Pietro della Vecchia

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La pittura, come tecnica figurativa appartenente alle arti visuali (alle quali appartiene anche la scrittura), si esprime attraverso immagini. Questa apparente tautologia, questa forzosa ovvietà , viene puntualmente tradita proprio dalla disciplina che dovrebbe occuparsi del suo studio in ambito storico, ogni qual volta il racconto testuale prevale su quello illustrativo. Il presente studio intende riportare in primo piano la visualità , creando un racconto per immagini, uno storyboard storico-artistico di cui il testo è la sceneggiatura, intesa come adattamento letterario allo scorrere delle tavole. Le illustrazioni, rigorosamente a piena pagina, presentano -sulla sinistra- un testo virgolettato in corsivo che funge da canovaccio, ed a destra i dati tecnici afferenti al manufatto proposto. Buona visione.



























I

nterno giorno, rischiarato a stento per rievocare un vicolo buio. L’ambiente angusto e scarsamente illuminato, suggerisce l’idea di una calle veneta. Lame di sole fendono lunghe ombre, rischiarando a stento i volti in primo piano. La poca luce che vi penetra, calda e abbacinante, infonde la sensazione di un tramonto mediterraneo. Due uomini sulla trentina si affrontano in pubblico. Un’accolita, dietro di loro, si accalca nel crepuscolo. Tutti palesano sembianze da trattato di fisiognomica tardorinascimentale. Sulla sinistra, un individuo dallo sguardo corvino, poggia spaurito il suo naso a becco sulle spalle di un suo affine, una sorta di gufo occhialuto che osserva inquieto, lasciano ondeggiare la sua fluente barba in direzione opposta. Sul versante opposto, due mastini attendono -silenziosi e rapaci- il momento giusto per entrare in azione. Nel mezzo due donne, impupate da pesanti mantelle, sbirciano allocchite e civettuole l’una sulla scena e l’altra verso lo spettatore. I contendenti si specchiano, in primissimo piano, con le loro sagome affilate. Sono entrambi barbuti. Quello sulla sinistra ha capelli lunghi e fluenti, che si dipartono da un’attaccatura bassa e sfuggente. Il suo profilo compassato, nel senso etimologico di misurato letteralmente col compasso, è caratterizzato da occhi grandi e da un lungo naso dalle froge arricciate. L’altro, ha un cranio più grande ed un profilo vagamente classicheggiante, da busto filosofico. Indossa un copricapo di foggia particolare, simile ad un Federhut, l’elegante berrettone1 a spicchi con pennacchio di struzzo di gusto germanico, calzato al di sopra di un’infula ovvero provvisto di paraorecchie. Più del cappello di costui, ad attirare l’attenzione dello spettatore, è l’elemento soprannaturale che caratterizza l’altro. Questi ha infatti la testa irradiata da una sottile aura di luce

1 Cfr.: voce “Giorgione da Castelfranco”, in Marco Boschini, Le ricche minere della pittura veneziana; Venezia 1674.

LA MONETA DEL TRIBUTO. Allora i farisei si ritirarono e tennero consiglio per vedere di coglierlo in fallo nelle sue parole. E gli mandarono i loro discepoli con gli erodiani a dirgli: «Maestro, noi sappiamo che sei sincero e insegni la via di Dio secondo verità, e non hai riguardi per nessuno perché non badi all’apparenza delle persone. Dicci dunque: che te ne pare? È lecito, o no, pagare il tributo a Cesare?» Ma Gesù, conoscendo la loro

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che ne circoscrive il viso, allo stesso modo in cui le balze del berretto ruotano attorno al volto del soggetto postogli di fronte. L’azione è cristallizzata nel momento topico del rinvenimento ed identificazione di una grossa moneta romana, simile ad un Aureus tiberiano ma fuori scala, poiché grande almeno il doppio dell’originale. Se non fosse per quel chiarore tricotico ultraterreno, saremmo tentati di pensare ad una normale disputa di strada conseguente uno sventato tentativo di furto con destrezza, colto nella sua flagranza di reato. Gli elementi narrativi, in tal senso, ci sono tutti e le comparse pronte a testimoniare non mancano di certo. In realtà, questa gradevole e ricercata scena di vita quotidiana è stata inventata per illustrare, con un’accentuata e singolare fisicità, i versetti evangelici de La Moneta del Tributo2, resi celebri dal «rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio» (Mt. 22,21). L’invenzione pittorica è originale3 e presenta peculiarità iconografiche che non hanno equivalenti diretti nel panorama ad essa sia antecedente che coevo. Con una presa al polso dai modi alquanto bruschi, un Cristo/Chiromante dalla testa sferica svela il malcelato inganno di un Fariseo/Mercenario, costringendolo ad aprire il palmo e mostrare la moneta, non più occulta, nella destra. Con il suo indice pronto ad inchiodare il conio, non concede all’altro alcuna possibilità di svincolarsi, intimandogli al contempo a leggere l’effigie visibile nel palmo. Veloci e calibrati tratti di pennello, raccontano la falsità svelata, lo sbigottimento degli astanti, l’incauto tentativo di cogliere il Cristo in errore, inchiodando il Fariseo alle sue colpe ed impedendo così, ai complici alle sue spalle, di procedere con gesta più efferate.

malizia, disse: «Perché mi tentate, ipocriti? Mostratemi la moneta del tributo». Ed essi gli porsero un denaro. Ed egli domandò loro: «Di chi è questa effigie e questa iscrizione?» Gli risposero: «Di Cesare». E Gesù disse loro: «Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio». Ed essi, udito ciò, si stupirono e, lasciatolo, se ne andarono. (Mt.22,15-46. Ediz. Nuova Riveduta 2006). Come avremo modo di trattare ampiamente nelle pagine a seguire, il dipinto ha un suo “gemello eterozigote” nella tela conservata presso la Staatsgalerie Stuttgart di Stoccarda. 3























































































IL FISIONOMISTA ALCHEMICO La Moneta del Tributo, con la gestualità teatrale dei suoi interpreti, la disposizione geometrica dei personaggi secondari ed il suo stile così “lagunare”, presenta forti corrispondenze con due temi pittorici (tra i molteplici identificati e puntualmente proposti), uno consonante -L’Incredulità di Tommaso- e l’altro antipòdico, la Lettura della Mano. Ben inteso, non s’intende qui fare riferimento a quelle tele moraleggianti realizzate sulla stregua della Buona Ventura di caravaggesca memoria (in cui un avventore viene stricto sensu affascinato e derubato dell’anello ed altri beni da una o più donne gitane), quanto a quelle immagini pittoriche in cui la chiromanzia è descritta quale “professione liberale” praticata da un “esperto” che la esercita utilizzando libri, tavole e gli altri strumenti del mestiere come il compasso e la squadra da carpentiere, funzionali all’attività divinatoria. Maestro in questo “genere” pittorico, è Pietro Vecchia4 (Venezia, 1603 - Vicenza, 1678), al cui pennello s’intende ascrivere l’opera oggetto della presente dissertazione. Personaggio eclettico, il Vecchia fu pittore, restauratore, esperto d’arte, perito, falsario e mercante d’arte (quasi sempre in combutta col suocero, Nicolas Régnier). Dotato di un talento poliedrico, talché risulta difficile pensare a lui osservando un capolavoro “tardo-rinascimentale” come la Testa di Giovane Guerriero dell’Hermitage di San Pietroburgo, viene qualificato nel 1660 ed all’apice della carriera, con l’epiteto simia de Zorzon5. Appellativo che -ben inteso- gli viene affibbiato non da un detrattore ma dal suo biografo, cliente, sodale ed estimatore: Marco Boschini. Questo soprannome, malevolo all’orecchio contemporaneo se astratto dal suo contesto originario, ha un’accezione esclusivamente positiva e volta ad enfatizzare l’indubbia capacità Nel presente saggio si è volutamente scelto di ricorrere ad una trascrizione del cognome priva del patronimico “della” per motivi essenzialmente filologici, come adeguatamente spiegato nell’ultimo capitolo di questo saggio. 4

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Marco Boschini, La Carta del Navegar Pitoresco, Venezia 1660; pag.500.

del Vecchia nell’emulare i grandi maestri del primo Cinquecento, Giorgio Zorzi alias Giorgione (1478-1510) in primis. Affidiamoci alla lettura integrale. «

». Chi desideri conoscerne meglio le gesta ed immergersi nel quadro socioeconomico in cui questi operò, dovrà familiarizzare con Il fantasma di Giorgione. Stregonerie pittoriche di Pietro della Vecchia nella Venezia falsofila del ‘600, di Franco Maria dal Pozzolo: un libro difficilmente ascrivibile al solo genere saggistico poiché, pur sostenuto da solide basi archivisticobibliografiche, è dotato di quelle rare godibilità, vivacità e leggerezza, peculiari della migliore narrativa italiana. Qui si cercherà di allietare, si spera, il lettore alla scoperta di un altro aspetto del Vecchia, 6 Di tutta botta: atto a qualunque cosa, ovvero poliedrico, secondo la definizione proposta dal Vocabolario Universale Italiano, Vol. 7; Napoli 1840, pagg. 317-318. 7

Trozo: sentiero, percorso.

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Traduzione: «e, se devo parlarne sinceramente».

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Traduzione: «e lui che espone/osserva il retro (della tela) da parte a parte».


pittore falsòfilo -stupendo neologismo- ed anche fisionomista alchemico (con una distinzione di tipo storico-cronologico rispetto alla successiva fisiognomica positivista di ambito ottocentesco), poiché in grado di «trasmutare le diverse essenze dell’indole umana, nelle mutevoli fisionomie delle sue inesauste reinvenzioni pittoriche». Mi si conceda il ricercato ermetismo di questa riflessione, volutamente messa tra due virgolette caporali, quasi fosse un’esternazione altrui. Per dirla in modo più esplicito, tra le varie motivazioni che sottendono la scelta del Vecchia di realizzare in modo costante repliche delle sue opere modificando in modo pressoché esclusivo le sole fisionomie dei personaggi (argomento fondante nel presente studio), ve ne sono alcune che potremmo definire di carattere “scientifico”, almeno per quel che s’intendeva come tale tra XVI e XVII secolo. Certamente una prima opzione è legata alla presenza di una bottega, per non parlare poi delle copie redatte da quanti vedevano nei suoi dipinti, gli originali realizzati da più antichi maestri. Ragion per cui un’attribuzione di paternità pittorica è, nel caso specifico ancor più che per altri artisti, frutto di molteplici e sistematici confronti, sia in termini numerici, che di livelli di analisi comparativa (stilistica, compositiva, dei pigmenti, delle patine e via discorrendo). Una seconda spiegazione è strettamente connessa a quel gusto per il falso che l’artista condivide con la sua clientela, a volte in modo complice ed altre in maniera ingannevole se non fraudolenta. Il Vecchia, in sostanza, emula sé stesso allo stesso modo in cui guarda, restaura e riproduce le opere dei maestri cui s’ispira. Parliamo, ad onor del vero, di una forma di imitazione che sconfina nella mistificazione, quando non nell’illecito vero e proprio. Eloquente, in tal senso, è il falso autoritratto di Tiziano conservato presso la National Gallery di Washington, universalmente attribuito al Vecchia e da questi fraudolentemente firmato e datato:

10 Franco Maria dal Pozzolo, Il fantasma di Giorgione. Stregonerie pittoriche di Pietro della Vecchia nella Venezia falsofila del ‘600; Treviso, 2011; pag. 109.

Questo dipinto “afferma” essere l’autoritratto del Vecellio realizzato nel 1561 all’età di 84 anni. Le metodologie di falsificazione del Vecchia si affinano con gli anni, giungendo al mimetismo ed alla dissimulazione allorquando -operando come restauratore- metterà in pratica la tecnica dell’innesto, che consiste nell’asportazione chirurgica di una porzione di tela (nel caso di opere realizzate su supporto in tavola) e della sua sostituzione con una nuova, camuffata ad arte. Una operatività che assume i toni della beffa citazionista nel caso del presunto Autoritratto di Giorgione nei panni di un Santo Cavaliere (San Nicasio?), nella celeberrima Pala di Castelfranco (1503 circa), restaurata in due tempi dal Vecchia nel 1643 e nel 1674. Osserva in tal senso dal Pozzolo: «

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L’ultima istanza è legata alle necessità di soddisfare le esigenze del tutto personali di un instancabile sperimentatore autocitazionista. Il Vecchia, attingendo ad un bagaglio di informazioni scientifiche sia contemporanee che del secolo a lui anteriore, infondeva ai volti dei suoi personaggi peculiari inclinazioni etiche, morali e psicologiche accentuando, al contempo, lo stile cinquecentista delle sue invenzioni pittoriche. Imprescindibile è, in tal senso, il De Humana Physiognomonia di Giovan Battista della Porta (1535-1615), la cui editio princeps viene data alle stampe in quel di Vico Equense nel 1586 e più tardi, in lingua volgare, a Padova nel 1613. Nelle sue preziose tavole, realizzate da un incisore rimasto anonimo, viene esplicata la tesi argomentativa volta a dimostrare la correlazione tra i tratti del volto umano con quello animale, ed il profilo etico-morale che ne consegue.


A prima vista la cosa potrebbe sembrare balzana, soprattutto a quanti ignorino la passione del Vecchia per temi quali stregoneria, negromanzia, chiromanzia (o le meno note metoposcopìa11 e nevomanzia12), ampiamente documentati dalla sua produzione pittorica. Il sistematico lavoro di ricerca, collazione e confronto tra le varie argomentazioni qui proposte ed i soggetti effigiati dal Vecchia, fornirà sufficienti prove volte ad avvalorare questa suggestiva tesi investigativa. Le tavole fisionomiche dellaportiane sono state oggetto di studio, replica, rielaborazione e divulgazione scientifica, da parte di un pittore ed illustratore francese coevo al Vecchia, l’infaticabile Charles Le Brun (1619-1690)13. Muovendosi alla ricerca dei bozzetti originali, custoditi al Louvre di Parigi, si viene a scoprire che la serie di disegni tratti dal Della Porta, è stata utilizzata dal Le Brun in occasione di una Lectio Magistralis, una conferenza in forma di rilettura sul tema della fisionomia dell’uomo, svoltasi il 29 marzo del 1671 presso l’Accademia Reale di Pittura e Scultura. Ad indicarne l’estremo interesse, non sono soltanto la mole di schizzi prodotti, ma anche il fatto che lo stesso avesse in precedenza già affrontato questo tema a più riprese e per lo stesso auditorio, a partire dal 1668. Nel caso del Vecchia e de La Moneta del Tributo, il soggetto che si presta ad una serie di significativi confronti con le tavole dallaportiane è il Fariseo, sia nella nostra versione, che nella variante grottesca custodita ia Stoccarda. Un’opera, quest’ultima, che qui verrà spesso indicata come il “gemello eterozigote”, e che attualmente è conservata presso la Staatsgalerie Stuttgart.

Ovvero quella disciplina perticata dal «metopòscopo s. m. [dal gr. εω ό , comp. di έ ω «fronte» e tema di έω «osservare» (v. scopia)]», consistente nel trarre aruspici dai segni delle ruge della fronte (Cit. da voce enciclopedica Treccani).

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12 Tecnica di divinazione mediante la lettura dei nevi (o nei) del viso, codificata -per il XVII secolo- da Filippo Finelli nei suoi Libri tres nevorvm, editi nel 1633.

IL MERCENARIO FARISEO Il nostro Fariseo è ancora intento a cercare con la sinistra, tre secoli e mezzo or sono, la moneta che avrebbe preferito esibire al Cristo. Quel gesto sottende una circostanza antecedente il racconto “sospeso” sulla tela. Nella borsa da cintola, egli dovrebbe possiede tutti ed i soli soldi che avrebbe dovuto cambiare per entrare nel Tempio di Gerusalemme, luogo in cui si svolge la narrazione, pagando la relativa tassa di cambio destinata al Tempio. Era infatti vietato introdurre, all’interno dei luoghi sacri agli ebrei, conio o qualsiasi altro oggetto che rappresentasse la figura umana14. A ben guardare, inoltre, quella stessa mano è pericolosamente vicina ad un’arma bianca che, a giudicare impugnatura, sembra essere alquanto lunga ed affilata. La peculiare elsa senza guardia e formata dalle due parti di una testa di tibia fissate ad un codolo, segnala la presenza di una yatagan ottomana che sbuca dai giri della fusciacca. La scelta di raffigurare un israelita con indosso armi da musulmano e copricapo teutonico, spinge ad interrogarsi su quale figura -plausibilmente storica- si celi dietro questo soggetto. La sua fisicità ed alterigia, che cercano invano di dissimularsi in quella postura chiusa e volutamente goffa, sono enfatizzate da due elementi in risalto: il berrettone piumato da Lanzichenecco ed il lungo coltellaccio da Giannizzero. Un personaggio certamente concreto nella sua riconoscibilità per il pubblico dell’epoca, ma che appare di difficile identificazione all’occhio contemporaneo. Il Fariseo, con la sua giubba peciosa a maniche lunghe, retaggio di una cospicua serie di cinquecenteschi ritratti di barbuti in abito nero, eseguiti da maestri del calibro di Lorenzo Lotto Il successo delle “metamorfosi” di Le Brun nei secoli successivi fu tale, da portare ad una loro rielaborazione organica, nel IX volume de L’Art de Connaître les Hommes par la Physionomie, edito nel 1802 da J. Henri Lavater, figlio di Johann Kaspar Lavater (1741-1801), in cui raccogliere i saggi paterni, di de la Sarthe ed i lavori dei predecessori Della Porta e Le Brun. 13

Illuminante, in tale senso, l’esegesi fornita dal teologo Ermes Ronchi nell’articolo “A Cesare ciò che è di Cesare. E noi siamo del Signore”, pubblicato sulla rivista Avvenire del 19 ottobre 2017. 14


(1480-1557), Dosso Dossi (1486ca.-1542) e Giovan Battista Moroni (1522-1579), più che l’esponente di un’antica corrente politico-religiosa giudaica, assomiglia ad un soldato levantino o Stradiòtto, uno di quei feroci mercenari albanesi (quale fu Mercurio Bua, prima che il Lotto lo ritraesse nei panni di gentiluomo) che venivano arruolati dalla Serenissima “allo scopo di controbattere le incursioni e le razzie della cavalleria leggera turca”15. La presenza degli stradioti nelle Venezie, sia in funzione antiturca che antimperiale16, è ampiamente confermata anche all’epoca del Vecchia, come documentato anche dalla cospicua serie di processi celebrati “in occasione della conversione dal Maomettanesimo17” al cattolicesimo di numerosi stradioti albanesi di istanza nella fortezza di Palma (Palmanova), in Friuli. Questo dato fa ben riflettere su quale potesse essere all’epoca l’opinione pubblica verso questi “farisei”, facilmente accusabili di essersi convertiti per mero interesse economico. Disprezzo vieppiù accresciuto dalla fama sanguinaria che da sempre li accompagnava. Come ha avuto modo di scrivere Luciano Pezzolo in un suo intervento, «combattere alla stradiotta era sinonimo, nell’Italia rinascimentale, di ferocia e di violenza, in contrapposizione a ciò che ancora sopravviveva a stento nel modo di condurre la guerra “facta a la italiana”, con il rispetto di certe regole, adatte più a una guerra tra cavalieri, che a quella moderna, dove i campi di battaglia vedevano la crescente presenza di uomini spinti dalla fame e dal desiderio di ricchezza; dove i soldati andavano alla battaglia se non per “guadagno di bottini.”»18. D’altronde l’immagine che ne tramanda il Vecchia è sovrapponibile alle fonti storiche sull’abbigliamento degli Stradioti:

15 Cfr. voce Stardiòtto, in Enciclopedia Treccani online: «stradiòtto (o stradiòto; anche stradiòta) s. m. [dal gr. α ώ η «soldato», der. di ά «relativo all’esercito», a sua volta der. di α ό «esercito»]. – Denominazione dei soldati (spec. albanesi, ma anche greci e dalmati) appartenenti a una cavalleria leggera che la Repubblica di Venezia organizzò nella seconda metà del sec. 15° (e che poi scomparve nel corso dei secoli 16° e 17°), allo scopo di controbattere le incursioni e le razzie della cavalleria leggera turca.».

Si pensi in tal senso al loro impiego massiccio nella guerra di Gradisca (16151617), combattuta conto gli Asburgo d’Austria.

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«

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Nello specifico, possiamo addirittura osservare come la yatagan sia fissata alla cintola da una vera e propria imbracatura, realizzata con una fasciatura del basso addome e passante attorno alle cosce, tra la zona iliaca e quella femorale. Dall’episodio evangelico descritto sulla tela, deriva l’epiteto di “fariseo” come sinonimo di ipocrita, impostore, persona falsa e pericolosa. La scelta del pittore si sposa quindi perfettamente alle circostanze narrative. Quale miglior pretesto quindi se non questo, per ricreare un personaggio del passato, basandosi sull’immagine contemporanea di una delle figure più feroci, temute e presenti in tutta Europa, fin dal tardo rinascimento: uno stradiotto, mercenario al soldo della Repubblica, interpreta -in abiti contemporanei- il ruolo del Fariseo, colui il quale chiede al Cristo se sia lecito o meno pagare il tributo all’imperatore. Costui diviene, secondo l’esegesi, quegli che non paga l’imposta al Tempio, contravvenendo a quella legge ebraica di cui -il suo gruppo- si erge a strenuo difensore ed unico interprete. Il Fariseo, quindi, non contravviene solo ad una legge civile e morale ma, portando un’effige umana in un luogo consacrato, trasgredisce uno dei precetti fondamentali della Torah, il: «non ti farai scultura né immagine alcuna» (Esodo 20,4). Riportando lo sguardo all’interno dell’area pittorica ed osservando i due contendenti, sembra che le labbra del Messia stiano per proferire i seguenti versi:

Un elenco sistematico e descrittivo dei processi d’inquisizione in Friuli è consultabile attraverso il portale torviscosa.org. indicando come località “Albania Palma” si trovano gli atti di conversione degli stradioti albanesi.

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18 Cfr.: Luciano Pezzolo, Istituzioni militari veneziane nel Rinascimento, in Le Armi di San Marco, Atti del Convegno di Venezia e Verona, 29-30 settembre 2011. La potenza militare veneziana dalla Serenissima al Risorgimento, pag. 58 e ss.

Cfr.: Giuseppe Cullino, Stradioti: alba, fortuna e tramonto dei mercenari greco-albanesi al servizio della Serenissima; Università degli Studi di Padova, Facoltà di Lettere e Filosofia, Corso di laurea in Storia, Elaborato finale, AA 2011/2012; pag. 42.

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« »20. Ciò che colpisce lo spettatore, nello specchiarsi dei volti contrapposti sulla tela, è che il Fariseo risulti più affascinante sia del suo alter-ego tedesco, che di entrambe le raffigurazioni del Cristo: la maggiore altezza, la testa più grande, lo sguardo intenso, la fronte prominente, compongono un profilo che rammenta una scultura ellenistica. Nella versione di Stoccarda, invece, il Vecchia non azzarderà la stessa soluzione iconografica, preferendo invertire i ruoli e ristabilendo l’ordine estetico/morale in cui la bellezza coincide con la santità. Giustificare questo divario così manifesto con una svista del pittore, oppure imputarlo ad un lavoro a quattro mani svolto da un pennello infelice, sarebbe certamente riduttivo. Altrettanto dicasi per la possibilità di un ritocco maldestro del Cristo, elemento che -oltretutto- sarebbe emerso durante le lunghe fasi di restauro. In nostro soccorso giunge tempestivo Giovan Battista Della Porta, con una delle sue tavole in cui è rappresentato un personaggio intelligente e cinico al contempo. Leggiamo:

Il confronto, di per sé degno di nota, trova suggello nel raffronto tra il “gemello eterozigote” di Stoccarda ed una tavola del trattato di fisiologia (stessa edizione latina, stesso volume, un centinaio di pagine dopo), illustrante un uomo dal profilo ovino messo a confronto con un ariete. È bene sottolineare come la fisionomica del Fariseo di Stoccarda sia di una bruttezza così Mt. 22,18-19. Della Fisonomia dell’Uomo del Signor Giovan Battista della Porta Napolitano, Libri Sei, Libro Secondo; 1613; pag. 42 (verso). 20 21

Polemone, Adamantio ed Alberto, indicano rispettivamente le citazioni tratte dai testi del filosofo greco Polemóne (IV-III sec. a.C.), Origene (detto Adamanzio; Alessandria d’Egitto, 185 - Tiro, 254), Alberto Magno (Lauingen, 1206 - Colonia, 15

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peculiare e ricercata, da rendere vano qualunque altro tipo di paragone. Leggiamo quindi il Della Porta nella versione in lingua italiana. «

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».

Il Fariseo platonico della nostra tela, si trasforma in una maschera grottesca dal naso gibboso, labbra grandi e tumefatte dalle quali spuntano denti prominenti, sguardo arcigno ed uno o forse due nei sulla parte zigomatica sinistra. Questi ultimi elementi fisionomici, rendono necessario il consulto delle tavole del trattato di nevomanzia di Filippo Finella (1584-1650ca.), altro strumento scientifico dell’epoca, con il suo ricco repertorio di manifestazioni neoplasiche.

Tralasciando la fondamentale incidenza di Marte e Luna su questi soggetti e la non secondaria importanza delle linee prodotte dalle rughe sulla fronte nel rivelare l’indole dalla persona (da cui la Metroposcopìa o Metoposcopìa come l’arte divinatoria del leggere le rughe), a novembre 1280). Le parentesi quadre sono state aggiunte per dare maggiore fluidità alla lettura. 23

Della Fisonomia dell’Uomo; volume secondo; pag. 42 (recto).

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Libri tres nevorvm Philippi Phinellae, Libro I; Anversa 1633; pag. 45.


seconda che il nevo della zona temporale inferiore sinistra sia di color mielato, rosso, nero o lenticolare, abbiamo un susseguirsi di mali che vanno dall’angustia ad una crescente iracondia, fino alla morte violenta. Per non parlare poi della cattiva sorte che accompagnerebbe il neo mascellare e di cui ci dispensiamo dalla lettura del testo latino. Anche i nei quindi, al pari della morfologia facciale e delle cosiddette rughe d’espressione, concorrono nel descrivere le predisposizioni dell’indole umana. L’intento, dichiarato fin dal titolo, è quello di fare in questo saggio della iconografia sperimentale… E qui ci starebbe bene un «n’che senso?!» di verdoniana memoria. Procediamo con ordine. Come nella più blasonata disciplina in ambito archeologico, della quale fa propri sia il metodo che l’aggettivo, l’iconografia sperimentale «non pretende di dimostrare alcunché, ma fornisce uno strumento attraverso il quale è possibile valutare nel loro sviluppo e significato alcune delle attività economiche fondamentali dell'uomo antico, quelle che riguardano in primo luogo la sussistenza e la tecnologia» e «consente a sua volta di sottoporre a ulteriore verifica ipotesi e modelli, tanto nel campo della tecnologia produttiva che in quello dei processi formativi, anche di natura post-deposizionale.»25. Post-deposizionale a parte (locuzione tratta dalla geologia dei sedimenti che rivaleggia -per immediata comprensibilità- con il celebre neologismo metasemàntico del Conte Raffaello Mascetti26), spiegare le immagini attingendo al linguaggio scientifico dell’epoca, rappresenta una metodologia che consente confronti e verifiche sia delle “ipotesi” che dei “modelli” utilizzati, ed è risultato fondamentale per chiarire alcuni aspetti altrimenti di difficile soluzione, come appunto la scelta pittorica di dare un aspetto ovino al Fariseo nell’edizione di Stoccarda. Attingendo a due “tipi” fisionomici enunciati dal Della Porta nel suo trattato, il Vecchia caratterizza un personaggio ed il suo alter-ego pittorico: su una tela appare il Fariseo/Platone, Cfr.: voce “Archeologia” di Daniele Manacorda; in Enciclopedia del Novecento, II Supplemento; 1998.

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Cfr.: voce “Supercazzola”, in Dizionario Zingarelli; ediz. 2015.

bello ma infido ed avaro, sostituito sul dipinto di Stoccarda dal Fariseo/Montone, brutto, sporco e cattivo, per dirla alla maniera di Ettore Scola. Volendo chiosare su un argomento non ancora afferrato nella sua interezza, proprio come il “fantasma” nel titolo di Dal Pozzolo, val la pena affrontare l’aspetto più giorgionesco -ad avviso dello scrivente- ed accattivante dello stile del Vecchia: l’inserimento di figure grottesche e spettrali che emergono dai bruni della preparazione pittorica, per sorprendere lo spettatore nel mentre questi si abitua alla tenue luminosità della superficie pittorica. Così, in un gioco di divagazioni letterarie, alle spalle del Fariseo si affaccia il Fantasma di Aiace, già ritratto in vita nella tela di Bordeaux. Queste vere e proprie apparizioni, abilmente inserite nelle zone buie e periferiche della composizione, ricordano le drôlerie nella miniatura, termine che indica appunto quelle «forme figurative di carattere bizzarro che abbondano soprattutto nei margini dei manoscritti miniati di epoca gotica»27 e che, nella sua forma etimologica originale di draulerie, era riferito «a “maschera”, “satiro”, “scimmia” o analoghi “volti scimmieschi”, introducendo la più antica e importante associazione delle drôlerie con scimmie e scimmiette, sorprendenti creature definite comunemente nei testi medievali babewyn, “simile a babbuino”28». Giocoforza, la teoria del Boschini per il Vecchia come Simia di Zorzòn, assume adesso un senso letterale oltre che metaforico. Proprio una scimmia (per la precisione un giovane macaco) è l’unico animale che il Vecchia abbia mai reso protagonista attivo di una tela ed effigiato con uno stile che trascende il realismo, per la sua capacità di riprodurre la fisionomia animale tanto nell’aderenza anatomica quanto nella intensità espressiva. La tela in questione è il San Domenico ed il Diavolo, in verità un “povero diavolo” gabbato che, trasformatosi in primate secondo un’antica leggenda agiografica, si ritrova ben presto con la 27 28

M. Camille, voce “drôlerie”, in Enciclopedia dell’Arte Medievale; 1994. Ibidem.


bocca impiastricciata di cera, una mano letteralmente incollata ad una candela ed i lacrimoni conseguenti la cocente scottatura morale oltre che fisica. Un volto umanoide, uno “scimpanzuomo” di matrice dallaportiana, appare infine nel sorprendente ritratto di Democrito (secondo lo scrivente sarebbe da identificare come Diogene), noto esclusivamente attraverso l’Archivio Zeri e che, per il palese “gesto delle fiche”, dovremmo intitolare Il Sicofante29. Poiché di quest’opera tratteremo adeguatamente in un saggio di prossima pubblicazione, anche questa -per ora- è un’altra storia.

Cfr, Voce Enciclopedica Treccani: «sicofante s. m. [dal lat. sycophanta, gr. -ϕά η (comp. di ῦ «fico» e tema di ϕαί ω «mostrare»)». 29





















































IL CRISTO CHIROMANTE Associare la figura messianica a quella di un indovino specializzato nella lettura delle linee delle mani, è un paradosso meno azzardato di quanto sembri. Per comprenderne appieno le ragioni di questa scelta, si propone il confronto con la tela Il Chiromante di Pietro Vecchia, conservata nel Museo Civico di Palazzo Chiericati, in Vicenza. Qui, in un imponente piano americano, con tanto di soggetti ritratti dal ginocchio in su come in un film western, un intreccio di mani presenta allo spettatore la coppia di comprimari, ai lati dei quai sono disposte altrettante coppie di figuranti. Al centro, in basso, un caratterista solitario rivolge lo sguardo verso il fulcro della narrazione. Un grosso tavolo in legno, dal quale si srotola un cartiglio pergamenaceo illustrato, troneggia sulla scena. Accostando le tele, sembra quasi di percepire l’assenza di un secondo figurante che, nel Chiromante, lascia un vuoto al centro della tela sbilanciandone la stereometria compositiva. In un bizzarro gioco di richiami compositivi, un attore col berrettone -grazie ad un rapido cambio d’abiti- recita il doppio ruolo di Avventore o Fariseo. L’interesse del Vecchia per la chiromanzia è ben documentato dal cartiglio che lascia “distrattamente” a vista per lo spettatore, con un intrigante effetto trompe-l'œil. Vi si legge, in caratteri aramaici e latini: ‫שי ַ ע ֲֽש ּ׃‬ ֥ ְ‫ְב ַי ־ ָכ ־אָ ָ ֥ י ְַח ֑תֹ ֝ ָ ֗ ַ עַת ָכ ־אַ נ‬

Si tratta del celebre versetto con cui in ambito cristiano e -a partire dal XVI secolo30- anche nella tradizione giudaica, si fa rinvenire l’origine divina della chiromanzia. Il testo, anche nella sua versione italiana più recente e filologicamente austera (quella redatta nel 2008 dalla Conferenza Episcopale Italiana), conserva il suo fascino misterioso. Recita: «nella mano di ogni uomo 30

Gershom Sholem, La Cabala (traduzione di Roberta Rambelli), Roma 1992, pag.318.

pone un sigillo, perché tutti riconoscano la sua opera»; laddove colui che pone è il dio di Abramo e, come ben precisato dalla nota a margine, “porre il sigillo indica, qui, far cessare l’attività dell’uomo”. Se una “impronta ottenuta su un supporto malleabile mediante l’apposizione di una matrice recante i segni distintivi di un’autorità” (come da voce “sigillo” nell’enciclopedia Treccani) segna il termine dell’attività umana, interpretandone i segni si può conoscere il percorso della propria esistenza terrena. Nell’ambito culturale di cui Pietro Vecchia è interprete e testimone, il chiromante viene identificato nel tipo di un individuo anziano di sesso maschile, rigorosamente barbuto, canuto, occhialuto e con il capo coperto da un’infula, oppure dal cappuccio di una cocolla, anch’essa sempre presente (eccepisce a tale regola esclusivamente il Chiromante con berrettone che appare nella tela attribuita al Vecchia, proposta in asta da Bonhams neò 2008). Di primo acchito, si potrebbe ben dire una figura monastica; tuttavia la tunica con cappuccio descrive anche l’abbigliamento del Sommo Sacerdote, nelle tele in cui il Vecchia racconta il Cristo e l’Adultera, di derivazione padovaniniana. La differenza consiste nel fatto che la tonaca sacerdotale ebraica, detta me’il, presenta legata al cappuccio sulla fronte la targa d’oro detta tzitz che, in un’altra versione del dipinto conservata al Musée Calvet di Avignone, è impreziosita da una grossa gemma di forma romboidale. Breve parentesi iconografica: il Cristoellenistico, quello “piacione” e con le “labbrucce” sporgenti e schiuse di Stoccarda, ha forti contiguità con il suo alter ego attribuito al Padovanino, sulla base dell’iscrizione cha campeggia sulla parte altra della tela. Sulla possibile attribuzione di quest’opera al Vecchia, ci occuperemo nel capitolo interamente dedicato alle ricercate dissonanze, peculiari del modus operandi di questo artista. Tornando piuttosto al Chiromante, è bene precisare che, nonostante i rischi di finire sotto il torchio di una Inquisizione che a Venezia


funzionava con il supporto dei “tre Savi all’Eresia” nominati dalla Repubblica, la chiromanzia veniva praticata anche dai preti. Il processo del 1584 per “chiromanzia e sortilegio” contro il sacerdote Giovanni Pietro Attilio, pievano a Casarsa31 in Friuli (da non confondersi con il frate televisivo Antonino da Scasazza), certifica la diffusione di questa prassi in ambito ecclesiastico. Stringendo l’inquadratura dopo aver sgombrato il campo dal grosso tavolo, sostituendo il vecchio con gli occhiali con un giovane barbuto dalla lunga chioma, chiamata la costumista per esigenze di abbigliamento ed aggiunta una seconda comparsa al centro, il Vecchia è pronto a mettere in scena La Moneta del Tributo. Questo tableau vivant32 diventa un plastico esempio di “chiromanzia inversa”, in cui un Cristo/Chiromante afferra il polso ad un Avventore/Fariseo intimandogli di riconoscere quali siano l’effigie e l’iscrizione (ovvero il “sigillo” di Tiberio), sulla moneta pigiata nel palmo della sua mano. Per interpretare questo ruolo, l’artista si affida ad un personaggio -riprendiamo qui il proemio“dal profilo compassato, nel senso etimologico primigenio” e “caratterizzato da occhi grandi e da un lungo naso dalle froge arricciate”. Su questa tipologia cranica, il Della Porta si esprime in modo categorico:

Cfr. elenco dei processi d’inquisizione in Friuli su portale torviscosa.org. « Tableau vivant (loc. sost. m. inv.). Composizione scenica costituita da uno o più personaggi in posa, spesso in costume e con opportune ambientazioni». Voce “Tableau vivant” in Grande Dizionario Hoepli Italiano di Aldo Gabrielli.

31

32

Qualche secolo dopo, in quel meraviglioso zibaldone creato assemblando le stesse fonti con cui abbiamo imparato a familiarizzare, scritto a quattro mani da Jacques-Louis Moreau de la Sarthe (1771-1826) e Johann Caspar Lavater (1741-18) e dal titolo L’Arte di conoscere gli uomini attraverso la Fisionomia, troviamo la quadratura del nostro cerchio (termine appropriato, parlando di teste rotonde). La trasposizione dal francese qui proposta, potrebbe essere letta avendo come termine di confronto il profilo del Cristo del Vecchia, anziché l’incisione ottocentesca.

Della Fisonomia dell’Uomo del Signor Giovan Battista della Porta Napolitano, Libri Sei, Libro Secondo; 1613; pag.47 (recto).

33


DOPPELGÄNGER & MULTIVERSI

Nonostante la lettura risulti estremamente suggestiva, l’assenza di citazioni bibliografiche o puntuali riferimenti agli autori (da cui la definizione di zibaldone), non consente di estrapolare informazioni storiografiche di alcun tipo. Con riferimento alle due tele in esame, appare chiaro che, anche in questo caso, il Vecchia sperimenti due distinti tipi fisiognomici: il Cristo-giudaico, antagonista del Fariseo/Platone; il Cristo-ellenistico, opposto al Fariseo/Montone.

Il principio dell’imitazione è un caposaldo che orienta la prassi artistica del Vecchia secondo due direttrici: una passatista e l’altra auto-emulativa. La prima, facilmente comprensibile, vuole che il pittore guardi a quei maestri del passato che lo stesso Boschini elenca in rima nella Carta del Navegar Pitoresco: da Palma il Vecchio al Pordenone, da Giorgine a Tiziano. L’altra è di tipo “speculativo”, sia secondo le leggi dell’ottica che della finanza, e si manifesta in tutte quelle opere che possiedono uno o più Doppelgänger35: repliche infedeli e difformi nell’espressione dei volti che, messe l’una accanto l’altra, presentano la stessa dualità del Dr. Jekyll che si specchia in Mr. Hyde. Come già osservato da Dal Pozzolo: «

36».

Nel multiverso37 figurativo del Vecchia i personaggi -pur rimanendo riconoscibilimutano le loro fattezze, assecondati dall’estro pittorico. A seconda che il pennello voglia librarsi sospinto dall’impeto narrativo, oppure addentrarsi con tratti minuziosi nei meandri del racconto, vedremo volti ordinari diventare suadenti e profili piacevoli mutarsi in grotteschi. La possibilità di estendere questo ragionamento cospicue coppie di tele, è da porre in riferimento all’attività affaristica del Vecchia come “antiquario” insieme al suocero, Nicolas Régnier. Realizzando versioni stilisticamente differenti di uno stesso tema compositivo poteva offrire un prodotto “customizzato”, ovvero adattato «mediante appositi interventi di Cfr.: J.-L. Moreau de la Sarthe & J. C. Lavater, L'Art de Connaître les Hommes par la Physionomie, volume VII; Parigi, 1807; pag.187. 34

Neologismo coniato nel 1976 dallo scrittore tedesco Johann Paul Friedrich Richter (1763-1825) nel romanzo Siebenkäs, per indicare uno spirito vivente che incarna l'opposto spirituale o negativo della sua controparte umana (Cfr. voce enciclopedica Dizionario Merriam-Webster online). 35

36

Franco Maria dal Pozzolo, 2011; pag. 77.

«Il termine è stato coniato dal fisico russo Andrej Linde, in contrapposizione a Universo, per indicare l’insieme dei miniuniversi (o bolle inflazionarie) che si formerebbero durante l’inflazione cosmologica; il nostro Universo si sarebbe sviluppato a partire da uno di questi miniuniversi» (Cfr.: voce enciclopedica in Enciclopedia Treccani - Lessico del XXI Secolo; 2013). 37


personalizzazione, alle esigenze e alle aspettative del cliente38». Fu vera fraude? Ai posteri l’ardua sentenzia! Queste ricercate dissonanze lasciavano aperta ogni possibile suggestione per l’acquirente il quale, a seconda delle proprie inclinazioni, avrebbe preferito una tela ad un’altra ravvisandovi, nello stile pittorico e nel diverso modo di caratterizzare i volti, il pennello dell’artista prediletto. Il tutto, ovviamente, con buona pace del Vecchia che avrebbe in ogni caso venduto una sua creazione. Valga in tal senso l’esempio della tela di Palazzo Thiene e dalla sua omologa, proveniente dai Civici Musei di Padova, raffiguranti L’Incredulità di Tommaso. Anche in questo frangente il Vecchia, agevolato dal testo evangelico, gioca sulla somiglianza dei due personaggi in primo piano e sulla teatralità gestuale. La scena, che rappresenta il prequel ovvero l’antefatto pittorico della tela omonima di Caravaggio, vede Cristo tendere il braccio ed afferrare il polso del suo Gemello, da intendersi in senso sia letterale che letterario, per portalo verso la sua ferita al costato. La tradizione evangelica di Giovanni rammenta che Tommaso è sempre chiamato Dìdimo, dal greco δίδυμος, che significa letteralmente «doppio, gemello39». Puntualmente, tra una redazione pittorica e l’altra, si osserva un dimorfismo facciale nei personaggi rappresentati, in maniera similare -anche se un po’ più attenuata- a quanto osservabile ne La Moneta del Tributo. Un altro caso di marketing applicato alla produzione artistica, concerne la serie dei soldati che sguainano spade. Per l’occorrenza, la sezione illustrativa è corredata da una trilogia degna del tormentone pubblicitario degli anni Ottanta: “Liscia, gassata, o…?!”. I Tripelgänger, ovvero i “tre spiriti viandanti” che consentono di tracciare una filogenesi del tipo pittorico del nostro Fariseo, incarnano le tre espressioni dell’anima guerresca: quella serena

(Sotheby’s), quella riflessiva (Kunsthistorisches Museum di Vienna, con lo sguardo che corre fugace verso la guardia sinistra) e quella all’érta (Palazzo Barberini in Roma), con gli occhi sgranati verso lo spettatore e la bocca schiusa a mostrare i denti, ed intenta a lanciare il «grido o esortazione di controllo delle sentinelle fra loro40». Se il cospicuo numero di repliche e derivazioni di questo soggetto cavalleresco è sintomatico dell’indubbia fortuna critica del tema compositivo, meno immediato appare -allo sguardo contemporaneo- il motivo di tale successo. Una prima e dettagliata spiegazione la offre il Boschini stesso, proprio in riferimento alle cosiddette “imitazioni originali” del Vecchia:

Gli Armigeri di Zorzi ritraggono soggetti (ivi compreso l’Autoritratto custodito nel Herzog Anton Ulrich Museum) nella maggior parte dei casi non più identificabili all’epoca del Vecchia. Avendo quest’ultimo reinventato il tema del guerriero per assecondare o fuorviare il pubblico con le sue doti emulative, c’è da chiedersi quale plausibile personaggio del passato si celi dietro “l’huomo col berrettone”. Nel tardo Ottocento, i curatori museali viennesi avevano le idee ben chiare in proposito. In nota alla scheda dell’opera in questione scrivono:

38

Cfr. Voce “customiżżare” in Vocabolario Treccani.

40

Cfr. Voce “all’érta (o allérta)” Vocabolario Treccani.

39

Cfr. Voce “dìdimo²” in,Vocabolario Treccani.

41

Cfr.: voce “Giorgione da Castelfranco”, in Marco Boschini, 1674.


«Vecchia dipinse spesso questa figura, che era attribuita come il Cavaliere Bayard42». Una descrizione posta ai piedi di una vecchia foto anteriore al 1903 delle Edizioni Brogi, conferma la plausibilità di questa tesi anche in ambito italiano: «Genova -Palazzo SpinolaRitratto di Pietro Bayard; Giorgione43». La tela in questione, stante il parere di Zeri e l’attuale status di inventario, è annoverabile tra le repliche del Guerriero che sguaina la spada anche se, a giudizio dello scrivente, sembrerebbe più una copia di bottega. Ma non è questa la sede per fare questioni di lana caprina. “Pietro” ovvero Pierre Terrail de Bayard (14761524) fu un condottiero francese del XVI secolo, eternato a simbolo dei valori cavallereschi dal suo compagno d’arme Jacques de Mailles, nel libro La Storia assai gioiosa e piacevole del Gentile Signore di Bayart, il Buon Cavaliere senza macchia e senza paura44, da questi scritto nel 1527. Ebbene sì, il modo di dire circa un tipo impavido, sembra derivi proprio dal titolo di questo libro. Non desterà quindi sorpresa venire a conoscenza di un’incisione francese, pubblicata nel 1804 , che ritrae come “LE PORTRAIT DE BAYARD” la derivazione da un dipinto di “Palma il Vecchio”, che altri non è che il Berrettone del Vecchia. Nello stesso periodo, a Londra, l’illustratore Charles Paul Landon crea il suo ritratto del Baiardo ispirandosi anch’egli ad una tela di “Palma il Vecchio”, immancabilmente ascrivibile al nostro. Questo percorso à rebours si arresta al 1616. A questa data risale la seicentina -e forse anche la prima edizione a stampa- del libro di Jacques de Mailles. Per ovvi motivi cronologici, l’eventuale ritratto in essa presente, non può derivare da un dipinto del Vecchia. Accade invece qualcosa di inaspettato. Sfogliando l’incunabolo45, ci si imbatte ben presto in un’incisione del “baiardo” il cui volto palesa una stringente somiglianza con quello effigiato in

una tela, di ubicazione ignota, attribuita da Federico Zeri proprio al Vecchia: il Guerriero in Armatura (inventario 59134). Qui il cavaliere appare corazzato, con la destra a sorreggere la testa trasognante e lo sguardo rivolto dubbioso verso l’alto, mentre in basso, la corona riccamente intagliata di un’arpa barocca, rivela il tema che l’opera (grazie all’inaspettato confronto) sottende: L’Apoteosi di Pierre de Bayard. La ricercatezza polisemantica del Vecchia consentirebbe di descrivere il dipinto come Re Davide con l’Arpa. Ma questa è un’altra storia. Nello scorrere le pagine del Tempo, abbiamo trovato conferma di come il pennello del nostro venisse pacificamente scambiato per quello di Giorgione e Palma il Vecchio, nonché come egli stesso si servisse sistematicamente di fonti a lui anteriori (dal libro del 1616 ai già citati volumi tardo Cinquecenteschi del Della Porta) per “invecchiare” il suo stile pittorico. Scriveva a tal proposito il Boschini, suo sodale:

42 «Vecchia hat diese Figur, die für Ritter Bayard galt, oft gemalt.». In AA.VV., Führer durch die Gemälde-Galerie Alte Meister. 1. Italienische, Spanische und französische Schulen; Vienna, 1895; pag. 131.

45 La mia biblioteca “privata” di libri antichi e rari è consultabile sul sito della ONG Intenet Archive. Cliccando QUI si accede all’edizione del 1616. 46 «Piera del toco. Paragone, pietra sulla quale fregando l'oro e l'argento si fa prova della loro qualità.». In Gasparo Patriarchi, Vocabolario Veneziano e Padovano; terza Edizione, Padova 1821.

43

Archivio Zeri, inventario n.117789.

Titolo originale: La Très joyeuse et très plaisante histoire du gentil seigneur de Bayart, le bon chevalier sans peur et sans reproche, composée par le loyal serviteur Jean de Maille; Parigi 1527.

Il significato sarà più chiaro accostandoci alla trasposizione in prosa: «Si vede che, quel nome de la Vecchia, indica il suo valore fin» da quando era «in fasce; se quelle opere, che nascono dal suo pennello, si apprestano [aparechia] a gareggiare con l’antico.» Egli è «pietra di paragone46 che, con gran disegno, sa mostrare al Mondo l’accostamento [accoppiamento] di tutte le maniere; e, con il massimo impegno, l’ingegno (suo) è paragonabile [sta] al più puro cimènto», mistura anticamente usata dagli orafi per purificare o saggiare i metalli preziosi47.

44

47

Cfr. voce etimologica “ciménto” Vocabolario Treccani.


Seguendo il filo del discorso ed incuriositi dalla suggestione di poter risalire ad un eventuale prototipo del Berrettone (dal quale deriverebbe il tipo del nostro Fariseo), si suggerisce il binomio cinquecentista Polidoro da Caravaggio/Rosso Fiorentino, le cui altalenanti attribuzioni sono tutt’oggi oggetto di contenzioso. Del primo, antesignano del più celebre Michelangelo Merisi suo concittadino, avremo modo di parlare in seguito. Del secondo invece, figlio della diaspora artistica conseguente il Sacco di Roma del 1527 ed instradato dall’allora Ambasciatore del Re di Francia verso quel di Fontainebleau durante un suo breve soggiorno in quel di Venezia, c’intratterremo testé volentieri. Proponiamo a tal propostio il Cavaliere di San Giovanni della National Gallery di Londra, la cui attribuzione a Rosso Fiorentino (1494-1540) non dirime la vexata quæstio circa la sua precedente assegnazione a Polidoro da Caravaggio. In questa pregevole ed un po’ obliata tela, possiamo ammirare il ritratto di un giovane dalla barba nera, carnagione olivastra, ampio berrettone calato di tre quarti, giubba nera sopra un abito di raso un tempo bianco. Porta una spada da lato con guardia (al posto dello stocco, più familiare al Vecchia) e non sembra intenzionato a sguainarla. Si limita a segnalarne la bellicosa presenza portandosi la mano sinistra verso il fodero, con l’indice ed il medio aperti in direzione del sospensorio, virilmente esibito. D’altronde gli basta scostare leggermente la giubba e mostrare il medaglione dell’Ordine degli Ospitalieri di San Giovanni di Gerusalemme, per dichiarare il suo status di Cavaliere di Malta e qualificarsi come temibile spadaccino.






































































«--------------------- 187- 44 -----------------------

SULLE TRACCE DEL GEMELLO La Moneta del Tributo di Stoccarda giunge nella Galleria Nazionale tedesca tra il 1850 ed il 1852 attraverso l’acquisizione in blocco della Collezione Barbini-Breganze (250 opere circa) da parte di Re Guglielmo I di Württemberg48. Il corpus primigenio fu creato dal pittore ed antiquario veneziano Michelangelo Barbini (17801843), anch’egli coinvolto come il Vecchia « 49». Della collezione possediamo un catalogo descrittivo bilingue (italiano/francese) edito nel 1847 da Francesco Zanotto (1794-1863) evidentemente per finalità commerciali, visto sia l’approdo finale che alcuni interessanti dati d’archivio che ci accingiamo a descrivere. Nella copia del 1847 conservata presso la Biblioteca Nazionale Bavarese è stato infatti applicato -sulla seconda di copertina- un cartellino in francese che indica la “possibilità di visionare l’intera collezione presso Palazzo Zaguri N°2632 al molo di San Maurizio in Venezia50”. La copia in questione è emendata con la barratura sistematica di 15 opere e la conseguente modifica dell’incipit da “tutti indistintamente i dipinti”, in “tutti meno 15 dipinti” corretto a penna sia in italiano che in francese. Ciò conferma che la pubblicazione servisse da inventario delle opere poste all’incanto. Data sia l’arte svolta in vita dal Barbini, che la probabile soggezione o connivenza di Zanotto, l’inventario trasuda opere del Giorgione (ben otto), mentre l’unica opera attribuita al Vecchia è un Ritratto di Letterato a mezza figura (133x196cm), per ironia della sorte non identificabile in alcun’opera presente nell’attuale registro online del museo. Poiché il catalogatore è stato a suo tempo meticoloso nel descrivere, elencare e misurare ciascun dipinto, tuffarsi nella lettura sistematica fino ad imbattersi in qualcosa di interessante, non è stata opera vana. Leggiamo.

48 Alice Collavin, Francesco Zanotto e alcuni cataloghi d’arte della Venezia ottocentesca. In, MDCCC 1800, vol.1; Venezia 2012, pag.74. 49

Idem.

» Ad una prima fase di stupore, conseguente la scelta di ascrivere la tela al pennello di Polidoro da Caravaggio (nome già suggerito pocanzi in binomio con Rosso Fiorentino), segue un secondo e ben più lungo periodo di spaesamento per la scelta di attribuire a questo “Caravaggio” l’anagrafica di “Michelangelo Merigi”, ovvero il Merisi-Caravaggio (1571-1610) le cui tracce nella storiografia del XIX secolo sono state puntualmente ricostruite nel 2003 da Stefania Macioce nel suo libro Michelangelo Merisi da Caravaggio. Fonti e documenti: 1532-1734. Quale fosse l’idea che lo Zanotto e gli storici suoi contemporanei avessero dell’opera del Merisi, è ben documentata dall’averlo confuso col Vecchia. Per comprendere se questo scambio di identità fosse accidentale o meno, non restava altra scelta che analizzare la descrizione di un’altra opera attribuita al Merisi, i Giocatori di Dadi. «-------------------- 189- 173 ----------------------

Francesco Zanotto, Pinacoteca Barbini Breganze dichiarata con note illustrative; testo bilingue italiano/francese; Venezia 1847.

50


Anche in questo caso la tela, attualmente assegnata al Vecchia51 e conosciuta anche in altre versioni, tra cui ricordiamo quella in asta per Dorotheum nel 2015 o quella musealizzata nella Pinacoteca Egidio Martini di Venezia, viene indicata come proveniente dalla Collezione Barbini-Breganze. A voler perorare la causa di Zanotto, ci sarebbe da domandarsi quali siano gli “echi caravaggeschi” (per parafrasare una mostra leccese del 2010) dai quali il Vecchia traesse ispirazione, ogni volta in cui lo stesso non si esprimeva nei modi di Giorgione o Tiziano. Conoscendone oramai l’indole onnivora e la capacità dissimulatoria del suo pennello, sarà difficile argomentare in modo generale. Per quanto concerne il tema specifico de La Moneta del Tributo, una marcata suggestione si avverte osservando la tela omonima realizzata da Giovanni Lanfranco (1582-1647), attualmente esposta nella Galleria Borghese di Roma in seno alla mostra “Orazio Borgianni. Un genio inquieto nella Roma di Caravaggio”, curata da Giovanni Papi. Se argomentare sulla matrici caravaggesche del naturalismo di Lanfranco è questione di stretta attualità, è indubbio che il tipo del Cristo proposto nell’opera in mostra e proveniente dalla Galerie Perrin di Parigi, presenti stringenti corrispondenze fisionomiche con il suo alter ego di Stoccarda: dalla forma dei lobi alla muscolatura del collo, dalla protrusione delle labbra alla arcatura delle froge, dall’acconciatura alla forma della barba, che si articola in lunghe basette che scendono sulle mandibole e sfumano verso un pizzetto, allungato sul mento. L’accostamento del Vecchia ai modi del Lanfranco, trova un ulteriore trait d’union 51

Olio su tela, 83x127,5 cm.; inventario nr. 199.

Francesco Zanotto, Storia della Pittura Veneziana; Venezia 1837; pagg. pagg 347348.

52

nell’interessante Mulattiere (con Signora) del museo di Carcassonne, sagacemente intitolata Il Ciarlatano, un cui replica è stata riproposta come “scuola lombarda” in un’asta romana del 2013. Dopo la difesa, però, la parola passa all’accusa. Per quanto si debba concedere a chiunque il beneficio del dubbio (ancor più se questi non è più in grado di controbattere), è difficile immaginare che Francesco Zanotto, autore della poderosa Storia della Pittura Veneziana, fosse all’oscuro dei modi e dei trucchi del Vecchia. La sua familiarità con le sue imitazioni, è oltretutto messa per iscritto dallo stesso Zanotto. “Ascoltiamo” quindi una sua viva testimonianza. «

» Il brano, più famoso per essere all’origine della falsa attribuzione del cognome Muttoni al Vecchia (situazione chiaritasi definitivamente nel 1990 grazie all’enciclopedico lavoro di Bernard Aikema53), chiarisce quale grado di conoscenza il nostro “imputato” avesse di questo, come di altri pittori veneti.

Bernard Aikema, Pietro Della Vecchia and the Heritage of the Renaissance in Venice; Firenze 1990. Il testo ha svolto un ruolo fondamentale nell’avvio delle ricerche poiché possiede la prima illustrazione nota della tela di Stoccarda (ill. 8; cat. 50).

53


Non soltanto quindi il Vecchia -complici il fu Barbini e lo Zanotto- diventa Caravaggio, ma riesce post-mortem a gabbare l’inconsapevole Re Guglielmo di Württemberg. A ben guardare, poi, sembra che la Simia di Zorzòn continui a camuffarsi dietro altre opere della Staatsgalerie Stuttgart, come il Saul e David con la Testa di Golia, già inventariato da Zanotto come tavola di Giorgione54 ed attualmente catalogato con incerta attribuzione a Dosso Dossi. La stessa scena e lo stesso supporto, caratterizzano la versione della Galleria Borghese, cautamente proposta dal museo come una derivazione seicentesca da Dosso Dossi. Derimente, infine, è l’accostamento all’omonima tela del Kunsthistorisches Museum di Vienna (un altro esempio di Tripelgänger), univocamente attribuita al Vecchia e proveniente dalla collezione romana del Cardinale Giovanni Francesco Albani (1720-1803). Possibili coinvolgimenti del Vecchia emergono anche in due tele pendant, La Partenza di Ettore da Andromaca e la Madonna con Bambinello e San Giorgio, realizzate dal Padovanino. Nel soggetto mariano ed in quello mitologico appare una tipica Fanciulla padovaniniana, già vista nei panni dell’Adultera, mentre il San Giorgio imberbe, riecheggia nei tratti e nello stile sfumato l’altro Santo Cavaliere della Pala di Castelfranco (in questo caso il giovane si è tolto l’elmo e guarda verso il Bambinello), sul quale ben due volte il Vecchia aveva messo mano in qualità di restauratore. Nella tela tratta dal Libro VI dell’Iliade, compaiono sulla destra due teste di donna che potrebbero essere considerate come antesignane di quelle a noi ormai familiari del Vecchia, mentre il grosso animale inferocito che fregia il cimiero di Ettore ricorda il drago-serpente trafitto dal Vecchia nell’Apollo che trafigge Pitone55, derivante a sua volta da un’incisione del 1589 ascrivibile (forse) ad Hendrik Goltzius (1558-1617). La struttura argomentativa, sembrerebbe spingere ad una revisione della paternità pittorica delle opere summenzionate. Fermo restando l’indubbio fascino del continuum narrativo, è bene ammettere -con spirito critico- che le stesse

osservazioni potrebbero essere applicate al modus operandi del Padovanino (verosimilmente maestro del nostro), il cui scarto anagrafico con il Vecchia è di soli 15 anni.

«Suddetto. In tavola alto 0,87, largo 0,74. Saule e Davidde Mezze figure». In Francesco Zanotto, ,Pinacoteca Barbini Breganze pag.10.

55

54

Riavvolgiamo il nastro del discorso (per chi ancora ne avesse un ricordo non solo metaforico) sino alla frase in cui Zanotto afferma che: « ». Alla luce delle conoscenze attuali, viene spontaneo chiedersi se lo storico dell’arte veneziano fosse a conoscenza dell’esistenza di una “imitazione” del suo Caravaggio, verosimilmente da intendersi come il nostro dipinto. L’affermazione “degne di venire imitate” è troppo capziosa per essere considerata una semplice frase estemporanea. Se inserita per descrivere un lotto in un catalogo d’asta, serve piuttosto a sottolineare una primogenitura dell’opera inventariata rispetto ad un’altra, evidentemente nota nello stesso ambito collezionistico, con evidenti finalità di gerarchia in termini economico-commerciali: stimare un “originale” ad un prezzo maggiore di una eventuale “imitazione”. Guardando con sguardo ottocentesco alle due versioni de La Moneta del Tributo, appare plausibile ipotizzare che la “nostra” tela, dipinta con modi giorgioneschi, possa essere proposta o scambiata per imitazione dell’altra, realizzata con una tecnica pittorica molto più meditata e con dettagli descrittivi di gusto manierista. Appare più difficile, invece, considerare come caravaggesca la tela di Stoccarda, almeno nel modo attuale di accostarsi al repertorio di questo artista. Le teste di donna che impressionano Zanotti, sarebbero più facilmente accostabili ai volti delle Pie Donne nel Trasporto di Cristo nel Sepolcro di Polidoro da Caravaggio (un olio su tavola acquistato nel 1972 per il Museo Nazionale di Capodimonte), che ad una qualsivoglia figura femminile del Merisi. Ma qui siamo nel puro ambito delle ipotesi speculative.

Cfr. Bernard Aikema, 1990. Illustrazione 23: Apollo slaying Python. Florence, Private collection (cat 117). Olio su tela, 67x102 cm.


RICERCATE DISSONANZE Questo rompicapo pittorico si propone il difficile compito di ricomporre e disvelare il meccanismo che sta alla base delle dissonanze pittoriche nell’opera del Vecchia. Nel disporre la serie di “gemelli diversi” da accostare alle due edizioni de La Moneta del Tributo, abbiamo già in precedenza affiancato al Cristo e l’Adultera del Museo Calvet di Avignone, la tela omonima e compositivamente affine conservata presso il Kunsthistorisches Museum di Vienna. Per rendere il gioco più accattivante, si è scelta un’opera non del Vecchia ma del Padovanino, almeno stando a quanto storicizzato in ambito museale e comprovato sia da una serie di similitudini tecnico-esecutive che da una firma estensiva che campeggia in bella vista. Sotto il profilo compositivo, questa tela sembra il risultato dello smontaggio e riassemblaggio dei “cartoni” dell’Ultima Cena del Padovanino, con la figura femminile centrale -come inserto extrapresa pari pari da altre due tele della ex Collezione Barbini-Breganze, oggi a Stoccarda. Poiché la questione attributiva non è in sé dirimente circa le capacità mimetiche del Vecchia, ci limiteremo ad elencare una serie di opzioni pro e contro l’attribuzione di quest’opera al Varotari.

• Il dipinto sembra il risultato dello smontaggio ed assemblaggio dell’Ultima Cena. PRO Indica che l’opera è stata realizzata dal maestro, all’interno della sua bottega. Un eventuale intervento pittorica del Vecchia potrebbe inserirsi sia come contributo pittorico giovanile, sia come intervento pittorico posteriore. CONTRO L’unica figura significativamente originale, l’uomo con gli occhiali e la lunga barba canuta, appare ripetutamente in più tele del Vecchia per interpretare il ruolo del Chiromante. • La tela è firmata, sopra la figura dell’Adultera: ALEXANDRI VAROTARII PATAVINI OPUS.

PRO Varotari si firma per esteso per indicarne la inventio come ne La vittoria dei Carnutesi sui Normanni. CONTRO RI Nella tela di Brera si legge “ALEX: VAROTARII PATAVIUM OPUS 1618 “, con la data ed utilizzando “Patavium” anziché “Patavini”. Al Vecchia si attribuisce anche l’autoritratto autografo del Vecellio.

• La tela viennese e quella avignonese hanno lo stesso timbro pittorico e le stesse patine. PRO La tela del Vecchia è un classico esempio di “imitazione”. CONTRO Le opere sembrano uscire dalla stessa bottega, presentando inoltre lo stesso “dimorfismo” nei volti, come nelle due varianti de La Moneta del Tributo.

• La tela è stata acquistata dal Serenissimo Arciduca Leopoldo Guglielmo d’Austria, con il numero d’inventario 75, ed è presente nel Theatrum Pictorium di David Teniers del 1673. PRO Teniers era un esperto “terzo” rispetto alla triade Boschini-Vecchia-Regnier, quindi affidabile. CONTRO Lo stesso Teniers, nell’inventario per l’Arciduca, indica come “Leonardo” una bellissima tavola del Luini. • Allo stato dell’arte di può considerare il Cristo e l’Adultera come un unicum del Varotari. PRO Della tela non si conoscono altre versioni del maestro, ad eccezione di una replica in scala ridotta (58,5×74,5 cm) custodita a Katowice. Le altre, sono “copie” del Vecchia. CONTRO Tutte le derivazioni note di questa tela (compreso un rame di 33x45cm) sono unanimemente attribuite al Vecchia. La querelle potrebbe facilmente risolversi se si prendessero in considerazione sia la tipicità padovaniniana della Fanciulla (del quale abbiamo


argomentatno pocanzi), sia la possibilità che la tela fosse nelle disponibilità dirette o indirette (la collezione del suocero Nicolas Régnier) dello stesso Vecchia. Ad ogni buon conto, più della possibilità di confutare o confermare l’attribuzione al Varotari dell’opera viennese, quello che preme è fornire un esaudiente racconto visivo che offra allo spettatore la possibilità di accostare le opere tra loro, confermando la versatilità pittorica del nostro. Che poi il suo stile occhieggi anche al Padovanino, suo probabile maestro, è una conseguenza del fatto che lo stesso Varotari era un assiduo copista del Tiziano (basti guardare alla trilogia di Bacco e Arianna del Museo di Carrara per farsene un’idea), al punto da autoritrarsi mentre volge lo sguardo ed instaura un dialogo muto con un busto del Vecellio che, a ben guardare, rassomiglia in maniera sospetta ad uno dei falsi autoritratti realizzati dal Vecchia. Ma anche questa è un’altra storia. Il confronto delle due versioni del Cristo e l’Adultera, sostanzialmente omologhe tra loro, evidenzia il diverso taglio dimensionale della tela e lascia il campo aperto a qualunque speculazione sulle dimensioni originali dei telai: quello del Padovanino sembrerebbe infatti mancante delle due sottili porzioni superiore e inferiore, laddove quello del Vecchia appare invece mutilo della parte sinistra, con la conseguente mutilazione della testa di un figurante. Con riferimento invece alle due edizioni de La Moneta del Tributo, supporti e dimensioni coincidono al centimetro (o quasi) ed appaiono lo stesso numero di personaggi che, al netto dell’evidente dimorfismo facciale, presentano un’identica postura ed occupano la stessa porzione del campo pittorico. Anche nel Cristo e l’Adultera i personaggi cambiano fisionomia a seconda della versione, ma non solo. Addirittura in quella del Vecchia accade che, la maggiore vicinanza della donna al Sommo Sacerdote, modifichi in parte la struttura

Titolo proposto da Zeri: Testa di san Giovanni Battista; olio su tela, 68x102 cm.; già Collezione Papafava; scheda numero: 59075.

56

compositiva: dell’uomo con gli occhiali e la lunga barba s’intravvede soltanto la fronte rugosa e la grossa montatura in metallo, mentre la riduzione dello spazio pittorico fa sì che uno dei due figuranti sullo sfondo sparisca di scena. In compenso, vediamo apparire un grosso tavolo (nell’altra versione avvolto dalle ombre), l’edizione della Torah ha caratteri più grandi e leggibili, il Sommo Sacerdote ha la tzitz impreziosita da una grossa pietra preziosa e l’Adultera ha trovato anche il tempo per andare a fare la permanente riccia all’acconciatura. Come in una versione a grandezza naturale di Aguzzate la Vista, ciascuna coppia di gemelli fraterni sembra chiedere all’osservatore: «Queste due vignette di differenziano per 20 piccoli particolari. Quali?». Ne La Moneta del Tributo, il gioco delle sostituzioni si fa estremamente minuzioso, coinvolgendo lo stesso conio posto al centro della narrazione: se in un caso abbiamo già accertato che si tratti di un Aureo di Tiberio, nella tela di Stoccarda il titolo in oro subisce una “svalutazione” diventando d’argento- e mostra impresso il volto di Aretusa (con tanto di delfini saltellanti), caratteristico di una Tetradracma Siracusana del V secolo avanti Cristo. La quadratura del cerchio, la conferma che questa ricerca delle dissonanze rappresentasse a suo tempo un divertissement per lo stesso Vecchia, viene da due tele note esclusivamente dalle foto di Federico Zeri, in cui, rimpiazzando un globo celeste con una testa mozzata ed un libro con un vassoio da portata, trasforma una Lezione di Astronomia in una Lezione di Anatomia56.



















IL QUADRO CRONOLOGICO La struttura argomentativa fin qui sviluppata ruota attorno al confronto de La Moneta del Tributo in primis con l’opera di Stoccarda sua consorella e prosegue con l’accostamento ad una cospicua serie di tele “gemelle”, per le quali si è via via proposto il loro grado di correlazione ed affiliazione. Un’ulteriore riflessione concernente il metodo impiegato nel realizzare il nimbo attorno al volto di Cristo, ci porterà ora ad ampliare lo sguardo e volgerlo in direzione di un ciclo di committenze ecclesiastiche del Vecchia. In tal modo sarà possibile acquisire un fondamentale tassello per circoscrivere l’ambito di produzione ad un preciso ambito storico e geografico. La tecnica pittorica su cui porre l’attenzione è quella con cui il pittore traccia le aureole attorno alle figure di riferimento, schiarendone lo spazio circostante e conferendo quell’effetto “aura” già descritto per La Moneta del Tributo e riscontrabile anche nelle coppie raffiguranti Cristo e l’Adultera e L’Incredulità di Tommaso. Proprio dal confronto della “nostra” tela con L’Incredulità di Tommaso nella versione dei Civici Musei di Padova (arricchito da una sovrapposizione della foto a colori a quella in bianco e nero realizzato da Alinari nel 195957) ci accorgiamo che la postura con le gambe a compasso del Fariseo, viene riproposta specularmente nella figura del Cristo Risorto. Ma c’è dell’altro. Lo stile caricaturale, la gestualità ampia e teatrale, le ombre scure dei panneggi che generano contrasti quasi disegnativi, nonché la tavolozza pittorica giocata sulla predominanza di tre colori (blu “denim”, rosso e verde), trovano ampio e puntuale riscontro nelle tele realizzate dal Vecchia per la chiesa di San Teonisto a Treviso. Del corpus pittorico che caratterizzava questo luogo di culto si sa pressoché tutto, grazie al fondamentale contributo offerto dal volume del 1767 di Ambrogio Rigamondi sulla Descrizione delle Pitture più celebri che si vedono 57

Archivio Alinari, inv. n.: ACA-F-054139-0000.

esposte nelle Chiese, ed altri Luoghi Pubblici di Trevigi. Il libro fornisce una descrizione puntuale delle 22 opere allocate nella chiesa, 19 delle quali sono state recentemente reinserite nel sito originario (provenienti dai Musei Civici di Treviso), a seguito di un lungo restauro dell’ex edificio ecclesiastico terminato nel gennaio 2018. Le sette tavole trevigiane del Vecchia, due delle quali misurano oltre tre metri per cinque, sono tutte datate e firmate sia in modo estensivo (nell’Ascensione di Gesù Cristo campeggia al centro un «PETRI VECCHIA/OPVS/1653»), che siglate con il Monogramma “PVF” seguito dall’anno, con le lettere “P” e “F” per fecit, sagacemente innestate sul corpo della “V”. Nonostante la documentazione del Rigamonti non indichi alcuna Moneta del Tributo nelle chiese cittadine, inserendola tra le altre tele di San Teonisto, si delinea subito l’uniformità del profilo stilistico-esecutivo che le percorre con sapida vivacità e senza soluzione di continuità, come se il Vecchia le avesse realizzate di getto attingendo da un’unica tavolozza cromatica. « 58»

scrive Roberto Pancheri, raccontando il Martirio di San Lorenzo come se stesse osservando il San Sebastiano o La Moneta del Tributo. Situazione che si ripropone allorquando, nel descrivere il gusto ricercato per l’anacronismo, con i « » ed il loro « 59»

il Pancheri descrive il Martirio dei santi benedettini Eutichio, Placido, Vittorino, Flavia e compagni, con gli stessi toni con cui potremmo raccontare la nostra tela. Con riferimento a quest’opera, si osservi come il volto barbuto presente alle spalle del Soldato con elmo e “brache di jeans” sia lo stesso che appare ochialuto dietro al Cristo nella Moneta del Tributo. Per quanto afferisce i già citati “contrasti quasi disegnativi”, non ci si può esimere dal considerare che a partire dal 1640 il Vecchia è impegnato in quel di San Marco con il doppio incarico di ideatorie dei cartoni preparatori per i In Sergio Marinelli ed Eugenio Manzato, Musei Civici di Treviso. La Pinacoteca. Vol. 2. Pittura Rinascimentale e Barocca; Cornuda (TV) 2019; pag. 253. 59 Ibidem, pag. 254. 58


nuovi allestimenti musivi e restauratore dei mosaici preesistenti; impegno quest’ultimo talmente gravoso e difficilmente compatibile con le varie attività del nostro, da costringerlo in breve a dimettersi. Scrive il Boschini: «

» Quello dei cartoni preparativi era già di per sé un lavoro estremamente lungo ad articolato che, come confermato da Aikema, l’avrebbe tenuto impegnato con discontinuità dal 1640-166061. Un riflesso immediato di questo “nuovo” stile figurativo, si può osservare in due tele custodite presso la Chiesa di Sant’Alvise in Venezia e raffiguranti proprio l’Inganno dei Doganieri ed il Trafugamento del Feretro, pedissequamente ripresi in forma musiva in quel di San Marco. Questo stile gradevolmente fumettistico, pensato per l’osservazione da lunga distanza e quindi giocato su forti contrasti chiaroscurali ed un esiguo numero di colori, ha permeato anche lo stile delle opere pittoriche realizzate dal Vecchia in questo lungo ventennio. Nonostante gli apparati musivi più celebri da questi realizzati per San Marco siano le due grandi lunette della facciata (con l’Inganno dei Doganieri e Traslazione delle reliquie e l’Arrivo del Corpo di San Marco a Venezia), il suo contributo alla decorazione della basilica marciana si sviluppa anche nell’atrio, con temi quali Giuseppe che interpreta i sogni del faraone (nel semicatino sopra la tomba del doge Morosini) i Santi Apollinare, Sigismondo, Francesco ed Antonio (nella volta a botte sopra le tombe dei Primiceri) ed il Passaggio del Mar Rosso62 nella lunetta sud del cupolino.

60

Cfr. Marco Boschini, La Carta del Navegar Pitoresco; 1660; pag.505.

61

Bernard Aikema 1990; pag.25.

COGNOMICA VECCHIANA Delle 263 opere catalogate da Aikema nella sua monografia su della Vecchia, 15 recano una firma estensiva, secondo le varianti qui delineate: PETRUS VECCHIA 5X DAL 1644 AL 1672 PETRUS VECHIA 4X DAL 1649 AL 1654 PETRUS VECCH(..) 1X NEL 1645 PETRI VECCHIA 4X DAL 1635 AL 1674 PETRI VECCHIÆ 1X NEL 1639 Per il Boschini, suo contemporaneo e conoscente, è «Piero Vechia» ne La Carta del Navegar Pitoresco, pubblicato nel 1660 in rima ed utilizzando la vulgata veneta. Nel 1674, quando lo stesso darà alle stampe ed in lingua italiana- Le ricche Minere della Pittura Veneziana, il nome assumerà l’ufficialità di «Pietro Vecchia». Quando un secolo dopo, nel 1773, Antonio Maria Zanetti pubblicherà la Descrizione di tutte le Pubbliche Pitture della Città di Venezia e Isole circonvicine - O sia rinnovazione delle Ricche Minere di Marco Boschini - Colla aggiunta di tutte le opere, che uscirono dal 1674. fino al presente l733, utilizzerà la versione italianizzata dal suo predecessore. Un secolo dopo Francesco Zanotto, lo storico a cui si deve la “colpa” di aver dato voce -nella Storia della pittura veneziana del 1837- all’ipotesi che « », citerà sempre e solo il nome di «Pietro Vecchia», salvo poi “pentirsi” e pubblicare nel 1861 un pamphlet intitolato Ritratto di Pietro Diedo Senatore e Generale di mare della Repubblica Veneziana dipinto da Pietro Muttoni, detto della Vecchia. La formula “Pietro Muttoni, detto della Vecchia” diventerà dominante dalla fine del XIX secolo e per tutto il XX secolo, ovvero fino al dirimente volume di Aikema del 1990. Si confida che in un prossimo futuro si torni a chiamarlo Pietro Vecchia, filologicamente più corretto a parere dello scrivente, emendando quel patronimico che fa tanto toscano e poco veneto.

Cfr. Chiesa di San Marco, Venezia - Decorazione musiva parietale dell'Atrio; in www.mosaicocidm.it, sito ufficiale del CIDM - Centro Internazionale di Documentazione sul Mosaico di Ravenna. 62






































DUE LUSTRI DI ASSIDUE FREQUENTAZIONI (romanzo di un restauro) A quanti si siano avventurati fino qui, lo scrivente deve un chiarimento in chiosa che gli impone di cambiare registro e scrivere in prima persona. Tutto ebbe inizio nel 2010, quando la tela giunse nella galleria antiquaria in cui lavoravo, proveniente da una collezione privata emiliana. All’epoca il libro di Enrico Maria Dal Pozzolo era plausibilmente in fase d’impaginazione (verrà edito a gennaio dell’anno successivo) e, con buona pace del poderoso lavoro di Aikema, in ambito collezionistico si proponeva imperterrito il dielmma “Muttoni o della Vecchia”, neanche si trattasse di due pittori diversi. Un dato ad oggi rilevante e che all’epoca ho trascritto come informazione giuntami dal precedente possessore attraverso l’antiquario, riguarda la circostanza che la tela non fosse oggetto di “recenti” compravendite antiquariali o d’asta, ma facesse parte dei “beni di famiglia” del collezionista emiliano. Pur prendendo queste informazioni con le molle (simili racconti mi ricordano l’episodio noto come “Il Mancini di Papà” del film Il Mistero Bellavista), col senno di poi e con riferimento alle aste nazionali ed estere, il dato risulta incontrovertibilmente valido. Nonostante il decennio intercorso sia stato contrassegnato da ricerche incrociate attraverso le più accreditate banche dati online svolte per tema, artista e lingua di immissione dati (in italiano, inglese, francese e tedesco), né la “rete” né il volume di Aikema hanno fatto emergere alcun dato riferibile al dipinto in oggetto. Se per lo Storico dell’Arte (quello scritto con le maiuscole, sempre scevro dal parlare in pubblico del vil denaro) riferire di un’opera inedita per il mercato antiquario non influisce sul giudizio artistico della stessa, ma può “al massimo” contribuire ad accrescere le conoscenze su un determinato artista, per chi come me ha l’onere (e l’onore) di compiere un’analisi estimativa, questa circostanza può comportare una variazione in senso accrescitivo dei parametri economici.

In un ambito fisiologicamente asfittico come quello dall’arte antica, caratterizzato dalla costante ricerca ossimòrica di “qualcosa di nuovo nel vecchio”, proporre una tela inedita porta quanto meno una ventata d’aria fresca e suscita una certa curiosità nei collezionisti. Il confronto con la riproduzione fotografica del “gemello eterozigote” di Stoccarda, pubblicata in appendice alla monografia del 1999 in lingua inglese (di cui ero nel frattempo riuscito ad acquistare una copia), dava un chiaro termine di confronto, ma nulla più di questo. L’immagine era poco più grande di 10x15 centimetri, cosa alquanto comune per un tomo che risentiva dei limiti editoriali tipici delle pubblicazioni universitarie. A quel tempo, le mie personali cognizioni su questo peculiare artista non consentivano di addentrarmi nella materia come desideravo. Le differenze stilistiche apparivano così ostentate, talmente marchiane ed esibite, da non poter essere semplicemente liquidate come “variante da” o etichettate in peius come “copia di”. Nonostante queste marcate discrepanze, il dipinto che avevo davanti agli occhi possedeva una propria autonomia artistica, un suo modus pingendi che appariva alla mia mente in modo intelligibile e, tuttavia, non riuscivo a presentare in modo discorsivo. Per usare un concetto caro alla neuroestetica di Semir Zeki, vedevo la bellezza ma non riuscivo a descriverla. La tela, poi, era talmente scurita a causa delle patine e delle colle del rintelo che, anche il più caldo dei soli meridionali, riusciva e rischiararne la superficie per pochissimi minuti. Come da mia -in seguito- consolidata prassi lavorativa, all’esame autoptico sarebbe seguita un’accurata mappatura fotografica del manufatto da valutare. E qui le cose si sarebbero ulteriormente complicate. Oltre alle già menzionate peciosità, la superficie pittorica originale era letteralmente poggiata -più che incollata- al rintelo, provocando ondulazioni della superficie viepiù accentuate da una estroflessione in senso longitudinale del margine inferiore. Ciò a causa di una operatività riscontrata de visu in altre opere del Vecchia e non solo, come il Guerriero che sguaina la spada ed il Cristo e l’Adultera


firmato “ALEXANDRI VAROTARII” del Kunsthistorisches Museum di Vienna, consistente nella prassi di utilizzare tele giuntate in ordito, anche per opere con ampiezza di trama compresa nel metro. Ma questa, anche questa, è un’altra storia. Ad ogni buon conto, riesco a redigere una soddisfacente serie di scatti a cui fa seguito, nel maggio 2011, la stesura di una prima (e col senno di poi, sommaria) perizia, redatta in funzione della transazione economica tra l’antiquario ed in nuovo acquirente. Per onestà intellettuale, promisi al compratore (all’epoca poco più di un simpatico sconosciuto) che ne avrei redatta volentieri una seconda e più accurata, a condizione che mi fosse concesso il tempo di chiarire -innanzitutto a me stesso- tutti quegli aspetti che, all’epoca, restavano insoluti. Il sestante che ha segnato la rotta in questa lunga navigazione e fino ad un porto sicuro, è stato il volume di Dal Pozzolo Il fantasma di Giorgione Stregonerie pittoriche di Pietro della Vecchia nella Venezia falsofila del '600. Già il titolo prometteva un viaggio all’interno di un mondo affascinante ed a me poco conosciuto. Lo acquistai non appena trovai una copia acquistabile online. A lettura in corso avevo già compreso che, per venire a capo dei miei quesiti, sarebbe stato fondamentale che il dipinto venisse adeguatamente restaurato e che il confronto con la tela di Stoccarda avvenisse attraverso immagini pienamente leggibili. Il presunto autore dell’opera era un artista completo, anche troppo direi: pittore, restauratore, antiquario, intendente per le opere antiche e falsario. Folgorante, in tal senso, la parafrasi in italiano dei versi del Boschini proposta da Dal Pozzolo, che in veneziano principiano con “El Vechia ferma el tempo, e die: olà 63”. «

63

Marco Boschini 1660; pag.501 e sgg.

» La prima ipotesi da vagliare in sede di restauro concerneva la possibilità che la tela, oltre le patine del “Tempo Pittore”, potesse conservare anche le antichizzazioni del Vecchia. Quei versi mi avevano anche persuaso che, per migliorare le mie conoscenze in materia, avrei dovuto accedere alle fonti librarie, nella maniera più veloce ed esaustiva possibile. L’opera del Boschini è stata digitalizzata nel settembre 2011 e resa interamente consultabile e scaricabile online prima sulla piattaforma Archive.org e poi su Google. All’insaputa dell’Italia (dove l’accesso ai documenti è regolamentato da norme borboniche e tecnologie sabaude) nel resto del pianeta la smaterializzazione di interi fondi librari e la digitalizzazione dei patrimoni museali, iniziava a prendere piede in maniera sempre più incalzante. Ed io ero lì, ora come allora in quel mare, con la rete, a pescare per il mio sostentamento intellettuale e fisico. Accedere alle gallerie museali di Stoccarda non era però cosa facile. Il sito della Staatsgalerie verrà realizzato nel 2016 e, soltanto da quest’anno, è possibile consultare la collezione online, seppur in modo ancora farraginoso. Ciononostante, riesco a trovare un indirizzo email attraverso cui chiedere e poi ottenere, il recapito per posta della pellicola positiva a colori 64

Dal Pozzolo 2011; pag 58.


(una grossa diapositiva di 10x12,5 cm) del “Der Zinsgroschen”, gemello fraterno del nostro. Attraverso la sua digitalizzazione in alta definizione, mi convinco dell’originalità della tela oggetto dei miei affanni nonché dell’impellenza di un tempestivo restauro della stessa. Qualora l’ipotesi investigativa fosse stata corretta, il Vecchia avrebbe nascosto -nello strato pittorico profondo- colori simili a quelli che si potevano ammirare nella versione tedesca. In fin dei conti stavo “semplicemente” dando credito proprio al Boschini che, qualche verso più in là di quelli pocanzi tradotti, lascia che il Vecchia dica con fare insolente al Tempo:

». Si trattava dunque di mettere alla prova la tela, ed il Tempo, per avvalorare un’ipotesi tanto lucida quanto folle. Dalla mia avevo sia il cauto entusiasmo del proprietario, sia la cieca fiducia in una restauratrice il cui tocco era talmente leggero da sapere esattamente fermarsi quel preciso istante che precede l’irreversibile compromissione del delicato equilibrio che lega l’esile materia cromatica al suo fragile supporto. Era inoltre mia ferma intenzione di riportare il quadro in “prima tela”, per evitare che un qualunque altro tipo di intervento rendesse la giunzione vistosa come una cicatrice ipertrofica. Nel frattempo avevo iniziato a collazionare il primo nucleo del mio archivio fotografico su della Vecchia/Muttoni, anche per offrire temi di riscontro a colei che materialmente avrebbe dovuto relazionarsi con la tela. Nel novembre del 2014 iniziano i lavori di restauro e, nel maggio dell’anno successivo, procedo con un nuova mappatura fotografica. Adesso l’opera aveva un nuovo telaio al quale era messo in trazione mediante una bordura fissata alla tela originale. La giunzione, poi, aveva un rilievo sensibilmente ridotto ed il restauro faceva emergere così tanti nuovi dettagli pittorici, da rendere estremamente accattivane il confronto con la versione tedesca. 65

Marco Boschini 1660; pag.502.

Nonostante l’alacre restauro, non ero pienamente soddisfatto anzi, la frustrazione era più forte della contentezza: i colori non emergevano come mi aspettavo. Nel chiedere lumi alla restauratrice, vengo informato della sua legittima scelta di arrestare l’intervento fino ad una vernice molto antica, la cui rimozione avrebbe potuto compromettere l’integrità della pellicola pittorica. Non senza molte e giustificate riluttanze, ottengo dalla stessa la promessa di un ulteriore saggio di pulitura a cui (in caso di riscontro positivo) sarebbe seguita la velinatura dell’intera superficie -per evitare il distacco della pellicola cromatica- quindi il definitivo restauro. Ancor’oggi ricordo la telefonata in cui mi venne entusiasticamente annunciato che era emerso il blu dal manto di Cristo. Fecero seguito, nei giorni e nelle settimane seguenti, le mie prime “videochiamate di un restauro”. Nell’entusiasmo generale ebbi la premura di catturare alcune schermate, realizzate con finalità sia documentali, che celebrative. La restauratrice, tamponando leggermente la pellicola protettiva con un batuffolo d’ovatta imbevuto di diluente, lasciava emergere i colori e quelle lucentezze “in cui specchiarsi” al pari degli esasperanti scuri, in forte contrasto cromatico. Il seguito, è stato un rincorrersi di indagini volte al continuo reperimento di materiale fotografico, tratto da musei, gallerie e case d’asta, accompagnato dalla parallela ricerca di quei testi sia antichi che contemporanei, in seguito ampiamente adoperati nel presente studio. Dopo due lustri ed un continuo susseguirsi di avvenimenti, termina questo viaggio, intrapreso per una promessa fatta a suo tempo e concluso con la soddisfazione di averla mantenuta.



Scheda tecnica Artista Titolo Datazione Tecnica e Supporto Dimensioni Stima

Pietro Vecchia (Venezia, 1603 - Vicenza, 1678) La Moneta del Tributo 1653-1654 Olio su tela (prima tela) 115x167 cm € 80.000 (Euro ottantamila/00)

LO SCRIVENTE, coerentemente con quanto esposto in maniera esaustiva e dettagliata nella presente perizia, corroborato da adeguata mappatura fotografica e suffragato da puntuali riscontri iconografici, RATIFICA QUANTO SEGUE.

A seguito del presente studio avente ad oggetto la tela denominata La Moneta del Tributo, SI DICHIARA E CONFERMA

che il dipinto, realizzato ad olio su tela di dimensioni 115x167 cm, è opera originale, autentica ed inedita, realizzata da Pietro Vecchia (Venezia, 1603 - Vicenza, 1678) tra il 1653 ed il 1654. Con riferimento agli aspetti economici e stante l’attuale ottimo stato di conservazione, SI STIMA

il dipinto in oggetto, per un importo non inferiore ad € 80.000,00 (Euro ottantamila/00). Addì 6 dicembre 2020. firma

________________ (drm. Daniele Fiore)

Drm. Daniele Fiore Ruolo n.822 – CCCIA di Bari www.theartadvisor.it

Storico dell’Arte ed Esperto in Antichità ed Oggetti d’Arte Iscrizione n.056 – Albo CTU Tribunale di Bari d.fiore@theartadvisor.it





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