del mondo, i macchinari delle tintorie industriali permettono di misurare esattamente la concentrazione di tintura, in modo da poter riciclare l’acqua delle vasche aggiungendo solo quel tanto di nuovo colore necessario a ristabilire il giusto livello. Alla fine del ciclo, appositi impianti di depurazione provvedono ad abbattere i residui chimici presenti nelle acque reflue prima che queste escano dalla fabbrica e raggiungano il sistema fognario. Ovviamente tutte queste attenzioni hanno dei costi e, quindi, il ciclo produttivo viene spostato nei Paesi del Sud del mondo, dove acqua e tinte costano poco, le leggi di tutela ambientale sono inesistenti o ignorate e perciò è molto frequente che le varie fabbrichette, dotate di vecchi macchinari, buttino semplicemente il colore esausto nel corso d’acqua più vicino. Così il “pianeta azzurro”, come gli astronauti avevano ribattezzato la Terra guardandola dalla Luna, rischia di diventare davvero di un permanente e inquietante blu. Gli esempi non mancano. Nel distretto cinese di Xin Tang, le acque reflue dei circa 15mila laboratori che producono ogni anno 200 milioni di paia di jeans (anche per conto di alcune grandi griffe), stanno conferendo un’innaturale sfumatura azzurra ai fiumi della regione, mentre gli abitanti accusano gravi problemi di salute come difficoltà respiratorie, eruzioni cutanee e difetti congeniti nei nuovi nati. A mezzo mondo di distanza, in Messico, la zona di Tehuacán sta vivendo un analogo fenomeno; le acque che escono dalle centinaia di fabbriche che producono jeans per il mercato americano, scorrono in rigagnoli azzurri per la città dove si mischiano alle se per vestirci spogliamo il pianeta Effetto denim: un mondo in blu
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fogne pubbliche per poi fluire, senza trattamento alcuno, in un fiume che alimenta il sistema di irrigazione del non lontano villaggio di San Diego Chalma. I contadini sono ormai rassegnati a vedere quell’acqua che arriva a volte blu, a volte gialla o anche nera e che lascia una crosta bluastra sui loro campi di grano, unica coltura consentita dopo che le autorità hanno vietato la coltivazione di pomodori, carote e patate, visto l’alto rischio di contaminazione. Anche qui tra gli abitanti sono diffuse infiammazioni alla gola, irritazioni cutanee e difficoltà respiratorie dovute ai grevi miasmi portati dal fiume. Adesso, la maggior parte dei grandi marchi americani che avevano spostato in Messico le loro lavorazioni, chiedono ai propri fornitori di installare impianti di trattamento delle acque reflue e di tenere monitorata la presenza di sostanze pericolose negli scarichi. Ma i controlli non sono continui e, a detta delle locali associazioni ambientaliste, gli impianti di depurazione non sempre vengono messi in funzione. Ovviamente, i responsabili delle maquilladora, le fabbriche dei marchi americani, negano e, di fronte all’evidenza della fanghiglia grigio-blu che si deposita su ettari di coltivazioni, puntano il dito contro le decine di laboratori più o meno clandestini che lavorano per il mercato messicano. Fatto sta che in alcuni campioni prelevati dalle acque reflue degli impianti tessili di Tehuacán è stata rilevata la presenza di piombo, mercurio, cadmio e selenio: un mix chimico che brucia le piantine in fase di germinazione e rende i campi sempre più sterili. Eppure tingere il denim senza rovinare suolo e falde acquifere è possibile, come dimostrano i pochi impianti europei che realizzano l’effetto indigo. In Italia, ad esempio, ci sono fabbriche che producono tessuto denim di alta qualità e nel totale rispetto dell’ambiente. In Spagna, addirittura, un grande impianto industriale si è specializzato a tingere con indigo anziché i fili di catena, il filato che servirà poi a fare tessuti tipo maglia. La tecnica di tintura è quella denim, però si possono tingere fili anche molto sottili che
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avranno sempre il cuore grezzo e permettono di ottenere l’effetto jeans anche in una polo, una maglietta, un abito o qualunque capo scaturisca dalla fantasia dello stilista. Il tutto, adottando le misure necessarie per salvaguardare la salute dei lavoratori e il territorio circostante. Certo, i costi in termini di denaro sono più alti e chi vuole giocare su enormi margini di guadagno (magari da spendere in pubblicità) preferisce rivolgersi a Tehuacán e fare come le tre scimmiette. Il peso sull’ambiente continua anche dopo la fase della tintura. Il jeans appena confezionato è estremamente rigido, perché conserva ancora l’appretto utilizzato durante la tessitura. Il primo lavaggio generalmente comporta un restringimento del 10-12 per cento. Ormai da anni, i brand produttori di jeans tendono a vendere capi già lavati, trattati, scoloriti, consumati, strappati e più o meno stropicciati secondo i dettami della moda. Stone washed è un eufemismo per indicare una serie di processi, chimici e meccanici, che danno al denim l’aspetto vissuto. Ogni paio di jeans viene lavato e risciacquato infinite volte, con conseguente spreco di acqua ed energia; poi decolorato e ricolorato con pigmenti variopinti tra il verde, il giallo, il rosso o il ruggine, per dare al tessuto un aspetto inedito. Un’altra tecnica di invecchiamento consiste nell’utilizzare diversi enzimi, come l’amilase, impiegato per restringere e ammorbidire il tessuto; il cellulase, che rende più cedevoli le fibre di cotone prima che il capo sia sottoposto a ulteriori “maltrattamenti” o il laccase, usato al posto del cloro per sbiancare la tinta indigo e dare un effetto vissuto. Segue l’ultima fase di finitura, quella in cui il jeans viene consumato aggiungendo pietra pomice nei lavaggi, oppure viene sfregato e smerigliato con carta vetrata o strappato ad arte usando prodotti chimici come il permanganato di potassio, che è altamente tossico e contiene metalli pesanti. Tutte operazioni che vengono se per vestirci spogliamo il pianeta Effetto denim: un mondo in blu
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“fatte a mano”, come sottolineano orgogliosi gli esperti di moda, e rendono ogni capo “unico” e irriproducibile: un argomento che, a quanto pare, convince un sacco di gente a sborsare 100, 200 o anche più euro per un paio di jeans strappati e strapazzati, magari sentendosi anche fiera di essere “stupida”. Forse il consumatore dovrebbe soffermarsi un attimo a riflettere che questa mole di lavoro manuale necessaria semplicemente per dare ai jeans un look vissuto, ha come risultato che le fasi di finitura vengano fatte nei posti dove i salari sono bassissimi e i lavoratori non hanno nessun tipo di tutela. Senza contare che il più diffuso (ed economico) trattamento finale utilizzato per dare l’effetto vintage è il sandblasting. Di cosa si tratta? I jeans vengono investiti con potenti spruzzi di sabbia (di solito silice cristallina) sparata da un compressore e, insistendo più o meno su determinate zone del tessuto, si ha l’effetto sabbiato. Si tratta, però, di un processo altamente pericoloso per la salute dei lavoratori, che per dieci o anche dodici ore respirano la polvere di silicio rilasciata durante la sabbiatura riportando infiammazioni ai polmoni che presto degenerano in silicosi. L’uso di silicio all’aria aperta è stato vietato in Europa negli anni Sessanta, perciò le imprese hanno ricollocato la produzione in Paesi con leggi meno restrittive o dove i controlli sono inesistenti. È il caso della Turchia, uno degli Stati chiave della produzione tessile a livello internazionale, dove la tecnica del sandblasting, pur se messa al bando già nel 2009, continua a fare vittime dato che l’80 per cento dei lavoratori tessili appartengono al sommerso. Come si vede, l’evoluzione del blue jeans da robusto indumento da lavoro a indiscusso capo alla moda, ha comportato costi pesanti per i lavoratori e per l’ambiente. Ed è molto probabile che il paio di jeans “finto logorato” che vediamo in vetrina abbia logorato davvero un lavoratore in un’altra parte del mondo. C’è di buono che qualcosa, forse, comincia a muoversi: di recente due grandi aziende, Levi’s e H&M, hanno deciso di eliminare la sabbiatura
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dalla loro produzione. Un esempio che, per ora, nessuno degli altri grandi marchi ha seguito. Comunque sia, trattandosi di un tessuto robustissimo, il trattamento più sano è di consumarlo indossandolo; oltretutto il risultato non ha paragoni con il finto effetto vissuto. Quindi, lasciamo perdere i jeans slavati ad arte o, se proprio non vogliamo rinunciare alla moda delle chiazze più chiare adottiamo il vecchio metodo casalingo per accelerare l’invecchiamento: cospargere sul tessuto una soluzione a base di succo di limone e sale e lasciare asciugare al sole. È stato calcolato che per produrre, tingere e rifinire con il look “vissuto” un paio di jeans, vengono impiegati oltre 13mila litri di acqua, di cui più di 800 se ne vanno solo per coltivare i circa 7 etti di cotone con cui è fatto. Impossibile sapere quante paia di jeans si vendono ogni anno in tutto il mondo, ma sicuramente è in assoluto il capo più usato sul pianeta. I dati di mercato ci informano che solo negli Stati Uniti se ne acquistano qualcosa come 450 milioni annui: una media di uno e mezzo a testa per ogni uomo, donna o bambino americani, anziani e neonati compresi. Nel guardaroba di ogni donna americana ce ne sono in media (in media!) 8 paia. Nella sola città di Torreón, in Messico, se ne producono 6 milioni alla settimana, mentre di un unico modello, il famoso 501 della Levi’s, se ne vendono in tutto il mondo 100 milioni all’anno. Aggiungete tutti gli altri marchi che vi vengono in mente (più una buona quota delle rispettive contraffazioni) sommatene altrettanti di sconosciuti e otterrete una cifra che vi farà girare la testa. Moltiplicatela per i 13mila litri di acqua necessari alla lavorazione di un unico paio di jeans e... vi renderete conto che siamo tutti impazziti. L’ossessione per la moda sta devastando il pianeta.
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