The Cinema Show 13

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Le avventure di Tin Tin

* Melancholia * blood story * I tre moschettieri

the first iPad movie magazine n. 13 • ottobre

Speciale pages in english! Rising

Exclusives * Steven Soderbergh * Gus Van Sant * Roberto Orci * Massimo Martelli

Star Sarah Gadon

Footloose

Space Cowboys Harrison Ford e Daniel Craig nel fantawestern Cowboys & Aliens



In continuo movimento

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ensavate che dopo il numero scorso, così ricco di contenuti, così pieno di novità e con una veste tutta nuova, noi di The Cinema Show ci saremmo presi una pausa e avremmo rallentato? Ebbene, ricredetevi. Siamo sempre qui, pronti a entusiasmarci per altri idee e accadimenti. Innanzitutto questo mese c’è qualcosa di importantissimo da festeggiare: la nostra collaboratrice esperta in serie TV Ludovica Sanfelice ha dato alla luce il suo primo pargolo, Leonardo, ed è così diventata the Most Yummy Mummy in Town! Ed ecco spiegato il perché della sua assenza da qualche tempo: mai la sottrarremmo ai dolci impegni della maternità, piuttosto le mandiamo un grosso abbraccio. Poi per non farvi annoiare abbiamo pensato bene di introdurre tre nuove rubriche nel nostro magazine. La prima, Character, vuole presentare tutti i mesi un attore caratterista. Quei volti essenziali per il cinema, grandissimi interpreti che tutti conoscono, molti amano, di cui però a volte non si ricorda il nome. Nella testa sono “Quello che ha recitato in quel film”, ma non sono mai, o quasi, i protagonisti. Senza i caratteristi non ci sarebbero le star. Per iniziare abbiamo scelto la spumeggiante e sempre bellissima Patricia Clarkson, che questo mese potete ammirare in Amici di letto, recentemente è stata la straordinaria mamma di Emma Stone in Easy Girl e il mese prossimo tornerà in One Day. E siccome il cinema ha sempre una colonna sonora, perché non dare una soundtrack anche a The Cinema Show? Il nostro Boris “El Pibe de Oro” Sollazzo ha ben pensato di musicare le vostre letture, per questo è lui che dà il via alle danze. Ognuno dei nostri performer lo farà, alternandosi ogni mese – con chi avrete più affinità musicali? Infine, last but not least, siamo felici di annunciare una new entry che ci sta a cuore: Mauro Donzelli racconterà ogni mese le avventure di un tipico Cinepatico, quella figura a metà tra il colto e il nerd, che di cinema letteralmente vive, che della sala non può e non saprebbe fare a meno, che sì il dibattito sì, dallo stabilire qual è il capolavoro di Tarkovskij fino ad accapigliarsi sulla fedeltà di trasposizione dei robot in Transformers. E ancora noi, in continuo movimento, abbiamo già in serbo le sorprese del mese prossimo. Perciò, come sempre Stay in TOUCH! Federica Aliano Direttore editoriale


contents

Editoriale Un’ottima annata How It Works La guida a tutti nostri touch

Columns

Il vero show sono le nostre rubriche!

Insider Dentro il cinema: preview, interviste e approfondimenti

Review Le recensioni dei film in uscita

Home Video Le migliori uscite in DVD e Blu-ray

Series

Anticipazioni, novitĂ e revival per chi ama le serie TV

English Pages A selection of the best contents from this issue



The Last Picture Show

Columns

Steve Jobs la Mela e il futuro di Alessandro De Simone

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l giorno di Pasqua del 2010 Steve Jobs ha cambiato la mia vita. Ho colto un frutto dal suo albero di mele e adesso ne ho uno anche io, piccolo, che cresce grazie a eccezionali giardinieri, mese dopo mese. Lo state sfogliando. È difficile parlare di Steve Jobs. Potrei riportare le sue ricche note biografiche, le sue creazioni, ma si possono trovare ovunque, almeno finché l’informazione sul web in Italia non verrà decapitata grazie a una legge antidemocratica. Ecco, se Steve Jobs fosse vivo e in buona salute, combatterebbe contro la nostra legge bavaglio, perché l’uomo che ha creato il codice informatico più inaccessibile era anche quello che più di chiunque altro aveva capito l’importanza che la libera rete ha nello sviluppo e nel progresso del consorzio civile. La grande rivoluzione della Mela è questa, mettere milioni di persone in comunicazione tra loro e con il resto del mondo con dispositivi incredibili, oltre che belli, che hanno spinto la concorrenza a inseguire e ad adeguarsi, generando una reazione a catena la cui forza motrice è la creatività e se dovessimo riassumere Steve Jobs in una parola, sarebbe questa. Jobs ha creato il futuro, una parte, piccola ma importante se

paragonata all’insieme delle cose, ma una fetta di futuro in cui le persone possono essere sempre in contatto anche se sono in continenti diversi grazie a un semplice telefono cellulare, oppure leggere i giornali di tutto il mondo ogni mattina grazie a un computer rivoluzionario, addirittura avere accesso ai propri documenti personali, ai film preferiti, alla propria musica, in qualunque momento e in qualunque luogo. La nuvola di Jobs, forse è li che se n’è andato, osservando dall’alto quello che i suoi successori faranno per continuare il suo lavoro. La Mela vivrà, insieme alla Pixar, perché se abbiamo Wall-e, Toy Story e Saetta McQueen lo dobbiamo anche a lui. Quello che ci mancherà, e per ci intendo al mondo, sarà la continua ispirazione che quest’uomo era capace di infondere a chiunque avesse il desiderio e la curiosità di dare una sbirciata al mondo di domani, sperandolo migliore dell’oggi. Stay hungry, stay foolish.


Rising Star

Columns

Bellezza, talento, cervello e humour. Quando la vita è prodiga di doni

Sarah Gadon Lucky Girl di Federica Aliano

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a una bellezza da cartoon disneyano, è dotata in canto e in danza, e adesso sta vivendo la realizzazione di un sogno. Sarah Gadon, ad appena ventiquattro anni, vanta già molta esperienza nelle serie televisive, in particolare in Happy Town (vedi The Cinema Show n°1), che l’ha portata all’attenzione del grande pubblico. Merito di una famiglia che l’ha sempre supportata e le ha dato tutti i mezzi necessari per realizzare il suo desiderio di diventare attrice. Se non è fortunata questa ragazza, non sapremmo dire chi lo sia… Fiore all’occhiello del Rising Star Program del Toronto International Film Festival, la bionda Sarah ha calcato anche il tappeto rosso della Mostra di Venezia, con i medesimi film. È lei la vittima di Lily Cole, novella Carmilla in The Moth Diaries, ma soprattutto è Emma Jung, moglie del grande psicanalista in A Dangerous Method di David Cronenberg. Sarà anche nell’atteso Cosmopolis, nei panni della moglie senza alcun desiderio sessuale di Robert Pattinson. Per Sarah, che è nata a Toronto, lavorare con Cronenberg era un sogno, perciò quando gli ha inviato un videoprovino era emozionata, ma non ci credeva più di tanto. “Ma quando mi hanno detto che

“Quando mi hanno detto che ero stata scelta per il ruolo di Emma Jung sono letteralmente esplosa!” ero stata scelta per il ruolo di Emma Jung sono letteralmente esplosa!”, ha dichiarato Miss Gadon durante un’intervista a Tribute. “Questa è stata per me un’autentica esperienza”. Di Emma Jung le piace che sia stata sempre di supporto alla ricerca del marito, e di una tale apertura mentale da sopportare persino il tradimento di lui nel nome del progresso scientifico, “Consapevole fin da subito di quanto fosse grande quel che Freud e Jung stavano facendo, si è tenuta il marito senza imprigionarlo”. Il prossimo film in cui la vedremo è l’horror di Jim Sheridan Dream House. Cosmopolis è in post produzione e lei intanto torna alla TV con la serie World Without End. “Amazing!”, dice sempre. Con gli occhi entusiasti di chi, con grande passione, si affaccia sul mondo stellato del grande cinema.


Flashback

Columns

Cosa vede nello specchio Will Graham? di Adriano Ercolani

Prima de Il silenzio degli innocenti, Hannibal Lecter aveva un’altra faccia...

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l terzo film di Michael Mann, dopo il folgorante esordio di Strade violente e il dimenticabile La fortezza, si apre con la soggettiva dell’assassino, tanto usata nel thriller da Halloween in poi. Ma da queste poche inquadrature precedenti ai titoli di testa sentiamo che lo spessore drammatico e la potenza emotiva della visione sono differenti dal cinema di genere: un rallenty provoca la compassione per la signora Leeds, che va incontro al proprio destino nel momento in cui viene svegliata dalla luce della torcia dell’aggressore. Quello che rende Manhunter così potente è il senso d’ineluttabilità che pervade l’intera messa in scena. Basta la prima inquadratura a chiarire tutto: la panoramica dall’alto verso il basso scende dal cielo limpido della Florida a Will Graham e Jack Crawford, seduti immobili in riva al mare. L’atmosfera è sospesa come in un dipinto di Edward Hopper. Le musiche di Michel Rubini e dei Reds caricano di tensione l’inquadratura, e noi che guardiamo

ipnotizzati comprendiamo, magari anche soltanto a livello inconscio, che il destino di Will Graham si è già compiuto. Darà la caccia a Denti di Fata. Lo troverà, e per farlo dovrà andare incontro al suo personale abisso. Perché in nessun film quanto Manhunter il cacciatore è fatto della stessa natura della preda. A renderlo esplicito è lo stesso Mann, quando l’agente perlustra la scena del crimine: il regista adopera la stessa soggettiva del serial killer. Non servono due visioni se l’occhio di chi guarda è affine. La scoperta del doppio, la visione negata della nemesi – i due avversari s’incontreranno soltanto alla resa dei conti - sono sublimati nel costante, allucinato confronto con il proprio lato oscuro: sotto questo punto di vista la sceneggiatura, scritta sempre da Mann, è sopraffina nel consegnare agli antagonisti due partner/funzione che ne rivelino l’indole nascosta. Graham ha bisogno del dottor Lektor per risvegliare i suoi demoni (“Vuoi ritrovare il fiuto di un tempo? Odora


Flashback te stesso…”, gli sussurra Brian Cox), Francis Dollarhyde ha ancora più bisogno della non vedente Reba/Joan Allen per un’ultima, struggente chance di salvezza. Per rafforzare questa dualità interna Mann adopera la superficie riflettente come metafora esplicita: William Petersen si guarda costantemente allo specchio, così come fa il suo avversario quando compie i suoi massacri; e quando è costretto ad abbandonare la famiglia per lanciarsi definitivamente alla caccia del mostro, nel momento in cui giura che lo prenderà, del detective viene inquadrato solo il riflesso su una vetrina. Soltanto nel magnifico finale il gioco è infranto: adesso Bene e Male sono finalmente uno di fronte all’altro, c’è una distinzione, una forza deve prevalere sull’altra. E l’autore chiude il cerchio ancora con una perla: Denti di Fata attacca Graham con la scheggia di vetro di uno specchio rotto in precedenza. La classicità e insieme la grande modernità di Mann sta nel rendere visivamente elegante quello che a livello di immagini percepiamo come semplice: un discorso estetico sul campo/controcampo che verrà sublimato nei suoi lungometraggi seguenti. Le scene di confronto tra Graham e Lektor separati dalle sbarre di una cella sono l’inizio della cifra stilistica che è diventata il marchio del suo cinema. Basterebbe questo per fare di Manhunter un film fondamentale, ma non a classificarlo: appena se ne scalfisce la cornice preziosa della messa in scena (la fotografia è del maestro Dante Spinotti, allora alla prima collaborazione con il regista) si scivola in un gioco al massacro in cui l’identità si afferma solo in quanto dipendente dalla sua

Columns nemesi. Will Graham è “altro” rispetto ai suoi colleghi, ha bisogno di essere “altro” rispetto ai suoi cari per compiere il suo dovere. Will Graham è Francis Dollarhyde, ma quando tutto si è frantumato ha tenuto duro per un solo altro istante.

Frammentazione di un capolavoro Ecco le scene che hanno reso Manhunter un cult destinato a durare:

La prima ispezione di Graham L’agente si immerge solitario nella casa vuota dei Leeds, teatro dell’ultimo massacro. Il bisogno di isolamento per poter lasciar emergere il proprio istinto di cacciatore. Il primo confronto con la mente folle di Denti di Fata, di cui sa di dover diventare un alter-ego, inizia con lo stesso percorso verso l’orrore. Nella camera da letto delle vittime la stasi come impossibilità di razionalizzare: se vuoi arrivare a capire il Male devi fissarne l’opera con i suoi occhi. E Graham costringe se stesso a guardare…

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touch the Number

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What’s up, doc?

Columns

Tutto il Lido è Paese di Francesco Del Grosso

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ell’anno del restyling della sezione Controcampo Italiano, che alla 68. Mostra di Venezia è tornata in una veste del tutto nuova, il riconoscimento principale nella competizione dedicata al documentario è andato a Fiorella Infascelli con il suo Pugni chiusi. Risultati alla mano, quella di Controcampo Italiano Doc si è dimostrata una selezione eterogenea, tanto dal punto di vista tecnico quanto da quello narrativo-contenutistico. Approcci, stili e generi diversi hanno contribuito alla messa in quadro di vicende e racconti legati alla memoria collettiva nazionale e internazionale da un vincolo di sangue e cicatrici impresse nella Storia recente e passata. Temi scottanti come il problema

della disoccupazione e la lotta di classe per la salvaguardia del posto di lavoro, dell’esilio forzato dalla Madre Patria per poter professare la propria libertà di espressione intellettuale, della violenza perpetrata nei confronti di giovani manifestanti accorsi in massa per provare a combattere le logiche del Potere in un’interminabile notte di luglio fatta di sofferenza, intrecciano parole e fotogrammi con la riscoperta di episodi del tempo che fu e di risposte a domande su quello che l’Arte ha lasciato e ancora lascerà in eredità ai posteri. Il tutto si traduce in una rosa di opere accomunate dalla stessa sincerità di sguardo sulle cose, sui fatti e su coloro che li hanno vissuti, ma profondamente distanti per esiti e qualità comples-

Bilancio della sezione Controcampo Italiano Doc della 68. Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia


What’s up, doc?

Columns

Una rosa di opere eterogenee accomunate dalla stessa sincerità di sguardo sulle cose, sui fatti e su coloro che li hanno vissuti

siva. Da una parte figurano i due titoli che maggiormente hanno convinto pubblico, critica e giuria: Pugni chiusi e Black Block. Entrambi hanno messo sullo stesso piano estetica e contenuto: scrittura e forma hanno trovato il modo di coesistere per il bene dell’opera, con la giusta alchimia. La Infascelli ha fatto della leggerezza del racconto filmico e formale (giustamente premiato con la Menzione Speciale per la fotografia di Francesco Di Giacomo) l’arma in più per penetrare contemporaneamente nello spazio fisico di un ex carcere di massima sicurezza e nei sentimenti contrastanti di coloro che lo hanno occupato per mesi in attesa di risposte, descrivendolo dal di dentro come parte integrante e non come corpo estraneo. Il risultato appassiona e commuove grazie alla capacità di mostrare lo scontro/incontro tra la bellezza selvaggia del luogo e il dolore delle persone che lo abitano. Dolore che straborda anche nell’angosciante e crudo documentario di Bachschmidt, al quale sono andati la seconda menzione assegnata dalla giuria e il Biografilm Lancia Award. Black Block è un autentico pugno allo stomaco, sferrato allo spettatore con chirurgica precisione. La sfida, a nostro avviso vinta, era quella di tornare sul luogo del delitto a dieci anni di

distanza dai fatti di Genova, ma da un punto di vista diverso. Il regista ha piegato le resistenze (e forse la diffidenza) dello spettatore, attraverso il potere devastante della rievocazione di chi quella notte dentro la Diaz c’era e aveva affrontato centinaia di chilometri per esserci. Un racconto corale proveniente da oltre confine, frutto di una babele di idiomi che permette a lucide e sofferte descrizioni dei fatti di riemergere con tutto il loro carico devastante di emozioni al seguito. Emozioni che trapelano a singhiozzo da altri due documentari che raggiungono la sufficienza, nonostante non convincano appieno a causa di squilibri narrativi e di una discontinuità stilistica che ne pregiudicano la completa riuscita. Si tratta di Pasta nera, nuova parentesi documentarista di Alessandro Piva che ritorna così alle origini dopo l’altalenante carriera cine-televisiva, e di Out of Tehran, il ritorno di Monica Maggioni al Lido dopo Ward 54. Il regista del folgorante La CapaGira mette insieme un puzzle di istantanee in movimento consumate dal tempo, un ottimo lavoro di ricerca sui materiali di repertorio premiato con la Menzione speciale FEDIC. Dalle ceneri del passato rivive un malinconico ritratto popolare impreziosito da un fiume di aneddoti, che se da un lato riporta


What’s up, doc? alla mente un bellissimo atto di umanità che per una volta ha permesso al Sud di riconciliarsi con il Nord, dall’altro stenta a decollare perché logorroico e solo a tratti coinvolgente. Il film della Maggioni invece ha l’inconfondibile retrogusto del reportage di stampo giornalistico, ma a dispetto della performance precedente pare avere acquistato una certa maturità che lascia presagire nuovi sviluppi linguistici e strutturali. Out of Tehran è un viaggio mnemonico ed empatico frutto dei ricordi ancora vivi dei quattro esuli iraniani protagonisti, impressi nella loro testa come ferite pronte in qualsiasi istante a sanguinare nuovamente. Noi lì, proiettati in una squallida e maleodorante stanza di un carcere, passivi a rivivere con loro i momenti di una sevizia, di una tortura o di una vessazione, con ancora davanti agli occhi quelle perpetrate in quel di Guantanamo e Bagram. Capitolo a parte per i due anelli deboli della selezione: Quiproquo e Piazza Garibaldi. Nel primo caso, Elisabetta Sgarbi firma un ibrido senza testa che cede sotto il peso dell’inconsistenza, che mira troppo in alto per poi schiantarsi contro il muro della mediocrità. I limiti sono troppo palesi, figli legittimi della superficialità, della presunzione dell’autrice e della mancanza di chiarezza di un qualcosa che non sa bene quale strada intraprendere e dove andare a parare. Nel cercare di dare una risposta a una domanda, crea una gigantesca confusione di fondo che il più delle volte si trasforma persino in un’involontaria farsa che si prende gioco del popolo. Nel secondo caso, al contrario, Davide Ferrario nel ricostruire le tappe

Columns dell’impresa garibaldina cade vittima di un banale e sconquassato lavoro su commissione voluto per celebrare l’anniversario dell’Unità d’Italia. Le componenti coinvolte vengono assemblate al meglio possibile nel tentativo di dare una linearità a un’opera che si trascina verso un epilogo già scritto nei libri di Storia. Ferrario partorisce un prodotto sicuramente più adatto al palinsesto televisivo, fin troppo schematico e privo di sussulti, prevedibile nella sua successione in capitoli.

Black Block (di Carlo A. Bachschmist)

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Sette testimonianze, di chi ha vissuto quella terribile esperienza in prima persona, raccontano quel che accadde nella scuola Diaz durante il G8 di Genova.

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Cover Story

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Space Cowboys di Federica Aliano

Harrison Ford e Daniel Craig. Cowboy. Nemici. Alleati contro un nemico comune. Gli alieni...

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vete presente i vecchi western? Quelli con gli indiani e i cowboy e un sacco di polvere? Ecco, prendetene uno tipico, con il proprietario di mandrie e terreni i cui possedimenti hanno un peso maggiore di quello della legge. Con un cowboy solitario, venuto dal nulla, pieno di silenzi e mistero. Uno che prima spara, poi pensa. E i vecchi film di alieni, li avete presenti? Quelli con gli alieni brutti, sporchi e cattivi, che ancora non


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“Mi piace guardare buoni film, al di là del genere” Harrison Ford erano metafora del diverso, ma venivano sulla Terra per mangiarci, per rubare le nostre risorse, fare esperimenti sui nostri corpi e ingravidare le donne umane con parassiti alieni? Ecco, prendete extraterrestri con uno di questi scopi, o magari tutti insieme. Unendo fra loro i due generi, avrete solo un’idea di quello che è Cowboys & Aliens. La commistione, si sa, fa sempre nascere bellissimi prodotti artistici, ma qui c’è dell’altro. Sembra che tutto ciò che piaceva ai ragazzini sfigati degli anni Settanta sia finito in questa pellicola, però prodotto con un budget molto più alto degli Z-movies dell’epoca. Questo a riprova dell’ennesima rivincita dei nerd, che per fortuna sul lungo raggio si stanno prendendo il dominio del mondo. Già dal titolo la graphic novel di Mitchell Rosenberg non lascia spazio ai dubbi, ed è per questo che Steven Spielberg è subito saltato sul progetto, entusiasta di produrre solo sentendo nominarne l’adattamento. “Mi sono chiesto come mai nessuno ci abbia pensato prima”, è stata la spiegazione, pura e semplice, del Re Mida di Hollywood. Detto fatto: ecco unirsi la squadra di produttori che tutti vorrebbero. Diciassette nomi fra cui, oltre a Spielberg, figurano Ron Howard, Brian

Grazer, Jon Favreau che ha poi preso il timone della regia, e i tre geniali sceneggiatori Kurtzman-Orci-Lindelof. Indy vs. Bond Durante il junket londinese del film abbiamo incontrato il cast principale, insolito ma non troppo. Primo fra tutti Harrison Ford, granitico, elegante, schietto come solo un attore che non deve più preoccuparsi di dimostrare nulla può permettersi di essere. Per lui la commistione dei due generi ha avuto un peso relativo nell’accettare di lavorare a questa pellicola. Già, perché può sembrare scontato che la presenza di Spielberg portasse automaticamente anche la sua, ma a quanto pare non è stato affatto così. “Ho accettato perché le persone coinvolte nel progetto erano determinate a realizzare un buon film”, ha dichiarato colui che sembra non poterne più di essere ricordato solo come Indiana Jones. “A me piace guardare buoni film, al di là del genere. Lo stesso criterio lo applico ai film che interpreto”. Contrapposto a Ford, nel ruolo del cowboy solitario che non ha alcuna memoria


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del proprio passato, ecco la vera sorpresa. Nessuno vedrebbe Daniel Craig, James Bond, nei panni di un antieroe silenzioso e dal grilletto facile. Nessuno tranne… lui stesso. “Da bambino guardavo moltissimi western, e volevo sempre fare il cowboy”, ricorda l’attore che ha ammesso di aver visionato innumerevoli film con John Wayne per prepararsi a questo ruolo, ma di continuare a preferire i western con sfumature intimiste come Piccolo grande uomo, il suo preferito. E gli alieni? Ma quando arrivano gli alieni? Direte voi a questo punto. Il fatto è che Cowboys & Aliens potrebbe benissimo funzionare come un western classico. Se non fosse per lo strano bracciale-arma che Jake Lonergan / Craig si ritrova al polso e per il fatto che nel villaggio a un certo punto arrivano i dischi volanti a rapire le persone. Lo trovate atipico? Jon Favreau non è dello stesso avviso. “Ci

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sono diverse età del western: c’è stato John Ford, poi è arrivato Sergio Leone”, ha spiegato senza scomporsi. “Prendi Kurosawa, è western a tutti gli effetti, ma è diverso. L’opportunità di lavorare a un western è qualcosa che ogni regista sogna. Ma anche di dargli un taglio nuovo che sia accattivante per i giovani”. Due cowboy di diverse età, rivali per intenzioni e diversi nell’animo. Un villaggio in pericolo, qualche ingiustizia qua e là… Manca la donzella in difficoltà! Ma se pensate che Olivia Wilde ricopra questo ruolo, vi sbagliate di grosso. Il suo personaggio non è la moglie del proprietario del saloon, non è la prostituta né la figlia del pastore. Non è la cowgirl maschia né la sexy eroina con il corsetto slacciato. E allora chi è? “Ella è puro spirito”, dice Olivia. E noi vi lasciamo con questo mistero, perché il ruolo femminile è la vera novità di questo film, e non vogliamo in nessun modo guastarvi la sorpresa.


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Courtesy of Paramount Pictures

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Roberto Orci:

La mente del progetto di Federica Aliano

È

uno degli sceneggiatori più importanti e più geniali degli ultimi anni. Con Lindelof e Kurtzman formano un trio di autori che è garanzia di entertainment e qualità. Noi lo abbiamo incontrato a Londra, e nella lussuosa stanza d’albergo quest’uomo dal grande cervello sembrava piccolissimo…

Questo film è divertente, insolito e geek. Come mai avete deciso di farne un’adattamento dalla graphic novel?

Ci piaceva il tema della graphic: nel passato ci sono cowboys, messicani, nativi. Sono divisi, ma nel momento in cui ar-

rivano gli alieni si alleano. Pensavamo fosse un’idea molto carina, ma per non restare troppo attaccati alla storia originale, abbiamo inserito qualche sorpresa. Lei lavora in un team molto forte, cosa ci può dire della sua collaborazione con Alex Kurtzman e Damon Lindeloff?

Alex e io ci conosciamo da diciannove anni, ci siamo incontrati al liceo e lavoriamo insieme da allora. Cowboys & Aliens era una sceneggiatura che girava per la Dreamworks da dieci anni, era in letargo e abbiamo deciso di risvegliarlo. Con Damon invece ci siamo conosciuti lavorando a Star Trek: è entrato a far


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parte del team dicendo “Ehi, io devo fare questa cosa!”.

Tornando a Cowboys & Aliens, quanti cambiamenti avete fatto rispetto al materiale originale?

Come dividete e gestite il lavoro tra voi?

Il tema di base è identico, gruppi di umani che si alleano contro l’invasore alieno, e il personaggio di Olivia Wilde ha lo stesso segreto, ma per il resto si tratta di una storia originale.

Alcuni tendono a dividere il lavoro, lavorando ognuno a singole scene, ma noi preferiamo agire come una band: tutti nella stessa stanza, un solo computer e il frutto di quello che diciamo diventa la sceneggiatura. Lavorate spesso con J.J. Abrams, e quando questo accade tutto il mondo attende quello che tirerete fuori…

Abbiamo lavorato insieme la prima volta dieci anni fa per Alias. Se siamo ancora insieme credo sia proprio perché riusciamo a stare tutti in quella stessa stanza a tirare fuori idee una dietro l’altra. Non tutti lavorano in questa maniera, altri hanno bisogno dei loro tempi e dei loro spazi, ma questo è un modo di lavorare tipico della televisione che è da dove vengo io. Molti vi identificano come dei nerd, ma personalmente trovo che la maggior parte delle cose che fate siano molto sofisticate. The Island, per esempio...

Grazie, il fatto è che cerchiamo di fare cose molto diverse. Due estati fa abbiamo prodotto Ricatto d’amore, che è una commedia sofisticata, abbiamo da poco finito un dramma, Welcome to People, diretto da Alex, che uscirà l’anno prossimo. È sempre così: paghi le bollette con prodotti commerciali che ti permettono di confrontarti anche con altro.

E per quanto riguarda il look degli alieni?

Originale, ci abbiamo lavorato con Steven Spielberg, che è un esperto in questo campo, con Ron Howard e con i tecnici della Industrial Light and Magic. Non hanno niente a che vedere con quelli del fumetto, volevamo che fossero una sorpresa per lo spettatore. In effetti sono piuttosto particolari e immagino che abbiate previsto nella sceneggiatura che possano compiere determinate azioni…

Sì, li abbiamo concepiti come mostri molto tecnologizzati, quello che avevamo in mente era che potessero fare azioni enormi come far volare la nave spaziale o combattere ma anche usare minuscoli computer con le loro minuscole braccia che escono dal torace… Negli ultimi anni ogni categoria di mostro è stata in qualche maniera umanizzata, dal vampiro al licantropo. Qui gli alieni sono mostri e sono cattivi…

Il film è ambientato nel 1870, la gente di quell’epoca non aveva alcuna idea che potessero esistere entità extraterrestri, infatti nessuno nel film pronuncia


Cover Story

la parola alieni. Mentre scrivevamo, ci siamo chiesti: se arrivassero degli alieni in quell’epoca, come spiegheremmo a dei cowboy che sono abitanti di un altro pianeta che stanno estraendo e rubando il loro oro per riequilibrare l’atmosfera del loro pianeta dalle radiazioni? “Radiazioni” per uno che viveva in quell’epoca era una parola senza significato. Infatti il personaggio di Harrison Ford prima spara e poi pensa…

Esatto, il suo livello di comprensione nei loro confronti è “Vogliono l’oro? Devono comprare qualcosa?” Gli alieni in questo caso sostituiscono gli indiani dei western classici, che erano nemici incomprensibili e malvagi. Oggi non è più così, rispettiamo i nativi americani e la loro storia all’interno della nostra nazione. Ma con degli extraterrestri lo possiamo ancora fare. C’è una grande visionarietà nella vostra scrittura, dalla forma dell’astronave all’aspetto dell’alieno.

L’alieno in silhouette assomiglia a un gangster con la pistola spianata. È una scelta subliminale, non volevamo che le cose aliene sembrassero innaturali nel nostro mondo. Le creature somigliano a delle iguana, perché si adattano al paesaggio desertico. Lo stesso vale per le astronavi, che sono ispirate ai teschi delle vacche dalle lunghe corna nel deserto. Il nostro production designer considerava molto più naturali queste forme piuttosto che un’astronave fatta a forma di salsiccia

Insider

o un disco con una luce al centro. Jon Favreau ha detto che gli avete lasciato molta libertà sul set, non siete sceneggiatori tirannici…

Sì, perché siamo anche produttori del film, anche per questo siamo felici che lo dica. Quando lavori con attori di questo livello, vuoi essere sicuro che quello che scrivi si adatti al loro stile. Per questo abbiamo fatto molte stesure, confrontandoci con Jon e con gli stessi attori. Nel caso di Harrison Ford, per esempio, abbiamo finito con l’avere un personaggio molto più interessante di quello che avevamo inizialmente sviluppato. Abbiamo aggiunto molte battute. Daniel Craig è invece un attore dall’eccezionale fisicità, che non ha bisogno di molte parti parlate, quindi nel suo caso ci siamo trovati a sottrarre molto nella scrittura finale. Il personaggio di Ford cresce molto nell’arco del film e si trasforma.

Abbiamo pensato il film considerando inizialmente l’ipotesi che non ci fossero gli alieni e che potesse essere un western tradizionale, con il personaggio del cattivo, quello di Harrison, e quello dell’eroe positivo, Daniel, che si confrontano. L’introduzione nella storia dei mostri porta il film in tutt’altra direzione, ma nella nostra testa avrebbe dovuto funzionare anche con la storia incentrata solo sui due protagonisti. Il personaggio più fumettistico, nell’accezione positiva del termine, è quello di


Cover Story

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“Nel 1870 la gente non aveva idea che potessero esistere gli alieni” Roberto Orci Olivia Wilde, una figura femminile che al cinema è quasi archetipica, ma che in una graphic novel è molto atipica.

Il personaggio di Olivia è molto particolare: a quell’epoca vedere una donna sola, armata, indipendente era una cosa molto strana. Diventa ancora più interessante quando conosciamo la sua storia e scopriamo che è una sopravvissuta, l’ultima della sua razza, qualcosa che la accomuna ai nativi americani. Credo che Olivia sia stata fantastica in un ruolo molto difficile, in cui va a cavallo, spara, ha scene d’azione. E incredibilmente il suo non è un ruolo sexy…

Esatto, perché non è quello il suo ruolo nel film. Il suo è un personaggio errante, che ha perso la sua gente, ha subito delle ingiustizie. Quando Daniel la incontra, pensa che lei lavori nel saloon e Olivia è molto brava a spingere alcune situazioni per mantenere il suo personaggio allo stesso livello di freddezza e durezza degli altri. Ho trovato il ruolo di Paul Dano veramente fantastico.

C’è una tradizione nei western per cui nessun ruolo è troppo piccolo: è sempre possibile inserire personaggi grandiosi

che possono venir fuori anche con due sole battute e la nostra fortuna è stata quella di avere grandi attori per ogni ruolo. Paul Dano non ha neanche venti minuti nel film, ma è fantastico, come Sam Rockwell o Walton Goggins. Quanto c’è di suo nella scelta del cast?

Ho supervisionato ogni attore che è stato scelto per il film e mi sono trovato d’accordo su ogni scelta di cast, ma quando è venuto fuori che Harrison era interessato al film non riuscivo a crederci. Come mai? Steven Spielberg è uno dei produttori e loro sono molto amici.

È vero, ma Steven stesso mi aveva detto che Harrison non è un attore facile da ingaggiare e proprio Harrison mi ha raccontato una storia divertente in questo senso. Quando Spielberg aveva iniziato la produzione di Jurassic Park, aveva mandato un teaser poster a Ford con una sua foto insieme ai due bambini protagonisti e ai dinosauri. Poi lo ha chiamato chiedendogli cosa ne pensasse e Harrison gli ha risposto: “Amico, trova qualcun altro”.


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Arriverà nelle nostre sale solo l’anno prossimo, ma la nostra inviata a L.A. ha già carpito i segreti del nuovo Footloose

Footloose è remake: la gioventù riballa

di Ilaria Ravarino

Loose, footloose, kick off your Sunday shoes....”. Canta intonata l’ispettrice dell’Immigration all’aeroporto di Los Angeles, mentre registra le impronte digitali degli invitati all’incontro con il regista Craig Brewer e il cast del remake di Footloose. La sua non è un’eccezione. Intorno all’operazione da qualche mese c’è un certo rumore, e nel corso del viaggio altri saggiano il terreno: in America Footloose è (diventato) un cult. E guai a toccarlo. Quando uscì in Italia, nel 1984, non se ne accorsero in molti. La transizione dal musicarello a Grease s’era compiuta sei anni prima, Fame aveva seminato un’eredità che la TV avrebbe raccolto vent’anni

dopo, e la nostra cultura cine-musicale era inceppata nei riccioli dell’operaia ballerina di Flashdance, indimenticabile icona dell’anno cinematografico 1983. Quanto all’America, Footloose incassò ottanta milioni, dieci volte quel che era costato, ma pareva destinato a non lasciare il segno. Persino le candidature all’Oscar, con due canzoni originali, non diedero i risultati sperati: l’Academy gli preferì La signora in rosso, i dj impazzirono per la title track di Ghostbusters, e solo tre anni dopo ci pensò Dirty Dancing (che l’Oscar invece lo vinse) a siglare l’era del dance-movie. Eppure Footloose il segno lo ha lasciato eccome. Non solo nella storia del cinema,


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trasformando il semisconosciuto Kevin Bacon in una star, ma anche nell’immaginario collettivo americano. Ora che il film si appresta a tornare sul grande schermo sono in molti ad aspettarlo al varco. Per questo, nella hall country del Farmer’s Daughter Hotel di L.A., il navigato Brewer accoglie gli ospiti così: “Sono terrorizzato”.

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ragionate da Brewer, vigile mastino della fedeltà del film all’originale. Cambia il background del protagonista, qui orfano di madre (“Volevo che fosse ancora più solo, perché la sua moralità spiccasse”), muta il personaggio dello zio (“Meno dogmatico e più simile agli uomini del Sud che conosco io, gente attaccata ai legami di sangue”), slitta in avanti la scena dell’incidente in macchina: “VederUn remake da post 11 settembre lo subito ti dà la misura di quel che sta Per la gioia dei fan la storia del nuovo per succedere, ti aiuta a capire perché si Footloose è rimasta la stessa del 1984: un arriverà a tanto”. E poi, naturalmente, ragazzo di città si trasferisce in un piccocambia il cast. Che non è un dettaglio, lo paese di provincia dove, dopo un grama un pezzo importante del puzzle. Così ve incidente che ha tanto che Brewer coinvolto un gruppo ha rischiato di gioBrewer ha voluto di giovanissimi, sono carcisi la carriera, stati banditi musica chiedendo agli Stufedeltà al film del 1984 e ballo. Una cronaca dios quel che nessun vera (della vera citproduttore vorrebbe tadina di Elmore City), che Brewer ha mai sentirsi dire: “Avevano in mente un trasportato ai giorni nostri: “Molti mi altro genere di film, un remake alla High dicevano che non sarebbe stata più crediSchool Musical, con Zac Efron. Uno bile. Secondo me invece vale oggi più che di quei film che io non avrei mai visto. mai. L’America è ancora un paese con Quando vennero da me fui chiaro. Dissi forti divisioni tra Nord e Sud, e dopo l’11 che non volevo star, perché nel vecchio settembre la nostra è diventata la cultura Footloose non ce n’erano. Volevo facce dell’over-reacting. In Footloose il ballo fresche, oneste, gente nuova”. viene proibito per proteggere i ragazzi, e da quando sono padre ho cominciato a Gente onesta, gente nuova capirlo: l’ansia di perdere il controllo sui E le ha ottenute. A partire da Kenny figli e di non poterli difendere, la paura Wormald, ballerino e coreografo, nella che qualcuno possa far loro del male. Qui parte del protagonista Ren McCormack. c’è un paese che difende i ragazzi con Dopo Footloose smetterà di ballare, “Ho misure di protezione esagerate, e così inventisette anni e non potrò farlo per semvece di operare per il bene, commette un pre”, per puntare a Hollywood: “Cerco di errore”. Poche le modifiche sullo script credere in me stesso anche se mi sento un


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outsider, come nel film”. Sulle sue spalle la responsabilità di replicare alcune delle scene più iconiche di Footloose, come il magnifico assolo di ballo, la “angry dance”, realizzata (come fu per Bacon) senza stunt: “Il coreografo e il regista hanno cercato di rinnovare quella scena per renderla più naturale. La canzone è diversa. È tutto più rock. È la scena di ballo più impegnativa, ma è stato meraviglioso poter fare in quel grande spazio tutto ciò che volevo”. Accanto a lui l’esordiente Ziah Colon, nel ruolo che fu di Sarah Jessica Parker, e soprattutto Miles Teller, nella parte dell’amico Willard, che nel 1984 fu portata sullo schermo da Chris Penn e con cui lui stesso esordì in teatro, a sedici anni. Scommessa di Nicole Kidman che lo volle in Rabbit Hole, Teller ha già un piede a Hollywood ma fa lo schivo: “Vo-

glio diventare un campione di baseball”, dice, ma nel frattempo s’è già trasferito da un paesino di seimila anime, in Florida, a L.A., dove ha in preparazione altri due film. “L’unica eccezione l’ho fatta per Julianne Hough – dice Brewer - all’inizio le dissi di no perché volevo un’attrice, non una danzatrice famosa. Il suo ruolo, poi, ha poche scene di ballo ma un’importante scena madre, in cui il suo personaggio deve confrontarsi con il padre. Mi chiamò una sera, mi disse di ricredermi: lei era quel personaggio. Era cresciuta in una famiglia conservatrice, era stata privata di tante libertà. Capii che stava prendendo il personaggio da un punto di vista molto emotivo. E così decisi di metterla alla prova. Sono certo che con questo film, avremo scoperto una star destinata a rimanere a lungo sullo schermo”.

These shoes are made for shooting La sequenza dei titoli di testa del primo Footloose, omaggiata anche nel sequel, seguiva sulle note dell’omonima canzone d’apertura i passi di danza di oltre centocinquanta persone, inquadrandone solo i piedi: sfilano così nei primi minuti del film le scarpe di tutto il cast tecnico, tra cui quelle dorate del cantante Kenny Loggins. Diventate immediatamente oggetto cult, le scarpe di Footloose non sono le uniche calzature ad aver avuto fortuna nella storia del cinema.

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Gli stivali rossi indossati da Lori Singer in Footloose sono una metafora fin troppo esplicita della perdita dell’innocenza del suo personaggio, la disinibita Ariel Moore. La ragazza è sveglia, parecchio, e gli stivali non se li leva mai. Nemmeno quando in chiesa grida a suo padre, il reverendo del paese: “Non sono più vergine”. Al confronto, gli stivali a mezza coscia di Julia Roberts in Pretty Woman sono roba da educande.

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TIFF, un festival per e con il pubblico di Adriano Ercolani

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prescindere da tutte le possibili questioni strutturali, economiche e manageriali, la differenza principale tra il Toronto International Film Festival e le maggiori rassegne europee è fondamentalmente concettuale: oltre che mostrarlo, al TIFF il cinema si vuole venderlo, in ogni possibile accezione del verbo. Prima di tutto i film partecipanti vengono proposti al pubblico pagante nel miglior modo possibile, con proiezioni digitali perfette in sale comodissime dentro multisala che garantiscono ogni possibile conforto (come a Berlino, a Toronto si adoperano strutture funzionanti tutto l’anno a pieno regime). Basta poter ammirare il nuovissimo palazzo del festival, il Bell Lightbox, oppure il vicino Scotiabank Theatre, per capire come in Canada si sia cercato di accontentare le esigenze di una fascia di spettatori ampissima, non soltanto quella che partecipa alle kermesse annuali. In secondo luogo il cinema che passa al TIFF vuole essere venduto al pubblico nordamericano: da

Il nostro inviato analizza le peculiarità del festival canadese qui la scelta di un cartellone composto quasi principalmente di pellicole statunitensi che necessitano di una vetrina internazionale per poi essere lanciate sul mercato interno. Anche quest’anno, come tradizione al TIFF, non sono passati blockbuster destinati a sbancare i botteghini di tutto il mondo, quanto piuttosto lungometraggi di valore che devono trovare il miglior possibile posizionamento all’interno di una stagione cinematografica sempre più competitiva. È ovvio che se questo tipo di pellicole sono poi interpretate da star del calibro di Brad Pitt o George Clooney sarà anche più facile andare incontro al successo passando per un festival, ma non si tratta comunque di opere dal guadagno garantito. Pitt, ad esempio, ha portato a Toronto Moneyball di Bennett Miller, film sportivo che però non parla di sport, bensì di ideali. Clooney ha presentato il politico The Ides of March da lui diretto e la commedia di Alexander


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Payne The Descendants, lungometraggio che lo distanzia radicalmente dalla sua figura ormai consolidata di sexsymbol hollywoodiano. L’altro fondamentale modo di vendere cinema è poi il mercato sempre più prolifero, dove le distribuzioni internazionali hanno la possibilità di visionare e comprare per i loro circuiti opere di ogni genere. Nei giorni del festival si sono chiusi numerosi accordi per il Cinema (soprattutto) americano di qualità che ha bisogno di essere promosso. Questa è dunque da sempre la politica del Toronto International Film Festival, politica che in questa edizione 2011 è stata pienamente rispettata. La stragrande maggioranza

dei film che abbiamo visto, appartenenti a un genere specifico o maggiormente autoriali, totalmente indipendenti o prodotti dalle varie Major, interpretati e/o diretti da nomi conosciuti piuttosto che da giovani sconosciuti, ci ha regalato spettacolo di spessore e di contenuti forti. L’atmosfera che si è respirata quest’anno al TIFF è quella di un’industria cinematografica che funziona a pieno regime e che sta molto attenta a dare importanza e visibilità a ogni reparto della filiera. Toronto non si limita a mostrare, ma vuole realmente vendere, e questo spirito propositivo e dinamico è un attributo che lo rende un festival assolutamente in salute.

I migliori “inediti” visti al TIFF 2011 Moneyball di Bennett Miller Gala Presentations

Moneyball

The Descendants

The Oranges

Il regista di Truman Capote e Brad Pitt raccontano la vera storia di Billy Bean, general manager dei “poveri” Oakland Athletics che tentò di cambiare le regole del baseball: vinciamo con una squadra costruita sulle statistiche giuste, non sulle star e sui milioni che guadagnano. Dietro il film sportivo si cela una riflessione: un sistema collettivo che funziona può essere più importante dell’emergere del singolo. Allo script Steven Zaillian e Aaron Sorkin.

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Juan de los Muertos

Le premier homme

Like Crazy


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Le avventure di Tin Tin: il segreto del Liocorno – dalla linea chiara al 3D della Weta

comincia l’avventura di Ilario Pieri

Qui è il Capitano Haddock, voglio sapere se è vero… Allora?” “Sì, è così Capitano. Lei, Dupont e Dupond, Tintin e Milù sarete di nuovo sul grande schermo, dopo gli esperimenti anni Quaranta e Sessanta” “Per mille fulmini, che notizia! Sono sempre l’ultimo a sapere le cose… Ectoplasmi!” Il Capitano e la sua barba non mentono: Tin Tin avrà una moderna versione cinematografica, a firma Steven Spielberg.

Il cineasta dell’Ohio è un fan del giovane e colto esploratore dal ciuffo rosso da quando qualche critico francese paragonò le avventure di Indiana Jones e I predatori dell’arca perduta a quelle dell’intrepido reporter di George Remi, meglio conosciuto come Hergé. Le prime illustrazioni del fumetto ricordavano molto il cinema, dal quale lo stesso autore ammise di aver appreso il ritmo e uno sguardo del tutto inedito per inquadrare i personag-


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gi. Inventore della linea chiara (vignette dal tratto secco, netto, pulito) divenne ben presto un punto di riferimento per la scuola franco–belga e per la bande dessinée. Remì fu una personalità sfaccettata quasi quanto i suoi personaggi: poco incline a parlare della propria infanzia, un presente senza figli e i ricordi migliori consumati tra i boschi, la natura e le gite da campo. Durante l’attività di disegnatore Hergé fu accusato di collaborazionismo con il regime nazista, messo in prigione e scarcerato… altro che immaginazione e fantasia! Tin Tin era Remì, ma forse quell’intrepido ragazzo, nato per appassionare le platee di piccoli lettori, rappresentava l’idea di ciò che lo stesso autore avrebbe voluto essere. Chi è Tin Tin? Sorta di boy scout spuntato sulle pagine del supplemento al quotidiano Le Petit

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Vingtième, questa figura di carta e colori mostra una passione per l’avventura, ma anche uno stupore per la scoperta. Non ha età né passato, tantomeno famiglia (questo è forse l’aspetto più affascinante per Spielberg, da sempre cantore di eroi per caso, in un certo senso orfani). Non si capisce poi come faccia a carambolare in lungo e largo senza tirare dalla tasca neanche un franco. Rifiuta l’amore, è leale e si batte sempre per le cause giuste, opponendo alla violenza un indelebile candore d’animo e qualche gancio ben assestato a chi lo merita. La sua famiglia è rappresentata dai compagni di ventura: Haddock, un lupo di mare irascibile, con il vizio della bottiglia; Dupont e Dupond (da Scotland Yard con furore, due agenti pasticcioni quasi identici, se non ci fossero i baffi a distinguerli), il prof Calcolus (un genio della scienza sordo come una campana) e il fox terrier


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Milù. Tin Tin negli anni svolge quasi un’azione pedagogica illustrando al lettore, attraverso le esperienze su e giù per il globo, la grande Storia: dalla Russia dei Soviet, agli indiani d’America, dalla Cina sotto i giapponesi alla Luna. Contro la tirannia e la sopraffazione egli oppone coraggio e altruismo; con queste armi riesce a smascherare il nemico di turno, sventando piani criminosi. Con Tin Tin si ha la sensazione di fare un giro del mondo (in meno di ottanta giorni) lungo le sponde della fanciullezza di Twain, in compagnia di un variopinto circolo Pickwick ritratto da un Gaugin delle nuvole parlanti. Dalla vignetta al 3D Grazie alla tecnologia, all’inguaribile passione dell’uomo con la macchina da presa di Cincinnati per le sfide impossibili e al prezioso sostegno del socio e amico Peter Jackson, Tin Tin prenderà vita sullo schermo. Questo passaggio profuma di memorie in 35mm: Spielberg, Jackson e gli effetti della Weta, la performance capture del Beowulf di Robert Zemeckis combinata con le tecniche all’avanguardia dell’Avatar di Cameron. Il primo appuntamento (Le avventure di Tin Tin: il segreto del Liocorno), sarà affidato al regista di A.I., il secondo episodio a Jackson e una terza parte è ancora in cerca di autore. L’operazione è molto ambiziosa perché mescola

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vari registri (dal noir, alla commedia, dal thriller all’azione in pieno stile Tempio Maledetto) attraverso la combinazione live action – animazione, con un’attentissima cura per i dettagli. Pare che lo stesso Remì abbia discusso più volte con Spielberg sulla possibilità di un adattamento cinematografico. Le storie di Hergé prevedevano scenari pregni di realismo, così per rendere realistici anche i costumi si è deciso di intervenire digitalmente. Un’occhiata al cast e si ha la sensazione di precipitare in un buco visionario da paese delle meraviglie: dalla nave di King Kong alle peripezie di un giornalista con Jamie Bell (Tin Tin), dalla sci-fi comedy Paul con la coppia comica Nick Frost e Simon Pegg (neanche a dirlo Dupont e Dupond) fino alla guest star 007 Daniel Craig (Red Rackman). La produzione ha deciso di puntare in alto anche in fase di scrittura: a disposizione l’ottimo Steven Moffat ( Jekyll), Edgar Wright (ancora irriverenza british) e Joe Cornish. “Allora Capitano, afferrato?” “Banda di canacci, avete tirato fuori tutti i nomi eccetto quello di Haddock: chi sarà me?” “Ah, sì certo, lei verrà interpretato da Andy Serkis” “Gollum? E non mi avete detto niente! Macrocefali, anfitrioni, vampiriiiii!!!!” L’appuntamento è per il 23 ottobre… Verso l’infinito e oltre!



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s e h s i n a V y r o t The S di Andrea Grieco

Da Final Destination 5 a Paranormal Activity 3. Fisiologia dei nuovi horror sequenziali

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alvo restando le specifiche strategie semiotiche, le pratiche del remake e dei sequel sono accomunate da un principio di sfruttamento merceologico, e l’horror, che con il nuovo millennio ha visto una nuova, fortunata stagione, è il genere in cui più palesemente si applicano quelle che, in superficie, appaiono logiche consolidate e invariabili. In virtù della sua natura mutante, invece, questo è il territorio d’elezione in cui si compiono le più repentine trasformazioni; novità che a loro volta riflet-


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tono le inquietudini derivanti dal contesto della efferatezza e bizzarria delle uccidi appartenenza, che riguardano tanto i sioni. Anche sotto questo aspetto le gesta processi di messa in scena della paura che di Jigsaw sono esemplari, in quanto sanquelli inerenti la percezione che di essa si ciscono l’innalzamento della soglia della ha. In altri termini, più ancora che quelviolenza rappresentabile e, soprattutto, la la di rifacimenti e reboot, è l’attitudine preminenza del pirotecnicismo graficoalla serializzazione di titoli come Final effettistico rispetto all’impianto narrativo. Destination, Saw - L’enigmista o ParaA differenza di quanto accadeva per serie normal Activity a mostrare quali forme come Nightmare, che per quanto stancavanno acquisendo l’orrore, le aspettative e mente potessero proseguire mai smettele tensioni intervenute in questi anni nelvano di sviluppare presupposti e caratteri lo spettatore. Gli horror seriali di ultima presenti nel capitolo originario, per Saw, e generazione sono la cartina di tornasole ancor più per Final Destination, perdono di cambiamenti linguisticocompletamente di senso, o produttivi che, se non semforse stanno anch’esse supre rivoluzionari, risultano bendo un’alterazione del rilevanti per intercettare La spettacolarizzazione proprio codice genetico, le potenziali rotte dell’innozioni quali “approfonfine a se stessa sembra dustria filmica tout-court. dimento psicologico”, “defarsi esclusivo termine Questioni, innanzitutto di terminazione del tempo stilistico tempi. Con il diffondersi della narrazione”, e via didel download selvaggio, alle scorrendo. Se tutto questo case produttrici non resta sembra essere in linea con che fronteggiare il fenomei presupposti di un postno come possono, magari sfornando capimodernismo sempre più di comodo, pentoli con la stessa velocità con cui si scarica sando alla natura ineffabile dell’assassino un file. Paradigmatico da questo punto di messo in scena da James Wong viene da vista è il caso delle pellicole seguite al prichiedersi come potrebbe essere altrimenmo Saw diretto nel 2004 da James Wan e ti. Boutade a parte, non v’è dubbio che che a oggi può già contare sei seguiti. Una la spettacolarizzazione fine a se stessa prolificità giustificata anche dalla risposembra farsi, per le saghe in questione, sta positiva dei botteghini, che minaccia esclusivo termine stilistico, e ben venga sempre più seriamente il primato segnaquesta predisposizione quando dà origine to dalla saga di Jason Woorhees. Alla a sequenze al cardiopalma come quella rapidità con cui si incrementa la numedell’articolatissimo incidente con cui si razione di questi blockbuster dell’orrore apre il secondo capitolo di Final Destinacorrispondono un body-count sempre più tion. In realtà, non solo questa tendenza si sostanzioso e un esponenziale aumento afferma a discapito finanche del concetto


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di continuity, che ai limiti dell’assurdo anche gli episodi più scialbi di Halloween o Hellraiser hanno conservato, ma il fatto stesso che il raggiungimento dell’effetto sensazionale si sia declinato nell’uso della visione stereoscopica non lascia sperare per il meglio. Non secondaria è la ricaduta che tali dinamiche hanno avuto sugli straight to video. I low budget dei prodotti destinati a tale circuito, in passato camera di fermentazione per serie mal nate e peggio proseguite come Wishmaster e Scarecrow, rendono proibitivo il raggiungimento degli standard tecnico-visivi dei nuovi horror, precludendo l’opportunità di un futuro che non sia quello di una drastica interruzione, di una fruizione in streaming o, nel migliore dei casi, di un destino da classici già pronti per un rifacimento. Ma gli horror seriali degli ultimi anni sono anche la riprova che parallela a una scuola che ostenta l’avanguardia tecnologica ve n’è un’altra che opta per un fantomatico grado zero della messa in scena. I sequel di Paranoraml Activity di Oran

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Peli e di Rec di Balagueró e Paco sono l’esempio lampante del ritorno in auge di strumentazione leggera, dell’uso di macchine a mano e altri espedienti finalizzati a conferire quella “domesticità” all’immagine che pertanto non viene percepita come professionale e diventa sinonimo di fedeltà della realtà riprodotta. Certo, l’horror non è nuovo neanche a tale approccio: Cannibal Holocaust e The Blair Witch Project ne sono esempi, ma nessuno di essi ha filiato una vera e propria serie. A ben vedere, quindi, è il successo che arride a tale prassi che risulta originale per il genere, riflesso anch’esso di sguardi bulimici, svezzati a immagini generate dai più disparati impulsi elettrici. Non ultimi quelli del mezzo televisivo. Finiti dunque anche i tempi in cui si sperava che da una pellicola nata quasi per scommessa come Nightmare facesse capolino un esordiente come Johnny Deep. Ma Wes Craven, seppur in caduta libera, non sta raccontando tutto questo da quando ha messo mano alla saga Scream?



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L’uomo che odiava le donne… di Adriano Ercolani

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Il regista più misogino e più contestato sorpende con Melancholia. Forse un’apertura verso una lettura diversa

ars Von Trier è tra i cineasti più discussi dell’ultimo ventennio, un regista che ha saputo regalare al cinema contemporaneo opere realmente provocatorie, che hanno costretto pubblico e critica a schierarsi nettamente. Von Trier lo si ama o lo si detesta, difficilmente possono essere trovate vie di mezzo nell’approccio ai suoi film. Questo almeno fino al suo ultimo Melancholia, dramma elegiaco che tenta un approccio con il pubblico meno dirompente rispetto al passato. Al centro della storia Justine, la cui psicologia fragile si rivela in tutto il suo dolore nel giorno del suo matrimonio. E intanto sulla Terra grava l’affascinante minaccia di un pianeta che si sta pericolosamente avvicinando, Melan-

cholia appunto. Premiato a Cannes per la miglior interpretazione femminile - Kirsten Dunst è la terza attrice dopo Bjork e Charlotte Gainsbourg a ricevere questo riconoscimento per un lavoro con il cineasta danese – il film è stato subissato dalle feroci polemiche seguite alle dichiarazioni di Von Trier sulla Croisette, che hanno in seguito comportato il suo allontanamento dal festival. Concentrandosi maggiormente sul film ci si sarebbe accorti che si tratta di un tassello molto importante, forse addirittura fondamentale nella filmografia dell’autore. Lars Von Trier da sempre viene quasi unanimemente considerato un cineasta misogino, fattore derivante dalla forza brutale con cui vessa, oseremmo dire tortura le sue eroine più


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famose: pensiamo tichrist, rappresenta alla Bess de Le onde al meglio la razioChe Von Trier voglia del destino, alla Selnalità maschile che rappresentare la donna come tenta con ogni mezma di Dancer in the Dark, alla Grace di zo di castrare il fevittima impossibilitata a Dogville e più di minino scatenatosi difendersi? tutte alla Lei interdal dolore straziante pretata da Charper la perdita del filotte Gainsbourg glio. Invece di essere nel precedente, ipnotico Antichrist. Pur un autore che semplicemente odia la firimanendo innegabile che Von Trier gura femminile, non è possibile dunque abbia un rapporto contraddittorio con la che Lars Von Trier voglia rappresentarla figura femminile, tale questione va però come vittima impossibilitata a difenderinserita in un contesto più ampio, che si dentro un mondo ancora fortemente la critica ha sottovalutato in questi anni maschilista? Il dubbio è a nostro avviso soffermandosi soltanto sul lato brutale e lecito, dal momento che ci troviamo ci visivamente forte dei suoi lungometragtroviamo di fronte a un cinema talmente gi. Tutte le donne sopra citate si muovocarico di significazioni che potrebbe vono infatti dentro un universo il cui la filer dire tutto e tutto il contrario. A dare gura maschile è dominante e vessatoria, forza a questa ipotesi arriva adesso la Juin cui l’uomo non solo detta le regole stine di Melancholia, sposa confusa con del vivere sociale, ma impone in maniera un padre assente, un capo tracotante, fortemente coercitiva il modo di penun cognato ricco che le ha organizzato sare e di agire sulla donna. Il gruppo di un matrimonio fastoso e che in questo trivellatori de Le onde del destino è una modo più o meno inconsciamente vuole “casta” chiusa e gretta a cui Bess si deve dimostrare la sua superiorità. La bellezimmolare, così come la Selma di Dancer za della visione, la poesia delle immagini in the Dark deve arrendersi di fronte al di Melancholia lo rendono più accessipotere degli uomini che lavorano con bile rispetto agli esperimenti dell’ultimo lei nella fabbrica. I protagonisti maschili cinema di Von Trier. Il discorso sulla degli altri due film poi sono addirittura donna e sulla sua possibilità di afferparadigmatici: l’ipocrita, presunta formarsi in un contesto dominato dall’altro za morale di Tom Edison/Paul Bettany sesso rimane comunque pressante. Forse in Dogville porta Grace a diventare la questo film è davvero il primo tentativo schiava dell’intero paesino che segue di andare incontro al pubblico per fargli come un branco di pecore la visione biarrivare un messaggio preciso senza però gotta dell’uomo. E Willem Dafoe, mavolerlo scioccare. Meglio non sottovalutare rito psichiatra della Gainsbourg in AnMelancholia…


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Le molte vite dei Vanzina di Alessandro De Simone

Questa volta si è verificato un fatto inusuale nella nostra carriera. Perché se prima erano i nostri film a inaugurare dei filoni e a ispirare secondi capitoli - come è capitato per Sapore di mare 2, Yuppies 2 e altri ancora - qui siamo stati noi ad aver raccolto il marchio dei Lucisano e l’eredità di un film di grande successo come EX di Brizzi. Un piacere reciproco e un insolito passaggio di testimone visto che lui stesso ci ha confessato che Sapore di Mare è il film cui deve la sua principale fonte di ispirazione per Notte prima degli esami”. Parole di Carlo Vanzina per presentare Ex – Amici come prima, sequel della fortunata commedia di Fausto Brizzi, anche questo un film corale con un cast che vede, tra i molti, Enrico Brignano, Gabriella Pession, Anna Foglietta, Teresa Mannino, Ricky

Tre film in un anno e l’onore e la firma sul Cinepanettone 2011. Il cinema italiano non riesce a fare a meno di Enrico e Carlo. Perché? Memphis, Paolo Ruffini, Vincenzo Salemme e Alessandro Gassman, presente anche nell’originale. Tante storie che si intrecciano e si risolvono nelle maniere più disparate, nella migliore tradizione della commedia alla Vanzina, qui nella sua forma più sofisticata e “all’inglese”. Come già avevano provato a fare in Ti presento un amico, primo film dei Fratelli uscito in questo 2011 e grande successo di pubblico, un milione e ottocentomila euro di incasso, se confrontato con il successivo Sotto il vestito niente – L’ultima sfilata, tentativo di resuscitare una franchise nostrana che tanto fortunata fu negli anni della Milano da bere (di cui i nostri, romani purosangue, interpretarono perfettamente i sentimenti e i desideri). Risultato: meno di quattro-


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centomila euro, a fronte di una distribuzione in sala massiccia da parte di Medusa, un vero e proprio fiasco. Eppure i Vanzina Bros sono sempre qui, e dopo Ex sono attesi dalla prova del pubblico come sceneggiatori di Vacanze di Natale, cinepanettone targato De Laurentiis che confida nella loro esperienza ultratrentennale per mantenere in carreggiata una tradizione cinematografica che negli ultimi anni ha avuto delle difficoltà (anche se meno di quanto analisti poco attenti hanno erroneamente evidenziato). Insomma, dove c’è cinema popolare, quella è la casa dei figli del buon Steno e, come il papà, Carlo ed Enrico non si tirano mai indietro, cercando sempre di trovare la formula migliore per far passare al pubblico un paio d’ore spensierate, indifferentemente dal genere che vanno ad affrontare. E questo è il paradosso di fronte a cui ci troviamo davanti: i Vanzina fanno cinema popolare, ma non hanno successo al botteghino, eppure continuano ad avere la fiducia di tutti i più grossi produttori italiani, da Medusa a Lucisano a De Laurentiis. Perché? La risposta non è facile, ma esiste. Prima di tutto proprio le entità qui citate devono ai fratelli la loro stessa esistenza. Negli ultimi trent’anni, infatti, la lista dei successi miliardari di questa premiata farebbe invidia a quella di un produttore di blockbuster americano. Da Eccezzziunale…veramente a Vacanze di Natale, poi Sapore di mare, Sotto il vestito niente, Yuppies e molti altri, fino alla creazione del Cinepanettone, anno di grazia 1996, con il primo A spasso nel

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tempo, produzione Filmauro. L’industria cinematografica italiana, quindi, ha un grosso debito di riconoscenza con loro che in un momento in cui la loro popolarità è venuta meno è anche giusto che riscuotano. A questo aggiungiamo che i Vanzina sono ancora oggi gli unici capaci di affrontare i generi in Italia perché ne conoscono i meccanismi, imparati in casa e dagli amici di famiglia che hanno fatto il cinema negli anni in cui il pubblico era davvero esigente. Li si può amare o disprezzare, ma Sapore di mare ha ritmo, dialoghi, atmosfere e attori ottimamente diretti, un film nostalgico di una fattura difficile da ritrovare nella produzione odierna, così come Amarsi un po’ è ancora oggi una delle migliori commedie romantiche mai girate in Italia e Il cielo in una stanza un Ritorno al futuro de Noantri delicato e sentito. Gli ultimi anni sono stati poco felici, con film non riusciti, un’alimentare rivisitazione del passato con sequel di cui non si sentiva il bisogno, da La mandrakata a Il ritorno del Monnezza. Ma loro sono sempre lì, ammirevoli nella loro costanza, e di fare gli Ex non hanno alcuna voglia.


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Bloody Juliet di Ilario Pieri

Blackeberg. Fa pensare a quei dolci rotondi di pasta di cocco, magari fa venire in mente la droga. Una vita decente. Si pensa alla metropolitana, ai sobborghi. Poi probabilmente non viene in mente nient’altro”. Non ci sono dubbi: la parola è più forte dell’immagine. Poi a volte al cinema accade qualcosa di insolito. L’idea visionaria di un universo scritto prende forma e non fa rimpiangere di essere entrati in sala per assistere all’ennesima trasposizione. Tomas Alfredson e Matt Reeves, infatti, sono riusciti in maniera differente (ciascuno coniugando il proprio stile e la propria sensibilità) a lasciare una forte impronta sull’adattamento del romanzo di John Ajvide Lindqvist Låt den rätte komma in (Lasciami entrare, edito in Italia da Marsilio). Il regista svedese, puntando sul racconto, invitava i personaggi cartacei a squarciare i confini del testo per trasformarsi in sangue e celluloide. Reeves invece tradisce l’opera originale fornendo una versione alternativa della storia, con una coerenza di fondo e una padronanza tecnica invidiabile. Gli antieroi di Lindqvist

Dopo un anno dal Festival del Film di Roma, arriva nelle sale Blood Story. Il remake americano della storia svedese più tenera e terribile Read the Review

sono spesso adolescenti alle prese con un pianeta alieno ai loro candidi cuori di tenebra, figli di un’umanità schiava della sofferenza e della paura, della solitudine e spesso della perdizione. Ombre stagliate all’orizzonte di favole gotiche, alle prese con dilemmi esistenziali, immerse nelle sabbie di un deserto metafisico di violenza, ghiaccio e dolore. I due protagonisti Eli (un vampiro da troppo tempo dodicenne accompagnata dal suo ambiguo “maggiordomo”) e Oskar (un coetaneo preso di mira da alcuni feroci compagni di classe) si muovono in uno scenario di miseria e desolazione: un cimitero periferico anni Ottanta di pallidi soli e gelidi tramonti. Con queste atmosfere sospese, inquietanti e soffuse, Alfredson giocava le sue carte migliori: l’amicizia, il sentimento, il terrore e poi


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il coraggio di “entrare” l’uno nella vita dell’altra si stagliavano con incisività negli occhi dello spettatore, come orme sulla neve. A volte con piani ravvicinati, altre osservando gli interpreti agitarsi tra le pieghe di campi lunghissimi, altre ancora irrompendo nelle inquadrature con lampi di bestiale vendetta consumata ai bordi dello schermo, il regista interpretava lo spirito della crudele novella nordica deliziando lo sguardo del pubblico. Gli Ottanta di Reeves narrano di un’America dominata dalla filosofia reaganiana: una nazione “sottomessa a Dio” in lotta contro le forze del male (in questa pellicola campeggiano immagini sacre, si rincorrono preghiere, si fantastica di riti satanici quando cominciano a piovere cadaveri). Ma è nelle scelte tematiche che il regista di Cloverfield opera in modo affascinante. La relazio-

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ne tra Eli (qui Abby) e Oskar (Owen) ricorda quella impossibile e tormentata di Romeo e Giulietta di Shakespeare. Il regista cita la tragedia inglese con delle sequenze tratte dal film di Franco Zeffirelli mostrate ai bambini della scuola, ai quali viene anche assegnata di leggere l’opera del bardo. Il modo di guardare “i grandi” è radicalmente diverso: se nella versione di Alfredson gli adulti venivano pressoché esiliati dalla scena, qui la madre di Owen non viene mai mostrata in volto (come faceva Steven Spielberg per celare i volti degli scienziati a caccia dell’extraterrestre, omaggiando l’amato Chuck Jones) e il padre si palesa solo al telefono. Questo paragone non è del tutto peregrino perché Blood Story condivide con l’immaginario del cineasta di Cincinnati il racconto di famiglie spezzate. Owen (come Elliot) avrà modo di crescere grazie a un incontro straordinario. È un po’ come se E.T. fosse precipitato dalla sua astronave in un film della Hammer ambientato nel freddo Los Alamos a tempo di Let’s Dance tra creature della notte e partite a Pacman. Al rigore e all’eleganza formale del modello europeo, Reeves insomma oppone il suo cinema spettacolare (il piano sequenza in macchina è da applausi a scena aperta) purtroppo guastato da effetti speciali non sempre impeccabili. Senza dubbio però nella mente rimangono le figure nate dalla fantasia di John Ajvide Lindqvist: due anime perdute così lontane eppure così vicine unite per sconfiggere i mali del mondo.


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L’altra faccia del supereroe di Luca Svizzeretto

Arriva nelle nostre sale Super, vendicatore senza superpoteri armato di chiave inglese! Read the Review

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e vostra moglie, di cui siete follemente innamorati, decidesse di scappare con un altro uomo e vi lasciasse senza la vostra unica ragione di vita, come reagireste? Non sentireste la voglia irrefrenabile di andare in giro a fracassare le ossa a tutti quelli che si portano via le donne degli altri? Se l’idea vi va a genio, seguiteci nel nostro viaggio dietro le quinte di un film che promette di lasciare il segno in coloro che avranno la saggia idea di andarlo a vedere. Nell’epoca in cui le trasposizioni cinematografiche dei fumetti sono diventate uno dei prodotti più richiesti dal pubblico, ecco arrivare nei cinema Super di James Gunn, pellicola che parla di supereroi ma che non è ispirata ad alcun comic o graphic novel. Quando Super è

stato presentato in anteprima al Torino Film Festival circa un anno fa, è stato applaudito fin dai titoli di testa. Perché Gunn non ha lasciato nulla al caso e ha voluto che il pubblico restasse impressionato fin da subito da una tecnica di regia accattivante e sorprendente. La sceneggiatura, iniziata nel 2002 e poi interrotta perché il risultato era troppo violento ed esoterico per le richieste di produttori e studios, segue il filone dei vendicatori ai margini, reietti e senza veri superpoteri di cui disporre. Un filone iniziato con l’indipendente Mystery Men di Kinka Usher e proseguito con Kick-Ass di Matthew Vaughn. Il protagonista della storia è Frank D’Arbo, interpretato da uno straordinario Rainn Wilson (noto per la serie TV The Office), un cuoco che lavora in


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una tavola calda e che dalla vita ha avuto poche soddisfazioni. Forse solo due: aver sposato la bella moglie Sarah (Liv Tyler) e aver aiutato un poliziotto a catturare un criminale indicandogli dove si era nascosto. Quando la compagna lo lascia per mettersi insieme a un criminale (Kevin Bacon) il buon Frank perde il senno e decide di trasformarsi in Crimson Bolt, un supereroe armato di chiave inglese. Tra i protagonisti troviamo anche, nel ruolo della commessa di un negozio di fumetti che diverrà la supereroina Boltie, la Ellen Page di Juno che, dopo essere stata utilizzata nel peggior modo possibile da Christopher Nolan in Inception, torna finalmente a esprimere tutto il talento e la carica esplosiva che la rappresenta. Cameo eccezionali si susseguono: Michael Rooker (salito alla ribalta di recente per il serial televisivo The Walking Dead), il regista Rob Zombie, nel ruolo di Dio, e Nathan Fillion (impegnato nel serial Castle) nei panni del supereroe mascherato The Holy Avenger. Tutti i personaggi

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sono folli, sporchi e cattivi e la violenza assume dei connotati perfino più crudi di quello che si era visto in Kick-Ass al punto da sconfinare nello splatter - e la cosa non sorprende se si pensa che il regista americano ha confezionato nel 2006 il memorabile fanta-splatter Slither. Se da un lato viene in mente la serie televisiva di Batman nota negli anni ’60 per l’idea di enfatizzare i colpi con scritte onomatopeiche così da dare l’impressione di un fumetto animato, dall’altra lo stile di James Gunn ricorda moltissimo quello di Quentin Tarantino. Super è stato girato tra il 9 dicembre 2009 e 24 gennaio 2010 a Shreveport in Louisiana, con scene aggiuntive realizzate a Los Angeles (ad esempio il negozio di fumetti mostrato nel film è un negozio reale, ComicSmash, che si trova a Studio City). Essendo un film a basso budget tutti gli attori coinvolti nel film sono stati pagati con il minimo consentito dalla Screen Actors Guild e inizialmente per il ruolo da protagonista era stato scelto John C. Reilly.

Ellen Page è Boltie – e chi dice che non è anche sexy?


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r e k c u f r e h t o M h s i The Ir esta

di Pierpaolo F

ur o h y p p a h a d o Un poliziott olo t i t o u s l e d ù i p promette esi d n a l r i e r e i l g o c italiano: le s e n e i p ì s o c e t a t s non sono mai our) m u h e ( e u g n a s di

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uando la Città degli Angeli si trasforma nella valle dei demoni, quando la Grande Mela viene scossa dal pericolo che serpeggia ventiquattro ore al giorno, il Vecchio Continente si fa avanti sul grande schermo svelando luoghi più disturbanti dei soliti stereotipi hollywoodiani. C’è una lista infinita di lungometraggi in cui le location europee sono capaci di inghiottire i loro protagonisti, a volte, però, ci si allontana da quei film di genere per sperimentare e creare qualche ibrido, un prodotto in cui al sangue viene contrapposta una forte dose di humour: benvenuti in Irlanda. The Guard Galway, celebre per le sue scogliere che tolgono il fiato. Un’area la cui bellezza fa da cornice al film di John Michael McDonagh che affonda la sua macchina da presa nei paesaggi infiammati di verde, quasi percepibile l’odore dell’erba accarezzata dal

vento mentre le onde del mare continuano a schiantarsi a riva. Un luogo suggestivo popolato da spietati trafficanti di droga che non esitano a fare sparire poliziotti, testimoni e soci di affari troppo furbi. Sin dai primi minuti i cadaveri piovono in mezzo alla scena. A guidarci in questo Wild Wild West of Ireland è Gerry Boyle, un Garda (così si chiama la polizia irlandese) che è molto più di un antieroe, un personaggio che potremmo definire The Ultimate Outsider. Mi chiamo Gleeson, Brendan Gleeson Pistola, distintivo, manette e soprattutto tanti spiccioli per recarsi al pub all’angolo e ordinare una pinta di scura. Forse anche due o tre, rigorosamente accompagnate da un whisky doppio malto. Più che il solito cavernicolo da bar, il Sergente Boyle “è


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l’ultimo grande indipendente – come afferma l’attore che lo interpreta - un erudito e istruito che fa uso di sostanze illegali soltanto per provarle. Ferocemente onesto, ma allo stesso tempo non un accanito sostenitore della legge, specialmente quando gli appare assurda o non è nell’interesse delle persone”. Rossiccio, bolso e con un’espressione sempre seria, Brendan Gleeson è, in realtà, un uomo che ama sorridere nella vita: ex insegnante alle scuole medie, ha inseguito la felicità a trentaquattro anni. Una scelta vincente, dal momento che nelle ultime due decadi abbiamo letto sempre più il suo nome nei titoli di testa dei film. “Vado a procurar battaglia”, gli strillava Mel Gibson nei campi scozzesi di Braveheart. E lui sottovoce rispondeva: “Hai visto? Almeno non mi sono truccato così per niente!”. E che dire del cacciatore della fiera della carne in A.I. di Steven Spielberg oppure di Alastor “Malocchio” Moody nella saga di Harry Potter? Tre anni fa è stato lo stesso Gleeson a sorprenderci nei panni del sicario costretto a schivare pallottole mentre faceva da guida turistica a Colin Farrell nel sorprendente In Bruges. Una pellicola che appartiene allo stesso albero genealogico di questa black comedy, anche perché è stata diretta dal fratello di McDonaugh, il vincitore dell’Oscar Martin. “Non sono sicuro di identificarmi con Gerry – rivela Gleeson – Eppure lo capisco bene. Non direi che si tratta di un personaggio specificamente irlandese, ma di un gran bel ruolo originale: se riuscirete a trovare qualche altro personaggio simile fatemelo sapere!”.

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Facciamoci un goccio... Noi abbiamo preso Gleeson in parola e abbiamo cercato un personaggio simile. Ecco eroi e antieroi con cui andremmo volentieri a farci una bevuta

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Joe Hallenbeck Bruce Willis ne L’ultimo Boy Scout (The Last Boy Scout, di Tony Scott, 1991) Drink preferito: Whisky Argomenti di discussione: Joe Hallenbeck può parlare ore e ore del suo codice morale, rivelando, tra un sorso e l’altro, quanto sia duro vivere con se stesso. L’investigatore malinconico portato in scena da Willis - un uomo che ha l’aria di aver dormito con tutti i vestiti addosso - poteva perfettamente adattarsi all’alterego John McClane. Sarebbe certamente stato un Die Hard con i fiocchi. Conto da pagare: Non troppo salato. Joe ama bere, ma sa anche di essere un pezzente e non potersi permettere nulla.

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Uno per tutti e tutti in 3D di Valeria Roscioni

Paul W.S. Anderson porta al cinema la versione action dei Tre moschettieri con la pretesa di rendere più vivo il romanzo di Dumas

Tutto il resto è noia “Uno dei passaggi del libro che ho trovato ripetitivo è quando i Moschettieri devono rientrare da Londra dopo aver recuperato i gioielli. Accadono molti meno incidenti rispetto all’andata. Per questo ho pensato che quello era il punto in cui potevo introdurre un po’ di azione

ed è così che mi è venuta l’idea di inserire dei dirigibili. Sono ispirati alle macchine da guerra disegnate da Da Vinci […] Certo, la loro introduzione nella storia avviene con un centinaio di anni d’anticipo rispetto alla realtà, ma ho usato il genio di Leonardo per giustificare la loro presenza. Questo mi ha permesso di introdurre una ventata di freschezza e di azione alla fine del film”. Questa la rispo-

D’un classico ogni rilettura è una lettura di scoperta come la prima”. Italo Calvino era un uomo del secolo scorso, e non immaginava affatto che nei decenni a venire la trasposizione cinematografica avrebbe offerto una rilettura action e in 3D. Attraverso quali scoperte verrà condotto lo spettatore dalla mano di Paul W.S. Anderson?


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sta di Anderson a Kara Warner che, per il sito USA di MTV, gli chiedeva come mai nel trailer de I tre Moschettieri 3D comparissero dei dirigibili. Una dichiarazione d’intenti che anticipa più di tante immagini. Bando alle ciance e al racconto di eroismo, amicizia, fedeltà, sentimento e amor patrio: per rendere appetibile la storia occorreva un po’ d’azione. Il che spiega come mai, proprio nel suddetto trailer si odano le parole: “Siamo guerrieri, questo siamo. È il nostro mestiere”. Frase che, fino ad ora, avremmo attribuito più all’esercito guidato da Russell Crowe ne Il gladiatore che a D’Artagnan e compagni. Uno strano triumvirato La paura dilaga. Il continente è sull’orlo del conflitto. Christoph Waltz, dismessa la vena comica trovata nel recente Carnage, è il perfido Cardinale Richelieu: colui che controlla il territorio. Orlando Bloom, invece, è il Duca di Buckingham: dominatore dei cieli. Completa il terzetto la bella Milla Jovovich nei panni di Milady, “la più pericolosa assassina che il mondo abbia mai conosciuto”. Solo i tre

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Moschettieri con al seguito D’Artagnan possono porre fine al temibile complotto. La trama di questo ultimo adattamento del romanzo di Alexandre Dumas ricorda un thriller, un turn pages estivo pronto a scalare le classifiche, con i cattivi da fermare in tempo prima che la bomba esploda o il virus dilaghi, ma per quanto strano non è così. I tre moschettieri è un romanzo d’appendice, nato per uscire a puntate e che quindi doveva necessariamente incontrare il gusto del pubblico, affascinandolo tenendone sempre desta l’attenzione narrando grandi gesta. Nessuno oggi correrebbe in edicola per sapere se un povero guascone ha finalmente coronato i suoi sogni di gloria e di riscatto. Oggi serve qualcosa in più. Nel corso degli anni de I tre moschettieri sono state prodotte numerose versioni al cinema e in TV. Ve ne è una per bambini in cui i personaggi sono cani e gatti. Nell’anime che andava in onda negli anni Ottanta, invece, Aramis era in realtà una donna. Esiste addirittura una trasposizione al femminile con Barbie. E ora, giustamente, perfettamente al passo con la moda cinematografica che più dilaga è arrivato il 3D Action. Poco importa per l’onore di uno scrittore dell’Ottocento quali e quanti cambiamenti subirà la sua storia nel corso dei secoli. Ciò che davvero conta è che continui a vivere, nella speranza che almeno uno spettatore uscendo dalla sala si fermi in libreria per scoprire le parole dietro alle immagini.


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Sex and Zen 3D: quando il sesso poté più dei blockbuster

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Hong Kong Sexploitation

a notizia ha fatto il a notizia ha fatto il giro del mondo: con un risalto che non toccava più a Hong Kong e al suo cinema da tempo immemore. Sex and Zen 3D: Extreme Ecstasy ha incassato – a fronte del suo budget risibile di trecentomila euro – la bellezza di 11,53 milioni di euro in una settimana, di cui duecentocinquantacinquemila nel primo giorno di programmazione, ben ventimila in più di Avatar di Cameron. Cifre e notizie che appartengono al passato remoto dell’ex-colonia, agli anni Ottan-

di Emanuele Sacchi

ta e primi Novanta, in cui la allora terza industria cinematografica al mondo era una delle pochissime a vedere i blockbuster americani in posizioni defilate nelle classifiche del box office. Che questo ritorno di fiamma avvenga oggi, per un film erotico in 3D che rappresenta il non plus ultra in termini di exploitation, forse lascia l’amaro in bocca agli amanti del cinema di Hong Kong che fu, ma rappresenta un dato che non può essere sottovalutato. Oggi quel target (HK + Taiwan + Tailandia + diaspora cinese in giro per il mondo) che alimentava gli


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incassi del prolifico cinema in cantonese (opposto a quello della Cina continentale in mandarino) non esiste più, con le maestranze di allora totalmente inglobate nella nascente macchina produttiva della Cina Popolare. Ma Sex and Zen 3D ha scatenato l’effetto contrario, un’inversione di tendenza: il fatto di non essere stato distribuito in Cina ha aumentato in maniera spropositata gli incassi, attirando pubblico disposto a spostarsi dalla Cina continentale a Hong Kong appositamente, secondo lo stesso iter che porta gli abitanti di Shanghai a Macao per giocare d’azzardo o per altre tipologie di intrattenimento che l’intransigente Repubblica Popolare non contempla né approva. Un curioso fenomeno capace di dimostrarsi più forte del divieto ai minori di un film che punta tutto sul marketing, ma che non fa niente per nascondere la fragilità del conte-

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nuto. Se già l’originale di Michael Mak, progenitore di una fortunata serie, era tutt’altro che un caposaldo del cinema Categoria III (definizione di un sottogenere di film vietati a Hong Kong, mai porno ma solitamente ricchi di erotismo e/o violenza esplicita), il Sex and Zen del Terzo Millennio abbandona i toni della commedia scollacciata in favore di un vero e proprio zibaldone di stereotipi di quel genere: erotismo, ossessione per le dimensioni del pene, sadismo e gusto scabroso per la tortura, transessualità, con una strizzata d’occhio al 3D (usato più per scene di violenza che per quelle di sesso) e una confezione ben più patinata, con pornostar giapponesi dai seni prosperosi adeguatamente truccate in luogo della bellezza semplice di Amy Yip (storica maggiorata del cinema hongkonghese). Un’opera dalla data di scadenza piuttosto ravvicinata, quindi, ma che ha saputo meglio di qualunque altra in questi anni risvegliare l’orgoglio locale sopito di una Hong Kong ormai mestamente avviata verso il viale del tramonto (o addirittura della nonesistenza). A prescindere da dove arrivi, si tratta di una svolta di enorme importanza per il relitto di una cinematografia che tenta di conservare quella specificità – linguistica e contenutistica – che cerca di resistere all’omologazione dell’onnivora Cina.



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Steven Soderbergh

di Boris Sollazzo

“Politici, fate come noi artisti”

Un cineasta che vince premi, sbanca il botteghino e piace agli intellettuali. The Cinema Show si è fatto volentieri contagiare da lui. E viceversa!

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teven Soderbergh è una leggenda. Nell’ultimo quarto di secolo ha percorso ogni genere, vinto (e fatto vincere) ogni tipo di premio, ha fatto la fortuna sua e di tutti gli attori con cui ha lavorato. Clooney e Julia Roberts, Del Toro ed Andie McDowell, e così via, non sarebbero gli stessi senza di lui. A Venezia siamo stati insieme tre quarti d’ora, ha scaricato The Cinema Show, abbiamo parlato di tutto, da Sesso bugie e videotape all’ultimo Contagion, passando per il baseball e Facebook. Godetevi questa chiacchierata, magari con All I want is you degli U2 di sottofondo. Quella che va sul finale del suo ultimo film.


Interview Contagion, la sua ultima fatica, come nasce?

Nella testa di Scott Burns, mentre stavamo pensando a un’opera sulla vita di Leni Riefenstahl: una bella idea ma difficilissima da realizzare e ancora più complicata da far apprezzare al pubblico. Parlando con dei produttori e tra noi abbiamo cominciato a pensare a un altro progetto e a Scott è venuto in mente di fare un film “pandemico”. Abbiamo subito riscontrato un interesse enorme da parte dei produttori, soprattutto indipendenti. Il secondo step è stato quello di costruire una rete di personaggi interessanti e non è stato facile: basti pensare che Jude Law, forse il centro della narrazione, è arrivato nelle nostre teste negli ultimi giorni di scrittura. Perché i media possono essere più pericolosi di un’epidemia?

L’intuizione è nata dal voler immettere un altro virus nel film, quello mediatico, un’idea geniale di Scott. È davvero ambiguo quel ruolo e Jude è stato bravissimo. Sono convinto che il suo giornalista precario non sia cinico né bugiardo: è convinto di quello che dice, si ammala e guarisce, sfrutta a proprio favore l’attenzione che costruisce attorno a sé, perché pensa di avere ragione. Allo stesso tempo è estremamente ambizioso e furbo, e inevitabilmente questo lo porta a cavalcare la situazione. Quello che dice, in effetti, fa parte di un’ideologia, di una paranoia collettiva, la teoria del complotto, condivisa da molti: una leggenda politica per cui

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il Potere mente sempre. E molti di loro, come lui, vedono in internet una piattaforma democratica dove sbugiardarlo. La Rete però è fuori controllo, anche nel senso negativo: io non potrò mai sapere cosa si dice di me, l’esattezza delle informazioni che circolano sul mio conto. Contagion usa un altro fenomeno che si è espanso come un virus: la comunicazione 2.0. Lei che rapporto ha con social network e affini?

Appunto. Ci sono account su Facebook e Twitter a mio nome, ma non sono miei e approfitto per dirlo: è estremamente seccante che qualcuno abusi del mio nome. Pur essendo interessato ai progressi tecnologici e comunicativi, non mi ha mai coinvolto questa nuova rete virtuale di contatti, ne sono rimasto fuori. Forse anche per un fatto semplicemente anagrafico. Ma è interessante il livello di penetrazione nella societá che ha avuto la comunicazione 2.0, quanto abbia cambiato le nostre relazioni. E non sono di quei moralisti che pensano siano peggiorate: ricordo la fatica con cui chiedevo, e ancora meno ottenevo, un’uscita con una ragazza e come questo sia cambiato ora con tutti questi modi di prender contatto. Eppure uno come Gordon Brown considera Facebook una concausa dei riots inglesi

Gordon Brown non ha un problema con i social network, ha un problema con il suo popolo. La tecnologia non si usa da sola, c’è sempre un essere umano dietro:


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può usarla per provare a combattere dei regimi, come è successo in Nord Africa e Medio Oriente, o per protestare contro il governo e la crisi come a Londra, Manchester o Liverpool. Gli atti di violenza, i reati, non sono responsabilitá del mezzo, ma di chi lo usa. Se su Facebook si parlano due terroristi, il problema è il primo e non i secondi? Ma per favore... Io vedo, per esempio, ottimi effetti di questo social network su mia figlia ventenne: lo usa con equilibrio, perché possa semplificarle la vita, ma non l’ha resa né un soggetto pericoloso né un’asociale sempre attaccata al pc. Pessima informazione, la paura e una comunicazione errata delle istituzioni: questo mix è letale più dell’uso che Jude Law fa nel film del suo blog. Che, semmai, è una conseguenza. Sfonda una porta aperta. The Cinema Show è una rivista solo per iPad e gode di

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maggiore libertà e possibilità proprio grazie al mezzo. E a chi lo usa!

Appunto, nel vostro caso permette un’informazione democratica e priva di pressioni. Come vedi è origine di un’esperienza molto positiva. Certo, se mi facevi brutte domande, l’iPad mica poteva salvarti. Tornando al discorso precedente: parlava di paura, la vera arma di distruzione di massa del presente.

Da sentimento umano utile all’autoconservazione è diventata un’arma. La paura come il dolore dovrebbe essere un avvertimento, un invito alla prudenza, tale era nelle società primitive e tale è ancora per gli animali e per gli uomini in molti contesti naturali in Africa. Ora invece viene strumentalizzata, è il detonatore di molti dei conflitti che affrontiamo: non solo tra culture e religioni, non solo quelli nei teatri di guerra, ma anche quelli sociali e razziali.


Interview C’è modo di combatterla?

Un suggerimento ce l’ho. Come artista devi risolvere un problema ogni minuto, devi sempre guardare a soluzioni nuove perché non puoi permetterti di non essere originale. Questo modo che io uso nel cinema, come tanti altri colleghi e creativi in generale, dovrebbe essere portato anche in politica: è una strategia incredibilmente efficiente. E invece la paura che pervade il nostro mondo ci spinge spesso ad avere nostalgia di un passato visto come l’Eden: peccato che allora c’erano più guerre, si moriva di più, c’erano meno sicurezza e diritti. Così finiamo anche per temere il futuro, è assurdo. Tornando alla modalità artistica di contrastare paura e problemi, il segreto della sua efficienza è nel confronto costante, nell’uso della parola e della cultura come argine all’irrazionalitá della paura. Questo ci impedisce di essere controllati da questo sentimento primario, che da anticorpo può divenire virus. Ha stravinto a Hollywood e fa grande cinema indipendente. Qual è il segreto del suo successo?

Sono stato molto fortunato per diversi motivi. Uno è stato la mia tempestività: ho iniziato la mia carriera in un ottimo momento per il cinema americano. Sesso, bugie e videotape arrivò durante la rinascita della Settima Arte dopo un decennio che aveva segnato la morte della New Hollywood dei giovani, straordinari autori che avevano scritto la storia del cinema negli anni ’70. Erano stati scon-

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fitti, con poche eccezioni come David Lynch: quella new wave era stata spazzata via e avevano ripreso potere gli studios. Ma in quell’anno, il 1989, ci fu una nuova inversione di tendenza e mi trovai al centro di quel cambiamento con il film giusto al momento giusto. L’ulteriore successo commerciale mi consentì di sperimentare più di molti miei colleghi: mi sono potuto permettere più insuccessi di altri. Un giovane cineasta oggi, al massimo, può permettersi due passi falsi, io ne ho fatti di più (quasi un decennio di flop, ndr). Quei “fallimenti” mi aiutarono a crescere, a migliorare la mia estetica, il mio stile, ad acuire il mio desiderio di imparare, permettendomi di essere quello che sono ora. Un altro motivo è la New Hollywood: sono cresciuto guardando quei film straordinari in cui giovani registi geniali riuscirono a sfidare e conquistare gli studios. Il loro esempio è stato fondamentale per me. L’ultimo segreto è la curiosità: ho sempre voglia di qualcosa di nuovo. Allora ha ragione Damon, lascerà il cinema per la pittura? O è il solito scherzo di Matt?

Sì, è uno scherzo, ma non del tutto. Da un po’ sento l’esigenza di rinnovare il mio linguaggio, di fare una pausa perché la mia maggiore fonte d’ispirazione, il genere umano, è a mio avviso in un momento di stallo, e in fondo è una delle cose che racconto in Contagion. Non so se è una mia fantasia o se fra un mese mi chiuderò in un monastero, se starò cinque anni


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senza dirigere un film o d’ora in poi mi esprimerò solo con la pittura. è la vita, staremo a vedere. So solo che qualcosa si muove dentro di me e di solito quando questo succede, qualcos’altro accadrà a mettere a posto le cose. Quali sono le paure più grandi di Steven Soderbergh?

Non quelle che racconto, sono onesto. Un virus che si diffonde con enorme facilità non riesce a spaventarmi, ha qualcosa di ineluttabile: possiamo proibire agli uomini di bere, giocare, salutarsi, mangiare, usare le stesse suppellettili in un ristorante o viaggiare in aereo? E non ho paura della morte, evento assolutamente naturale. La mia è una paura molto più personale: svegliarmi un giorno e trovarmi di colpo senza più una passione ad accendere la mia vita. Nasce dalla mia adolescenza: ero un ottimo giocatore di baseball e da un giorno all’altro il sacro fuoco per questo sport, che amo, si spense. Ecco, non vorrei mai più rivivere quell’esperienza. Un’ultima curiosità: per Contagion si è ispirato anche alla storia di Carlo Urbani?

Non la conosco, ma so che Scott nel tratteggiare le figure dei medici ha studiato quasi tutto il possibile e ne saprà sicuramente più di me. Chi è? Il medico che per primo ha identificato la Sars, e le cui coraggiose ricerche hanno permesso il contenimento dell’epidemia a poche centinaia di vittime e non miglia-

Insider ia. Ma per il suo altruismo non è riuscito a evitare il contagio

Una dolorosissima e splendida storia, varrebbe la pena farci un film. Immagino che qui in Italia sia un eroe. Lo saluto, emozionato. Un grande artista, un grande uomo. Io meno, non ho il coraggio di dirgli che di Carlo Urbani, un vero grande eroe, in Italia sappiamo davvero in pochi. E nessuno si prende la briga di rendergli gli onori che merita. Lo facciamo qui. Grazie Carlo. E grazie Steven per la semplice ammirazione del tuo sguardo, quando ne ho parlato.

Gordon Brown non ha un problema con i social network, ha un problema con il suo popolo


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Abbiamo incontrato il regista a Toronto, dove ha presentato nuovamente il suo delicato Restless

Gus Van Sant di Adriano Ercolani

“Non ho paura delle etichette”

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opo il passaggio a Cannes e a Toronto, arriva finalmente nelle sale il nuovo lungometraggio di Gus Van Sant dedicato al mondo giovanile. Protagonisti sono Enoch e Annabel, due ragazzi che nonostante un confronto costante con la morte trovano comunque la forza di innamorarsi e vivere la loro storia con passione romantica. Il regista di Will Hunting ed Elephant ha realizzato un film dall’equilibrio prezioso, un’opera autunnale e insieme poetica.

Si può affermare che L’amore che resta, nonostante il tema trattato, sia il suo film più ottimista?

È senz’altro un lungometraggio che contiene un messaggio di speranza, e che ha un finale in fondo felice. E poi vedo Enoch come un personaggio estremamente positivo, molto di più di quelli che di solito porto in scena.

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Il film è prodotto dalla Imagine Entertainment, specificamente da Bryce Dallas Howard. Si è rivelata una collaborazione fruttuosa?

Certamente, anche perché senza di lei non avrei fatto il film: è Bryce che mi ha portato la sceneggiatura e mi ha letteralmente costretto a leggerla. Aveva un’idea molto precisa di cosa voleva che lo script diventasse, e ho cercato di accontentarla compatibilmente con il mio stile di cinema. Non le è costato fare nuovamente un film sui giovani? Non ha paura di essere etichettato come regista?

Sinceramente no. Non potevo lasciar andare una sceneggiatura così emozio-


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nante. A convincermi è stata proprio Bryce, la quale aveva paura che lo script potesse finire nelle mani di qualcuno incapace a gestire le emozioni della storia. Dopo Will Hunting, Elephant, Paranoid Park e tutti gli altri film, in effetti, io sono noto come regista di film legati ai giovani, ma a me va bene così. La verità è che ogni volta che torno a esplorare questo tipo di racconti, di figure, di sentimenti, mi accorgo che ho ancora molto da scoprire e raccontare, prima di tutto a me stesso. Il film ha una colonna sonora molto delicata, quasi minimalista. Rispetto ai suoi film passati poi ha inserito più canzoni. Come avete costruito la partitura musicale insieme a Danny Elfman?

In maniera molto più semplice e istintiva di quanto si possa credere: con Danny abbiamo ascoltato tantissima musica e abbiamo deciso di inserire nella colonna sonora alcune canzoni il cui testo e la cui melodia ci sembravano appropriate. È un processo davvero naturale. Come ha lavorato invece con il direttore della fotografia Harris Savides e il costumista Danny Glicker per costruire l’atmosfera del film?

Con Harris lavoriamo insieme da anni, esploriamo molte possibilità e sappiamo che possiamo fare quello che vogliamo. Ci fidiamo totalmente l’uno dell’altro. Con il costumista, lo stesso di Milk, abbiamo iniziato a immaginare che i due protagonisti vivessero in una piccola cit-

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“Ogni volta che torno a esplorare questo tipo di racconti, di figure, di sentimenti, mi accorgo che ho ancora molto da scoprire e raccontare, prima di tutto a me stesso” tà e vestissero con vecchi vestiti perché non potevano comprarli. Siamo partiti da questo e abbiamo creato un periodo di tempo indefinito, come in un quadro. Volevamo che si capisse che eravamo nel presente, ma che allo stesso modo doveva essere un tempo sospeso per Enoch e Annabel. La pittura è proprio la forma artistica che lei ha esplorato in gioventù. Quando il cinema l’ha sostituita come forma di espressione?

In effetti da giovane facevo il pittore, ho cominciato più o meno a sedici anni. Credo di aver capito di voler fare cinema proprio per sviluppare il mio amore per la pittura, come sperimento sulle immagini. Potrebbe voler cercare in futuro altre vie di espressione?

Ho ricominciato a dipingere da circa un anno. Sono una persona a cui piace molto tentare e confrontarsi con varie forme artistiche, ma credo che per adesso oltre al cinema mi limiterò a dipingere. Però ha appena realizzato un progetto per la TV…

Sì, ho girato il pilota di un’ora di una se-


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rie TV intitolata Boss, una sorta di scenario politico incentrato sul sindaco di Chicago. Andrà in onda a ottobre negli Stati Uniti. Non vi dirò di più… Allora torniamo a L’amore che resta, che in America è stato accolto da critiche non esaltanti. Come se lo spiega?

Una mia idea ce l’ho: ci sono alcuni critici, i soliti sospetti, ai quali non importa cosa io faccia, mi saranno sempre contro. Alcune obiezioni a Restless infatti erano sempre le stesse dei miei film precedenti. C’è una critica comune che mi viene fatta dalle persone non aperte. In America ci sono una sensibilità e una prospettiva differenti dalla mia. Anche quelli più ben disposti nei miei confronti mi affrontano sempre dallo stesso punto di vista. Restless è concentrato su una parte specifica e romantica delle vite dei due protagonisti, le critiche potrebbero essere una reazione al modo in cui ho scelto di affrontare la loro storia. Uno dei personaggi più riusciti del film è il giovane Hiroshi, un kamikaze giapponese amico immaginario di Enoch. In che modo lo avete elaborato?

Non è chiaro se sia un amico immaginario o un fantasma, sia nello script che nel film viene chiamato “ghost”. È un amico di Enoch prima di tutto, rappresenta il suo rapporto con la morte. Ron Howard era preoccupato sul come trattarlo, sulla sceneggiatura non era specificato. Poi Harris Savides ha suggerito di

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rappresentarlo in maniera molto realistica, senza effetti speciali, di evitare ogni sua possibile relazione con le azioni fisiche, ogni rapporto con la fisica in generale. All’inizio avevamo fatto delle prove per mostrarlo in trasparenza, ma l’effetto era risultato stranissimo. Comunque, che sia un fantasma o no, a me interessa che spieghi il mondo immaginario in cui Enoch vive. È soddisfatto della prova d’attori dei due protagonisti, Mia Wasikowska e Henry Hopper?

Totalmente. La loro grande qualità è stata prendere i personaggi e farli immediatamente loro. È successo addirittura già nelle audizioni, dove tutto è difficile perché ci sono un sacco di persone, non ci sono i costumi, e c’è solo la camera che ti giudica. Sotto tutta questa pressione Henry e Mia sono stati capaci di rendere vere le parole dello script. Poi sono riusciti a connettersi perfettamente tra loro, anche a livello puramente estetico si compenetrano. Le è mai capitato di avere un personaggio in mente in una certa maniera e poi volerlo cambiare dopo aver visto il provino di un attore?

Sì, mi capita spesso, anche durante le audizioni. Gli attori creano la loro realtà con i personaggi, e se a te interessa quello che hanno costruito, devi vedere allora se si integra con la storia che vuoi raccontare, e tradurre il tutto in immagini.


Interview

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Massimo Martelli

di Alessandro De Simone

B

isogna avere rispetto per quelle persone che decidono di gettarsi in imprese eroiche e pericolose. Massimo Martelli fa parte di questa schiera, perché decidere di portare sullo schermo Bar Sport, leggendario esordio letterario di Stefano Benni è una di quelle cose da far tremare i polsi. Martelli ha inseguito a lungo questo progetto e alla fine, dopo avere superato anche i dubbi e la diffidenza che Benni ha nei confronti della trasposizione delle sue opere, è riuscito a portarlo a casa. Il risultato finale gli spettatori lo scopriranno il 21 ottobre, data d’uscita del film che arriverà nelle sale italiane grazie a 01 Distribution. Intanto, The Cinema Show ha fatto una piacevole chiacchierata con il regista bolognese. Signor Martelli, lei lo sa in che guaio si è cacciato?

Lo so sì! Stiamo parlando di un ro-

Bar Sport, il primo romanzo di Stefano Benni, diventa un film. Ci sono voluti solo trentacinque anni e tanta pazienza. manzo uscito nel 1976 per Mondadori, passato poi subito a Feltrinelli, che ha venduto a oggi un milione e mezzo di copie e che continua a vendere a ogni ristampa, dopo essere passati per alcune generazioni di lettori. In trentacinque anni questo è il secondo lavoro di Stefano Benni portato al cinema. E il primo se lo era diretto da solo (Musica per vecchi animali, tratto da Comici, spaventati, guerrieri ndr).

Lui non si concede come persona, fa il suo mestiere e non ne fa altri, scrive ma non vende quello che scrive, non va nei salotti televisivi a promuovere i suoi libri, va nei teatri e nelle librerie Feltrinelli a fare le sue letture e poco altro. Per un anno abbiamo cercato di convincerlo a fare il film dicendogli che avremmo dovuto violentare la sua creatura. Alla fine è nato un rapporto di fiducia, anche perché siamo entrambi bolognesi e ci conosciamo da tanti anni.


Interview E alla fine…?

Ha visto il film e gli è piaciuto. Conoscendolo è come aver vinto un Oscar. D’altronde siamo andati a toccare una Bibbia, abbiamo dovuto fare dei grandi mutamenti nella struttura, dato che il romanzo è composto da una serie di racconti ambientati in tempi diversi e in molti bar. Noi invece abbiamo concentrato luogo e tempo e lavorato molto sui personaggi. Le vecchine, ad esempio, che nel libro non occupano più di dieci righe, sono diventate molto importanti, anche grazie a Lunetta Savino e Angela Finocchiaro, meravigliose. Il rischio era la frammentazione. Come è riuscito a ovviare a questo problema?

Mi sono ispirato a film che ho amato che mi hanno aiutato a dipanare la matassa per far sì che non diventasse un film a episodi, anche perché quella struttura avrebbe evidenziato un aspetto grottesco tipico degli anni Settanta, ma Bar Sport è più un inno a un modo di vivere nostalgico che ancora si trova in provincia. Il bello del libro è che ti fa capire quello che ci siamo persi, un microcosmo in cui la gente raccontava le proprie storie, mentre adesso al bar si raccontano i cazzi di quelli che stanno in televisione. Spero venga fuori questo, il piacere del racconto. Bar Sport è anche tecnicamente complesso…

Molto, ci sono effetti speciali, inserti a cartoni animati che sono serviti per mantenere il grottesco e il surreale della

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prosa di Benni, e in questi intermezzi ho affidato a Bisio e Battiston il compito di narrare. Il cast: ricco, soprattutto di talento.

Mi è capitata la stessa cosa che mi era successa con Per non dimenticare, il film che avevo fatto sulla strage della stazione di Bologna: tutti hanno risposto alla prima telefonata. Bisio ha accettato prima che scrivessi una sola riga del film. E così tutti gli altri. Il casting è stato facile, un po’ per i rapporti che ho con questi attori e poi per l’idea di fare tutti insieme Bar Sport. Anche sul set, quando qualcuno finiva le pose della giornata, restava per il gusto di passare del tempo insieme. Parliamo di una cosa fondamentale: la colonna sonora.

Mi sono divertito come un pazzo. Ho preso un gruppo, i Gatto ciliegia contro il grande freddo, torinesi, straordinari e cinematici come poche band italiane. Fanno un post rock che in Italia non funzionerà mai e li ho scelti per la colonna originale. E poi tante canzoni, da The Passenger di Iggy Pop a Piccola Katy dei Pooh e nel prefinale mi sono concesso la Penguin Cafè Orchestra, con Telephone Rubber. Volevo che la colonna sonora fosse come il film, con diverse voci, dolce trascinante e furbo. Ok, adesso la domanda più importante: qual è la canzone perfetta per leggere questa intervista?

Decisamente Iggy pop: The Passenger.



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Sono una donna non sono una santa

di Valeria Roscioni

I

l romanzo omonimo di James M. Cain risale al 1941. La mano di Todd Haynes non ha dimenticato Lontano dal paradiso. Mildred Pierce è contemporanea, ma solo nella sua data di nascita. E la mente viaggia fino ai vecchi sceneggiati tratti da opere letterarie. Quasi fosse più consono ascoltare la voce della Winslet via radio piuttosto che ammirarne la comunque ottima interpretazione. Donna con la gonna Mildred Pierce è una donna che vive all’epoca della Grande Depressione. Una don-

La Mildred Pierce di Kate Winslet, premiata agli Emmy, arriva su Sky Cinema 1 dal 14 ottobre na che durante i suoi primi cinque minuti di vita sullo schermo prima prepara una torta al ritmo dei titoli di testa neanche fosse Biancaneve, e poi chiede il divorzio al marito nell’arco di un dialogo che non supera le quindici battute. Mildred Pierce non nasconde la sua duplice natura, non lo fa mai. Eternamente doppia, fatica a trovare il suo posto nel mondo e offre così a Kate Winslet la possibilità di vincere un me-


Series ritatissimo Emmy come Miglior attrice per una miniserie o film TV. Il lavoro come cameriera si scontra con il bisogno insano di assecondare le ambizioni della figlia Veda, gli abiti castigati costringono un corpo e una sensualità disposti dapprima a lasciarsi possedere e poi a esplodere. Malinconici sorrisi, pianti, la violenza che diventa senso di colpa e tenerezza improvvisa, la paura che si fa coraggio, il senso di colpa che si trasforma in disperazione. È il ruolo perfetto per un talento. D’altro canto fruttò un Oscar anche a Joan Crawford quando nel 1945 le diede vita ne Il romanzo di Mildred di Michael Curtiz. Come negli anni Trenta Può sembrare strano ma per una volta un titolo italiano ha centrato perfettamente il bersaglio. Quel Il romanzo di Mildred adottato negli anni Quaranta, infatti, immortalava definitivamente la natura squisitamente letteraria del racconto di un’epoca vergato con tale forza da rendere vano ogni tentativo di separarlo dal suo tempo e dalla sua natura di pagina scritta. Perciò Mildred Pierce di Todd Haynes non è tanto una miniserie ambientata negli anni Trenta, quanto un radiodramma di quell’epoca. Per questo ricorda i primi sceneggiati letterari, quasi come se le riprese in esterni, la possibilità di usufruire del montaggio, la varietà di ambienti non bastassero a ricordare che quello che si ha di fronte agli occhi è un prodotto della contemporaneità. Anzi, della contemporaneità migliore. Una miniserie la cui produzione è in tutto e per tutto cinematografica:

dai costumi alle location, dagli attori al regista, dal budget alle inquadrature. Ma niente di tutto questo può intaccare l’effetto disarmante di una storia che vive nel e del suo tempo. Che piaccia o lasci annoiati, la trasposizione ha rispettato il suo originale, gli ha reso omaggio. Il cinema è un modo di lavorare “È assolutamente evidente che l’arte del cinema si ispira alla vita, mentre la vita si ispira alla televisione”. L’aforisma di Woody Allen è oggi più vero che mai. Il cinema prende spunto dalla vita, la vita lancia il suo sguardo alla TV, la TV ha deciso di entrare in competizione con il cinema, in un gioco di eterna rincorsa il cui miglior risultato è la qualità. Una qualità sempre più evidente di cui quasi non fa più notizia parlare per quanto universalmente riconosciuta. Eppure lo spazio che la 68. Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia ha dedicato Fuori Concorso a Mildred Pierce è uno di quei passi che segnerà la storia. La soglia dell’Olimpo è stata varcata: ora tutto può accadere. È vero, è stato il grande cinema nella forma di Todd Haynes, Kate Winlset, Evan Rachel Wood, Guy Pearce e Melissa Leo a consegnargli le chiavi, ma il percorso era ormai cominciato da anni. E intanto la commistione prosegue senza sosta e Martin Scorsese ha vinto un Emmy per la regia di Boardwalk Empire. Perché, come diceva Philippe Caubère, il cinema è un modo di lavorare, un modus operandi che non accetta confini né limiti. Neanche quelli del piccolo schermo, scatola delle meraviglie.


Series

Brutti, sporchi e in fondo tenerissimi di Emanuele Rauco

Shameless: la famiglia su Mya si mostra senza vergogna

L

a famiglia in TV è stata lo specchio di tutte le più perverse fantasie perbeniste: casa grande, pulitissima e possibilmente su due piani, un sacco di figli (come dicevano i Monty Python “Every sperm is sacred”), fasulle felicità fatte di sorrisi imbalsamati, battutine stantie e metodi educativi lontani anni luce da Maria Montessori. Adesso basta. C’era una volta… La vita domestica. Un incubo di quelli che ti lasciano sul lettino dello psicoanalista per anni su cui si è formato l’inquietante immaginario che faceva da sfondo a Pleasantville. Un immaginario che ha nomi ben precisi: Leave It to Beaver e The Brady Bunch, di cui solo il secondo in onda in Italia come La famiglia Brady, colpevoli di aver tolto alla famiglia ogni accenno di inquietudine, facendo credere al mondo che fosse un asettico idillio. Per fortuna sono arrivati i primi colpi, all’inizio animati

(I Simpson, I Griffin, South Park) e poi in carne e ossa, deflagrando nel 2004, quando l’esimio Paul Abbott – autore di punta della TV britannica con prodotti come Cracker e State of Play – ha creato Shameless, letteralmente “senza vergogna”, ha messo in scena una famiglia che ridefinisce il significato di disfunzionale, con un padre ubriaco perso, figli dai mille problemi psico-sociali, vicini ninfomani e tutte le forme di disprezzo possibili per le istituzioni. Successo assicurato e valanghe di premi vinti.


Series Re-Born in the USA Perché non ne avrebbero dovuto approfittare dagli USA? Il 9 gennaio 2011 Showtime ha licenziato il remake americano di Shameless. E la vera sorpresa è che funziona. Anzi, è anche meglio dell’originale. Sviluppato dallo stesso Abbot con il supporto di uno dei colossi della TV statunitense John Wells (E.R.-Medici in prima linea, The West Wing), lo show racconta della famiglia Gallagher e soprattutto dei suoi pilastri: il padre Frank, ebbro in quanto tale, talmente bisognoso di alcool e affetto da farsi sodomizzare da un’agorafobica in cambio di buon cibo, amore e spirito (in tutti i sensi), e Fiona, la figlia maggiore, costretta a tenere la testa sulle spalle per gestire una famiglia fatta di altri quattro fratelli dalle differenti difficoltà di apprendimento, di relazione, o di semplice rispetto per l’autorità parentale. In questo marasma di urla e chiazze di vomito, gente sdraiata sul pavimento e incapacità di comunicare, di amori rifiutati, imposti, mai compresi eppure onnipresenti spunta il fiore che rende questo remake migliore dell’originale. Shameless U.S., con le sue

dodici puntate rinnovate già per la seconda stagione, sa trovare il perfetto equilibrio tra la scorrettezza sociale, lo stravolgimento del bon ton della famiglia televisiva e il respiro di un racconto fatto di sentimenti nudi e crudi, che non ricattano lo spettatore, ma lo coinvolgono, che rimpiazzano il cinismo sterile della versione inglese con una capacità narrativa e di descrizione dei personaggi meglio rodata. Il merito principale, oltre che agli egregi sceneggiatori, va al cast, composito e scintillante: già la sola presenza di William H. Macy illuminerebbe qualunque prodotto, ma la definizione del suo Frank è incredibile. Trasuda squallore e amore da ogni poro, intreccia abiezione e voglia di riscatto con una finezza e un’ironia straordinarie. Meritano considerazione la bella Emmy Rossum, che si rifà dai bamboleggiamenti visti nel Fantasma dell’opera di Schumacher, e un’indimenticabile Joan Cusack, tenerissima e inquietante Sheila Jackson, donna che ha paura di uscire di casa, ma non di usare enormi falli di gomma con i suoi uomini. Una triade che tra ripugnanza e gioia ha saputo trovare il cuore dello spettatore.

Familiarmente scorretti Serialmente inaffidabili e abietti. Sono i pessimi esempi del piccolo schermo touch the Photo


Series

La seconda stagione di The Walking Dead arriva su Fox dal 4 novembre

Lascia o raddoppia? di Mattia Nicoletti

è

una delle serie più acclamate dalla critica degli ultimi anni e anche una di quelle che per questioni produttive ha fatto parlare più di sé negli ultimi mesi. The Walking Dead, l’apocalictic drama basato sui comic book di Robert Kirkman, presente anche nel team realizzativo, dopo una prima stagione di sei episodi, è pronto a tornare con una seconda di ben tredici ma non senza cambiamenti. Frank Darabont (Il Miglio Verde, Le Ali della Libertà, Frankenstein) che insieme a Gale Ann Hurd (Terminator, Aliens) ha portato avanti il progetto, dopo avere scritto il pilota della nuova stagione, che sarà lungo novanta minuti come il pilota della prima, si è dimesso dal suo ruolo di Showrunner e al suo posto è stato messo Glen Mazzara (The Shield, Hawthorne). Nonostante le vicissitudini produttive, la serie, che per prima ha portato gli zombie sul piccolo schermo, verrà anticipata da sei webisodes diretti da Greg Nicotero, autore degli special make-up effects, che racconteranno la storia di una donna e dei suoi figli nel momento della zombie apocalypse. Questa seconda sta-

gione, come ha dichiarato Kirkman, metterà in scena molti più scontri con i morti viventi e lo show si trasformerà in una vera e propria zombie series: “Ci hanno lasciato inserire delle scene che non avrei mai pensato di poter vedere in TV”. Con questa nuova violenza si presenterà TWD, girata ad Atlanta, considerata innovativa per avere riscoperto il survival drama e aver fotografato il quotidiano di un gruppo di esseri umani come tutti costretti a confrontarsi anche con la routine. In questo contesto i morti viventi rappresentano la minaccia incombente, il pericolo estremo. Il parallelo con la realtà e con la crisi attuale è evidente anche se il “nemico” è diverso, la televisione se ne è accorta ed è per questa ragione che sono nate serie tutte considerate figlie di questo concept, ad esempio Falling Skies prodotta da Steven Spielberg (sebbene abbia numerosi elementi di differenza), in cui l’invasione della terra è aliena. TWD, fortemente voluta da AMC, già dietro a Breaking Bad e Mad Men, e da FOX, garanzie di qualità, cadrà realmente nella tentazione di trasformarsi in uno zombie horror sanguinario?


Series

Se non li avete visti, se li avete dimenticati, se avete voglia di rivederli. Titoli dal passato piĂš o meno remoto

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na pipa, un impermeabile, un gesto. Ai grandi ispettori della TV bastava poco per fidelizzare gli spettatori. Forti del successo popolare del giallo, serial come Le inchieste del commissario Maigret e Colombo hanno da subito incontrato il gusto del pubblico, che li ha amati soprattutto per il carisma degli attori che li interpretavano. Recuperarli ha il sapore malinconico di un passato lontano. Per ricordarsi che c’è stato un Crime Drama anche prima di CSI.


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Le inchieste del commissario Maigret di Mattia Nicoletti

Era francese, ma ha sempre avuto il volto di Gino Cervi Era il 1964 quando Gino Cervi vestì i panni del Commissario Maigret. L’attore bolognese, noto fino a quel momento come l’onorevole Peppone, era in apparenza burbero, aveva la medesima prestanza fisica, rappresentava l’uomo di città che conosceva borghesia e proletariato, amava il buon cibo e il buon vino, e fumava la pipa con naturalezza (era un grande collezionista di pipe che tra l’altro utilizzava in scena). Lo stesso George Simenon negli anni a seguire dichiarò che Gino Cervi era stato il Maigret migliore dello schermo e concesse a Mondadori, casa editrice dei romanzi, di utilizzare Cervi sulle copertine. La produzione RAI, sceneggiata da Diego Fabbri e Romildo Crivelli e proseguita per sedici film TV fino al 1972 (l’ultimo episodio della serie è stato seguito da diciotto milioni e mezzo di spettatori), è stata diretta da Mario Landi, che ha dipinto alla perfezione la Parigi di Si-

menon e le atmosfere di Quai des Orfèvre 36, sede del commissariato. A guardare ora quella macchina produttiva, non sembra un caso che dietro le produzioni RAI ci fosse un certo Andrea Camilleri, autore oggi dell’unico grande commissario della nostra TV. Camilleri parlando di Maigret ha più volte dichiarato che il successo fu dovuto soprattutto a Cervi, che accettò con entusiasmo il ruolo. Cervi era abituato al suggeritore, non imparava la parte, e siccome per fare l’attore in TV bisognava comunque sapere le battute, venne approntato un gobbo a manovella. Rivedere quei film (disponibili in cofanetti editi da Warner), in quel bianco e nero, ha il fascino della “vecchia RAI”, capace di realizzare prodotti di qualità, ancora oggi esempio di come si potesse fare una televisione in cui sceneggiatura, regia e interpretazioni fossero elementi distintivi e unici. Un periodo in cui le sale cinematografiche dovevano dotarsi di televisori per fare vedere al pubblico la serie prima delle proiezioni. Il Maigret di Cervi richiama un passato lontano, lo stesso del Nero Wolfe di Tino Buazzelli, protagonista di una miniserie in dieci episodi andata in onda, sempre sulla RAI, fra il 1969 e il 1971. Il grande crime drama, quegli anni, parlava anche italiano.


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Colombo di Valeria Roscioni

Il personaggio simbolo di un intero genere, quando ancora si chiamavano telefilm… Il cane, l’auto, l’impermeabile. L’aria trasandata di Peter Falk. Colombo non è stato solo un tenente del piccolo schermo, è un’icona intramontabile, esempio perfetto della fidelizzazione nella serialità debole. Ogni puntata una storia, ogni episodio un caso, nessun legame tra i vari racconti da novanta minuti, se non una struttura perfettamente congegnata, sempre la stessa anno dopo anno. E al centro lui: inimitabile e perennemente sottovalutato dall’assassino, ogni volta convinto di poterla fare franca. D’altro canto, queste sono le regole del gioco. Il delitto va in onda, lo spettatore assiste, capisce e conosce ogni cosa, nota ogni escamotage che il colpevole utilizza per depistare le indagini e poi arriva il tenente Colombo, con il suo impermeabile sporco di cenere, sempre con la sigaretta in bocca e il gesto ricorrente di passarsi una

mano tra i capelli, sempre pronto a tirare in ballo sua moglie che, però, non si vede mai. Al punto che la signora Colombo nelle dinamiche della serie è una sorta di mito in absentia che in America ha addirittura generato uno spin-off: Mrs. Columbo, esperimento poco felice mai andato in onda in Italia. Il gradimento di questa serie non teme confronti, replica dopo replica, le ultime ogni giovedì alle 21:00 su Fox Retro. Gli estimatori vanno alla ricerca dell’episodio diretto da Spielberg, il primo dopo i due pilot, da quello diretto e interpretato da John Cassavetes, delle rare puntate strutturate in maniera anomala. Negli anni Settanta Colombo ha segnato il modo di concepire un Crime Drama, ha regalato al concetto di serial un personaggio simbolo di un’intera struttura narrativa provando che il piacere di variare un’abitudine era la chiave di quelli che, allora, si chiamavano telefilm. Un piacere che ancora adesso è alla base di serial come Dr. House o CSI. Per questo tutti continueranno a vedere Colombo. Perché poco importa come ha fatto a macchiarsi l’impermeabile, l’importante è saperlo lercio. L’importante è sentirlo dire, ancora una volta: “Oh, c’è un’ultima cosa…”



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info@thecinemashow.it

El Pibe de Oro: Boris Sollazzo — direttore@thecinemashow.it Genio di male: Alessandro De Simone — desimone@thecinemashow.it Nerdette in chief: Federica Aliano — aliano@thecinemashow.it Junior nerdette: Valeria Roscioni — roscioni@thecinemashow.it Performers: Tirza Bonifazi, Francesco Del Grosso, Mauro Donzelli, Pierpaolo Festa, Michela Greco, Andrea Grieco, Mattia Nicoletti, Federico Pedroni, Ilario Pieri, Emanuele Rauco, Ilaria Ravarino, Emanuele Sacchi, Luca Svizzeretto Corrispondente da New York: Adriano Ercolani Special thanks to: Press Office 2.0 - Alice Boscardin e Giulia Piazza) Si ringraziano, per le traduzioni: Eleonora Aliano Art Director – Our Personal Pollock: Maria Chiara Santoro — santoro@thecinemashow.it Sviluppo interfaccia iPad: TechnoSolutions srl Marketing e pubblicità, alias “La longa mano” Alessandro De Simone Thanks to: Cristina Casati, Marina Caprioli, Riccardo Tinnirello, Francesco Marchetti, Cristina Partenza, Francesca Ungaro, Emanuela Semeraro, Antonio Viespoli, Giulia Martinez, Giancarlo Di Gregorio, Annalisa Paolicchi, Rebecca Roviglioni, Cristiana Trotta, Ornella Ornato, Federica De Santis, Cristiana Caimmi, Laura Martorelli, Marianna Giorgi, Alessandra Izzo, Carmen Danza, Pierluigi Manzo, Giusy Santoro, Raffaella Spizzichino, Maya Reggi, Alessandra Tieri, Studio Punto e Virgola, Studio Lucherini Pignatelli, Rita Nobile, Massimo Scarafoni, Claudio Trionfera, Maria Teresa Ugolini, Valentina Guidi, Mario Locurcio, Alessandro Russo, Sara Bocci, Daniela Staffa, Federica Ceraolo, Maria Antonietta Curione, Studio Sottocorno, Viviana Ronzitti, Barbara Perversi, Francesca Mele, Stella Pulpo, Marco Giannatiempo, Fabiola Bertinotti, Jacopo Sgroi, Lucrezia Viti, Alessandra Margaritelli, Maria Scoglio, Elisabetta Louise, Anna De Santis, Stefano Locati, Francesca Ginocchi.

Cover: Photo by Greg Williams for Cowboys & Aliens Copyright © 2010 by PARAMOUNT PICTURES. All Rights Reserved. The Cinema Show – Mensile di cinema, anno 2, numero 13, ottobre 2011 Testata in attesa di registrazione presso il Tribunale di Roma. Tutti i diritti riservati All Rights Reserved



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