Pietro Liberi - Giuditta ed Abra con la testa di Oloferne

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PIETRO LIBERI,ILLIBERTINO ( Pa dov a , 1605-Ve ne z i a , 1687)

Gi u d i t t ae dAb r ac o nl at e s t ad i Ol o f e r ne ov v e r o Al l e g o r i ad e l l aSe r e ni s s i mat r i o nf a nt es u i Tu r c h i t

Da ni e l eFi or e

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www.h e a r t a d vi s o r . i t



Q

uella volta, il nostro, aveva perso la ragione per costei, pagando a caro prezzo lo scotto di aver agito con la testa nel sacco, finendoci poi letteralmente dentro. Lei che, vestita ed agghindata come una cortigiana del suo tempo, era così gioiosamente indaffarata ad insaccare quella grossa capoccia, da non accorgersi della propria nudità. Così, con fare accorto e sguardo serenissimo, lascia distrattamente aperta la veste, mostrando un candido e turgido seno, sapientemente illuminato dalla candela posta in mano dall’anziana serva, che la osserva schiudendo le labbra per proferire mute parole. Osservando la scena con sguardo sarcastico, è facile ravvisare un invito a ricomporsi, rivolto dall’anziana alla giovane. Una lettura più rigorista, vi scorge invece la richiesta della serva sul da farsi di quel funèreo fardello. Lui, il testone, dorme sereno vicino al di lei petto. Niente sangue, nessun orrore, non un accenno alcuno ad elementi riconducibili ad un gesto efferato come una decapitazione all’arma bianca. In quel che dovrebbe essere un macabro trofeo, non traspare nulla di truculento, tragico, o drammatico. Un notturno, teatralmente orchestrato, avvolge il tutto e rivela la calata di una tenda che si apre verso un paesaggio nuvolo e fosco. Dal flebile contrasto che ne risulta, si scorgono, su un piano inclinato, due manufatti: uno, di forma circolare piatta e poco riconoscibile, è forse una fiasca in metallo. L’altro, è senza dubbio il pomolo di una grossa elsa decorata, improbabile arma di un delitto privo di tracce.

In quell’accattivante romanzo storico che va sotto il nome di Libro di Giuditta, un testo extra biblico caratterizzato da un “quadro storico nel quale si inserisce la vicenda (che) non ha consistenza, perché molto vago e ricco di contraddizioni”1, si raccontano le avvincenti ed implausibili avventure eroico-sentimentali di una 1 Vedi paragrafo “Le caratteristiche” nell’introduzione al Libro di Giuditta, Edizione Conferenza Episcopale Italiana 2008. 2 Da Giuditta 9.10. Edizione C.E.I. 2008. 3 Idem.

molto avvenente e ricca vedova2 di Betùlia, celebrata nell’italico idioma come Giuditta. Immergiamoci ad ogni buon conto nella narrazione, per meglio cogliere i vari risvolti della sua trasposizione pittorica. Principiamo, quindi, con una fugace scorsa agli eventi che hanno precedono il tragico epilogo. Ecco la vedova, presentarsi assorta in una poco benevola preghiera d’invocazione. Dopo aver ricordato alla divinità lo spirito vendicativo e sanguinario che ne caratterizza l’agire, passa all’implorazione, chiedendo al “Dio di Simeone” suo padre di trasformarla in uno strumento di morte del nemico: «con la lusinga delle mie labbra abbatti lo schiavo con il suo padrone e il padrone con il suo servo; spezza la loro alterigia per mezzo di una donna»3 e «fa’ che la mia parola lusinghiera diventi piaga e flagello di costoro»4. Qualche riga dopo, vediamo che l’atmosfera tende a passare dal genere eroico a quello erotico: «si tolse il cilicio di cui era rivestita, depose le vesti della sua vedovanza, si lavò il corpo con acqua e lo unse con profumo denso; spartì i capelli del capo e vi impose il diadema. Poi indossò gli abiti da festa, che aveva usato quando era vivo suo marito Manasse. Si mise i sandali ai piedi, cinse le collane e infilò i braccialetti, gli anelli e gli orecchini e ogni altro ornamento che aveva e si rese molto bella, tanto da sedurre qualunque uomo l’avesse vista»5. Con questi abiti entrerà nell’accampamento assiro ed ammalierà Oloferne, come leggiamo anche nell’inno: «Ella depose la veste di vedova per sollievo degli afflitti in Israele, si unse il volto con aromi, cinse i suoi capelli con un diadema e indossò una veste di lino per sedurlo. I suoi sandali rapirono i suoi occhi, la sua bellezza avvinse il suo cuore e la scimitarra gli troncò il collo»6. Anche la Giuditta immortalata sulla tela, degno adattamento del testo biblico, promana una forte sensualità: è una bionda e prosperosa fanciulla, dai 4 Ibidem, 9.13. 5 Ibidem, 10.3-4. 6 Ibidem, 16.7-9.


costumi talmente liberi ed ampi da lasciare le poco spazio all’immaginazione. Con la sua giubba azzurro venetus7, bordata in rosso e stretta ai polsi da una cordicella dorata, è associabile alla personificazione della Serenissima (con il gonfalone in campo blu, bordato in oro ed il richiamo al rosso del corno dogale) ed incarna il trionfo della Repubblica veneta sul nemico Turco. Il suo viso grazioso ed imbellettato, è incorniciato da un profluvio di perle, sferiche sulla chioma e barocche -come l’epoca- per l’orecchino. A magnificarne ulteriormente la bellezza, è il personaggio che le fa sia da spalla (in senso compositivo) che da guardaspalle (sotto il profilo narrativo): una vecchia serva, dal naso spigoloso e le profonde pieghe della pelle che solcano le varie parti del volto, come in una maschera umana. Costei è identificata come Abra. Il suo nome è il frutto di tradizioni extrabibliche molto posteriori e viene codificato per la prima volta nel 1602, per identificare la serva di Giudetta8, nell’omonima rappresentazione sacra composta da Giovanni Angelo Lottini (1549-1629). Sul fatto che poi il personaggio della anonima ancella9 sia interpretato da una vecchia serva, c’è di sicuro lo zampino del Merisi e del successo delle sue Giuditte (la cui prima edizione è di qualche anno antecedente al testo del Lottini). Nella cultura latina, l’ancella è solitamente una fanciulla o, per lo più, una giovane donna. Come “coetanea” di Giuditta, Abra è effigiata in ogni variante pittorica legata al pennello di Artemisia Gentileschi. Nella fattispecie in esame, il volto anziano enfatizza il contrasto con la luminosa beltà della eroina, rendendo viepiù efficace l’esasperante gioco di ombre e luci prodotto dalla candela, sapientemente posta in basso. La tela, si pone nel novero delle “Giuditte a lume di candela”, particolare genere pittorico in cui Carlo Saraceni si pone tra gli antesignani, con la sua tela -custodita presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna- datata al 1610-1615.

Il condizionale in questi casi è d’obbligo in quanto (secondo studi condotti per la circostanza in esame) il modus pingendi di Abra che morde il lenzuolo, è pedissequamente ripreso da un’opera di più fresca ed immediata matrice naturalistica (quindi antecedente, seppure di datazione ancora incerta) realizzata da Adam de Coster (1586-1643) ed esposta al Museo del Prado di Madrid. Con riferimento alle similitudini tra quest’ultima e la Giuditta oggetto della presente dissertazione, oltre all’abbondante presenza di un fondale pecioso, c’è un ulteriore elemento che ne evidenzia il legame: in origine, infatti, il “nostro” telaio aveva dimensioni maggiori e tendenti alla forma quadrata, con un conseguente spostamento verso il centro delle due figure principali. Parti della tela eccedente, sono ancor oggi ben visibili sul retro. Le foto realizzate in fase di restauro ci consentono di fare una stima approssimativa delle dimensioni originali, pari ad almeno 152x135 cm (rispetto ai 145,5x127 cm attuali). Quella degli “adattamenti” (diciamo così) dei dipinti a formati diversi dall’originale, è una prassi estremamente antica, e trova la sua ragion d’essere più in circostanze legate al gusto collezionistico ed alle modalità espositive delle tele, che non ad eventi di altra natura. A proposito di tele “ritagliate”, nonché di una incomparabile pietra di paragone per la nostra Giuditta, non possiamo esimerci dal citare la bella e mutila opera dell’Hermitage di San Pietroburgo, dovuta al pennello del Ricchi. Non vedremo mai il volto della serva o la testa del condottiero assiro, letteralmente tranciati di netto e certamente dispersi ma, dal gioco dei chiaroscuri, si deduce facilmente che anche qui i personaggi erano rischiarati da una candela tenuta in basso dall’anziana donna. Contributi significativi provengono dal confronto con entrambe le versioni realizzate da Pietro Ricchi, tanto da rendere chiara la “necessità” di collocare in quest’area geografica, anche la nostra Giuditta.

7 «L'aggettivo venetus in latino acquisì anche il significato di colore. Tale uso fu popolare e si perpetuò nelle lingue neolatine almeno in alcune aree per lo più arcaiche, ciò che conferma una notevole vitalità del termine. Gli antichi ne dettero una spiegazione che, a dir vero, non convince interamente. Come colore venetus indicò l’”azzurro” il “blu turchese” o

“verde marino”». Cfr.: Giovan Battista Pellegrini, Storia di Venezia, Cap.II - Dai Veneti ai Venetici, par.7 - Nomi storici della regione (1992). 8 Giudetta, Sacra Rappresentazione del Reverendo Padre F. Giovanni Agnolo Lottini; Firenze, per il tipo di Michelagnolo Sermartelli, 1602. 9 Giuditta 10,1 e ss. Edizione C.E.I. 2008.


Rispetto alle sue colleghe, la nostra è certamente più libertina, indossa abiti dai toni sgargianti, ulteriormente arricchiti dai moti turbinosi delle ampie pieghe di tessuto serico. Inoltre, possiede un viso dai tratti così peculiari, da renderli facilmente accostabili a quelli frutto dell’estro pittorico del terzo “Pietro” della nostra dissertazione, il Liberi. La più sagace descrizione dello stile e della tecnica di questo celebre pittore padovano, viene offerta da Anton Maria Zanetti (1680-1767) nel suo Della Pittura Veneziana e delle Opere Pubbliche de’ Veneziani Maestri, edito nel 1771. Ecco qui di seguito come l’incisore e biografo veneto descrive le scelte tematiche e figurative del Liberi: «Il genio suo non volea star soggetto a rappresentazioni obbligate . Facea con piacere gl’ignudi , e spezialmente le femmine , chesono i suoi capì d'opera. Nelle fisonomie, per altro assai belle, non era molto vario; servendosi quasi sempre d’un solo modello , o conservando gli studii fatti da quello. Scegliea soggetti simbolici o favolosi; e di questi molti se ne trovano nelle particolari case, lodati molto dal Boschini nel suo Poema*»10 [(*)La Carta del navegàr Pittoresco]. Ancor più sapida, è l’enunciazione dei diversi stili pittorici con cui il Liberi era solito destreggiarsi: «Tre maniere si trovano nelle opere di questo Pittore. La prima è grandiosa e nobile; e con questa poche cose ei dipinse. La seconda e la terza tutte in un tempo ei trattò; tenendo, com’ei soleva dire, due sorte di pennelli nella stanza sua; l’una per gl’intelligenti, e l’altra per l’ignoranti. Per i primi ei voleva dipingere con ispeditezza e maestria; e perciò non eran sempre quelle pitture molto finite. Per i secondi all’incontro usava d’un estrema attenzione e diligenza, cosicché si possono numerare i capelli nelle teste»11. Osservando la galleria virtuale in cui si pone a confronto la Giuditta con altre tele del Liberi, si può facilmente asserire -parafrasando lo Zanetti- che la tela, a soggetto simbolico, rappresenta una femmina ignuda dalla fisionomia assai bella, quantunque non molto varia e riferibile ad un solo modello. L’intera composizione è stata eseguita secondo la maniera per gl’intelligenti, con maestria ed ispeditezza di stile,

colori sapidi, ed una certa propensione per il non molto finito. I risultati della ricerca condotta, consentono di restringere i “notturni” del Liberi ad una esigua cerchia di opere, comprendenti -ad esempio- il Gige e Nisia la notte dell’omicidio di Candàule, l’unico in cui appaia un servo moro a reggere una torcia di candele. Nel caso invece di Giuseppe e la Moglie di Potifarre, la coppia di figure viene posizionata davanti una quinta teatrale con calata sulla sinistra e paesaggio sullo sfondo a destra, perfettamente assimilabile a quella realizzata per la Giuditta. La Salomè con la testa del Battista, è infine la tela che (benché appaia ritagliata su tutti i lati) per soggetto, stile, tavolozza pittorica ed intonazione luministica, potrebbe ancor oggi essere collocata su una parete come perfetto pendant del nostro. Per quanto concerne il personaggio spalla della nostra eroina, Abra, un volto spigoloso di vecchia con copricapo, ricorre in un’allegoria attribuita alla cerchia del Liberi. È interessante notare in questo frangente come, una delle due giovani, possa essere interpretata come personificazione della Serenissima: al di sotto dei corpi muliebri stretti in un abbraccio, appare un leone che porge lo sguardo mansueto e benevolo verso l’alto, offrendo al contempo le sue forti membra per sostenere il peso della fanciulla ritratta di spalle. Anche in questo caso, ci troveremmo dinanzi ad un’altra allegoria in cui -sotto mentite spoglieappare una rappresentazione di Venezia. Ulteriori indagini su questa tela hanno consentito di trovarne una versione pedissequa, ma priva del leone sul fondo, presso le Gallerie dell'Accademia di Venezia. In questo caso i curatori si sono profusi nello sforzo di dare una interpretazione dell’allegoria come La Virtù che difende L'innocenza, attribuendone la paternità a Marco Liberi (1640ca.- 1725ca.), un artista che percorre la sua intera carriera pittorica nel solco paterno. Suggestioni compositive del nostro con indirizzi pittorici di gusto fiammingo (accomunati da una comune matrice caravaggesca), sono evidenti infine dal confronto con un’opera

10 A. M. Zanetti, Della Pittura Veneziana e delle Opere Pubbliche de’ Veneziani Maestri, Venezia 1771, pag. 381.

11 Ibidem, pag.381


controversa (poiché palesemente attribuita a Gérard Seghers, nonostante la sua durezza esecutiva lasci supporre si tratti di una copia), il cui originale potrebbe essere l’opera conservata fino al 2011 nella Municipalità di Tenterden in Inghilterra.

Volendo accogliere come valide entrambe le tesi fin qui maturate, ovvero l’attribuzione della tela al pennello di Pietro Liberi e la possibilità che i colori azzurro, rosso ed oro delle giubba consentano di ravvedere in Giuditta la personificazione della Serenissima Repubblica veneta, proviamo a chiederci se sia possibile identificare un arco cronologico in cui inserire la committenza nonché l realizzazione di questa raffigurazione pittorica. Per farlo, utilizzeremo una fonte privilegiata -poiché scritta con il Liberi vivente- ed al contempo osteggiata dalla critica storiografica successiva, poiché accusata di aver eccessivamente romanzato sulle vicende biografiche del nostro. Parliamo della Vita del Cavaliere Pietro Liberi Pittore padovano scritta lui vivente dal Conte Galeazzo Gualdo Priorato vicentino l’anno MDCLXIV (1664), nell’edizione vicentina redatta nel 1818. Dal 1628 al 1637 il Liberi è impegnato nelle sue imprese da “corsaro”. L’anno successivo giunge a Roma; ne partirà presto per un ancor più breve soggiorno in Francia. Segue il rientro, risalendo la penisola italica attraverso Siena, Firenze e Venezia, dove vi giunge nel 1643, iniziando a dilettarsi con profitto alla realizzazione di falsi. Nel decennio successivo disbriga così tante commesse legate ad opere pubbliche e private che, nel 1652, la Serenissima lo nomina Cavaliere. Nel 1656-’57 mette mano alla sua ultima commissione pubblica veneta, realizzata per celebrare la vittoria della Serenissima sui Turchi. Ecco quindi palesarsi una data significativa: l’Anno del Signore 26 giugno 1656, in cui si svolge la cosiddetta terza battaglia navale dei Dardanelli (sesta guerra veneto-ottomana), un tempo detto “Ellesponto”, tra il mar di Marmara e l’Egeo, in Turchia. La vittoria navale conseguita contro la flotta ottomana verrà eternata proprio dal Liberi su

un’ampia “vela” incorniciata nella Sala dello Scrutinio di Palazzo Ducale a Venezia. Nella biografia seguono poi gli anni austroungarici durante l’incoronazione di Leopoldo d’Asburgo (1658) ed il ritorno in Venezia nel 1659, dopo essere stato insignito Conte Palatino dallo stesso Imperatore.

LO SCRIVENTE, coerentemente con quanto esposto in maniera esaustiva e dettagliata nella presente perizia, corroborato da adeguata mappatura fotografica e suffragato da puntuali riscontri iconografici, RATIFICA QUANTO SEGUE. A seguito del presente studio avente ad oggetto la tela denominata Giuditta ed Abra con la testa di Oloferne ovvero Allegoria della Serenissima trionfante sui Turchi, SI DICHIARA E CONFERMA

che il dipinto, realizzato ad olio su prima tela di dimensioni 145,5x127 cm, è da considerarsi opera originale, autentica ed inedita, realizzata da Pietro Liberi, il Libertino (Padova, 1605 - Venezia, 1687) all’incirca nel 1656. Con riferimento infine agli aspetti economici ed estimativi, stante l'attuale ottimo stato di conservazione conseguente l’accurato restauro, SI STIMA

il dipinto in oggetto, per un importo non inferiore ad € 35.000,00 (Euro trentacinquemila/00) Addì 25 maggio 2020. firma

________________ (drm. Daniele Fiore)


Scheda tecnica Artista Pietro Liberi, il Libertino (Padova, 1605 - Venezia, 1687) Giuditta ed Abra con la testa di Oloferne ovvero, Titolo Allegoria della Serenissima trionfante sui Turchi Datazione 1656 circa Tecnica e Supporto Olio su tela (prima tela) 145,5x127 cm (telaio) Dimensioni 158x138 cm (cornice) Valutazione € 35.000,00 (euro trentacinquemila/00)

Firma dell’Esperto in Antichità ed Oggetti d’Arte

________________________ (drm. Daniele Fiore)

Drm. Daniele Fiore Ruolo n.822 – CCCIA di Bari www.theartadvisor.it

Storico dell’Arte ed Esperto in Antichità ed Oggetti d’Arte Iscrizione n.056 – Albo CTU Tribunale di Bari info@theartadvisor.it






















































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CONFRONTO CON: Pi e t r oRi c c hi ( 1 6 0 5 ‘ 7 5 ) ; o l i os ut e l a , 1 1 2 x 8 1 c m.



































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