C'era una volta in Enna

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Enna

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una volta in

ISBN 978-88-97039-26-6

C’era

€ 24,00

Luigi Prestipino

Luigi Prestipino nasce in Enna il 29 ottobre 1930. Consegue la maturità classica nel Liceo Classico Napoleone Colajanni di Enna. Nel 1952 ottiene un impiego precario presso l’Ente Fiera dell’Agricoltura di Enna e, successivamente, viene assunto presso la Camera di Commercio di Enna. Prosegue la sua carriera presso lo stesso Ente sino a quando consegue un coefficiente giuridico equiparato a Vice Segretario Generale. Vincitore di concorso pubblico, nel 1977 va a dirigere il Consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale della Provincia di Enna. Per la competenza acquisita, di volta in volta è chiamato a dirigere i Consorzi Industriali di Caltanissetta, Agrigento, Caltagirone, Trapani, Ragusa. Infine conclude la sua attività lavorativa con la funzine di Direttore Generale del Consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale di Palermo. Nel 1961 consegue il diploma della scuola di Sviluppo economico presso l’Unione delle Camere di Commercio in Roma mentre continua la sua preparazione in economia in molti corsi di specializzazione e aggiornamento a Napoli presso il Centro studi della Cassa per il Mezzogiorno. Nei vari anni ottiene numerosi incarichi tra cui di particolare rilevanza la elezione a Consigliere Nazionale di Amministrazione dell’ANCOL-IPAS nel 1983 e la nomina quale Amministratore Straordinario dell’Unità Sanitaria Locale n. 19 della Sicilia nel 1993. Per tre legislature è eletto Consigliere Comunale di Enna ove svolge anche funzioni di Assessore. Esperto in pianificazione territoriale e commerciale redige numerosi studi in varie parti della Sicilia. Monografie di carattere economico pubblicate: Aspetti sociologici di una zona depressa (1961); Esame del settore zootecnico nel piano di sviluppo dell’economia agricola della Provincia di Enna; (1961); Aspetti economicosociali sulla struttura della popolazione in provincia di Enna (1961); Appunti sulla programmazione economica (1965); Il consumo delle carni in Sicilia (1967); Fatti e problemi della emigrazione in provincia di Enna (1968); L’esodo della popolazione agricola (1968); Il grano duro nella libera economia del Mercato Europeo (1969); Agricoltura Meridionale e C.E.E (1970); Obiettivi di una politica degli insediamenti industriali in Sicilia (1970). Nel campo letterario nel 2009 pubblica il racconto “Successe a Calazolfina”, nel 2010 pubblica una storia a sfondo autobiografico “Un carusu da Judeca”.

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Luigi Prestipino

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C’era una volta in Enna Luigi Prestipino Copyright © 2011 ISBN 978-88-97039-216-6 I edizione tgbook editore by tecnograficarossi via 1° maggio, 6 36066 Sandrigo (Vicenza) www.tecnograficarossi.it www.tgbook.it L’opera, comprese tutte le sue parti, è tutelata dalla legge sui diritti d’autore. Sono vietate e sanzionate (se non espressamente autorizzate) la riproduzione in ogni modo e forma (comprese le fotocopie, la scansione, la memorizzazione elettronica e la comunicazione).


A tutte quelle Famiglie che hanno sofferto, amato e lottato e che hanno contribuito alla crescita sociale della nostra CittĂ



PRESENTAZIONE Il libro racconta la storia di Enna attraverso gli eventi politici e sociali più significativi del secolo scorso. Gli eventi narrati rappresentano le condizioni economiche del centro Sicilia dall’inizio del secolo scorso sino agli anni settanta, con le sopraffazioni dei potenti e dei proprietari terrieri contro l’impotenza della stragrande maggioranza della povera gente, inerme ed eternamente sconfitta. Conosciamo una Sicilia povera, che alla fine dell’ottocento era prostrata, priva di risorse, oppressa da tasse di ogni genere, considerata una colonia italiana più che parte integrante dell’Italia. Quello era un mondo difficile, colmo di ingiustizie con uno status sociale culturalmente povero; un popolo di gente senza diritti, costituito soprattutto da contadini e zolfatai in condizioni di spaventosa miseria, pronti a schiavizzarsi al servizio del barone o del marchese di turno pur di mangiare un tozzo di pane. È la testimonianza di un sistema di vita scadente e violenta senza regole civili e morali che colpiva i più poveri e soprattutto i più deboli. È la Sicilia dei latifondisti, degli sbirri corrotti, la Sicilia dalle forze occulte, della profonda miseria, dei bambini venduti al servizio dei potenti a guardare le pecore, “de carusi da surfara”; è quella Sicilia di povera gente, soffocata dalla fame, dalla disoccupazione, la Sicilia dei pochi potenti, dei proprietari terrieri e dei baroni.


Spesso, ancora oggi, si sente parlare dei “carusi da miniera” che neppure adolescenti venivano venduti o affittati ai padroni come animali da soma, negando loro la sacralità dell’infanzia. Sembrerebbero racconti di eventi lontani, che quasi non ci appartengono e che invece ancora oggi risiedono nella vita vissuta dei nostri nonni e forse anche dei nostri padri. E guardando ai nostri giorni, nonostante che le condizioni di povertà e di indigenza siano state superate, non possiamo certamente affermare di essere fuori dallo stesso meccanismo perverso del secolo scorso, perché ancora oggi, soprattutto nel meridione d’Italia, il politico di turno diventa un dio che schiavizza gruppi di uomini facendo leva sulle loro necessità e sui loro bisogni. Ed è anche la storia di una famiglia ennese, tipica del centro Sicilia, che si evolve nel trascorrere della storia siciliana con tutti i mutamenti locali e nazionali, che risente dell’incombente trasformazione sociale, economica e politica dalle due guerre mondiali sino al post fascismo. Giovanni, il personaggio principale del racconto, orfano dei due genitori, all’età di due anni viene affidato forzatamente ai nonni dopo che la zia materna lo rifiuta. Il nonno Michele, avaro di denaro e di affetto, tratta il nipote come uno schiavo, lo vende ad un signorotto a guardare i buoi all’età di sei anni e dopo a Filippo Mirisola, soprastante alla miniera Pintura, come “carriaturi di surfuru”. Un bambino solo, senza avvenire, abbandonato da tutti ed avviato dalla società di quel tempo ad una sopravvivenza all’estremo limite, sporadicamente, riceverà, qualche buona azione da altri pietosi e


bonaccioni poveri, unico sostegno umano nella sua prima infelice infanzia. Con il tempo gli eventi lo porteranno a riscattare buona parte della sua infanzia perduta. Cercherà con la sua prudenza e la sua intelligenza una vita migliore, trovandola con la forza e la dedizione al suo lavoro, troverà l’amore e una famiglia, riscattando in parte la sua vita amara. Porterà con sé per sempre i ricordi tristi della sua vita e si sforzerà con la sua abnegazione nel lavoro a creare dal niente una famiglia sana e onesta. Giulia, donna intelligente e di grande moralità, è l’altra protagonista del libro; è la figura non meno dominante, fortemente umana e materna che, nell’ambito di una società malvagia e fortemente ostica, riuscirà a dare forza a tutta la famiglia, saprà guardare nella direzione più giusta per dare un futuro più che dignitoso ai suoi figli. Giulia è la figura più rassicurante, è la madre per eccellenza che con la sua dedizione alla famiglia e con la sua forza morale e religiosa donerà ai propri figli un alto senso della morale e dell’onestà. I due personaggi quasi per miracolo intrecceranno una storia d’amore semplice e genuino; una storia d’amore piena di valori e di sentimenti rari, quasi idilliaci, in un clima sociale di forti tensioni politiche e sociali che attraversa tutto il ‘900 dalla prima guerra mondiale sino alla fine del secolo e che segnerà, in buona parte, il percorso delle loro esistenze. Ed anche le figure di don Santu e della figlia Assunta, seppure marginali, sottolineano la sicilianità dei personaggi: Don Santu, apparentemente, uomo duro e spavaldo, sicuro di sé, nasconde una grande fragilità


tipica dei nostri nonni; così pure Assunta, apparentemente debole, con la sua furbizia riesce ad ottenere la realizzazione dei suoi desideri, rivelando una grande forza tipica delle donne siciliane sottomesse di quel tempo. Il racconto, oltre a queste riflessioni, spinge anche ad altre considerazioni e, cioè, alla capacità dei personaggi di andare avanti, di cogliere la pur minima occasione per migliorarsi e costruire una vita migliore. Non importa se per riuscire a ottenere una posizione migliore bisogna affrontare sacrifici, sofferenze, mortificare in parte la propria dignità; comunque si deve andare avanti, con la lotta, con l’onestà, con lo studio, con il lavoro, con la salvaguardia dei valori familiari. In questo mondo scadente privo di diritti e di indifferenza, violento ed egoista, si scopre anche un barlume di speranza, il senso di umanità e il buono di poche persone umili, ma soprattutto il senso della famiglia, il senso del lavoro, l’onestà, la lotta per il raggiungimento di una meta e i giusti valori dei personaggi. Per questi motivi il racconto diventa esempio di vita. Altri aspetti, non meno evidenti, danno valore alla narrazione e cioè la capacità dell’autore di inquadrare gli eventi come in un documento storico e, come in una foto d’epoca, si percepiscono i costumi, gli odori, il clima, il cambiamento della città, i fatti, il mito, gli eventi religiosi, la politica, direi quasi una cronaca puntuale del cambiamento nella storia della città di Enna.


Le tradizioni religiose, i costumi, fanno da cornice al racconto, arricchendoli di particolari importanti che ritmano gli eventi che si susseguono e svelano la vita di allora di tutti gli ennesi. Il libro è come un film che proietta gli eventi di quel tempo, quando sfilavano in silenzio le confraternite con i fercoli oscillanti della Madonna Addolorata e del Cristo morto, accompagnati da cori in un misto di sacro e profano e dalle bande cittadine, o quando gli «scalzi» a piedi nudi trasportavano la «nave d’oro» con la Madonna del due luglio. E rivediamo i costumi d’epoca, gli usi del vivere, il clima rigido di un tempo che ancora risiede nei ricordi dei nostri padri. Francesco Paolo Prestipino



PREMESSA La Sicilia, che al tempo dei Borboni aveva goduto di una serie di attività anche di tipo industriale, durante l’invasione piemontese del Regno delle due Sicilie, operata senza dichiarazione di guerra, fu spogliata dei macchinari e delle attrezzature dagli invasori piemontesi che li portarono al Nord, dove in seguito sorsero le industrie del Piemonte, della Lombardia e della Liguria. Alla fine del XIX secolo la Sicilia era prostrata, priva di risorse, oppressa da balzelli e imposte di ogni genere (per memoria: tassa per la fabbrica di alcool, per la fabbrica di fiammiferi, tassa sul macinato, tassa di successione), considerata una colonia piuttosto che parte integrante del Regno d’Italia. 1 È da considerare, in particolare, che, mentre la fascia litoranea dell’Isola godeva di commerci di vario genere, soprattutto per la presenza di approdi, le aree interne subivano soltanto l’oppressione esercitata dal nuovo regime. Le risorse della Sicilia interna erano costituite soprattutto dallo zolfo e dal grano duro; il primo subiva lo sfruttamento al massimo dei giacimenti del sottosuolo, ma contribuiva notevolmente a equilibrare la bilancia dei pagamenti del nuovo stato italiano, il secondo sottoposto a tasse e imposte e «compensi vari» che avevano soltanto il merito di rendere sempre più poveri i «servi della gleba». Gli ultimi decenni del XIX secolo non avevano assolutamente contribuito a modificare lo status sociale ed economico di tutta quell’area collinare e montagnosa del centro Sicilia. In altre parti dell’Isola qualcosa di nuovo e di particolare 1

- Imposte sui trasferimenti (registro, bollo, ipoteche, ecc. Queste imposte erano molto tenue o inesistenti….. molto bassa era l’aliquota della tassa per la trasmissione di beni immobili a titolo oneroso; del tutto esenti erano gli atti di donazione e di successione,…Inoltre, la Sicilia godeva di completa esenzione della tassa sulla carta bollata e sul bollo(L’AMMINISTRAZIONE FINANZIARIA NEL REGNO DELLE DUE ICILIA Di Lodovico Bianchini (CEDAM 1995) 1


andava sviluppandosi, non certo nell’interesse delle popolazioni, ma a favore di Società e Compagnie continentali ed estere che curavano i propri affari sulla pelle di contadini, braccianti, manovali e zolfatai.

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La domanda di zolfo in continuo aumento sollecitava i concessionari delle miniere a sfruttare le risorse umane al limite dello schiavismo, utilizzando anche bambini inferiori agli anni 10. Vi erano state reazioni e proteste soprattutto da parte degli zolfatai perché si fissassero delle precise disposizioni sui salari e sugli orari di lavoro. In quell’area centrale della Sicilia anche gli zolfatai furono gli animatori dei Fasci, movimento che raccoglieva tutti i lavoratori. Essi chiedevano una legge con la quale doveva essere elevato ad almeno 14 anni di età l’utilizzo dei «carusi da surfara», un salario minimo più dignitoso e la diminuzione dell’orario di lavoro che normalmente era di 12/14 ore al giorno. Ma, accanto agli zolfatai, vi erano anche le popolazioni contadine che erano venute a trovarsi in una spaventosa condizione di miseria. Era una massa enorme di povera gente, soffocata da tasse, debiti, fame e disoccupazione. I movimenti di protesta di tanti lavoratori creavano nei poteri politici centrali delle grandi preoccupazioni al punto che si inasprì l'atteggiamento ostile e persecutorio di Giovanni Giolitti, allora Presidente del Consiglio. Quando i poteri forti dei latifondisti, dei commissariati di polizia e di forze occulte rafforzarono le loro pressioni su Giolitti anche per intervenire con misure eccezionali, rispose: "I mezzi che la legge concede li adopererò tutti inesorabilmente". Fu nel maggio del 1893 che Giolitti inviò una circolare alle autorità di polizia invitandole alla più stretta sorveglianza e alla denunzia dei dirigenti dei Fasci; e a giugno promosse un'inchiesta amministrativa per indagare se vi fossero pregiudicati tra gli iscritti ai Fasci, in modo da colpire, in caso di riscontro positivo, i sodalizi in quanto associazioni per delinquere. Gli scontri tra lavoratori e l’esercito, in occasione dei quali furono uccisi circa cento lavoratori e soltanto un soldato, sollecitarono il governo centrale a eliminare i Fasci dei lavoratori. Ma «il merito» della decapitazione dei Fasci dei lavoratori e della loro definitiva soppressione spetta proprio a un siciliano, Francesco Crispi, divenuto Presidente del Consiglio nel dicembre

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1893 alla caduta del governo Giolitti, causata dallo scandalo della Banca Romana2. In questa occasione il suo governo assunse un carattere sempre più conservatore e autoritario (e per questo fu celebrato dal regime fascista come il proprio precursore), reprimendo con severità i disordini operai, fra cui i Fasci siciliani, e sciogliendo nel 1894 il Partito Socialista. Egli, fin dalle prime battute del suo nuovo governo, applicò una politica durissima di repressione dei «Fasci dei lavoratori» movimento da lui ritenuto come una «gang di banditi», «cospiratori dello stato». D’altra parte bisogna avere qualche considerazione per lo «statista» perché proveniva da famiglia benestante e non era in grado di interpretare le richieste della povera gente. Il 4 gennaio 1894 venne affisso in tutti i paesi della Sicilia un Decreto Reale che proclamava lo stato d'assedio nell'Isola. Aveva così inizio la seconda fase della repressione, quella in cui si procedette alla liquidazione definitiva del movimento dei Fasci siciliani. Il «grande» siciliano Crispi, onorato e ricordato in tante epigrafi di monumenti, nominò commissario straordinario con pieni poteri militari e civili, quindi arbitro assoluto di vita e di morte, il generale Morra di Lavriano3. 2

- Wikipedia – Francesco Crispi - Di questa seconda fase fu arbitro assoluto il generale Morra di Lavriano, nominato dal Crispi commissario straordinario con pieni poteri militari e civili. Il suo primo atto fu l'ordine di arrestare i membri del Comitato Centrale e i dirigenti più importanti dei Fasci dell'Isola. Furono arrestati De Felice, Petrina, De Luca, Montalto, Ciralli e Maniscalco, Bosco, Barbato e Verro. Gli arresti colpirono anche i contadini e tutti coloro, professionisti e studenti, che avevano partecipato alle dimostrazioni o semplicemente di simpatizzare per il movimento. In 70 paesi furono attuati arresti in massa. Circa 1000 persone furono inviati al confino senza nessun processo. L'11 gennaio il generale Morra di Lavriano dispose con un editto l'arresto e l'invio a domicilio coatto "degli ammoniti e della gente malfamata". (Fara Misuraca, I Fasci dei lavoratori) 3

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In questo modo il tanto onorato Crispi riuscì a salvare proprietari terrieri, conti, baroni e gabelloti, cioè, tutti i tiranni che condizionavano l’economia e opprimevano il popolo siciliano4. Questo «illustre» generale, Morra di Lavriano, come primo ordine, fece arrestare i membri del Comitato Centrale e i dirigenti più importanti dei Fasci dell'Isola. Furono arrestate o inviate al domicilio coatto 1.962 persone. Fu applicata rigorosamente «la sospensione delle guarentigie individuali sancite dallo statuto del Regno. In tal modo veniva soppressa la libertà individuale, l'inviolabilità del domicilio, la libertà della stampa, il diritto di riunione e di associazione». Il provvedimento portò allo scioglimento di tutte «le associazioni operaie (compresi i Fasci) e di tutte le cooperative». Non disturbò e non poteva disturbare il «circolo dei nobili» ed il «casino dei civili», per la semplice considerazione che si trattava di circoli frequentati dall’alta nobiltà siciliana e, quindi, di una società che non era un movimento da ritenersi come una «gang di banditi», e di «cospiratori dello stato». Occorreva provvedere a limitare i diritti politici in modo da consentirli soltanto alla «classe colta e onorata» della società del tempo e, così, si procedette anche a una revisione delle liste elettorali in base ai suggerimenti delle amministrazioni comunali. L'otto gennaio furono istituiti tre tribunali militari (Palermo, Messina e Caltanissetta) dove si svolsero tutti i processi contro i presunti responsabili dei tumulti e delle stragi. Le accuse mosse agli imputati si basavano sulle dichiarazioni dei sindaci, delle guardie campestri, dei carabinieri ecc. 5 Era quello il tempo quando il popolo dei lavoratori della terra era dissanguata ancora dal sistema feudale perfettamente attivo ed efficiente che affidava la gestione del potere politico ed economico ai proprietari terrieri, tali divenuti per ereditarietà dei fondi feudali e come gabelloti.

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- Vedasi: Cronologia del mondo, anno 1893-1894) (Fara Misuraca, I Fasci dei lavoratori)

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A tutto questo si aggiungeva la crisi agraria, il declino dei vecchi mestieri artigiani, delle industrie domestiche, la crisi della piccola proprietà e delle aziende montane e delle manifatture rurali. Ma la misura della bontà dell’unificazione dell’Italia sotto il regno sabaudo si completava mirabilmente con il moltiplicarsi di imposte ingiuste che aggredivano letteralmente quelle piccole disponibilità di denaro destinate a comprare il pane. In Sicilia si era sempre pagata storicamente una sola tassa, quella sul reddito; quando ci fu l’unità d’Italia si scaricò sull’Isola un diluvio di tasse: la comunale, la provinciale, l’addizionale, il focatico o tassa di famiglia, quella sul macinato, la tassa di successione. A tutto questo fu aggiunta la coscrizione obbligatoria che faceva a pugni con tutta la storia dell’isola; «megghiu porcu ca surdatu», diceva un proverbio siciliano. La coscrizione obbligatoria generò il fenomeno della renitenza alla leva, specie nelle campagne, e il conseguente brutale intervento dei Piemontesi che determinò una serie di atti di barbarie: famiglie bruciate vive nei casolari, paesi privati d’acqua, fucilazioni contro i banditi, che poi erano soltanto contadini renitenti e atti di ferocia incredibile come quello contro il sarto Antonio Cappello, sordomuto, che fu torturato con ben 154 bruciature con ferri roventi perché considerato simulatore. Prima ancora dell'instabilità politica e sociale, i poteri dello stato unitario non riuscirono minimamente a interpretare e a gestire la «questione meridionale» che venne bollata subito come brigantaggio, invece che disagio sociale. Per tale motivo fu repressa nel sangue con 173.000 soldati. Con questa pseudo-unità lo stato italiano recuperò 600 milioni di lire con la vendita dei beni ecclesiastici, togliendo in tal modo il lavoro a migliaia di lavoratori. Ma l’Italia seppe riscattare bene tale vendita! Infatti, come scrisse Nitti, l’Italia in quel tempo sosteneva spese annue pari a lire 71,15 per ogni abitante della Liguria, contro soltanto lire 19,88 annue per la Sicilia. 6 Lo stesso aspetto di «favore» si sviluppò nel centro 6

- Nino Muccioli – Breve Storia di Palermo-Newton Compton editori srl. 1995

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della Sicilia, nelle tre provincie zolfifere di Agrigento, Caltanissetta e Catania.7 Il mercato dello zolfo dell’entroterra siciliano, specie quello pregiato (fiore di zolfo) estratto dalle miniere di Floristella e Miniera di Grottacalda, era incettato da Società zolfifere di proprietà di potenti società che ammassavano e controllavano il commercio dello zolfo e lucravano ingenti guadagni sui piccoli produttori.8 La costruzione della ferrovia interna dell’Isola non venne realizzata per consentire la possibilità di collegamenti veloci della Sicilia, ma soltanto per favorire le grandi compagnie che ne sfruttavano le risorse. Così venne costruita la ferrovia interna che attraversava i territori della provincia di Catania, Castrogiovanni, Caltanissetta e Agrigento il cui unico e vero obiettivo era quello di trasportare lo zolfo al porto di Licata. E proprio per scopi clientelari, i percorsi ferroviari venivano allungati o deviati per raggiungere il fondo o la tenuta di Baroni e latifondisti. In questo amaro periodo del Mezzogiorno d’Italia, in particolare delle plaghe di Sicilia, nei primi anni del XX secolo, ha inizio la nostra storia, quando per quella povera gente l’unica soluzione per la sopravvivenza propria e della famiglia era rappresentata dal sogno americano.9 7

- Molti comuni zolfiferi di Catania e di Caltanissetta con la creazione della nuova provincia vennero a far parte della provincia di Enna. 8 - La massima parte dei guadagni andava ai proprietari e agli investitori della «Anglo-Sicilian Sulphur Co.» 9 Il Meridione era diventato “un’immane colonia di sfruttamento umano, dove nuovi negrieri razziavano ogni anno, non più africani ma un crescente contingente di disperati bianchi il cui numero salì progressivamente da 107 mila - media annua del periodo 1876-1880 a 310 mila - media annua del periodo 1896-1900; 554 mila - media annua del periodo 1901-1905; 651I mila - media annua del periodo I906-191O; 711 mila - media dell'anno 19I2; 872 mila - nell'anno I913, anno di vigilia della prima guerra mondiale, che troncò questa tratta; sino alla fine delle ostilità per fornire carne da cannone in abbondanza alle offensive, negazione della strategia […]. “Nessun documento meglio di queste cifre potrebbe illustrare i

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PARTE I LA PRIMA GUERRA MONDIALE 1. L’America! Un sogno o forse una chimera di tanta povera gente che viveva fra stenti e tanto bisogno di aiuto! Era il periodo quando bravi contadini, operai, zolfatai, artigiani e anche persone in cerca di avventura risparmiavano anche sul cibo per racimolare il denaro necessario per il viaggio in America. Vi era chi sognava di andare a guadagnare tanto da tornare «ricco sfondato» al suo paese, chi, invece, sognava di vivere in America con la propria famiglia e chi non aveva neppure l’idea dove si trovasse l’America. Per viaggio in America, allora, si intendeva soprattutto il viaggio negli Stati Uniti, anche se molti sceglievano altre destinazioni specie verso il Sud America. Le navi portavano merci dagli Stati Uniti in Europa e ritornavano cariche di emigranti. I costi delle navi per l'America erano inferiori a quelli dei treni per il Nord Europa; per questo milioni di persone scelsero di attraversare l'oceano. Bastimenti carichi di «straccioni», di disperati, di diseredati e di sognatori partivano dai porti italiani e attraversavano l’Atlantico. Il primo abbraccio con il «Nuovo Mondo» era offerto dall'immensa Statua della Libertà eretta nell’isoletta di Liberty Island. E migliaia e migliaia furono coloro che i bastimenti scaricarono come merce nel porto di New York. Erano stanchi e affamati, senza meta prefissata in cerca di un lavoro qualsiasi per guadagnare dei «cents» per sopravvivere in un mondo forestiero che parlava un’altra lingua; ma i loro occhi e i loro cuori bruciavano di speranza, di quella speranza che avevano incontrato soltanto nei loro sogni.

risultati economici e sociali della politica della borghesia italiana «liberale» di quegli anni”. (Fara Misuraca-Alfonso Grasso-Settembre 2009)

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L'arrivo in America era caratterizzato dal trauma dei controlli medici e amministrativi durissimi, specialmente ad Ellis Island, l'Isola delle Lacrime. Venivano reclutati da persone dure e spietate che tenevano conto soltanto della prestanza fisica dei prescelti, come schiavi in vendita alla foce del fiume Senegal sulla costa occidentale francese dell'Africa. Forse furono più fortunati coloro che scelsero come meta l’America latina, soprattutto l’Argentina. L’economia di quella terra si fondava sull’agricoltura e sulla zootecnia e fu più facile alle popolazioni agricole siciliane inserirsi nel sistema produttivo argentino. Anche dalla Sicilia molti andarono in America; anche da Castrogiovanni tanti padri lasciarono le mogli e i figli in lacrime promettendo un ritorno o un richiamo in America che forse non sarebbero mai avvenuti. In quel Paese in cima a una montagna, al centro della Sicilia, vi erano zolfatai che sognavano un paradiso in America per potere uscire dai neri meandri del sottosuolo, illuminato da lampade ad acetilene, vi erano manovali mal pagati per le occasionali prestazioni di lavoro, artigiani che languivano nelle loro botteghe senza valide occasioni di lavoro; era un mondo di povera gente. Ma vi erano anche i baroni, i marchesi, i cavalieri e gli impiegati al Comune che costituivano la «classe nobile» del Paese. Sì, è vero, i nobili, i veri nobili, erano i Conti, i Marchesi e i Baroni, che possedevano feudi e avevano tanti dipendenti, a partire dal fattore, dal soprastante sino al misero bracciante; tutti gli altri erano soltanto «finti nobili» o nobili di seconda categoria. Nelle tiepide serate primaverili o estive o d’inverno nei «vinaluri», nelle osterie o nei barbieri si raccontavano storie «mitiche» di ricchezze accumulate in America, di strade larghe, di palazzi altissimi, di donne e divertimenti. Era un miraggio che accarezzava la mente di chi non possedeva nient’altro che sogni, di chi si rifiutava di pensare che anche in America bisognava sacrificarsi per vivere e tutto sembrava facile.

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Nelle modeste casette, prive di energia elettrica, di idonea rete fognaria e di acqua potabile, le mogli continuavano a svolgere, intanto, il loro secolare lavoro domestico, cucinavano pasta con cavoli e con altre erbe, lavavano i panni in tinozze di legno e vasche di zinco, cucivano e rammentavano calze e vestiti, e, in inverno, accendevano «u scaffaturi» 10 oppure la «conca»11. Esse non davano retta ai sogni e ai progetti dei mariti perché avevano la consapevolezza che non sarebbero riusciti mai a risparmiare il denaro necessario per quel viaggio così lungo e lontano. Vi era una grande divisione fra i due sessi: ancora vigeva un regime di tipo patriarcale; il padre godeva di tutti i diritti (per i benestanti vi era anche il diritto dell’elettorato attivo e passivo, che era negato alle donne e ai poveretti), il figlio maschio maggiore godeva di molti diritti, compreso quello di esercitare la patria potestà in assenza del padre; in alcune famiglie vigeva ancora la tradizione di dare del «vossia» e di chiamare «Nunnù» il fratello maggiore; la moglie aveva soltanto compiti secondari e sussidiari che si condensavano della conduzione e nella gestione della casa. Nelle rigide giornate invernali, quando la neve si accumulava a ridosso delle case, raggiungendo a volte oltre i due metri di altezza, gli uomini provvedevano a ricavare delle trincee di passaggio per andare a prendere l’acqua dalla fontanella che di norma era collocata in posizione accessibile a tutti gli abitanti del quartiere. A sera, raccolte intorno alla conca, le famigliole ascoltavano i racconti dei grandi e anche i fatti quotidiani. In periodo natalizio, a sera, si impegnava il tempo con il gioco alle carte, o con il gioco alla tombola; i ragazzini si dilettavano a giocare «’e nuciddri». Era un gioco semplice: le nocciole, costituite dalla posta variabile dei partecipanti al gioco, venivano allineate a terra; ogni giocatore in

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- Scaldino - Braciere che veniva corredato di un poggiapiedi rotondo costruito in legno e posto normalmente al centro di una stanza 11

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genere possedeva una «gaddretta»12 con la quale effettuare i tiri contro la fila delle nocciole. Ma questa povera gente aveva anche il problema di come asciugare la biancheria nelle rigide giornate invernali. Così, ogni famiglia provvedeva a legare dei fili di corda all’interno dell’abitazione e a stendere il bucato lavato a mano nella «vasca».13 Per i neonati si utilizzavano «i pannizzi»14 che dopo il lavaggio venivano stesi su apposito «vrigutulu»15, sotto cui veniva posto ‘u scaffaturi di idonea dimensione. La gran parte delle famiglie, utilizzando grotte o interrati, riusciva a fabbricarsi un forno a legna per la cottura del pane. Non tutti potevano permettersi una tale «eccellente comodità» per cui era molto elevato il «rapporto di buon vicinato» tra chi possedeva e chi non possedeva il forno. E allora si organizzavano le giornate per impastare e cuocere il pane; la prima «infornata» mattutina era destinata all’ospite che riscaldava il forno, e consentiva al proprietario di trovare il forno già caldo risparmiando sul combustibile. Vi era un gran consumo di «pane di casa», perché quello del panificio era molto caro, anche se di aspetto più invitante. Dopo il tramonto gli uomini tornavano a casa stanchi per il lavoro e amareggiati per il modesto guadagno della giornata, quando si riusciva a guadagnare. Un piatto di minestra di cicoria, «cardeddra», borragine, o altre erbe, e un tozzo di pane con cacio 12

- Gaddretta era una nocciola più grande della altre sistemate in fila e serviva per «sbocciare» la fila. Alcuni ragazzi riempivano la «gaddretta» di piombo e riuscivano a colpire con maggiore precisione il mucchietto allineato delle nocciole. 13 - Tinozza di legno costruita con apposito ripiano ondulato su cui si insaponava e si lavava la biancheria. Non si conosceva o comunque non era utilizzato il sapone in polvere e si utilizzavano delle forme di sapone rettangolare e liscivia (soluzione liquida alcalina contenente di solito idrossido di sodio). 14 - Panni di stoffa bianca, tagliati in forma rettangolare di idonea grandezza che venivano lavati e rilevati sino a completa distruzione 15 - Trabiccolo – Intelaiatura di legno appositamente costruita per asciugare la biancheria o riscaldare il letto.

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duro servivano per soddisfare il bisogno alimentare. Si era soliti comprare delle acciughe che venivano condite con olio, aceto e origano e servivano da «eccellente» companatico. I consumi alimentari di carne erano attentamente selezionati tra cotica di maiale o carne bovina da brodo con osso di stinco o di costato non eccessivamente scorticato. Ma la carne così selezionata serviva per arricchire la tavola delle domeniche o delle feste, quando possibile. Il consumo di bistecche alla griglia o di un «falsomagro» era una raffinatezza culinaria che potevano permettersi poche volte l’anno, per la Madonna, o per Pasqua o per Natale. I cappotti «voltati e rivoltati» duravano anni sino alla «disintegrazione» completa e così tutto il restante abbigliamento. Le ore del giorno erano scandite dalle torri campanarie o dall’orologio del Municipio, mentre il suono delle campane della «prima messa» segnava quasi per tutti l’inizio della giornata. In questo universo di miseria, di bisogno e di amarezze vivevano tristemente coloro che accarezzavano il sogno proibito dell’emigrazione in America.

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2. Nel quartiere «Monte» la miseria, il bisogno e i sogni erano patrimonio comune. Una piccola area di espansione del Comune si era arricchita di recente di nuove abitazioni più moderne, con una strada più larga, collegata alla storica Via Roma, che aveva assunto una denominazione diversa. Le nuove costruzioni normalmente non superavano il secondo piano e non disponevano di impianti di riscaldamento. L’impianto elettrico, laddove previsto, veniva realizzato «sopratraccia» all’esterno dell’intonaco delle pareti. In questa strada e nelle strade parallele, più strette, erano sorte alcune botteghe: la sartoria, il salone da barba, il fabbro e il falegname e vi era pure una «salsamenteria»16 e un esercizio di frutta e verdura. Era un quartiere autosufficiente per una comunità di operai e lavoratori. Non esisteva un piano regolatore né un programma di fabbricazione e non venivano previste idonee piazze perché non ritenute necessarie. Le strade ancora erano realizzate a fondo naturale, o con costipazione di rosticcio di miniera; quelle più recenti erano realizzate in macadam o con ciottoli di fiume coronati da bolognini di pietra lavica, ma tutte erano prive di rete fognaria. E in questo microcosmo circolavano, ingigantiti, i racconti e le fantasie di un «viaggio in America». In quei tempi il salone da barba costituiva il punto di incontro di clienti, amici, conoscenti, vicini di casa e curiosi; si parlava a proposito e a sproposito di politica, di critiche allo Stato, di viaggi e di emigrazione. Il piccolo «Salone da Barba» di Vincenzo Carbone aveva due postazioni per clienti, con un'apposita poltrona girevole, sedie di attesa e tavolo per giocare a carte. Nella mente di Vincenzo andava sempre più crescendo il desiderio e il bisogno di piantare tutto e andare via per sempre dalla sua terra. Secondo Vincenzo, in quella modesta bottega di barbiere si riusciva a malapena a fare qualche taglio di capelli la settimana 16

- In quel tempo gli esercizi di generi alimentari erano denominati in tal modo

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poiché le persone avevano la «pessima» abitudine di radersi a casa propria. Ogni sera i suoi diseredati amici si raccoglievano nel salone da barba e, mentre giocavano «a scopa» o «a briscola» o «tresette», avevano da raccontare sempre qualche cosa di nuovo sull’America. Una sera «Pitrinu u spazzinu» comunicò agli amici che ormai era pronto per andare in America. Giorno dopo giorno aveva risparmiato quanto bastava per fare il grande viaggio. Pitrinu non aveva né moglie né figli ed era libero di partire quando voleva e così egli non doveva più tutti i giorni andare a raccogliere l’immondizia e ogni sera ad accendere le lampade a gas nelle strade del Paese. E raccontava che nella città di «Nova Jorca» ogni sera c’era tanta luce perché avevano inventato la «luce». Poi c’era anche don Carlu u firraru che pensava di portare in America la moglie e i suoi figli perché, diceva, i due ragazzi potevano studiare invece di fare i fabbri come lui. Don Carlu era un bell’uomo, agile, vivace, robusto, aveva un colorito scuro, capelli folti e neri, occhi vivissimi, aveva mani grandi e robuste. Era un uomo intelligente e profondamente buono, rispettava coloro che gli stavano vicini e, quando poteva, veniva incontro alle esigenze degli altri. Si diceva che i suoi genitori provenissero da un paese delle montagne messinesi. “Ma che vai dicendo, interveniva, don’Gnaziu u fallignami, le femmine non le fanno lavorare e i bambini non li fanno entrare in America perché non possono lavorare e i tuoi figli sono molto piccoli”. E così, sera dopo sera, si andava ipotizzando un viaggio in America per cambiare la propria vita. “Certo, diceva don Carlu, io penso che vendo quello che c’è nella bottega e, intanto, io parto. Appena arrivo in America, se trovo un lavoro, faccio venire mia moglie e i miei figli, se non lo trovo me ne ritorno al paese. Tanto io il mestiere ce l’ho nelle mani!” Don Carlu era un uomo assennato e previdente e il suo parere in genere dominava i vari contrasti fra i presenti. Aveva due bambini che erano accuditi amorevolmente da lui e da sua moglie. Il più grande,

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Michele, aveva frequentato la prima elementare e Don Carlu era orgoglioso che il ragazzo sapeva leggere e scrivere. “Un giorno, diceva, mio figlio dovrà diventare «dottore»17. Il piccolo Giovanni lo farò diventare ingegnere!” Vincenzo Carbone era un uomo molto emotivo; non riusciva a controllare i suoi stimoli e andava in preda alla furia anche per piccole sciocchezze. Nonostante la moglie lo invitasse ad essere più calmo e a riflettere prima di imbarcarsi in avventure impossibili, egli non l’ascoltava minimamente. Una sera, stanco di fare progetti a vuoto senza speranza, Vincenzo Carbone comunicò a don Carlu u firraru e agli amici del salone che lui vendeva il locale e gli attrezzi, in modo da potere partire per l’America. Così, propose a don Carlu di partire insieme a lui. Ma don Carlu non era del tutto convinto: “va bene, disse, tu fai quello che vuoi, io ancora non posso e devo pensarci prima di fare un passo così grande.” La smania di Vincenzo Carbone era tanta che nel giro di qualche settimana riuscì a vendere la sala di barbiere e si recò da don Carlu per proporgli di partire insieme a lui. Ma don Carlu aveva riflettuto a lungo e si era convinto che sul momento non era possibile perché aveva due bambini piccoli e non poteva lasciare la moglie da sola che fra l’altro non stava tanto bene in salute. Vincenzo Carbone, si sentì perduto; tardi si rese conto che la realtà era molto diversa dei sogni. Preso da un eccesso di delusione e di rimorso per avere perduto quel poco che possedeva, ritornò a casa in preda alla disperazione: vero è che guadagnava poco, ma nel periodo della Madonna, di Pasqua e di Natale riusciva a guadagnare bene. E ora? La moglie lo rimprovera in maniera atroce, e gli fa presente che se fosse partito per l’America lei si sarebbe data al primo venuto. “Io l’ammazzo a quello là che mi ha fatto vendere il salone.” Urlò a sua moglie. Ma Marieddra, sua moglie, non lo prese sul serio, così come aveva fatto, peraltro, durante i dieci anni di matrimonio.

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Era il termine usato abitualmente per indicare il medico.

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Per giustificare psicologicamente la sua improntitudine attribuì a Don Carlu la causa e la colpa della vendita del salone da barba. Convinto che con una minaccia avrebbe convinto don Carlu a partire con lui, decide di andare a minacciarlo seriamente. Vincenzo teneva a casa un revolver che egli lucidava costantemente perché l’aveva acquistato con i risparmi accumulati a furia di tagliare barbe e capelli agli ufficiali dell’esercito, mentre prestava il servizio di leva militare. Si mise in tasca il revolver e si recò da don Carlu per minacciarlo se non partiva insieme a lui. Ma trovò don Carlu deciso a rimanere al suo paese perché sua moglie non stava proprio bene. Al colmo della disperazione Vincenzo Carbone estrasse l’arma e minacciò don Carlu. Nella colluttazione che ne seguì, un colpo dell’arma, partito accidentalmente, prese in pieno petto don Carlu u firraru.

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3. . ”Ma io che ci posso fare, continuava a replicare con molta «delicatezza» Angelina, se tuo marito si è fatto ammazzare? I figli sono i tuoi e tu devi pensarci”. “Hai ragione, rispondeva sua sorella Rosa, ma tu lo vedi che io stiro le camicie ai «Signori» notte e giorno e con quello che guadagno non riesco neppure a comprarmi le medicine”. Solo pochi mesi dopo la povera Rosa moriva lasciando i due bambini senza madre e senza padre. Ma che dramma! Angelina non li voleva; per lei potevano andare anche in orfanatrofio per quello che le poteva importare. L’affettuosa sorella Angelina era una donna abbastanza in carne, addirittura grassa in alcune parti del corpo. Era una donna barbuta per cui era costretta periodicamente a ricorrere al rasoio. Era riuscita a trovare marito che lavorava nella miniera Santa Caterina, ma ancora non aveva figli. Era una donna egoista e calcolatrice e; infatti, aveva calcolato che con la morte del cognato e della sorella, se riusciva a mandare i due bambini da qualche parte, lei poteva utilizzarne le due stanze. Il fratello e la sorella di Carlu Novara, neppure a parlarne perché loro avevano i loro figli e poi avevano pochi soldi. L’unica soluzione desiderata da tutti era il ricovero in orfanatrofio. Ma la nonna Maria si era opposta drasticamente, facendo presente che se ne sarebbe andata lei nel «ricovero di mendicità», invece di chiudere i ragazzi in orfanatrofio. Nonna Maria era una donna di media statura, dagli occhi vivi, il viso piccolino e sereno, agile nei movimenti e con una voce dolce e convincente. Normalmente era una donna remissiva, ma diveniva rigida contro le ingiustizie e sopraffazioni nei confronti dei più deboli. Quei due bambini che nessuno voleva andarono a finire a casa del nonno paterno. Don Michele Novara era un uomo alto, con un paio di baffi alla «Umberto I», capelli folti e duri come setole, il suo sguardo era duro e mai il suo viso conobbe un sorriso.

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L’affidamento dei due bambini per don Michele fu una tragedia più grande della morte del figlio e della nuora perché la loro presenza significava «altre due bocche da sfamare». Secondo don Michele, infatti, aveva diritto di mangiare soltanto colui che lavorava, qualsiasi fosse la sua età. “Maria, diceva a sua moglie, vedi se trovi qualche persona, qualche signore, che si prenda almeno uno dei bambini, perché altrimenti sarò costretto a portarli all’orfanatrofio”. E quella poveretta si disperava perché voleva tanto bene ai due bambini, specie al piccolo Giovanni di appena due anni, debole e malnutrito. E trovava ogni giorno una scusa per dire al marito che stava provvedendo o che aspettava una risposta da un tal barone o signore; ma non era vero e don Michele lo sapeva e spesso puniva la moglie con violente cinghiate. Per evitare abusi «alimentari» un giorno don Michele comprò una grande cassapanca che fece foderare da sua moglie con stoffa nuova bianca, vi depositò tutto quanto poteva formare oggetto di alimentazione e chiuse a chiave il lucchetto della cassapanca. Da quel giorno nessuno poteva toccare cibo fuori dei pasti che venivano attentamente vigilati e dosati da don Michele. Quando si sedevano a tavola per mangiare don Michele affettava il pane in proporzione all’età, come pure il formaggio, e li distribuiva ai vari destinatari i quali potevano beneficiare soltanto di quella porzione e basta! Vi era un razionamento innaturale e irrazionale anche perché don Michele, per il fatto che era lui a lavorare e a fare la spesa, sceglieva per se quanto bastava a soddisfare non soltanto il bisogno di alimentazione, ma anche la sua gola, distribuendo al resto della famiglia quel poco che rimaneva. Il piccolo Giovanni aveva appena due anni e avrebbe avuto bisogno di un’alimentazione rapportata alla sua età, ma era costretto a mangiare quello che «passava» suo nonno. Più fortunato di lui era il fratello maggiore che aveva l’età di sette anni e portava il nome di Michele, come il nonno, perché non solo aveva un fisico più idoneo all’alimentazione di «regime», ma

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9 788897 039266

Enna

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una volta in

ISBN 978-88-97039-26-6

C’era

€ 24,00

Luigi Prestipino

Luigi Prestipino nasce in Enna il 29 ottobre 1930. Consegue la maturità classica nel Liceo Classico Napoleone Colajanni di Enna. Nel 1952 ottiene un impiego precario presso l’Ente Fiera dell’Agricoltura di Enna e, successivamente, viene assunto presso la Camera di Commercio di Enna. Prosegue la sua carriera presso lo stesso Ente sino a quando consegue un coefficiente giuridico equiparato a Vice Segretario Generale. Vincitore di concorso pubblico, nel 1977 va a dirigere il Consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale della Provincia di Enna. Per la competenza acquisita, di volta in volta è chiamato a dirigere i Consorzi Industriali di Caltanissetta, Agrigento, Caltagirone, Trapani, Ragusa. Infine conclude la sua attività lavorativa con la funzine di Direttore Generale del Consorzio per l’Area di Sviluppo Industriale di Palermo. Nel 1961 consegue il diploma della scuola di Sviluppo economico presso l’Unione delle Camere di Commercio in Roma mentre continua la sua preparazione in economia in molti corsi di specializzazione e aggiornamento a Napoli presso il Centro studi della Cassa per il Mezzogiorno. Nei vari anni ottiene numerosi incarichi tra cui di particolare rilevanza la elezione a Consigliere Nazionale di Amministrazione dell’ANCOL-IPAS nel 1983 e la nomina quale Amministratore Straordinario dell’Unità Sanitaria Locale n. 19 della Sicilia nel 1993. Per tre legislature è eletto Consigliere Comunale di Enna ove svolge anche funzioni di Assessore. Esperto in pianificazione territoriale e commerciale redige numerosi studi in varie parti della Sicilia. Monografie di carattere economico pubblicate: Aspetti sociologici di una zona depressa (1961); Esame del settore zootecnico nel piano di sviluppo dell’economia agricola della Provincia di Enna; (1961); Aspetti economicosociali sulla struttura della popolazione in provincia di Enna (1961); Appunti sulla programmazione economica (1965); Il consumo delle carni in Sicilia (1967); Fatti e problemi della emigrazione in provincia di Enna (1968); L’esodo della popolazione agricola (1968); Il grano duro nella libera economia del Mercato Europeo (1969); Agricoltura Meridionale e C.E.E (1970); Obiettivi di una politica degli insediamenti industriali in Sicilia (1970). Nel campo letterario nel 2009 pubblica il racconto “Successe a Calazolfina”, nel 2010 pubblica una storia a sfondo autobiografico “Un carusu da Judeca”.

C’era una volta Luigi in Enna Prestipino


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