Q
uel giorno la “Lena” (nome di fantasia, scelto a tutela della sua giovane età) non era in grado di procurarsi il guadagno col mestiere suo solito: la notte, trascorsa insonne per una fitta lancinante che continuava a non darle tregua, era susseguita al giorno, portandosi con sé il suo strascico. Gli occhi, per loro natura gradevolmente grandi ed inclinati verso il basso, apparivano quel mattino arrossati da una sofferenza che tracimava in sporadiche e dolenti lacrime. Sembrava avesse preso botte; situazione non del tutto estranea al suo burrascoso ambito lavorativo. La guancia era segnata, sul lato inferiore destro, da un gonfiore che s’irradiava verso la bocca. Le labbra, avevano conseguentemente assunto l’insolita ed accattivante tumidezza di una ciliegia matura. Pensò di recarsi dal Maestro nella speranza che questi, tra gli unguenti e gli àlcoli con cui creava i suoi pigmenti, trovasse di che prepararle l’olio della Maddalena1, vera panacea per questo tipo di afflizioni2. Tutt’al più, si sarebbe profferta di posare per una delle sue mezze figure3 su tela: in fin dei conti avrebbe potuto iniziare dal busto o proseguire una delle tante sue figure, abbozzate su quel fondo oltremare4 che le rende vive al lume di candela. Al pari delle altre belle sue colleghe, Lena era solita mettersi “al naturale” per lui: il genere pittorico nel quale il Maestro si cimentava alacremente e con profitto, era un raffinato e disincantato esempio di scopofilìa, ovvero voyeurismo artistico per ricchi e cattolicissimi committenti, interessati a giovani e sensuali ninfette discinte. Da dieci e a quattordici lire il giorno, questa era la paga che le spettava per posare nuda. A conti fatti 1 L’olio di nardo -questo il nome officinale- è reso popolare nei Vangeli con riferimento all’unzione dei piedi del Cristo da parte di Maria di Betania (Mt.26-28) e della sconosciuta “peccatrice” narrata da Luca (7:36-50). Queste vicende, unitamente all’episodio dell’adultera salvata dalla lapidazione (Gv.8:1-11), sono poi confluite ed andate a caratterizzare l’iconografia di Maria Maddalena. 2 Il principale componente dell’olio di nardo, l'acetato di bornile, è presente soprattutto nell'essenza di pino, comunemente usata come diluente nella pittura ad olio. Gli altri principi attivi si possono estrarre da piante comuni come origano, valeriana e salvia. 3 Scrive il Baldinucci, nel capitolo sul Furini nelle Notizie de' Professori del Disegno da Cimabue in qua (principiato nel 1681 ed edito postumo nel 1728) che il Marchese Pier Antonio Gerini: «che altri in buon numero sue possiede in mezze figure di femmine, pure di mano di lui (Furini; ndr.)». 4 Baldinucci: «Gran fatto dunque non fu che de' gran guadagni ch’ e’ fece (…) non solo non lasciasse roba, ma che rimanesse su eredità gravata di qualche debito. Fu anche di ciò gran cagione il lungo faticare che e’ faceva in sulle pitture e la gran quantità di azzurro oltramarino, che egli usò sempre nelle medesime, dico nelle carni e fino nelle stesse bozze» (pag. 265).
intascava più lei come “Musa”, che non lui dalla vendita di ciascun quadro5. Quando la vide entrare, il Maestro si disse ben disposto di aiutarla: anch’egli era spesso afflitto dallo stesso male6. La osservò colto da un bagliore: ai suoi occhi, la di lei sofferenza, assumeva i tratti aulici dell’eroicità antica. La fronte aggrottata, donava una particolare intonazione alle sopracciglia, che si stagliavano sul viso con la stessa peculiare eleganza con cui le “effe” solcano la tavola di una viola da gamba. Quasi dimentico del favore chiestogli, iniziò ad abbozzare di getto su un fogliaccio dei suoi, segnando con il lapis l’esatta porzione corrispondente all’ascesso e la conseguente protrusione delle labbra7. Non poté fare a meno di rammentarle il suo fascino, al di lui sguardo rinnovato da quella cupa bellezza, illanguidita viepiù dal dolore. Lei afferrò quel complimento al volo e si mise comoda come al solito, mentre lui tornava ad affaccendarsi con fare galenico. Con un moto repentino della mano, allentò verso destra il laccio del morbido colletto e, quasi amazzone rediviva, schiuse al di lui sguardo le carni voluttuose ed un seno turgido, sensualmente incorniciato nella formosa piega del gomito. Nella sua arte era navigata alquanto e possedeva membra morbide e robuste al contempo; quel petto turgido, tuttavia, rivelava candido una pubertà precocemente fiorita. La sinistra, con il gomito ad appesantire le pagine squadernate di un volume rilegato in pelle morbida, puntellava la guancia sana con le nocche, nel vano tentativo di lenire il dolore che pulsava dall’altra parte e di raddrizzare al contempo il labbro inferiore, spostato verso sinistra dall’ascesso. Per lui, cogliere l’unicità di quella visione fu un tutt’uno con l’intimarle di restare ferma, immobile, per tutto il tempo necessario ad eternarla sulla tela.
5 Sempre il Baldinucci: «come egli disse a persona, che a me l’ha raccontato, bene spesso una testa con busto, che a lui era per ordinario pagata dieci doble, gli costò assai più; convenendogli tener naturali a dieci e fino a quattordici lire il giorno e perché non solamente premeva in aver naturali di ottime parti e proporzioni, ma per ordinario tenne sempre fanciulle» (pag. 266). 6 Ibidem: «Stette il Furini in Venezia circa a sei mesi, nel qual tempo fece al profumiere il bel quadro, e molto più vi avrebbe operato, se d'a un eccessivo dolore di denti, che non lo lasciò aver bene, non fosse stato il più del tempo trafitto». 7 Cfr.: Francesco Furini, Studio di Testa Femminile ; gessetto su carta nocciola 22x15,5 cm. Firenze, Biblioteca Marucelliana, coll.: Disegni AB 571.
La finzione letteraria qui proposta riassume, in due colonne, cinque anni di osservazioni e studi attorno ad un dipinto del quale, lo scrivente, ne sollecitò l’acquisto all’attuale proprietario in una vendita d’asta francese. Nel lustro intercorso, il manufatto è stato oggetto di susseguenti ed amorose cure: il trasporto in una cassa lignea dalla Francia all’Austria per ricevere la prima mappatura fotografica; la spedizione verso l’Italia, direttamente tra le attente mani della restauratrice; il rientro in possesso da parte del proprietario; la ricerca della cornice adatta; la nuova indagine fotografica; lo sviluppo delle piste investigative funzionali alla redazione della presente perizia. Il primo esame autoptico (svolto nel 2015) e la conseguente schedatura fotografica, raccontano il tentativo -forse un po’ grossolano ma sostanzialmente riuscito- di preservare in passato dallo spolverio e dalla crettatura del pigmento, l’intera superficie pittorica corrispondente alla battitura del telaio originale, mediante incollaggi successivi su più supporti: 1. una tela fine a trama ampia; 2. una tela spessa a trama fitta; 3. una tavola fine in balsa di legno; 4. una tavola spessa in multistrato di legno. L’esposizione a luce solare radente e la fluorescenza agli ultravioletti, sono stati concordi nel documentare la presenza massiccia di fuliggine varia, oltre un esteso ingiallimento che, tuttavia, lasciano intravvedere una fluida, filamentosa e marezzata stesura pittorica sottostante che brillava, come diafana superficie lunare, non appena venisse irradiata dalla lampada di Wood. Due piccole abrasioni, rispettivamente sull’arcata temporale destra e nella zona omerale (maggiormente evidenti attraverso fluorescenza ultravioletta a 365 nanometri), consentono di avvalorare l’estrema complessità esecutiva, realizzata mediante numerosi strati pittorici sovrapposti e di ipotizzare che, all’epoca della prima indagine, il dipinto
sembrava conservare lo strato pittorico originale sostanzialmente integro. L’indagine fotografica mediante fluorescenza UV ha consentito inoltre di rivelare il vero sguardo, celato al disotto di un blando maquillage volto ad eliminare uno strabismo divergente, forse considerato poco “piacevole” per il gusto antiquariale dell’epoca. Il secondo incontro con la Lena, si è svolto nell’estate del 2018. Nonostante fossero intercorsi tre anni, è stata una piacevole sorpresa il ritrovarla bella, luminosa e ringiovanita al di là di ogni migliore auspicio. Una lunga e meditata operazione di restauro le aveva restituito l’abbrivio degli impasti originali, oltre ad una completa foderatura ed un nuovo telaio di supporto. Una cornice lignea a motivi vegetali in foglia oro, accentuava infine il contrasto tra gli incarnati e il bruno di uno sfondo che diffondeva una luminosità bluastra, calda ed intensa. L’osservazione di questo curioso fenomeno, sembrava confermare le parole del Baldinucci circa i debiti accumulati in vita dal Furini, per via del suo utilizzo sistematico ed estensivo dell’azzurro oltremare, ottenuto dalla polverizzazione del lapislazzuli. La seconda mappatura fotografica ha avuto quindi come obiettivo principale quello di riprodurre, in formato digitale, quella esperienza sensoriale; secondariamente, una serie di macrofotografie, hanno consentito di investigare il ductus pittorico fin nei più piccoli cretti della materia cromatica. Che la fanciulla presenti una evidente ipertrofia masseterìna, c'est-à-dire un pronunciato ingrandimento del massetère (uno dei quattro muscoli masticatori fusiformi del cranio), può essere considerato come un dato di fatto, avvalorato dalla documentazione fotografica da cui risulta che: ➢ nell’area in questione non vi sono tracce di sovrammissioni pittoriche; ➢ la materia cromatica è coerente con quella presente nel resto del viso; ➢ le crepe del pigmenti si ramificano qui, come nelle altre zone circostanti.
L’aver poi citato la presenza di questa peculiare morfologia somatica in un disegno attribuito al Furini, acquistato in asta nel 1998 ed attualmente conservato presso la Biblioteca Marucelliana di Firenze (inv. n.: Disegni AB 57), non costituisce soltanto un espediente narrativo, ma si offre come strumento volto a suffragare l’analisi del dipinto in esame. Il confronto con questo bozzetto, realizzato a gessetto su carta nocciola, ha consentito inoltre di ravvisare la Lena in un'altra tela del Furini, l’Allegoria della Pace di proprietà privata, datata attorno al 1640-’45. In questo caso il soggetto è ritratto in piena luce e di tre quarti (esattamente come nel disegno), con le carni diafane e ceree, su uno sfondo marrone-giallastro, tonalità che appare come lumeggiatura della parete di fondo, anche nella nostra opera, per dare un senso di distacco prospettico all’oltremare che caratterizza la preparazione della nostra Fanciulla. Ed è verosimilmente sempre “lei”, la giovane intenta a sfiorare con i polpastrelli un tamburello, nella pregevole Èrato messa in asta da Bonhams nel 2004. Presta addirittura il suo volto, con la testa attorniata dal lauro, per impersonare la Poesia in un disegno ora agli Uffizi, successivamente tradotto in pittura su carta ed infine reinterpretato nella gradevole ma malconcia tela in asta a Sotheby’s nel 2009. Corrucciata ed affaccendata a filare lo stame della Vita, è Cloto nell’affresco realizzato dal Furini in Palazzo Pitti a Firenze , tra il 1639 ed il 1642, per commemorare la dipartita di Lorenzo de’ Medici. Con un più marcato accento dello strabismo di Venere, la mandibola prominente ed uno sguardo che traluce orrore, è sempre “lei” a vestire i panni di una possente Giuditta, che troneggia al centro della poderosa tela (198x250cm) custodita dalla Fondazione Cassa di Risparmio di Firenze. Il modo più appagante per ammirare la nostra modella nel pieno turgore della sua vivida sensualità, è certamente nel nudo a figura intera, come nel caso delle due opere,
strettamente correlate tra loro, che ci accingiamo a proporre. Quella stilisticamente e cronologicamente più vicina alla nostra, con la Lena ritratta di tre quarti con il lato sinistro del viso in primo piano, è la tela riapparsa in asta da Sotheby’s nel 2019 (già nel 1982 già proposta dalla stessa casa d’aste) e denominata Allegoria della Generosità. A ben guardare, si comprende facilmente come siano state le forme generose, piuttosto che una attenta lettura iconografica, ad ispirarne il titolo. Cristallizzata nella stessa posa suadente (si veda a sua volta il confronto con un’altra opera intitolata La Liberalità), ricompare come Una Maga in quel di Lucca a Palazzo Mansi. Anche qui, in un possente “piano americano”, la figura si staglia dalla coscia in su, seguendo il ritmo sinuoso di un drappo di taffetà dai riflessi blumagenta, che s’inerpica verso l’alto, sospinto dall’afflato soprannaturale di un incantesimo. Nel contemplarla, sembrano risuonare i versi in cui il Tasso descrive l’ingresso di Armida nel campo cristiano: Mostra il bel petto le sue nevi ignude, Onde il foco d’amor si nutre e desta: Parte appar delle mamme acerbe e crude, Parte altrui ne ricopre invida vesta: Invida, ma s’agli occhj il varco chiude, L’amoroso pensier già non arresta; Chè non ben pago di bellezza esterna, Negli occulti secreti anco s’interna. Come per acqua, o per cristallo intero Trapassa il raggio, e nol divide o parte; Per entro il chiuso manto osa il pensiero Sì penetrar nella vietata parte: Ivi si spazia, ivi contempla il vero Di tante maraviglie a parte a parte: Poscia al desio le narra e le descrive, E ne fa le sue fiamme in lui più vive.
(Canto IV, Stanze XXXI-XXXII)
Se volessimo ordunque immaginare l’aspetto della nostra Lena nella vita quotidiana, dovremmo pensare ad una ragazza dagli occhi grandi, il naso lungo e regolare con la columella accentuata e le froge lunghe e pronunciate, le labbra carnose, una muscolatura facciale molto accentuata (sia a livello frontale che mandibolare-zigomatico), il mento tondo. prominente e caratterizzato da una fossetta (perfettamente riscontrabile nel disegno della Poesia conservato nel Gabinetto degli Uffizi). Una fisionomia sostanzialmente androgina poiché presenta, in buona sostanza, un’interessante combinazione di caratteristiche morfologiche sia maschili che femminili. È certamente indubbio che, se dal volto della nostra fanciulla traspare l’intensità del suo carattere, è il suo corpo a trasmetterci inalterato, nella sua giunonica opulenza ed a quasi quattro secoli di distanza, una sensualità calda e vitale.
Giunti a questo punto della trattazione, cerchiamo di venire incontro al lettore più zelante il quale, nel frattempo, avrà già iniziato a chiedersi come mai non siano stati finora proposti raffronti con altre tele, più celebri e di ben più immediata correlazione. A costoro, ed a quanti siano tentati dal considerare il presente ritratto esclusivamente in relazione con le varie Maddalene e Ghismunde del Furini, ci accingiamo qui di seguito a dare giusta ed ampia soddisfazione. La Fanciulla al Naturale colpisce l’osservatore per uno stile dichiaratamente naturalistico, con la figura che emerge in tutta la sua carnalità da un fondale dai riflessi bluastri. Il tutto, condotto con una doppia cifra stilistica: da un lato un’epidermide cromatica da un andamento veloce, filamentoso, che tende a vorticare mentre crea i tratti del viso, oppure ad inspessirsi per delineare i panneggi; dall’altro una sottostante diligenza metodica di gusto ancora cinquecentesco, per il sapiente utilizzo dello sfumato di leonardesca memoria8, che compone gli strati più profondi della materia pittorica. La composizione spicca per la sua essenzialità, resa ancor più evidente dal confronto con le varianti più o meno note della cosiddetta Maddalena Penitente viennese: niente profluvi di lacrime, o pàtene e calici preziosi, niente acconciature perlate, né tantomeno truculenti cuori a far da mensa. Nell’opera in esame, c’è spazio soltanto per la corporeità di una ragazzona discinta, a mezzobusto, dai capelli ramati, ritratta con un braccio poggiante su un tavolaccio e l’altro, il gomito puntellato ad una seicentina con legatura morbida e la mano che, nel sostenere la tesata, comprime il mento rotondo verso le labbra carnose. Il volume, unico attrezzo scenico presente nell’inquadratura, serve a conferire un portamento più eretto al soggetto durante la 8 La Biblioteca Estense di Modena conserva una copia del Trattato della pittura di Leonardo, data to al 1632 con disegni autografi dello stesso Furini (App. 803, Y 5.3.28 Fondo Campori).
posa pittorica, piuttosto che svolgere una funzione meta-narrativa in chiave simbolica o iconografica. Infatti, che una composizione in cui compaia il connubio “donna nuda” più “libro” sia univocamente identificabile come Maddalena Penitente, è un dato tanto legittimo, quanto opinabile. Con riferimento alla tela del Kunsthistorisches Museum di Vienna, ad esempio, è legittimo chiedersi se il titolo dell’opera corrisponda alle reali intenzioni del pittore. E questo per una ben ponderata serie di motivi, qui di seguito elencati. Innanzitutto un’etichetta (o titolo che dir si voglia), con una frase che tenda ad esplicare la scena illustrata, è stata a suo tempo già fornita seppur in aramaico- dal pittore stesso e recita:
י ינח
י
י
9
la cui traduzione letterale è “beati quelli che sono in lutto che saranno confortati”10, ovvero quel “beati quelli che fanno cordoglio, perché essi saranno consolati” tratto dal Vangelo di Matteo (5:4) nella versione della Riveduta, del 1927. Piccola notazione per biblisti ed appassionati di enigmi. Nel leggere quanto sin qui esposto, si corre il rischio di dare per acclarata una circostanza alquanto controversa: ovvero che il cartiglio con il verso evangelico, derivi da una primigenia edizione in aramaico del vangelo di Matteo. Si tratta di un argomento al centro di un dibattito ancor oggi alquanto acceso, che trae origine da alcune osservazioni sviluppate già nel II secolo da Papìa di Ierapoli, per giungere 9 La trascrizione qui proposta nesce dal confronto con la tela ex Pratese. Nella versione originale del testo austriaco, recita: « י י ינח י ». Cfr.: August Schaeffer; Wilhelm von Wartenegg, Hermann Dollmay, Führer durch die Gemälde-Galerie. Alte Meister, Vol. I, Italienische, Spanische und Französische Schulen, Vienna 1895, pag 113, 10 La versione in italiano, trova puntuale riscontro nella trascrizione e traduzione in tedesco «Selig sind die Trauernden, denn sie werden getröstet werden» proposta esclusivamente dal volume pubblicato nel 1895. Il mio sentito ringraziamento allo sforzo protratto -più di un secolo orsono- dagli eruditi autori ottocenteschi.
ai nostri giorni con il libro di Giovanni Garbini (pubblicato postumo nel 2017), intitolato Il vangelo aramaico di Matteo e altri saggi. Con riferimento ad epoche più vicine a quelle di realizzazione della nostra tela, è stato possibile individuare due versioni “ebraiche” del Vangelo di Matteo, entrambe edite nella seconda metà del XVI secolo. La prima, è una edizione bilingue intitolata Sanctus Domini Nostri Iesu Christi Hebraicum Evangelium Secundum Matthaeum, data alle stampe a Parigi nel 1551. La seconda, una poderosa edizione comparata, poliglotta (in 12 lingue) e fascicolata con rilegatura a destra (ovvero partendo dall’ultima pagina come un manga giapponese) viene impressa nel 1599 in due volumi a Norimberga, per conto dell'ebraista Elias Hutter (1553-1605). Come si può ben immaginare dalla mole libraria, i tomi contengono i quattro Vangeli Canonici, gli Atti, le Epistole e la Rivelazione.
Ma torniamo all’opera viennese. La scena ritrae una donna che versa copiose lacrime davanti ad una coppa in metallo dorato, il cui coperchio è stato sollevato e messo da parte con la stessa gestualità domestica con cui si scosta e ripone altrove il coperchio da una zuppiera. In chiave cristiana, il soggetto viene interpretato come Maddalena Penitente con l’attributo della pisside, anche se il perché pianga sul calice contenente il sangue del Cristo (col conseguente rischio di annacquarne il mistico contenuto) lascia perplesso lo scrivente. Se poniamo a confronto il dipinto viennese con il suo alter ego italiano (un tempo di proprietà della Cassa di Risparmio di Prato, poi finito nel Caos della Banca Popolare di Vicenza, istituto in liquidazione coatta amministrativa dal 2017), la stessa scena si presta ad una interpretazione diametralmente opposta. La tela ex pratese, anch’essa provvista di cartiglio, presenta il soggetto dietro ad una pàtena e “nuovamente” intento a versare un profluvio di lacrime su un cuore, posto al centro del desco.
Costei è Ghismunda, personaggio storico eternato da Boccaccio nel Decameron (IV giornata; I novella), qui ritratta nell’atto che precede il suo suicidio, compiuto versando del veleno nella coppa contenente il cuore dell’amato Guiscardo, lavato dalle di lei lacrime. In questo caso quindi, la frase in aramaico andrebbe a consolare una suicida e nel precedente, una santa. Se accostato alla Ghismunda, il dipinto del Kunsthistorisches Museum sembra perdere la sua sacralità (diventando prototipo per una suicida), aprendosi alla possibilità che la fanciulla viennese altri non sia che Sofonisba, eroina cartaginese e celebre suicida per amore. Secondo questa nuova chiave di lettura, la scena andrebbe a cristallizzare il momento antecedente la decisione di assecondare la richiesta del novello sposo, scegliendo come “dono di nozze” darsi la morte in prigionia (suggendo da una coppa contenente veleno), piuttosto che essere condotta schiava a Roma. Al netto di due evidenti pentimenti pittorici che, nella Maddalena, rivelano come la pisside fosse in origine una pàtena identica a quella della Ghismunda (gettando ulteriori dubbi sull’originale composizione pittorica) e sotto il gomito destro appaiano aloni biancastri perfettamente sovrapponibili al volume della nostra Fanciulla, il denominatore comune è la fedeltà amorosa, declamata attraverso l’atto estremo del suicidio. Sofonisba poi, come Ghismunda, è un personaggio caro alla narrativa di Boccaccio, ed appare come esempio di virtù nel De Mulieribus Claris. Applichiamo l’oramai di moda “facciamo finta che” (caro a Mauro Biglino e mediato dalla pedagogia di Jean Piaget circa l’analisi dello stadio pre-operatorio dell’attività infantile) e partiamo dal presupposto di una comune paternità pittorica delle suddette tele al Furini. Ponendo ora la nostra Fanciulla tra la Maddalena/Sofonisba e la Ghismunda, appaiono profonde divergenze stilistiche, come se ogni tela corrispondesse ad una stagione artistica differente.
Considerando lo sfumato come elemento fondante lo stile pittorico di Furini, ed il disegno come base per la maggior parte delle sue composizioni, proviamo ad utilizzare le tre opere per distinguere altrettante fasi nella produzione figurativa. La prima, quella caravaggesca ed impostata sulla presenza di modelli disegnati e ritratti al naturale. La seconda, che potremmo definire come “furiniana a tuttotondo”, è caratterizzata da uno stile più fluido (come nel caso viennese), da una tavolozza cromatica più ricca, da scelte compositive più sfarzose e dallo spostamento dell’asse di interesse dalla descrizione del nudo, alla ricerca di una oggettivizzazione pittorica nella rappresentazione di elementi accessori, come monili e suppellettili e la conseguente presenza di aiuti. Nella terza fase, che definiremo “metapittorica”, l’autore continua a rielaborare i suoi stessi temi sperimentando ulteriori soluzioni compositive, nuovi guizzi pittorici che possano accontentare una clientela sempre più pressante. Da questa esigenza sembra nascere la Ghismunda. Vi è poi un’ultima fase in cui, giocoforza, s’inseriscono le copie pedisseque e pedestri, le citazioni e le imitazioni, con il rischio di avere difficoltà nel distinguere la tarda mano del maestro da quella dei suoi allievi e seguaci. A questo periodo, potremmo ascrivere altre due edizioni della Ghismunda: la tanto decantata versione di Birmingham e quella meno nota, ma a giudizio dello scrivente più interessante, facente parte della Collezione Gianfranco Luzzetti di Firenze. La tela britannica -al pari di qualunque altra opera d’arte continentale approdata sull’isolavanta una attribuzione “certa” ed una fortuna letteraria tale, da consentirci di conoscerne non solo il proprietario e l’esatto momento del suo acquisto, ma anche ulteriori informazioni sul suo successo critico. Celeberrima, in tal senso, è la contesa con opere a vario titolo a questa ispirate, come la Sigismunda dipinta da William Hogarth nel 1759 (il titolo estensivo dell’opera è Sigismunda
mourning over the Heart of Guiscardo, her murder’d Husband) dall’autore posta in vendita allo stesso esorbitante prezzo di acquisto della “concorrente” italiana. Sappiamo infatti che una Ghismunda fu portata in Gran Bretagna dal diplomatico svizzero Luke Schaub (1690-1758) come opera del Correggio. Al suo decesso, un’asta ne decretò il passaggio ad un nuovo proprietario, Thomas Seabright, per la cospicua cifra di 400 sterline dell’epoca. Il dipinto fu al centro di un’accesa querelle tra lo scrittore Horace Walpole (Londra, 1717-1797) e il già citato pittore William Hogarth, reo di aver paragonato una sua Sigismunda al dipinto in questione, già all’epoca attribuito da Walpole a Furini. Queste dettagliatissime notizie vengono riportate dallo scrittore e giornalista scozzese Allan Cunningham (1784-1842) nel capitolo dedicato a William Hogarth, facente parte della “Biografia dei più Eminenti Artisti Britannici” dell’epoca redatta nel 1829. È interessante notare una omonimia alquanto sospetta: il cognome Cunningham ricorre già nel 1786, in Berlino, come proprietario di una “altra” Ghismunda, tradotta in incisione da Domenico Cunego da un originale attribuito anche in questo caso al Correggio, ed “in vendita a Berlino presso Cunningham & Pascal”. In questo caso parliamo di Edward Francis Cunningharn (1742–1795) noto anche con lo pseudonimo Kelso, italianizzato da lui stesso in Calza, ritrattista ed antiquario in società con Pascal. Quest’ultimo è il tipografo che chiamò nel 1785 a Berlino il Cunego, che qui vi rimase fino a che «le traversie commerciali dell'operazione» pare lo abbiano convinto ad un precoce rientro in Roma nel 1789»11. Una copia superstite della sua incisione, sembrerebbe tra l’altro mostrare maggiori affinità con i tratti della Ghismunda “Luzzetti” (fronte marcatamente aggrottata, occhi molto gradi, dorso, punta e ali nasali marcatamente disegnate), che con quelli del dipinto inglese. Ma questa è un’altra storia… 11 Gian Luca Kannès (a cura di), Voce CUNEGO DOMENICO in Dizionario Biografico degli Italiani , Volume 31, 1985.
Le vicende attorno al tema della MaddalenaSofonisba-Ghismunda, confermano la marcata ricorrenza di una serie di modelli compositivi creati dal maestro fiorentino; si tratta tuttavia di una tematica che possiamo considerare come peculiare ed al contempo comune a molti maestri del passato. Allorquando questa materia viene declinata nella forma del ritratto di nudo femminile isolato, ecco allora caratterizzarsi quell’unicità che può essere a buon titolo definita come “furiniana”. L’utilizzo di questa apposizione (o attributo, a seconda delle circostanze grammaticali) in forma virgolettata, è funzionale alla narrazione del dilagante diffondersi -all’epoca- di questo genere pittorico all’interno di una vasta committenza privata. Ne consegue il rischio di ripetitività e “fluidità di genere” (per rubare un termine tratto dalla sessuologia) tra tarde opere originali e tele realizzate da allievi o seguaci. A titolo esemplificativo proponiamo, qui di seguito, un breve elenco dei maggiori temi compositivi, puntualmente esposti nella galleria fotografica in appendice. I. NUDO DI TERGA CON PROFILO A TRE QUARTI: ▪ Ila e le Ninfe, 1622. Firenze, Palazzo Pitti ▪ Santa Lucia, 1630-’46. Roma, Collezione Spada; ▪ Loth e le Sue Figlie, 1634. Madrid, Museo del Prado. II. NUDO DI PROFILO A MEZZOBUSTO: ▪ La Fede, 1630-’39. Firenze, Palazzo Pitti; ▪ Giovane Martire, 1640ca. Sarasota, Ringling Museum. III. NUDO DI PROFILO CON CAPO RECLINATO: ▪ Loth e le Sue Figlie, 1634. Madrid, Museo del Prado; ▪ Sant’Agata, 1635-’45; Baltimora, Walters Art Museum. Lo spartiacque cronologico che ci consente di stabilire -con un certo grado di approssimazione- quali opere siano state realizzate per il tramite di una modella in posa (ed aggiungerei più in carne che in ossa) e quali
siano frutto di rielaborazioni svolte in assenza di un modello da ritrarre, è il 1633. In quell’anno il Furini è costretto a mettere fine al suo prolungato stato celibale, scegliendo la tranquillità sacerdotale al matrimonio, con annessa dote della priorìa di Borgo San Lorenzo al Mugello. In assenza di un soggetto da ritrarre “al naturale”, difficilmente compatibile sia con le finanze che con l’etica imposta al sacerdozio (basterà qui accennare al caso giudiziario12 del “prete genovese” Bernardo Strozzi accusato di condurre -in quanto pittore- uno stile di vita non conforme alla sua condizione sacerdotale), al pittore si palesa la necessità di avere un piano di riserva. «LE BELLE NON VOGLIONO SPOGLIARSI, LE BRUTTE NON SONO IL CASO» Questa frase lapidaria, sgorga sarcastica e rassegnata dal calamo del Furini in una sua lettera romana datata 1646, anno della sua prematura scomparsa, e per questo da considerarsi alla stregua di un epitaffio. La sua frustrazione riflette il senso di quella maniacale ricerca del bello, finalizzata a soddisfare sia le proprie aspettative, che quelle di una raffinata e pruriginosa committenza. In mancanza di fanciulle che appaghino un gusto estetico estremamente esigente, le tele a suo tempo realizzate dal vero, da archètipi13 di soggetti muliebri in carne ed ossa diventano l’oggetto stesso della ricerca pittorica, trasformando così l’archètipo in prototipo. Questo ristretto gruppo di opere, al quale la presente merita a buon titolo di essere ascritta, assume un valore documentale fondamentale, consentendo di tracciare con maggior precisione l’itinerario storico ed artistico di Francesco Furini.
12 Cassiano Carpaneto Da Langasco, Rilettura del « caso » Strozzi; in Studi e Documenti di Storia Ligure; Genova 1997. 13 Archetipo /ar'kɛtipo/ s. m. [dal lat. archety̆pum, gr. arkhétypon, comp. di arkhḗ "principio" e týpos "modello"]. - 1. a. [primo esemplare] ≈ modello, prototipo. ‖ originale. . ↔ ‖ copia, riproduzione. b. (estens.) [chiaro esempio di un tipo] ≈ modello, paradigma. (voce Dizionario Sinonimie Contrari Treccani)
La capacità di cogliere la differenza tra un falso ed un autentico, così come tra un archètipo ed una sua replica, oppure tra uno studio tratto dal vero e le infinite variazioni successivamente realizzate, è l’essenza stessa del mestiere dell’intenditore d’arte, meglio noto con il franco-anglicismo “connoisseur”. Se la tecnologia offre una sempre più estesa gamma di strumenti diagnostici, gli studi storici rivelano sempre più la tendenza consolidata (soprattutto nel XVII secolo) di creare falsi non soltanto di artisti della generazione precedente ma anche di coevi, la cui datazione scientifica difficilmente potrebbe scostarsi dall’attribuzione di autenticità. Nell’impossibilità di trovare un trattato di neuroscienza che spieghi agilmente questa peculiare competenza cognitiva, faremo ricorso al linguaggio musicale. A livello concettuale, il tutto può ridursi alla capacità di soppesare l’armonia compositiva tra le dissonanze e le consonanze. In tal senso, il lavoro della maggior pare degli storici dell’arte, procede in un confronto per consonanze (più o meno stringenti), che “suona” -appunto- più appagante nell’immediato. Quando gli elementi che stridono, o dissonanze, producono un movimento armonico più gratificante di quello composto per dare stabilità alla partitura (ovvero le consonanze), la composizione assume una connotazione Jazz: regno indiscusso delle “dissonanze consonanti”. Buona parte del lavoro del “conoscitore” (almeno per come viene inteso dallo scrivente) è speso in un costante tirocinio osservativo, necessario ad acuire le proprie capacità di riconoscere ed identificare -nel modo più veloce e preciso possibile- tutte quelle sottili discordanze e difformità, troppo spesso colpevolmente lasciate mute nel continuo fluire delle aste nazionali ed internazionali. Come prima accennato, rispetto ad un soggetto ritratto dal vero, una replica tende ad una certa semplificazione sotto il profilo descrittivo, lasciando al contempo spazio ad
una maggiore articolazione e complessità in senso compositivo. Il discorso, apparentemente ovvio, sottintende un dato non trascurabile: un artista non ha la necessità di copiare pedissequamente sé stesso, ma tende piuttosto a reinventarsi. Dopo aver realizzato una “invenzione”, cioè una composizione dotata di una propria originalità ed autonomia rispetto ad altri consimili modelli, nelle successive repliche tenderà a reinventarsi, nel tentativo di soddisfare la propria creatività con nuovi stimoli compositivi e figurativi. La cosa interessante -ed al contempo inquietante- è che questo modus operandi fosse noto a copisti e falsari fin dal XVII secolo, il che proietta oscure ombre sulla possibilità di distinguere agevolmente un archètipo da una copia contraffatta ad arte. Illuminante, in tal senso, è il volume di Enrico Maria Dal Pozzolo intitolato Il fantasma di Giorgione. Stregonerie pittoriche di Pietro della Vecchia nella Venezia falsofila del '600. Nel caso della nostra Fanciulla al Naturale, modificando la tavolozza cromatica, impostandovi uno stile compositivo morbido e fluido, aggiungendo un profluvio di lacrime, qualche gioiello, tessuti più raffinati, sfilando il libro da sotto il gomito, ponendo una pàtena romana e poggiandoci dentro un cuore bovino, è stato possibile trasformare una ragazzona incupita, in una cospicua serie di sante ed eroine. Qualora poi (come nel caso del Furini) sia l’artista stesso ad aver sviluppato, in breve tempo, una maggiore dimestichezza con stili pittorici fortemente dissonanti dal suo modus pingendi giovanile, le distanze tra lo studio dal vero e le variazioni sul tema diventano talmente sensibili da lasciare adito a dubbi sulla comune paternità compositiva.
Accostiamoci un’ultima volta alla tela, focalizzando l’attenzione sulla diffusione e distribuzione della luce. Una luminosità calda ed intensa, irrompe dalle ante di una finestra (non visibile) accuratamente lasciata socchiusa. Un chiarore dai riflessi brunastri, indica la direzione ultima della fonte solare e, mentre delinea i riflessi ramati dell’acconciatura, trasmette l’illusione prospettica di un infisso che si riflette sulla parete di una stanza immersa nel buio. Un morbido e virtuoso gioco di ombre, genera le masse corporee, attraverso una serie estenuante di velature successive. Tutto, in superfice, appare fluido ed in movimento, al punto di suggerire l’idea di un ricercatissimo effetto di finito/non finito, che accomuna questa tela ad un altro archètipo furiniano: la sensuale Santa Lucia ritratta di spalle. A tal riguardo (e scrivo qui in prima persona) non potrò mai togliermi dalla testa che questo sia un meraviglioso esercizio di ritratto di nudo, con le carni delle schiene sensualmente discinte e l’epidermide avvolto da una candida luminosità, astutamente riciclato in chiave religiosa per ovviare di incorrere nelle beghe del tribunale ecclesiastico. Se anche questo è stato il Furini, e la nostra tela non è quindi l’unica della sua specie, bisogna mettersi alla ricerca di altre opere che possano testimoniare il modo primigenio di comporre la propria pittura. Ottomiladuecentodiciassette chilometri. Questa è (almeno secondo Google) la distanza aerea che intercorre tra la capitale ungherese, Budapest, e la città di Ponce, in Portorico. In un fazzoletto cronologico compreso tra il 1625 ed il 1628, un poco più che ventenne Furini realizza due poderose e sconcertanti tele, un pendant impostato sul tema della bellezza maschile contesa dal mondo femminile e del dualismo sonno/morte. Parliamo delle opere note come Cefalo ed Aurora (del 1625) ed Il Compianto di Venere sul Corpo di Adone (1626-’28). In questi imponenti “teleri” ampi oltre 230x190 cm ciascuno,
creature sensuali e tragiche raccontano culti pagani, stagliandosi luminose su fondali crepuscolari. Eros e Pathos sono al centro della narrazione. In alcuni casi sembra che la tela trattenga a stento lo slancio dinamico dei personaggi: si guardi alla figura straziante e suadente di Venere nuda che ripropone, in chiave più marcatamente erotico-classicista la, scomposta bellezza della Proserpina (1621-‘22) di Gian Lorenzo Bernini. Oppure si guardi ad Eos, l’Aurora che si slaccia maliziosamente le vesti e mostra un seno, mentre con sguardo furbo sonda se il sonno di Cefalo sia autentico, oppure finga. Disperazione, malizia, sensualità, estasi: questi sono solo alcuni dei mille modi in cui il Furini declina i volti nelle sue inesauste indagini attorno al tema, per lui centrale, della raffigurazione del nudo femminile. Quanto al nostro archètipo, alla giovane Lena, oggetto di questa lunga dissertazione, si è optato per Ritratto di Fanciulla al Naturale, un titolo essenziale nella sua oggettività scevra da qualunque interpretazione, al fine di ridare centralità alla raffigurazione.
Scheda tecnica Artista Titolo Datazione Tecnica e Supporto Dimensioni Stima
Francesco Furini (Firenze, 1603-1646) Ritratto di Fanciulla al Naturale 1630-‘34 Olio su tela (rintelata) 65x49,5 cm (telaio); 82x67 cm (cornice) € 60.000 (Euro sessantamila/00)
LO SCRIVENTE, coerentemente con quanto esposto in maniera esaustiva e dettagliata nella presente perizia, corroborato da adeguata mappatura fotografica e suffragato da puntuali riscontri iconografici, RATIFICA QUANTO SEGUE.
A seguito del presente studio avente ad oggetto la tela denominata Ritratto di Fanciulla al Naturale, SI DICHIARA E CONFERMA
che il dipinto, realizzato ad olio su tela di dimensioni 65x49,5 cm, è da considerarsi opera originale, autentica ed inedita, realizzata in epoca giovanile da Francesco Furini (Firenze, 1603-1646), tra il 1630 ed il 1634. Con riferimento infine agli aspetti economici ed estimativi, stante l'attuale ottimo stato di conservazione, nonché il suo valore documentale come archètipo di cospicue opere successive, SI STIMA il dipinto in oggetto, per un importo non inferiore ad € 60.000,00 (Euro sessantamila/00). Addì 10 aprile 2020. (Dies natalis di Francesco Furini)
firma
________________ (drm. Daniele Fiore)
Drm. Daniele Fiore Ruolo n.822 – CCCIA di Bari www.theartadvisor.it
Storico dell’Arte ed Esperto in Antichità ed Oggetti d’Arte Iscrizione n.056 – Albo CTU Tribunale di Bari d.fiore@theartadvisor.it