Marco Novati In
P A T A G O N I A con quel bicchiere in più
“… e senza dir parola ci trovammo al banco con due boccali di birra. Quella notte ci voleva un bicchiere in più…”
Marco Novati
In
PATAGONIA …con quel bicchiere in più
Un ringraziamento all’amica Rosy Pozzi che ha contribuito a farmi credere in questo racconto e mi ha incoraggiato nei momenti di esitazione, fino ad arrivare alla stesura del libro. Grazie Rosy
Si ringrazia lo Studio “Fotograffia” di Carate Brianza (MB)
In Patagonia … con quel bicchiere in più Marco Novati Copyright © 2015 Proprietà letteraria riservata ISBN 978-‐88-‐98416-‐50-‐9 tgbook editore via 1° maggio, 6 36066 Sandrigo (Vicenza) www.tecnograficarossi.it www.tgbook.it L'opera, comprese tutte le sue parti, è tutelata dalla legge sui diritti d'autore. Sono vietate e sanzionate (se non espressamente autorizzate) la riproduzione in ogni modo e forma (comprese le fotocopie, la scansione, la memorizzazione elettronica e la comunicazione).
INDICE
CAP. 1
BUENOS AIRES
Pag.
11
CAP. 2
PENISOLA VALDES
Pag.
19
CAP. 3
PERITO MORENO
Pag.
35
CAP. 4
FELIPE E LA PECORA
Pag.
43
CAP. 5
CARLITO
Pag.
49
CAP. 6
EL CHALTEN
Pag.
57
CAP. 7
CERRO TORRE
Pag.
63
CAP. 8
FITZ ROY
Pag.
75
CAP. 9
RITORNO A EL CALAFATE
Pag.
91
CAP. 10
ASPETTANDO FELIPE
Pag.
97
CAP. 11
IL RITORNO DI FELIPE
Pag. 105
CAP. 12
L’ULTIMA CENA
Pag. 117
CAP. 13
HUSHUAIA
Pag. 125
CAP. 14
NOTTE A BUENOS AIRES
Pag. 137
7
“Vorrei Tu fossi qui.”
Capitolo I
BUENOS AIRES - Gennaio di qualche anno fa... Seduti al tavolo di un bar nella piazza di San Telmo con due boccali di birra, stavamo assistendo a un’esibizione improvvisata di tango. Da subito la città ci apparve come ce l’eravamo immaginata, affascinante, ammaliante e sensuale. Non avevamo mai assistito a uno spettacolo di tango e lì, nel quartiere degli artisti era una dimensione ancor più emozionante. Ai tavoli facce di viaggiatori, di musicisti con piccoli strumenti al fianco, di studenti, una famiglia francese e un vecchietto che attirò subito la nostra attenzione. Indossava tre camice, una sopra l’altra, ai piedi portava ciabatte da camera, aveva la barba incolta e, seppur vestito in modo strano, aveva un atteggiamento dignitoso, un’aria austera. Ci informarono che era uno scrittore molto conosciuto che era partito in quarta per le vie di un mondo tutto suo. Guardava nel vuoto e le sue pantofole si muovevano al ritmo della milonga; stava bevendo un calice di vino che, quando stava per finire, veniva riempito di nuovo dalla cameriera: ci doveva essere stato un accordo. La musica proveniva da un piccolo impianto che ogni tanto gracchiava, ma che non infastidiva la coppia di ballerini. I due ballavano in modo seducente, sinuoso e armonioso, avevano una sintonia, una comunicazione dei corpi, una fusione e una mescolanza di energie che sembravano essere un corpo solo. La loro forma espressiva a volte era drammatica, sensuale, erotica, mai volgare. Ballavano talmente vicino a noi che sentivamo i loro respiri, le loro palpitazioni, i loro sfregamenti e a volte non capivamo se 13
improvvisassero oppure seguissero un copione stabilito. Notai le calze a rete della ballerina che su una gamba erano state riparate e sull’altra erano sdrucite. Vivevano con le loro esibizioni di piazza e vicino a un altoparlante c’era un cappello dove sporadicamente gli avventori del bar e i passanti mettevano qualche spicciolo. Nel frattempo il vino nel bicchiere dello scrittore finì e di nuovo subito la cameriera lo riempì; ne approfittai per ordinare altri due boccali di birra, alzai il bicchiere in direzione del vecchio il quale contraccambiò il saluto e mi sorrise. Quella persona mi affascinava e il suo sorriso mi riempì di gioia. Uno scrittore aveva bevuto con me, anche se in due tavoli differenti. Intanto vidi un ragazzetto in bicicletta aggirarsi in modo furtivo nei pressi del cappello dei ballerini; qualcuno si accorse e spostò il cappello in un posto più visibile, disse qualche parola al giovane che subito se ne andò. Erano gli anni della grande crisi e in quel preciso momento, sia nelle calze rotte della ballerina, come nelle pantofole dello scrittore e anche nel tentativo di furto del ragazzo con la bicicletta, la crisi argentina si manifestò in tutta la sua durezza e drammaticità. Non so se ero stato influenzato dai giornali letti prima di partire, ma vedevo nella gente una tristezza, una decadenza, uno sconforto generale e un sopravvivere al limite della disperazione. Furono i risultati di una lunga serie di fallimenti accumulati negli ultimi decenni, le brutali dittature militari, le politiche corrotte, il continuo saccheggio dello stato a portare l’Argentina in questa depressione. La 14
crisi come sempre aveva colpito le classi medio basse, la disoccupazione aveva raggiunto cifre da capogiro, gli stipendi erano da fame e il pesos era stato svalutato. Essendo estate chi poteva aveva raggiunto le spiagge del paese e i più ricchi erano a fare le vacanze a Punta dell’est, in Uruguay. In città erano rimasti i poveri, i senza casa, i senza lavoro. Molti si arrabattavano a sopravvivere come potevano, a centinaia riuscivano a mangiare raccogliendo il cartone per le vie della città, i cartoneros appunto. In questi anni i tumulti e le manifestazioni erano quotidiani e spesso sfociavano in scontri con la polizia. Il giorno dopo con un taxi lasciammo San Telmo per visitare la città. Io volevo conoscere le madri di Plaza de Mayo che si riunivano da anni nella piazza della Casa Rosada manifestando ed esponendo in silenzio le foto dei loro figli, dei loro cari dispersi durante la dittatura militare. In quegli anni scomparvero circa 30.000 persone e ne furono uccise a migliaia. Omicidi, pestaggi, torture erano applicati costantemente nei commissariati, nelle carceri, nei luoghi di detenzioni illegali. Fu il periodo più sporco dell’Argentina, da non più dimenticare. Di fronte alla Casa Rosada ci informarono che da anni le madri dei desaparecidos si riuniscono e manifestano nella piazza il giovedì pomeriggio; era sabato e non potemmo né solidarizzare con loro né conoscere le loro storie. Pranzammo alla Boca, un quartiere con un’altissima percentuale di immigrati italiani, una delle zone più pittoresche e turistiche di Buenos Aires. Nel ristorante nei pressi del Caminito, che oltre a essere un percorso pedonale dà il 15
nome a numerosi locali e a una delle canzoni più famose di Carlos Gardel, ci accolse un simpatico italiano di origini abruzzesi. Ci disse che quella era la Boca frequentata dai turisti, colorata e decorata, con continui spettacoli di tango, ma che la Boca che non si vedeva era un po’ più lontano ed era un quartiere difficile dove il lavoro, i servizi sociali e le scuole erano quasi assenti. Nel pomeriggio attraversammo la città, dalla Piazza del Congresso al quartiere Regoleta, dal teatro Colon all’Obelisco posto al centro di piazza Repubblica, luogo dove fu issata per la prima volta la bandiera Argentina. Incrociammo una manifestazione dei piqueteros, così apostrofati perché durante le loro proteste suonavano, o meglio picchiavano sui tamburi, sui bidoni, sulle pentole e su tutto quello che faceva rumore, protestavano per ottenere aiuti per le persone in difficoltà, per un sussidio di disoccupazione e stavano effettuando un blocco stradale. Riuscimmo a superare la manifestazione e ci dirigemmo verso San Telmo. In auto facemmo qualche domanda al taxista sulle madri di Plaza di Mayo, sulla dittatura militare e sulla politica argentina, ma senza ottenere nessuna risposta soddisfacente. Era un uomo silenzioso o forse voleva dimenticare ed esorcizzare quel drammatico passato. Ricordo che facemmo il tragitto silenziosamente e guardando dal finestrino la città e i passanti, riflettevo: “Molti dicono parlando del popolo italiano e del popolo greco: stessa razza, stessa faccia, dimenticandosi del terzo fratello d’Argentina. Noi abbiamo avuto la dittatura fascista, in Grecia e in Argentina le dittatu16
re militari, entrambi i paesi hanno avuto grandi crisi economiche, da anni abbiamo politici corrotti e grandi rassomiglianze fisiche.” Poi dissi rivolgendomi a Pino: “Argentini, greci, italiani stessa razza, stessa faccia, o no?” Subito non afferrò, poi quando spiegai capì e disse: “E sì, abbiamo un nuovo fratello: il fratello d’Argentina, dopotutto circa il 50 per cento della popolazione è di discendenza italiana.” Il giorno seguente girovagammo per la città, dapprima passammo per la stazione degli autobus per acquistare il biglietto per Puerto Madryn in Patagonia, poi andammo velocemente a vedere il fiore più grande del mondo: una scultura alta 23 metri con i petali che si aprono al mattino raggiungendo un diametro di 32 metri per richiudersi al tramonto. Pino volle fare un salto a Puerto Madero un quartiere ultramoderno dove sono concentrati i grattaceli della città e le costruzioni più innovative. Cenammo in un ottimo ristorante, durante il ritorno attraversando strade semideserte giungemmo a San Telmo; era piena estate e Buenos Aires era avvolta da una nube d’aria umida e inquinata, un clima soffocante e irrespirabile. Non vedevamo l’ora di partire. In hotel diedi un’occhiata ai biglietti sui quali c’era scritto: <Ruta Patagonia>, l’adrenalina salì a mille, feci notare la scritta a Pino che esclamò: “E’ fatta Marco, Patagonia arriviamo!”
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Capitolo II
Ci vollero circa venti ore di viaggio per raggiungere Puerto Madryn, in Patagonia. Prima di raggiungere la cittadina attraversammo infiniti campi coltivati, sconfinate pampas argentine, vastissime estancias (fattoria) con migliaia e migliaia di bovini allo stato brado, cavalli, staccionate e recinti interminabili, incontrammo gauchos al galoppo e poi immense steppe desertiche non abituate alla presenza umana. Sulle spiagge di questa cittadina sbarcarono nel 1865 diverse decine d’immigranti gallesi giunti in Patagonia a bordo della nave “The Mimosa”, chiamarono questo porto naturale Puerto Madryn in onore di un certo Sir Love Jones Parry, la cui fazenda in Galles era chiamata appunto “Madryn”. Dopo aver avuto in concessione dal governo argentino delle terre in una valle libera e solitaria a circa 90 chilometri da qui, le raggiunsero e fondarono un piccolo villaggio ancor oggi abitato prevalentemente da gallesi. Puerto Madryn con cinque chilometri di spiagge, oltre a essere il punto di partenza per la visita alla penisola Valdes, a Puerto Pyramides e a Punta Tombo stava diventando anche un centro di vacanze per gli argentini. Trovammo un paese in movimento, alberghi, negozi, agenzie turistiche, abitazioni erano in costruzione o si stavano ultimando. Per noi non aveva nulla di particolare, così decidemmo di rimanere solo lo stretto necessario per vedere le bellezze naturali della zona. Camminando sul lungomare da poco ultimato, osservando le immense e deserte spiagge di sabbia grigia per la prima 21
volta sentii l’odore, il freddo e il vento della Patagonia. In quel preciso istante un’eccitazione improvvisa e una palpitazione inaspettata s’impadronirono di me. Guardando il mare e l’orizzonte dissi: “Ci siamo, le senti anche tu Pino? Hai anche tu queste sensazioni di euforia e di gioia che ho io?” Lui alzò il bavero della giacca e coprendosi dal vento mi guardò e rispose: “Sì anch’io sono gasato ed elettrizzato”, poi ridendo aggiunse: “Però Marco cerchiamoci un alloggio in fretta, che tra il vento, il freddo improvviso e la stanchezza per il viaggio non vedo l’ora di farmi una doccia calda e sdraiarmi su di un letto.” Poco dopo stavo suonando alla porta di un’affittacamere. Venne ad aprirci una simpatica signora con a fianco un piccolo e agitato marmocchio; eravamo troppo stanchi per i preamboli così prendemmo l’unica stanza libera senza esitazione. Per la cena la proprietaria ci propose un minestrone di verdura e a poco prezzo ci affittò la sua auto per l’indomani. La mattina seguente eravamo in partenza per Punta Tombo. Giunti sul posto rimanemmo sbalorditi. Migliaia e migliaia di pinguini di Magellano macchiavano la spiaggia di bianco e nero riempiendo l’aria con le loro grida. Affacciata sull’Oceano Atlantico, circondata da numerose estancie dedicate all’allevamento di pecore, Punta Tombo è l’area scelta dai pinguini per riprodursi. Questa riserva naturale riceve ogni anno, da settembre ad aprile, la più grande colonia di pinguini del sud America. Li osservavamo andare e venire dal mare cercando il cibo per i cuccioli, badare ai loro nidi, camminare col loro modo goffo e divertente; mezzo milione di pinguini nidificano ogni anno su 22
queste spiagge. Sembravano non essere per niente intimoriti dalla presenza umana. Parlando con una ragazza argentina diretta in Cile, venimmo a sapere che il villaggio di nome Gaiman, fondato dai gallesi, non era molto distante. Nel pomeriggio decidemmo così di raggiungerlo. Guidavo tranquillamente attraverso le aride steppe patagoniche e i cespugliosi deserti quando all’improvviso vidi il cartello stradale con direzione Gaiman. Si cominciarono a incontrare i primi segni di vita e più scendevamo nella vallata più intravedevamo campi coltivati, terreni fertili e irrigati con numerosi covoni di fieno appena raccolto. La vallata si presentò ai nostri occhi come se fosse stata benedetta da Dio, romantica e serena. Un’oasi di verde, testimonianza del duro e instancabile lavoro di questi coloni gallesi che proteggendola dal vento, da una parte con filari di alberi d’alto fusto e dall’altra riparata da naturali rilievi rocciosi, irrigandola attentamente per anni con le acque del rio Chubut riuscirono a realizzare un meraviglioso sogno: un piccolo Galles, nell’ immensa Patagonia. Raggiunto il piccolo paese e parcheggiata l’auto, passeggiando ci colpirono l’ordine e la pulizia delle strade, le case quasi tutte a un piano, avevano piccole finestre con tende ricamate, fiori sui davanzali, piccoli giardini e orticelli curati con attenzione e le case più vecchie, fatte con mattoni rossi, avevano tutte nomi simpatici. Si respirava un’aria quieta e distesa. L’atmosfera di pace che regnava dava l’impressione che gli screzi, le discordie, le liti, gli attriti e le 23
gelosie tra le persone qui non esistevano. Sembrava che gli abitanti avessero firmato un patto di non belligeranza eterno. Il thè è parte della tradizione di Gaiman così decidemmo di entrare in una delle diverse <Casas de té>. Scegliemmo il locale della signora Thatcher, così la soprannominai, aveva un bel giardino di rose profumate e alcuni alberi da frutta. All’entrata erano esposte vecchie fotografie che ritraevano i primi lavori nei campi e altre che ricordavano il Galles. Nella prima saletta che fungeva d’anticamera tra la cucina e la sala da thè, ci colpì in modo particolare la proprietaria. La signora Thatcher appunto. Una rassomiglianza incredibile, l’identica pettinatura e la stessa espressione seria, inflessibile e severa. Aveva un’ottantina d’anni, indossava come le cameriere, tutte di una certa età, una camicetta di pizzo bianchissima. Chi si occupava del servizio ai tavoli aveva inoltre un bianco grembiulino da lavoro pulito e profumato mentre lei vestiva un gilet ricamato a punto e croce. Seduta a un vecchio tavolino d’epoca si occupava della cassa. Sul muro dietro di lei due dipinti raffiguranti una giovane e bellissima ragazza d’altri tempi che sembrava indossasse i medesimi vestiti. Nel momento in cui dissi a Pino: “Caspita la Thatcher in persona!” Lui scoppiò a ridere, ma si trattenne appena la signora interloquì con noi. Con una vocina leggera e delicata, una finezza inaspettata ci chiese in quanti eravamo. Parlava con garbo e gentilezza assumendo una grazia e una raffinatezza estrema. Scambiammo qualche parola, le chiesi della fanciulla del quadro e se sapesse della sua somiglianza con l’ex Primo Ministro Inglese. Ci rispose che sì, 24
nel ritratto era lei da giovane, che da una settimana aveva quella pettinatura e solo poche persone avevano notato un’affinità con la signora Thatcher. Storicamente non è mai corso buon sangue tra gallesi e inglesi, così da perfetta nobildonna ridendo aggiunse solo che sarebbe ritornata dalla parrucchiera a cambiare acconciatura. Educatamente chiamò una cameriera per farci accomodare in sala. Ricordo che Pino la elogiò: “Marco come era bella e che gentilezza, davvero mi ha scombussolato, da un atteggiamento che incuteva soggezione a una così disarmante affabilità.” Una signora ci servì dell’ottimo thè con la tradizionale torta nera gallese e un’infinità di dolci e biscotti al burro; il tutto curato nei minimi dettagli, in un modo quasi maniacale. Vedendo tutti i tavoli occupati ricordo che Pino commentò: “Marco mi sa che la Thatcher si sta arricchendo, guarda quanta gente.” Arrivò il conto e, mentre ci avvicinavamo alla <Prima Ministra>, lo guardai e pensai: “Anche il conto è curato in maniera particolare, verso l’alto...” La signora Thatcher era impegnata così sorridendo pagammo la cuenta e dieci minuti dopo percorrevamo la strada che ci conduceva a Trelew. L’auto, di marca giapponese con la quale stavamo viaggiando, iniziò ad attirare la nostra attenzione a causa di continui cigolii sempre più forti; decisi di fermarmi e di controllare. Scendemmo dalla macchina e guardammo le ruote, Pino diede un paio di calci alle ruote anteriori da dove sembrava provenire il rumore, ma non capendo assolutamente niente, decidemmo di ripartire. Sarà stata fortuna, sarà che qualche sassolino si staccò dalla ruota, saranno stati i calci 25
miracolosi di Pino, il rumore finì. Appena fuori Trelew ci fermammo in un piccolo ristorante anche se non era ancora ora di cena. Solitamente nei nostri vagabondare mangiamo quando l’appetito si fa sentire e, a volte, dobbiamo pregare qualche oste affinché plachi la nostra fame, non era però il caso di quel ristoratore. Ci venne servita una buonissima bistecca cotta alla brace, patate e una salsa con aglio, prezzemolo e tanto peperoncino. Bevemmo il vino della casa, aveva il sapore dei nostri vini veneti. Senza nessuna nostra comanda ci portò anche un tagliere di formaggi e Pino suggerì in dialetto campano: “Marchi… ca ce vole nata butteglia e vine!” Asserii: “Certo Pino, si può mai mangiare del buon formaggio senza un bicchiere di vino, in Patagonia?” Arrivò il conto, Pino lo lesse e sottolineò soddisfatto: “Ottima cena con il prezzo ben calcolato, qui verso il basso, bravo oste.” Procedevamo sulla ruta tre, la strada nazionale che attraversa tutta l’Argentina, da Buenos Aires fino alla terra del fuoco, quando improvvisamente la radio iniziò a emettere musica. Non l’avevamo neppure sfiorata, misteri della Patagonia. Stavano trasmettendo musica di un certo Leon Grieco, a noi del tutto sconosciuto. Era entusiasmante guidare su quella strada, una lunga linea retta infinita e senza traffico, circondati da steppe incontaminate e praterie inviolate, con un vento incessante e implacabile. A volte sembrava che qualche auto ci sorpassasse, ma erano fortissime folate di vento. Guidando, sentendo quella musica con vicino il mio grande 26
amico, osservando il deserto e guardando il cielo che si stava pian piano oscurando, provavo una percezione di benessere ai limiti dell’estasi. Il senso di isolamento e di vuoto mi davano una sensazione di completezza. L’auto ruggiva veloce, più davo gas più la velocità aumentava. Era come se fossi in trance, immerso in quell’immensa solitudine sentivo un intenso piacere, un’ebbrezza pari a un’elevazione spirituale come se un incantesimo si fosse impadronito di me. La Patagonia era il mondo; io e Pino eravamo la Patagonia, io e Pino eravamo il mondo. Guardai Pino che stava muovendo le mani al ritmo della musica e che, alzando il volume disse: “E’ proprio bravo sto Leon, dobbiamo comprarci un cd.” Fu in quel preciso istante che incontrammo un gruppo di case e un uomo che camminava sul ciglio della strada. Rallentai per vedere se avesse bisogno di qualcosa e dal finestrino Pino col traduttore tra le mani: “Quieres que te lleve?” (Vuole un passaggio). Un secondo dopo era in macchina, andava a Puerto Madryn, ormai vicina, e da lì in autobus doveva proseguire per Bahia Blanca, più a nord. Aveva un aspetto colto e anche se tutto impolverato, era ben vestito, era uno entomologo. Ci disse che era stato a Trelew da sua madre e dal fratello per discutere dell’ eredità del padre morto da pochi mesi e, mentre il fratello lo stava accompagnando a Puerto Madryn, ebbero una violenta discussione che lo costrinse a scendere dall’ auto. Sorridendo pensai: “Caspita anche gli entomologi litigano per i quattrini…” Stavamo entrando in città quando prese dalla borsa dei contenitori in plastica trasparente con dei piccoli insetti, rivelandoci di averli cattu27
rati nella steppa vicino a Punta Tombo. Durante la sua illustrazione arrivammo alla stazione degli autobus e si accorse che era tardissimo; velocemente prese borsa, occhiali e con gli insetti in mano corse verso l’autobus. Lo osservammo dall’auto, riuscì appena in tempo a salire sulla corriera prima della partenza. Ci salutò dal finestrino mostrandoci di nuovo gli insetti e facendoci capire che avrebbe continuato la spiegazione in un altro fantomatico momento. Giunti alla nostra destinazione Pino scese dall’auto, suonò alla porta e in un attimo la signora ci aprì. Stava aspettando il nostro ritorno, la radio dell’auto era ancora ad alto volume e, quando la sentì, alzando e agitando le mani affermò: “Due mesi, due mesi che non andava, grazie ragazzi!” Il figlio era già a dormire. Appena seppe che avevamo già cenato ci offrì un bicchiere di liquore, una grappa credo. Brindò con noi, poi le chiesi informazioni per andare alla Penisola Valdes e, quando ci consigliò di andare con un piccolo autobus perché la macchina serviva a lei, accettammo il suo suggerimento. Pino le volle pagare il conto dell’auto. Alla mia domanda: “Quanto le dobbiamo per la macchina?” “Nulla”, rispose, e intanto versò ancora tre bicchieri di grappa. “No dai quanto è?” “Niente, niente, se voi non l’aveste usata sarebbe rimasta ferma oggi, e le auto sono fatte per viaggiare.” Versò un altro bicchierino, altro brindisi, ma un attimo dopo un’improvvisa stanchezza e un forte torpore mi si manifestarono prepotentemente. La ringraziai e guadagnai la camera per una meritata doccia. 28
Pino mi raggiunse dopo un’altra grappa. Il piccolo autobus arrancava sulle strade ghiaiose della Penisola Valdes, terra arsa e desertica, con rari cespugli spinosi regno di guanachi, di armadilli e nandù che pascolavano indisturbati sul ciglio della strada ed erano loro a osservarci stupiti dai nostri binocoli e dalle macchine fotografiche. Ogni tanto incrociavamo le lepri della Patagonia che fuggivano via schive al più piccolo rumore di motore. Riuscimmo a vedere un paio di volpi grigie che apparivano fugacemente tra i cespugli, alzando e mettendo in mostra la loro bellissima coda. Il vento soffiava incessantemente, come del resto tutto l’anno qui, alzando nuvole di polvere che ci penetrava negli occhi, nei capelli, nei vestiti. Giunti sull’Oceano rimanemmo abbagliati dal blu del cielo che si fondeva con il blu intenso del mare e a Punta Norte, dimora degli elefanti marini, rimanemmo esterrefatti nel vederli mentre trascinavano i loro enormi corpi apparentemente pacifici. Su un'altra spiaggia popolata dai leoni marini, ci sorpresero i maschi imponenti e aggressivi che, muovendosi velocemente, a volte calpestavano e uccidevano i loro cuccioli. Sembrava di essere davvero in un eden, sembrava che <l’arca> in Patagonia abbia fatto una delle fermate più importanti, liberando gli animali più singolari e sbalorditivi. Sapevamo che era quasi impossibile, dato il periodo, ma facemmo un umile tentativo a Puerto Pyramides per vedere le balene. Con un potente gommone solcammo le acque dell’Oceano 29
Atlantico alla ricerca della balena franca australe. Passarono un paio d’ore, vedemmo cormorani, aironi, leoni marini, delfini, ma della balena franca, neanche l’ombra. Dopo l’ultima sosta in mare aperto, mentre il capitano con un binocolo scrutava l’orizzonte, accesi serenamente una sigaretta. Di colpo la guida, una bella ragazza indio, mi aggredì con lo sguardo e quindi buttai la sigaretta in mare. Non l’avessi mai fatto, mi osservò ancor più energicamente mentre si girarono tutti. Non sapevo che fare, come giustificarmi e sentivo il mio viso arrossire, sudavo e sentivo di essere diventato rosso fuoco. In quel momento la mia coscienza ambientalista, cullata ed educata per anni, in un secondo andò a farsi fottere. Io che ero stato scrupoloso per anni nel riciclare, nel differenziare, nella cura dell’ambiente, in quel momento mi sembrava che non fosse servito a niente. In quel momento era come se fossi una nave petrolifera alla deriva il cui petrolio aveva inquinato chilometri di spiagge e avvelenato migliaia di animali, in egual modo mi sentivo come se avessi interrato centinaia di bidoni di materiale nocivo nei terreni di mezza Brianza. Sì, in quel momento ero io l’imputato. Decisi che dovevo smettere di fumare. Non fumavo molto e un mese dopo riuscii a smettere. Passò qualche minuto e Pino che capì il mio stato d’animo, mi mise una mano sulla spalla. Poco dopo anche la ragazza indio mi sorrise, contraccambiai con un tenue tentativo di sorriso. Avevo pagato il mio prezzo, ero stato perdonato, non ero più in libertà vigilata. 30
Al ritorno dopo essere sbarcati io, Pino, la ragazza indio e altri due francesi ci fermammo a bere una birra. Parlammo della Patagonia, della penisola Valdés, Rita ci parlava dei delfini, degli aironi e degli armadilli, ci raccontò delle orche di quando saltando magistralmente catturano i leoni marini sulle spiagge. Era bello starla ad ascoltare. Aveva una consapevolezza ambientale, un amore verso il mare, verso l’ambiente, verso la Patagonia e verso il cosmo davvero indescrivibili. Riuscii a spiegare il mio stato d’animo di quando ero sulla barca, del mio dispiacere, breve, ma intenso. Tutti mi strinsero la mano, fu allora che cominciai a sorridere. Ordinammo dei panini e altre birre, passò così un’altra ora indimenticabile. Dei colpi di clacson ci avvisarono che era ora di partire. Mi spiacque tantissimo e, commuovendomi, diedi un bacio sulla fronte a Rita che contraccambiò abbracciandomi fortemente. Era avvenuto quello che capita raramente: quella magia, quella vibrazione e quella sintonia che accadono quando un uomo e una donna vengono calamitati l’uno all’altra o quando scattano quei meccanismi inspiegabili di interconnessione tra due amici quali eravamo io e Pino. Sì, sapevo di avere una grande persona come amico, un uomo di alta statura morale. Sul piccolo autobus, mentre dal finestrino salutavamo Rita, Pino sottolineò: “Dai Marchin il viaggio ci chiama… domani si parte. Vamos!” Guardai fuori dal finestrino, osservai la steppa, alcuni guanachi pascolavano liberi, cercai di non pensarci. Era pomeriggio inoltrato; sapevo che a Puerto Madryn doveva31
mo fare i biglietti per lâ&#x20AC;&#x2122;autobus. Un paio dâ&#x20AC;&#x2122;ore dopo eravamo alla stazione dove prendemmo due pass per El Calafate, lâ&#x20AC;&#x2122;indomani ci aspettavano quindici ore di viaggio.
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PUNTA TOMBO
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