Biancaneve
* The Raven * Il mio migliore incubo * 17 ragazze
the first iPad movie magazine n. 18 • Marzo 2012
Diaz e gli altri: quando il celerino è…
Rising
Star Taylor Kitsch
Exclusives * Ryan Reynolds * Delphine e Muriel Coulin * Lucio Pellegrini * Marjanne Satrapì * Carlo Virzì * Sergi Vizcaino * Beppe Fiorello
La musica di
David Lynch
La casa della plastilina va all’arrembaggio
Siamo i Re del mondo
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nutile nascondersi dietro a un dito, anche perché non ci riusciremmo. The Cinema Show ha dei problemi. Stiamo facendo fatica, l’impegno è enorme, soprattutto economico, per mandare avanti un mensile complesso come quello che amiamo fare. Ma se state leggendo questo editoriale, allora vuol dire che ce l’abbiamo fatto e siamo ancora qui, e lotteremo con le unghie e con i denti per restarci. E allora lasciatemelo dire: noi siamo i Re del mondo. Noi che facciamo The Cinema Show, dalla Nerdette in Chief al Pibe de Oro, tutti i performers e la nostra Personal Pollock. Perché per arrivare a fare diciotto numeri di questo gioiello dell’editoria e del giornalismo (sì, è così, fanculo la modestia) sputiamo sangue ogni mese, e lo facciamo perché siamo tutti convinti che ne valga la pena. La stessa convinzione ce la dovete avere anche voi che ci state leggendo, e siete tantissimi, più di diecimila, a metà strada con il doppio, quindi a occhio e croce abbiamo ragione noi. E da oggi si inizia una nuova fase, in cui The Cinema Show ha voglia di restare in vita e farà di tutto per riuscirci. Se volete, potete aiutarci anche voi, sostenendo la nostra campagna di crowdfunding, sponsorizzando i nostri articoli, le nostre rubriche, in che modo lo potete scoprire più avanti. Da parte nostra ci sarà massi-
mo impegno, soprattutto nel portare a voi tutti l’immagine di un cinema diversa da quella che ha popolato negli ultimi mesi le pagine dei giornali. Niente giochi di potere, niente poltrone che saltano e che vengono prontamente occupate senza alcun rispetto delle regole, nessun voltagabbana ipocrita smentendo se stessi fino al paradosso. No, The Cinema Show non si comporta così. Siamo poveri ma belli, sinceri fino all’autolesionismo, felici di esserlo perché così riusciamo ancora a godere del piacere di fare il lavoro più fico del mondo. Siamo felici, in questo momento, di potervi far leggere il nostro speciale su Diaz e Romanzo di una strage, la nostra cover story piratesca, le nostre interviste, soprattutto quella a Carlo Virzì, simpaticissimo, perché il suo film si intitola I più grandi di tutti, storia di una sgangherata rock band. E a proposito di rock band, dopo aver rischiato di dovervi abbandonare e non rivederci più, ora che siamo ancora qui vorremmo che ci immaginaste come gli Stillwater in viaggio sul loro pullman, mentre cantano Tiny Dancer di Elton John sapendo che, nonostante tutto, questa folle vita si chiama casa. Stay in TOUCH! Alessandro De Simone Editore
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venne il giorno, come avrebbe detto M. Night Shymalan. The Cinema Show ha bisogno dell’aiuto dei suoi lettori e di quelli che vorrebbero diventarlo per continuare a vivere. Per questo abbiamo deciso, con la collaborazione di Eppela, di costruire un’operazione di crowdfunding, chiedendo un sostegno tangibile a cui The Cinema Show risponderà con delle sostanziose ricompense, da regali esclusivi a una reale presenza di voi lettori su The Cinema Show, come personal sponsor di quello che ogni mese scriviamo e pubblichiamo. Abbiamo scelto il crowdfunding perché è un’operazione che si inscrive perfettamente nella filosofia che anima da sempre il nostro giornale, basata sulla libertà d’espressione, la trasparenza e il dialogo con i lettori attraverso i mezzi di comunicazione social e le nuove tecnologie, usate per migliorare la vita attraverso la divulgazione della cultura e dell’informazione di qualità. Questo è lo spirito che ha sempre mosso tutto il gruppo di The Cinema Show.
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Editoriale Siamo i re del mondo How It Works La guida a tutti nostri touch
Columns
Il vero show sono le nostre rubriche!
Insider Dentro il cinema: preview, interviste e approfondimenti
Review Le recensioni dei film in uscita
Home Video Le migliori uscite in DVD e Blu-ray
Series
Anticipazioni, novitĂ e revival per chi ama le serie TV
Rising Star
Columns
Meet John Carter: ecco il nuovo bello con l’anima di Hollywood
Taylor Kitsch: Anima (e corpo…) di un attore di Adriano Ercolani
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l 2012 sarà il suo anno, e prima di tutti Taylor Kitsch dovrà ringraziare la lungimiranza di Peter Perg. Il regista e produttore lo ha lanciato con una serie TV di culto come Friday Night Lights e poi lo ha scelto come protagonista per la megaproduzione Battleship. Berg sembra aver puntato su un cavallo vincente: con il solo personaggio del tormentato e sensibile Tim Riggins in Friday Night Lights Taylor Kitsch è diventato uno dei volti più “caldi” della scena mediatica americana. Per il suo ruolo di bello con l’anima l’attore ha dichiarato di essersi ispirato a Stato di grazia, da cui ha cercato di copiare il fascino combattuto di Sean Penn e il taglio di capelli di Gary Oldman. L’attesa di vederlo sul grande schermo è però terminata, e il fantascientifico John Carter promette di essere uno dei film più spettacolari dell’anno. La carica sexy di Kitsch viene enfatizzata dai costumi piuttosto risicati – e questo trentunenne canadese il fisico da esibire ce l’ha eccome… Kitsch corre addirittura il rischio di inflazionarsi: il film di Andrew Stanton sarà uno dei grandi blockbuster della primavera
“Non c’è motivo di farsi sopraffare da Hollywood se ti trovi lì per lo scopo giusto” statunitense, così come Battleship lo sarà dell’estate. Se ciò non bastasse, l’attore ha un terzo prodotto in uscita. Si tratta di Le belve (The Savages), nuova regia di Oliver Stone che lo vede protagonista insieme a Emile Hirsch, Aaron Johnson, Uma Thurman, John Travolta, Salma Hayek, Benicio Del Toro e Blake Lively. La trasposizione cinematografica del romanzo di Don Wislow da parte di uno dei cineasti più “infuocati” della Hollywood contemporanea ci dirà se Taylor Kitsch è una star capace di affermarsi anche attraverso prodotti più difficili. Presenza scenica, fisico statuario e sguardo di ghiaccio: queste sono le armi con cui Taylor Kitsch promette di diventare il nuovo astro dell’Olimpo hollywoodiano. Anche se, invece di restare sotto i riflettori, dopo tutto questo lavoro se ne tornerà in quella Vancouver dove è cresciuto.
The Last Picture Show
Columns
Ben Gazzara L’ultimo marito è andato via. di Federico Pedroni
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en Gazzara e Peter Falk se ne sono andati uno dopo l’altro: una coincidenza simbolica che sottolinea la distanza inesorabile che ci separa da quel cinema americano intellettuale e libero, improvvisato e militante, creativo e indipendente di cui erano stati i corpi rappresentativi e atipici, lontani da ogni tentazione divistica e plasmati con il materiale vivo della realtà tanto caro a John Cassavetes. Gazzara nasce a New York da una famiglia operaia di immigrati italiani ed evita la trafila di piccole violenze di strada grazie al suo amore per la recitazione. Nei primi anni si divide, come molti attori cresciuti all’Actors’ Studio, tra teatro (La gatta sul tetto che scotta con la regia di Elia Kazan) e televisione (il legal drama Justice) ma compare anche nel magnifico Anatomia di un omicidio di Otto Preminger. Negli anni ‘60 ottiene diverse nominations agli Emmy e ai Golden Globes. La svolta avviene nel 1970 proprio grazie a Cassavetes. Con lui interpreta tre capolavori: Mariti, L’assassinio di un allibratore cinese e La sera della prima. Tre personaggi completamente diversi (un uomo medio dell’America suburbana, un giocatore d’azzardo in odor di malavita e un regista teatrale
alle prese con un’attrice alla deriva) che gli permettono di esprimere al meglio la sua versatilità. Dopo un altro gioiello come… E tutti risero di Peter Bogdanovich, Gazzara riprende i suoi contatti con il cinema italiano e negli anni ‘80 è interprete per Marco Ferreri (Storie di ordinaria follia), Giuseppe Tornatore (Il camorrista), Giuliano Montaldo (Il giorno prima), Pasquale Festa Campanile, Valentino Orsini, Alberto Bevilacqua. Il ritorno in America non gli porta fortuna: il cinema è cambiato e c’è sempre meno spazio per gli attori come lui. Riesce però ad avere un ultimo anno d’oro, il 1998, nel quale lavora in alcuni dei progetti più interessanti del cinema indipendente americano: Buffalo ‘66 di Vincent Gallo, Happiness di Todd Solondz e Il grande Lebowski dei Coen. Proprio in questo film Gazzara costruisce il suo ultimo grande personaggio, il magnate del porno Jackie Treehorn: uno squalo interpretato con distaccata ironia, scanzonato sarcasmo, raffinata perfidia.
Flashback
Columns
Ai confini del genere di Adriano Ercolani
L’equilibrio instabile di Crocevia della morte
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l discorso filmico di Joel ed Ethan Coen è intriso fin dai loro primi lavori di una componente cinefila mai piatto omaggio ai capolavori del passato. Prendiamo ad esempio la scena iniziale di Crocevia della morte, unico gangster-movie dichiarato dei Coen: si parte con l’inquadratura di un italoamericano seduto di fronte a una scrivania che chiede giustizia a un boss criminale in nome di principi etici ritenuti “alti”. Il riferimento esplicito è il leggendario incipit de Il padrino di Francis Ford Coppola, soltanto che in questo caso ne viene ribaltato il senso, fattore che rende la scena comunque tesa ma anche densa dell’ironia tangibile dei Coen. A chiedere giustizia è infatti un mellifluo criminale raggirato da un allibratore a causa di alcune scommesse truccate, ed ecco quindi che i valori tirati in ballo e soprattutto i personaggi protagonisti della discussione diventano ironica e sofisticata parodia del genere. L’assurdità del tutto viene ingigantita dal fatto che lo spettatore intuisce subito quale sia il vero e carismatico “tough guy” della situazione: non
Leo, il boss a cui viene inoltrata la richiesta di risarcimento, ma il suo consigliere Tom Reagan che silenzioso gli rimane alle spalle distaccato. Impostate le coordinate concettuali nella prima sequenza e quelle estetiche nei successivi, straordinari titoli di testa – imperdibile l’inquadratura onirica di un cappello che si perde nel bosco sospinto dal vento - Crocevia della morte si dipana come un compendio delle teorizzazioni cinematografiche dei fratelli Coen: il distacco elegante e vagamente brechtiano viene esplicitato nelle sinuose carrellate riprese dal basso verso l’alto, oppure dalla simmetria pittorica dei campi lunghi con cui vengono ripresi gli interni e le figure che vi si muovono dentro. Crocevia della morte è un film volutamente “freddo” che però s’incendia all’improvviso, nel momento in cui la costruzione narrativa e la visione dei Coen lavorano sui tanto amati scarti di senso, sulle crepe della logica. Ecco allora che l’assurdo entra e ribalta scene che il genere affrontato vorrebbe dure. Anche l’uso della violenza viene messo in atto appositamen-
Flashback te per diventare rappresentazione parossistica del gesto. La grande forza di Crocevia della morte sta dunque nell’equilibrio instabile ed energico tra la rivisitazione del genere e lo svuotamento concettuale che produce poi quella stramba isteria propria delle commedie dei Coen. Anche nell’utilizzo del linguaggio i dialoghi taglienti tra i vari ruoli vengono proposti in maniera sfacciatamente forbita, soprattutto per quanto riguarda il main charachter Gabriel Bryne, perfetto per lo scopo dei registi con il suo stile di recitazione costantemente altero. Se in futuro Joel ed Ethan troveranno delle sintesi di cinema più equilibrate e funzionali al loro scopo – vedi pellicole vicine alla perfezione come Fargo, Non è un paese per vecchi e Il Grinta – allo stesso tempo Miller’s Crossing è un film imprescindibile nella loro opera in quanto è la prima dichiarata ostentazione di stile all’interno di una produzione più grossa di quanto lo erano state Blood Simple e Arizona Junior. Chiudiamo con una curiosità: durante la fase di scrittura di Crocevia della morte i due autori si trovarono alle prese con un’architettura narrativa che non procedeva, e vennero sopraffatti dal temutissimo blocco dello scrittore. Nelle tre settimane di sosta forzata decisero allora di buttare giù un altro script proprio incentrato sul blocco dello scrittore. Ne venne fuori un gioiello coeniano qual è Barton Fink. Non è un caso se il complesso di appartamenti in cui abita Tom Reagan, teatro dello showdown finale di questo splendido e rarefatto gangster-movie, si chiama proprio Barton Arms…
Columns
Adoro i piani ben riusciti… Una carrellata delle più geniali (o quasi…) menti criminali mai arrivate sul grande schermo grazie ai fratelli Coen
H.I. McDunnough/Nicolas Cage in Arizona Junior (Raising Arizona, 1987) Il più classico dei rapinatori di drugstore, sfortunato con le pistole, ma soprattutto incapace di rendere madre la sua dolce moglie-poliziotto Edwina. Prova allora il colpaccio: rubare il figlio del magnate Nathan Arizona, tanto ne ha altri quattro uguali. Non la migliore delle idee, ma almeno dà lo spunto di partenza al film più scatenato e pazzoide dei Coen. Nicolas Cage non è (stato) un grande attore? Riguardatevi la sua performance. Perfetti anche Holly Hunter, John Goodman e William Forshyte.
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Dentro il cinema: preview, interviste e approfondimenti COVER STORY Arrrrdman! La storia della casa dei Pirati! Briganti da strapazzo FOCUS ON Celerino, figlio di… Diaz e gli altri: il cinema racconta gli abusi di potere Something Has Happened David Lynch e la musica Come neve è bianca Una delle fiabe più classiche torna su grande schermo Strani incontri Isabelle Huppert e Benoît Poelvoorde ne Il mio peggiore incubo INTERVIEW Ryan Reynolds Nel mio lavoro occorre fidarsi Delphine e Muriel Coulin 17 ragazze per me posson bastare Lucio Pellegrini Come si tira su un figlio pornodivo TOUCH THE TITLE
Carlo Virzì Un film per tornare a suonare Marjanne Satrapi e Vincent Paronnaud Della vita, dell’arte, dell’amore Sergi Vizcaino Sono cresciuto a Goonies e slasher Giuseppe Fiorello Fatemi essere un protagonista
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Cover Story
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di Alessandro De Simone
Solchiamo i sette mari con gli eroi di plastilina della factory di Bristol. Un viaggio che dura da quarant’anni e che The Cinema Show ripercorre grazie all’uscita di Pirati! Briganti da strapazzo
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Cover Story
lla metà degli anni Novanta il cinema d’animazione venne scosso da un evento straordinario: si scoprì che c’era ancora qualcuno che faceva animazioni a passo uno usando personaggi realizzati in plastilina. Si chiamavano, e si chiamano ancora, Peter Lord, Nick Park e David Sproxton. Il primo e il terzo fondarono gli Aardman Animation Studios nel 1972, il secondo venne assunto nel 1985 diventando la punta di diamante creativa della factory. Quarantesimo compleanno, quindi, che la Aardman ha cominciato a festeggiare negli ultimi mesi dello scorso anno, con il suo secondo film in animazione digitale, il primo in 3D, Il figlio di Babbo Natale, e che viene consacrato dal ritorno alla plastilina con Pirati! Briganti da strapazzo, primo “Clay Movie” da Wallace & Gromit e la maledizione del coniglio mannaro.
Insider
Sono passati trentacinque anni. È un bel po’ di tempo. Peter Lord e David Sproxton sono due giovani e appassionati animatori in quel di Bristol, costa orientale dell’isola britannica, circa duecento chilometri da Londra. Ventenni o giù di lì, con l’incoscienza tipica dei giovani e delle persone con una precisa visione del futuro, i due ragazzi decidono di realizzare il loro sogno, senza attendere oltre. Fondano così insieme la Aardman Animation Company e iniziano quasi subito a fornire prodotti alla BBC, programmi per bambini principalmente, ma anche animazione dal target più adulto. La particolarità del lavoro di Lord e Sproxton è nei materiali e nella tecnica: plastilina e stop motion, con una ricca spolverata di pura poesia. Il terzo uomo Di qualche anno più giovane e cresciuto artisticamente a Sheffield, che tra la fine degli anni Settanta e l’inizio degli Ottanta era fucina di talenti creativi britannici, Nick Park arriva alla Aardman nel bel mezzo del decennio edonista per eccellenza, giusto in tempo per partecipare alla realizzazione di Sledgehammer, il videoclip per l’omonima canzone di Peter Gabriel, ancora oggi un cult. Subito dopo, Park inizia a lavorare su due cortometraggi, A Grand Day Out e Creature Comforts. Entrambi verranno candidati all’Oscar per il miglior cortometraggio animato nel 1989 e vincerà il secondo.
Cover Story
Insider
La Regina Vittoria (Imelda Staunton) in italiano è una Luciana Litizzetto dall’inflessione sabaudo-reale
Wallace e Gromit A Grand Day Out resterà però una pietra miliare per un’altra ragione. Si tratta infatti della prima uscita ufficiale della coppia che caratterizzerà la Aardman per i due decenni successivi. Wallace è un allampanato inventore, molto british, con una particolare predilezione per il tè e il cheddar. Gromit è il suo intelligentissimo e serafico cagnone, che spesso e volentieri lo aiuta a far funzionare le folli creazioni a cui si dedica, togliendolo altresì dai guai quando necessario, cioè più o
meno quotidianamente. Nel corso degli anni Novanta questa coppia molto bene assortita ha fatto incetta di premi, tra cui due Oscar, per i cortometraggi A Close Shave e The Wrong Trousers, ma soprattutto ha dato alla Aardman un ruolo preminente nel panorama della produzione animata che proprio in quegli anni stava cambiando radicalmente. La Pixar stava crescendo a dismisura, grazie alla loro creatività e alla spinta che la presenza di Steve Jobs stava dando a John Lasseter e ai suoi collaboratori. La Walt
Cover Story
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Disney stava segnando il passo, prima per l’uscita dagli studios di Jeffrey Katzenberg, poi per l’incapacità di Michael Eisner, amministratore delegato e deus ex machina della corporation per oltre un decennio, di accettare Pixar come nuovo motore creativo dell’azienda. Dreamworks, grazie alle molte idee trafugate da Katzenberg e alla sua impostazione mainA Peter Lord piace stream e industriale, è ancora giocare riuscita a tenere botta al box office, ma decisacon il pongo... Oops! mente non sul piano arCon la plastilina! un budget di appena tistico. Una lacuna che si trenta milioni di dollari, poteva in qualche modo il film ne incassa quasi riempire. duecento e vince l’Oscar come miglior lungometraggio animato. Nel frattempo, Galline, conigli e topolini un altro lavoro stava per essere portato a L’accordo tra Dreamworks e Aardman termine, il difficile e più volte smontato venne siglato nel 1997 e il primo risultae ricostruito Giù per il tubo, primo film to tangibile si vide tre anni dopo. Galline in CGI della factory sul quale la Drein fuga è una geniale variazione sul tema amworks operò un controllo piuttosto “grande fuga”, molto british nell’umorievidente. I tanti ripensamenti avevano smo e assolutamente perfetto nella reafatto lievitare i costi di produzione a qualizzazione. Caustico e ironico e a tratti si centocinquanta milioni, a stento recurealmente scorretto, al contrario del furbo perati, ma soprattutto avevano messo la franchise globalizzante che è Shrek, Chiparola fine sul rapporto, mai particolarcken Run evidenzia subito un problema mente felice, tra la major dell’animazione piuttosto serio: il marchio Dreamworks e gli artigiani di Bristol. scompare di fronte a quello Aardman, cosa che un uomo come Katzenberg difL’araba fenice ficilmente riesce ad accettare. Cinque Nel 2005 uno dei magazzini della anni dopo arriva Wallace and Groomit: Aardman viene devastato da un incenla maledizione del coniglio mannaro, dio che distrugge centinaia di modelli piccolo capolavoro di genere che unisce in plastilina che erano stati usati dalla horror, slapstick e commedia romantica. compagnia nelle loro precedenti produPark dirige, con Steve Box, e a fronte di
Cover Story
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All’arrembaggio! Non sono quindici, non stanno sulla cassa del morto e in quanto a bottiglie di rum ne hanno scolate ben più di una. I pirati, affascinanti masnadieri e crudeli tagliagole, a voi la scelta. The Cinema Show ha scelto per voi quelli più significativi nella storia del cinema. Tranne quelli dei Caraibi, perché non ne possiamo più neanche noi.
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Errol Flynn Peter Blood in Capitan Blood del 1935 e Geoffrey Thorpe ne Lo sparviero del mare cinque anni dopo, entrambi di Michael Curtiz. Una volta pirata al cinema era sinonimo di Errol Flynn, affascinante scavezzacollo australiano che trovò fama e fortuna nella Hollywood degli anni Trenta. Morì ad appena cinquant’anni, troppo vecchio per diventare una leggenda, troppo giovane per essere ricordato da tutte le generazioni a venire. Ma senza di lui non ci sarebbe Jack Sparrow.
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no alla tecnica che ha reso questi artisti famosi e apprezzati in tutto il mondo. Arrivano i pirati In un certo senso Pirati! Briganti da strapazzo è un’opera autobiografica, il racconto delle gesta di un manipolo di coraggiosi che sprezzanti del pericolo e mossi da ideali romantici decidono di avventurarsi per gli impetuosi mari della produzione cinematografica, dominati da bucanieri veri o peggio ancora da monarchi convinti di poter fare quello che vogliono grazie al loro L’anello mancante sconfinato potere. Naturalmente Peter Lord dell’evoluzione: pone la questione in zioni. Nonostante il maniera molto più semuna scimmia grande dispiacere per plice. “Amavo le storie l’accaduto, tutto sommaggiordomo sui pirati sin da ragazzimato la cosa viene vista no, racconti emozionanti raffinata e caustica come un ulteriore secome L’isola del tesoro gnale della necessità di che facevano apparire un nuovo inizio dopo quella che doveva essere una vita davvero la parentesi appena chiusa. Il tempo di terribile come un’avventura continua”. I guardarsi un po’ intorno e l’occasione arpirati della Aardman non potevano certo riva, grazie alla Sony Pictures, major deessere come quelli della Disney, ma Hugh siderosa di mettersi in gioco in maniera Grant, che nella versione originale interimportante sul mercato dell’animazione, preta Capitan Pirata, non sembra farsene dopo una serie di tentativi di scarso apun cruccio. “Sono proprio i peggiori, verapeal come Boog & Elliot, e Surf ’s Up e mente incapaci come pirati, ma Capitan quello, decisamente meglio riuscito, di Pirata è un ottimista e per questo motivo, Piovono polpette. Nel 2007 Aardman e l’equipaggio è sempre dalla sua parte. Ama Sony firmano un accordo triennale, rinla sua ciurma, il pappagallo della nave – o novato nel 2010, per lo sviluppo e la remeglio, quello che lui pensa sia il pappaalizzazione di una lunga serie di progetti gallo della nave, ed è molto orgoglioso cinematografici. Il primo vede la luce alla della sua folta barba”. Proprio il volatile di fine del 2011, Il figlio di Babbo Natale, compagnia del nostro bucaniere è il motofavola in 3D digitale, il secondo è il ritor-
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“Capitan Pirata è un’ottimista, la ciurma è sempre dalla sua parte”, dice Hugh Grant, che in italiano è doppiato da un ottimo Christian De Sica
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re narrativo del film, che con grande libertà creativa coinvolge nella trama un giovane Charles Darwin e una collerica Regina Vittoria, con una scorrettezza politica che è una caratteristica della Aardman, molto più vicina a Mike Leigh e Ken Loach che a James Ivory.
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Jeremy Piven, David Tennant, fino alla regale Imelda Staunton nei panni dell’irascibile Regina Vittoria, che in Italia ha invece l’inflessione sabauda, non poteva essere altrimenti, di Luciana Littizzetto. L’altra presenza femminile è una guest star di lusso, Salma Hayek, che interpreta l’affascinante e letale Cutlass Liz.
Una ciurma di classe Hugh Grant si cimenta per la prima Verso nuove avventure volta in un’interpretazione solo vocaDopo Pirates!, che uscirà in Italia il 4 aprile per un personaggio animato, ma in le distribuito dalla Warner Bros, mentre Capitan Pirata si possono facilmente negli Stati Uniti arriverà il 27 dello stesso cogliere le movenze, gli ammiccamenti mese, la Aardman conoscerà il suo futuro. e soprattutto i tempi comici del proL’accordo con la Sony scadrà nel 2013 e tagonista di Quattro matrimoni e un l’incasso di questo film sarà molto imfunerale e Notting Hill, che nella verportante per un eventuale rinnovo. Due sione italiana Christian De Sica riesce a progetti sono già schedulati sulla carta, rendere molto bene, mettendoci anche The Cat Burglars, un heist movie con una del suo. Al fianco di gang di felini decisi a Grant troviamo il fior mettere a segno il colfiore del cinema inpo del secolo, rubando La barba di Capitan glese, dall’attesissimo la più grossa partita di Pirata è animata da un giovane Bilbo Baglatte che un micio posgins Martin Freeman sa sognare, e un Nick meccanismo speciale. a Brendan Gleeson, Park Project che non coinvolgerà comunque Per progettarlo ci è Wallace e Gromit. Spevoluto un anno riamo di poterli vedere al più presto, perché di creativi come questi appassionati artigiani d’Albione al mondo ce ne sono pochi, e non a caso Hayao Miyazaki è uno sfegatato fan della factory, a cui ha dedicato una mostra nello Studio Ghibli Museum alcuni anni fa. E questo è senz’altro il miglior attestato di stima che si possa desiderare.
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Celerino,
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In po co piĂš d si inte rrogan i un mese, tr perpe o trata d sulla viole e film nza a chi divisa i . E un n a ragi dossa una one ci sarĂ !
figlio di... di Boris Sollazzo
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a risata piena di Pierfrancesco Favino, mentre prendiamo un caffè alla fine della conferenza stampa di ACAB. Gli dico: “Visto che fai Pinelli in Romanzo di una strage e un celerino bastardo in ACAB, nel film di Giordana che fai, ti spingi da solo fuori dalla finestra?”. Battuta feroce, cinica, politicamente scorretta. Un po’ alla Spinoza.
tato dal Potere. Le sospensioni della democrazia più gravi del dopoguerra italiano, gli angoli più bui della nostra storia, più o meno recente. Anni e mani di piombo, bombe e tolfa, un solo, unico filo rosso, anzi nero, a legare i tre film: uno Stato che dovrebbe proteggere i propri cittadini e che invece li massacra. Guardandoli un po’ da lontano, i tre film, parafrasando
it. Ma che segnala come, nel giro di un mese e mezzo, il cinema entri a gamba tesa nella zona oscura del nostro paese, come riesca, in poche settimane a guardare ciò che in tanti anni non ha neanche tentato di affrontare. I celerini “da stadio” di Sollima, l’atroce macelleria della Diaz di Vicari, Giordana che racconta Calabresi, Piazza Fontana, Pinelli e un’Italia sconvolta dalle stragi di stato. Tutto quello che non abbiamo mai voluto sapere davvero, tutto quello che viene occul-
Giovanni Falcone - che lo diceva sulla mafia - sembrano inquadrare i tre livelli di uno stesso meccanismo. ACAB- All cop are bastards Il film di Stefano Sollima individua il primo livello, la base di questo ideale processo politico-cinematografico. Il regista che insieme al suo ottimo team di sceneggiatori (Cesarano-PetronioValenti) ha rivoluzionato il mondo delle serie televisive italiane - il loro Romanzo Criminale
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è stato rivoluzionario per penetrazione nell’immaginario e sovvertimento di schemi narrativi e “morali”- ci prova anche al cinema. In un paese in cui la divisa veste i panni eroici del Joe Petrosino di Beppe Fiorello o bonari del Maresciallo Rocca di Proietti, in una TV in cui rivoluzionario è il caustico Montalbano che, non a caso, la divisa non se la mette mai - che almeno una frase di amarezza verso i colleghi per i fatti di Genova 2001 la dice, ecco che arrivano i celerini bastardi. In un’Italia che su piccolo e grande schermo è abituata ad accarezzare tonache, divise e simili, all’esordio Sollima decide di raccontare gli Inglorious Basterds che hanno come “missione” il massacrare chi mette a repentaglio “l’ordine”: siano essi ultrà, manifestanti, immigrati, estremisti. La mano violenta del Potere, il corpo speciale dietro il quale si nasconde chi non vuole sporcarsi le mani, il reparto mobile. Qualcosa di estraneo e temuto persino all’interno delle forze dell’ordine, con la sua (non) morale ferrea ed estrema, il suo senso dello stato malato, il cameratismo esasperato ed esasperante. Sollima
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sembra il nostro Kassovitz: solo che L’odio, qui, lo vediamo dagli occhi di chi porta il casco con la visiera. Non c’è Pasolini in ACAB, non c’è comprensione per la retorica del guerriero proletario per pochi euro, piuttosto c’è una visione precisa sull’emarginazione e sul conflitto sociale: chi mette su scudo e tolfa, spesso, condivide più di quanto vorrebbe con chi si tatua, sul collo, la scritta A.C.A.B. All Cops Are Bastards, appunto. Il cineasta cerca di umanizzare queste persone, di non renderle “speciali”, eccezioni alla regola. Il nazismo poté diffondersi grazie alle persone normali, la violenza istituzionalizzata è un’epidemia sempre più aggressiva per lo stesso motivo. Non vi lascerà tranquilli questo film, proprio perché porta sulla terra quello che vorremmo relegare nella voce “perversioni del Sistema”. Diaz - Don’t clean up this blood Un capolavoro, il film italiano più bello degli ultimi trent’anni. Senza se e senza
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ma. E lo è perché tira in ballo la Diaz, il più grande, doloroso scandalo che ci ha colpiti negli ultimi anni. Luglio 2001, Daniele Vicari entra dentro quella scuola in cui lo Stato italiano e la sua mano armata dichiara guerra alla società civile, al paese che dissente, alle generazioni che vorrebbero cambiare il mondo. Ha sete di vendetta chi ha già ammazzato un ragazzo, Carlo Giuliani, vuole “mettere a posto” chi si è azzardato a dire che è tutto sbagliato e tutto da rifare. In quel G8 a Genova, l’uno percento vuole ancora fottere il novantanove percento. Che però non ci sta. Eccolo il “secondo livello”. Vicari ci fa sentire le botte addosso (quello che Sollima non ha fatto, fermandosi ai riti dei violenti, ai loro vezzi), l’ingiustizia della tortura sistematica, il Cile di Pinochet nell’Italia del Terzo Millennio. Ci ricorda, con pochi intuitivi fotogrammi, che quella follia, che quella repressione organizzata e feroce, che Diaz e Bolzaneto, sono figli di una strategia precisa. E non solo italiana, ma europea: in un mondo in cui un qualsiasi presunto assassino, se in terra “straniera”, viene difeso dal proprio governo, scopriamo che tutti i paesi del continente sopportarono ogni sopruso. Nessuno si oppose ai pestaggi, al dolore inflitto ai propri cittadini, in un’Europa già unita e libera nella circolazione di persone e merci venne persino permesso un espatrio forzato, al Brennero. Se Sollima si ferma all’autogestione del reparto mobile, Vicari annoda i fili, mostra i celerini
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come schegge impazzite ma anche burattini, mostra uno Stato con le mani legate da se stesso, dai suoi rappresentanti schiavi di una visione della democrazia a responsabilità limitata. Un paese abituato ad avere una doppia struttura - dalla P2 alle infiltrazioni mafiose, dai servizi deviati a Gladio sono tanti, troppi gli esempi - qui mostra la sua vera natura: quella di un autoritarismo fascista che esplode ogni qualvolta la democrazia, il pluralismo prendono respiro, guardano lontano, cercano di cambiare le cose. Vicari fotografa tutto ciò con un racconto doloroso, potentissimo, terribilmente meraviglioso. E nell’ultimo primo piano c’è tutto l’abisso in cui siamo precipitati e il sospetto che la sconfitta di chi voleva, come noi, un mondo diverso e possibile, sia definitiva. Romanzo di una strage Quello di Marco Tullio Giordana è il racconto più lontano nel tempo. Piazza Fontana, una strage che ancora sanguina per l’atrocità dell’evento e per le ingiustizie perpetrate nella ricerca delle presunte verità su essa. Le contraddizioni di quegli anni nascono e crescono in quell’alveo fangoso fatto di colpe, responsabilità, di uno Stato deviato e della lotta armata clandestina. Tutti ne rimarranno vittime, da Pinelli con il suo malore attivo, a Calabresi, che da lì fu chiamato “commissario Finestra”. Da una possibile classe dirigente che divenne invece nemica del proprio paese e di se stessa.
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Come il terzo livello della mafia, anche questo terzo livello è il più pericoloso e il meno conosciuto, il più impenetrabile e il più implacabile. Quello Stato infiltrato non sembra diverso dal nostro, quella Piazza Fontana e l’humus che la provocò sembrano francamente fin troppo vicini alla nostra attualità. E le trame sono così intricate da inquinare tutto, da rendere impossibile la divisione tra vittime e carnefici, tra utili idioti e pericolosi sanguinari, tra buoni e cattivi. Giordana riprova quello che a molti colleghi è costato tanto: con il terrorismo, in modi diversi, ci si sono bruciati in tanti. La Labate, Bellocchio, Soavi, De Maria in modi diversi, ma hanno
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subito in maniera forte le conseguenze di scelte più o meno coraggiose, più o meno difficili: chi facendo fatica a dirigere ancora, chi venendo scippato di un premio sacrosanto, chi rimanendo relegato ai margini, chi con un linciaggio preventivo che ne ha condizionato, sicuramente, il racconto (cosa successa a Vicari, oggetto di critiche preventive che, però, non hanno spostato le sue intenzioni di un millimetro). Forse il cinema italiano sta cambiando, forse un’altra epoca si sta aprendo, riavremo i Petri e i Rosi, riavremo Volonté. Poche settimane per saperlo. Sperando di essere in grado di sopportarli e supportarli, sperando che la rinascita non venga soffocata.
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Crazy Clown Time: David Lynch e l’indissolubile legame tra musica e immagini
Something
has happened di Andrea Grieco
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ue giovani donne in evidente stato di turbamento si stringono per mano mentre siedono in una sala dalle fattezze di un teatro d’opera settecentesco. Dalla ribalta di un palcoscenico sovrastato da un sontuoso sipario di velluto purpureo, un presentatore luciferino invita ad ascoltare suoni di strumenti a fiato che sembrano prodursi in un ancestrale fuoricampo al comando dei gesti enfatici in cui l’uomo in livrea si produce. Prima
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quello di un trombone a coulisse, poi quello di uno con sordina e, infine, quello di una tromba muta suonata da un musicista che lentamente avanza verso il proscenio. E che quando si ferma allontana dalla bocca la tromba e fa compiere un giro ampio alle braccia. Nonostante questo le note sinistre dello strumento continuano ad articolarsi. “Non c’è banda”, tutto è in play-back. Basterebbe questa memorabile e paradigmatica scena di Mulholland Drive a espletare, non solo la natura illusoria e ingannevole che sottende il mezzo filmico, ma soprattutto il dialettico e indissolubile legame tra suono, musica e immagini che da sempre sostanzia il cinema di David Lynch. Anche più, forse, della stessa dichiarazione dell’artista del Missoula secondo la quale l’origine del suo fare registico sarebbe da rintracciare il quel desiderio, di quando era ancora un giovanissimo studente della Corcoran School of Art di Washington D.C., di ampliare fino ad annullare i bordi dei suoi dipinti grazie alla sollecitazione degli organi acustici. Come a dire che il Lynch pittore già sonorizzasse i suoi dipinti, e che il cinema a venire sarebbe stato una logica conseguenza di quella specifica neces-
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sità espressiva tramutatasi con il tempo in vera e propria cifra stilistica. Meno curioso, dunque, che dopo aver scritto le parole per molte delle composizioni del fido Angelo Badalamenti, dopo essersi firmato, a partire da Fuoco cammina con me, anche come sound design dei suoi film, e aver collaborato alla registrazione di alcuni lavori discografici a dir poco eccentrici, Lynch sia giunto ad incidere Crazy Clown Time, un album che, pur contraddistinto da una sua specificità musicale, originale e convincente, può intendersi come inclinazione speculare a quella degli esordi su tela: una partitura e un ascolto che si concretizzano appieno nella (pre)visualizzazione emotiva e mentale. Alias, qualsiasi sia il procedimento operativo adottato, Lynch continua a declinare cinema. E se è fin troppo semplice per l’estimatore dell’opera lynchiana cogliere nelle tracce che compongono Crazy Clown Time eco di quella materia sonora con cui il regista ha plasmato la sua dimensione immaginifica, corroborante e nodale è constatare quanto, indipendentemente dal codice adottato, resti praticamente simile la strategia creativa messa in atto. Che si tratti di luce o di suoni, delle inquadrature o delle
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note infatti, la sintassi con cui vengono articolate è “primitiva”, arcaica, e forse proprio in quanto tale capace di evocare luoghi, situazioni e pulsioni afferenti ad ancestrali universi tangenti. Un’equazione linguistica sembra potersi instaurare, ad esempio, tra le dissolvenze, incrociate, più spesso “dal nero” e ancor più frequenti “su nero”, con cui Lynch segna i passaggi sequenziali della narrazione filmica e le modalità con cui alterna suoni e pause nei suoi brani. In entrambi i casi i segni vengono articolati secondo schemi consolidati, ripetitivi e finanche anacronistici. Niente di più lontano dal formalismo toutcourt, bensì attitudine più consona alla Read the materia di cui sono Review fatti i generi. Cosa sono, in fondo, Lost Highway e Inland Empire, se non dei mistery? Allo stesso modo i titoli di Crazy Clown Time offrono una panoramica di mood afferenti al country-blues, allo slow-rock e persino alla disco. In entrambe le circostanze ciò non esclude che l’effetto a cui giunge Lynch sia qualcosa di indiscutibilmente unico e irripetibile, proprio perché ciò che di fondo è stato davvero composto è uno stato pulsionale. Ecco perché fa davvero poca differenza quale sia l’ambito scelto dall’autore per lasciare fluire, in un
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alternarsi senza soluzione di continuità di implosioni/esplosioni, interno/esterno soma/psiche, la sua idea di uomo/mondo istintuale e selvaggia. Sintomatico che tra le immagini, i dettagli iconografici più rappresentativi del cinema lynchiano ci sia l’orecchio mozzato ritrovato in un parco in Blue Velvet. Il padiglione auricolare, oltre che appendice del sistema uditivo, si fa insieme passaggio e limine tra qualsivoglia dualità di senso e di categorie. Ė in questo limbo che si origina, in un’alchimia sinestetica, tutta la congerie audiovisiva dell’artista, un coagulo e coacervo in cui, tra il suono e il rumore, la voce e la parola assumono un valore distintivo. A esclusione del tono rabbioso con cui Karen O interpreta Pinky’s Dream, il brano d’apertura del disco, in Crazy Clown Time sembra di percepire la carica perturbante della garmonbozia dell’“uomo da un altro spazio” di Twin Peaks in ogni lirica da Lynch. La voce, sia essa monologante, sussurrata, modulata, o distorta come se il registamusicista fosse attaccato all’erogatore del maniaco Frank Booth, evoca frammenti di storie che collassano per aprirsi a infinite variazioni; proprio come un film, proprio come una canzone.
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Come neve è Bianca di Federica Aliano
A settatantacinque anni dal primo lungometraggio Disney, arriva sugli schermi Biancaneve, la favolosa visione di Tarsem Singh
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e fiabe riadattate in chiave diversa e interpretate da attori in carne e ossa sembrano essere “the new black” a Hollywood – e non solo. Da quando Tim Burton ha diretto la sua (discutibilissima e deludente su diversi piani) versione di Alice nel paese delle meraviglie, ha fatto tendenza come suo solito. Ed ecco allora tutto un fiorire di progetti, un riaprire cassetti con vecchi plot all’interno. Del resto si sa, in tempo di crisi ci si rifugia nel mondo della fantasia, che altro non è se non la realtà velata di metafore. E più spesso di quanto non ci si renda conto, sono proprio favole e fiabe a indicare la via per le soluzioni. Ma se Alice ha ispirato tantissime ver-
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sioni, artisti di ogni tipo e adattamenti di cui si perde il conto, e Cenerentola è anche un mito più volte e in tante salse rivisitato, lo stesso non si può dire della candida Biancaneve. La fiaba originaria si perde nei meandri del tempo, e oggi è quella dei fratelli Grimm a essere considerata la versione ufficiale. Da quel testo breve ultimamente si trae nuova linfa, e mentre aspettiamo Biancaneve e il cacciatore, possiamo godere dell’incredibile impatto visivo della Biancaneve di Tarsem Singh. I Grimm, si sa, erano come una cover band: nel corso della loro intera “carriera” non hanno fatto altro che rielaborare (in salsa un po’ gore, diremmo oggi) leggende e fiabe antiche provenienti da ogni parte del mondo. Tarsem e la sua produzione però non si sono limitati alla loro versione e hanno impiegato molto tempo per fare ricerche sulle precedenti stesure della fiaba, tramandate in tutta Europa per seicento anni, spesso solo verbalmente. “Questo era uno dei pochi progetti che mi interessava realizzare: mi attraeva la possibilità di aggiornare una storia eterna e classica come questa”, ha infatti dichiarato il regista. Mirror Mirror on the wall Diciamo la verità: rispetto a quella gattamorta di Biancaneve, che non fa altro che sgranare gli occhioni e sbattere le ciglia,
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sono molti quelli che preferiscono la bella e pericolosa regina. In alcune versioni chiamata Brunilde, è centrale anche nella vicenda seriale di C’era una volta, la serie televisiva che riporta i personaggi delle favole alla realtà odierna, soggiogati da un incantesimo di memoria lanciato proprio dalla regina cattiva. Lì Bianceneve è ben più sbiadita e collaterale. E intorno alla regina ruota in realtà l’intera vicenda: è lei il motore di tutto, non certo la passiva ragazzina che se ne sta ad aspettare. “Nella versione più famosa della storia, la motivazione alla base del comportamento della regina è la vanità. Nel nostro film invece ciò che la spinge è la brama di potere”, spiega Singh. Il film quindi, oltre a essere il consueto spettacolo per gli occhi a cui questo regista ci ha abituati, si prende le sue brave libertà. Ed è curioso che Julia Roberts, divenuta famosa per il suo ruolo in Pretty Woman, in cui è praticamente una novella Cenerentola, si ritrovi ora qui a interpretare la villain nell’altra fiaba più amata in assoluto. La sua regina è certamente diversa: gioca tutto sull’ironia, modella tutto ciò che la circonda a sua immagine, e ribalta alcuni degli elementi che hanno reso l’attrice così amata dal grande pubblico, a cominciare dal suo grande sorriso. A detta di Julia, è stata una visione più strutturata della regina che l’ha convin-
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ta ad accettare il ruolo: “La componente della doppia personalità mi ha incuriosita. Vediamo la regina nella sua quotidianità e poi, all’improvviso, vediamo il suo riflesso nello specchio. La regina dello specchio è una persona più calma e composta, possiede il potere, e una sicurezza che la regina nel mondo reale fatica a mantenere”. Ha la bocca di rose, e d’ebano i capelli… Biancaneve, come chi scrive non si stancherà mai di ripetere, è l’epitome della passività, l’antifemminismo per antonomasia. Nella fiaba subisce la morte del padre e le angherie della matrigna. E fin qui non sorprende, visto che nel racconto dei Grimm, la piccola Biancaneve è solo una bambina (e il principe se la sposa: ogni commento è superfluo). Anche in tutte le versioni successive però, colei che ha la pelle bianca come neve non fa altro che aspettare, fuggire, subire e al massimo incantare con la sua bellezza e i suoi begli occhioni. Rispondendo a un antico archetipo delle fiabe, Biancaneve se ne sta lì, distesa in una teca di cristallo, ad attendere un principe che la salvi dalla sua sorte, che la risvegli dal torpore della sua esistenza e che la porti via, lontano. Chiusa nel castello inizialmente, si rifugia poi dai nani e fa loro da sguattera. Ed è pure terribilmente vanesia e sciocca, talmente sciocca da cadere per ben tre volte nei tranelli della strega regina, lusingata dalla promessa di possedere ancora più beltà. Tarsem, come già la Disney, porta sullo schermo una principessa in età da
marito, interpretata da Lily Collins (che di certo non è la più bella del reame, ammettiamolo). Il regista ha dichiarato di averla scelta perché ha un aspetto ancora giovane e innocente, ma chi ha seguito un po’ la carriera di questa ragazza inglese sa bene che Lily è una tipa tutto pepe, che ha iniziato a recitare quando ancora era in fasce, e che ha lavorato come giornalista sin dall’età di quindici anni. Il confronto con la upcoming Snow White Kristen Stewart (che forse non è la più bella, ma è stata Bella, passateci il calembour) è inevitabile. Anche perché in questo film come in quello la giovane erede al trono si batte, diventa action, si attualizza un po’. La aspettiamo al varco, la piccola Lily, soprattutto accanto al premio Oscar per Erin Brockovich, sicuri che la sua Biancaneve sarà ben poco consueta.
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Vivere nel mondo delle favole Ha solo quattro film al suo attivo, eppure Tarsem Singh Dhandwar è già un regista dalla chiara riconoscibilità. Sin dai tempi di The Cell, ha sempre trovato l’espediente narrativo per trasportare lo spettatore in un altro mondo, un luogo di completa fantasia dove poter lasciare galoppare la sua immaginazione a briglia sciolta. Piaccia o no il suo stile, va comunque ammesso che la sua visione è peculiare, e sicuramente spettacolare. Colori pieni, forti, immagini di donna stilizzatissime, un certo gusto per la decorazione degli ambienti. Il mondo fiabesco di Biancaneve era un terreno fertilissimo per il regista indiano. “Costruire fisicamente una realtà alternativa è un’esperienza bellissima. Voglio realizzare il mondo in cui vivono i personaggi perché gli attori possano avere una maggiore comprensione”. Ecco perché in questo film non c’è
solo green screen, bensì un sontuoso set costruito a Montreal, all’interno di grossi studi cinematografici. Set reali, firmati dallo scenografo Tom Foden, fantasiosi, mai visti prima (l’unica eccezione è che il castello è in cima a una rupe sull’acqua come quello della Disney). Ma cosa caratterizza una principessa nell’immaginario di ogni bambina? Ovviamente l’abito, che nelle fiabe fa spesso anche il monaco. I costumi di questo film sono uno più bello dell’altro, firmati dalla compianta costumista Eiko Ishioka, da sempre fidata collaboratrice di Tarsem e autrice anche dei costumi del Dracula di Bram Stoker. Oltre trecento abiti realizzati a mano, inclusi quelli delle comparse. “Eiko non si limitava a disegnare abiti, creava opere d’arte”, la ricorda Tarsem, e noi non possiamo che essere d’accordo. Mentre la ricordiamo, ammirati da questo suo ultimo, eclettico lavoro, potremmo distrattamente mordicchiare una mela… Dopotutto, una al giorno…
Evil queens La regina matrigna, strega cattiva di incomparabile bellezza, ma dentro orribile come la vecchia grinzosa in cui si trasforma alla fine. Lei è stata il punto di riferimento della cattiveria femminile, dettato soltanto dalla vanità. Eppure la brama di potere è spesso stata donna, nella realtà come al cinema. Quali altre regine cattive affollano i nostri incubi?
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Strani incontri di Alessandro De Simone
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osa succede se una frigida signora della borghesia parigina si scontra con un dropout senza peli sulla lingua? Cinematograficamente parlando, la risposta non è difficile, basta inquadrare il genere, che si parli di commedia o dramma a tinte più o meno fosche. Nel caso de Il mio peggiore incubo, si tratta della prima opzione, diretta dalla regista Anne Fontaine, nota dalle nostre parti per Coco Avant Chanel, biopic sulla grande icona della moda. Presentato al Festival Internazionale del Film di Roma 2011, Mon Pire Cauchemar vuole essere una riflessione divertita
Isabelle Huppert e Benoit Poelvoorde protagonisti della commedia Il mio peggiore incubo. Una delle tante coppie bene assortite del cinema e intelligente sulla differenza che ancora oggi c’è, in quella che dovrebbe essere una società civile, tra uomini e donne di classi sociali diverse. Isabelle Huppert è Agathe, benestante signora con casa sui costosissimi Jardins du Luxemburg, Benoit Poelvoorde è un personaggio borderline che vive in un furgone. Le loro vite finiranno con l’incrociarsi, per merito o causa dei loro figli, e l’incontro non lascerà indifferente nessuno dei due.ma “e anche questo Capodannno…”
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Rencontre Jane Doe Un plot classico già nel cinema francese, basti pensare a Boudu salvato dalle acque di Jean Renoir, e che ritroviamo nel cinema americano, come in Arriva John Doe di Frank Capra, anche se con declinazioni e sfaccettature differenti. Le implicazioni politiche e sociali non erano così lontane tra loro, e fa riflettere che cinquant’anni dopo Paul Mazursky si sia potuto permettere di girare un remake dell’opera di Renoir ambientandolo a Beverly Hills e con Nick Nolte nei panni che furono di Michel Simon. La lotta di classe, se unita alla guerra dei sessi, può essere esplosiva. Lo sapeva bene, in tempi non sospetti, George Bernard Shaw, che nel suo Il pigmalione camuffa con una storia d’amore l’avanzata del pensiero socialista e la crescente consapevolezza del movimento femminista. Le strane coppie Isabelle Huppert è ormai un monumento del cinema francese, il concetto di self storage è stato inventato per permetterle di conservare i suoi premi tutti insieme. Poelvoorde è da noi praticamente sconosciuto, anche se questo è il terzo suo film sugli schermi italiani nel giro di pochi mesi. In Francia, invece, quest’attore con una spiccata sensibilità per la commedia, è apprezzato da molti anni, ma questa è la prima volta che recita con Madame Huppert. D’altronde, sono copioni di questo tipo che hanno reso immortali coppie che sembravano apparentemente male assortite. Uno degli esempi più ecla-
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tanti lo abbiamo proprio in Italia, grazie a Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto, dove Mariangela Melato e Giancarlo Giannini offrono un memorabile tour de force in cui la lotta di classe si trasforma in sesso e masochismo a suon di ceffoni e frasi da Bacio Perugina come “Bottana industriale”. Di fatto, comunque, parliamo sempre della stessa variazione sul tema, senza scarpetta di cristallo, di “quella gran culo di Cenerentola”, come sottolineava con arguzia Laura San Giacomo alla dolce Julia Roberts in Pretty Woman. Una poltrona per molti Al fianco della coppia protagonista troviamo l’inossidabile Andre Dussolier, uno dei più grandi attori francesi viventi, nei panni del marito della Huppert, e la sensuale attrice belga Virginie Efira, mangiatrice di uomini dall’indubbio talento. D’altronde, il cast di contorno è sempre stato molto importante in storie di questo tipo, come insegna John Landis in Una poltrona per due, vero e proprio vademecum socio-capitalista dei rampanti anni Ottanta. Ma il concetto più impresso nella memoria cinematografica è quello dei Sei gradi di separazione che dividono la coppia WASP formata da Stockard Channing e Donald Sutherland dal misterioso vagabondo Will Smith. Perché in fondo la questione è sempre quella: per quanto ricco puoi essere, respiri, mangi, bevi e fai l’amore come un qualunque felice vagabondo che son io.
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Fisico asciutto e senso dell’umorismo. Ecco il bel Ryan, co-protagonista insieme a Denzel Washington di Safe House
Ryan Reynolds di Adriano Ercolani
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è
sempre un piacere quando l’intervista con un attore si rivela una gradita sorpresa. È successo con Ryan Reynolds, star hollywoodiana non costruita a tavolino e istruita a ripetere frasi fatte, al contrario ragazzo spigliato e pronto all’ironia. Lo abbiamo incontrato a New York a proposito di Safe House, thriller di Daniel Espinosa in cui recita insieme al “re” del genere Denzel Washington.
Come definiresti il personaggio di Matt Weston?
All’inizio Matt è un idealista che possiede un forte attaccamento verso il suo paese, ma è stato “dimenticato” dalla CIA nel
“Nel mio lavoro occorre fidarsi” posto dove svolge un lavoro noiosissimo. Il suo incontro con Tobin Frost, interpretato da Denzel Washington, cambierà radicalmente la sua visione delle cose. Il cinismo acquisito nei confronti del suo lavoro e la volontà di andare oltre le apparenze, di capire cosa si nasconde dietro ogni persona e ogni evento, lo fa mutare radicalmente. Quando tutto collassa, dal lavoro all’amore, lui cambia modo di pensare e agire. Tutto quello in cui crede non esiste più, quindi deve affidarsi soltanto all’istinto e ai suoi valori interni. È stato un bel viaggio dentro la disillusione di un uomo nei confronti dei suoi ideali. Anche se la CIA ha distrutto ogni possibilità di vivere una vita normale per lui c’è anco-
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ra una chance di affermarsi come essere umano. Penso che alla fine del film quello che capiamo di Matt sia proprio questo: ha ricostruito la propria integrità. Credi che nel mondo in cui vivi e lavori l’integrità sia un valore ancora apprezzato?
È difficile, spero sia ancora apprezzato anche se è sempre meno un requisito necessario. Non credo si possa costringere una persona che è sempre sotto i riflettori a essere integra, deve essere lei a mantenere saldi i principi con cui è nata e cresciuta. Conosco molti colleghi che posseggono una grandissima integrità personale, credo sia un mito che ogni attore è uno scandalo che cammina! Hai girato personalmente le scene d’azione?
Sì, e non perché voglio sembrare un eroe ma perché dovevamo: Daniel preferisce che la macchina da presa sia sempre incollata ai suoi attori, non potevamo essere sostituiti. Abbiamo lavorato duro, ho dovuto guidare molte auto veloci in scene pericolose, cosa che non amo fare. Non credo che lo ripeterò nei weekend con gli amici dicendo loro: “Guarda che ho imparato! A far fare all’auto un giro intero su se stessa!” A proposito di auto, la scena che mi ha imbarazzato di più è quando sono stato costretto a chiudere Denzel nel portabagagli e poi sono andato dal lato sbagliato per salire, perché in Sud Africa la guida è a destra! Come la sistemi in quel momento? Continui a girare intorno all’auto come se niente fosse?
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“Lavorare con un regista di cui non ti fidi è come prendere l’aereo e non fidarsi del pilota” La troupe è scoppiata a ridere. E Denzel rimaneva chiuso nel portabagagli, gli avrò chiesto scusa mille volte… Washington ha dichiarato di voler mantenere le distanze sul set…
Aveva ragione, serviva per rendere vero il distacco che c’è tra i due personaggi. Lui lavora in maniera molto metodica. Durante le riprese letteralmente si trasformava in Tobin Frost, era sempre calato nel suo ruolo. Il rapporto tra Frost e Weston è un po’ come quello tra un predatore e la sua vittima, quindi era un bene che fossimo in qualche modo distanti. Comunque su di lui avevo grandi aspettative, e le ha confermate tutte. È uno dei più grandi professionisti con cui abbia mai lavorato, per lui nulla è insignificante. Mi piacerebbe un giorno raggiungere i suoi livelli e mantenere la passione che ha nel fare il suo lavoro. Come ti sei trovato a girare in una location poco frequentata come il Sudafrica?
Di solito non si ambientano produzioni americane in posti affascinanti come Cape Town, è stata davvero un’esperienza umana importante oltre che un’avventura. La bellezza del mio lavoro è che in occasioni come questa non vado a visitare un
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luogo come questo, ma in qualche modo mi devo immergere nella sua comunità, perché ci passerò alcuni mesi. Diventi parte di un altro mondo, ti adatti al suo stile di vita e cerchi di inserirci il tuo. Mi hanno sorpreso la spensieratezza e l’ottimismo che regnavano anche nelle parti più povere della città. È stato bizzarro trovarmi in mezzo a queste persone che non hanno beni primari come elettricità o acqua potabile, ma posseggono una gioia di vivere e dei valori forti. Hai mai accettato ruoli di cui non eri pienamente convinto?
Certamente, l’ho fatto in precedenza e credo possa ricapitare. Qualche volta non te ne rendi conto finché non ti ci trovi, oppure altre volte si tratta di avere fede nel progetto: ti viene detto che si realizzeranno grandi cose e poi non ci si riesce. Un detto che circola nell’ambiente è: “Se non credi nel pilota non prendere l’aereo”. Il film è una creatura del regista, se non ti fidi di lui meglio non partecipare, ma per il resto gli imprevisti possono essere così tanti che risulta impossibile capire sempre la bontà di un progetto finché non ci si sta lavorando, o addirittura lo si è realizzato. Quando ti accorgi di aver fatto la scelta giusta o sbagliata?
Di solito all’anteprima! Scherzo: di solito durante le riprese. Se a un paio di settimane dalla fine del lavoro continui a pensare che qualcosa non va o manca, allora sono guai. È una sensazione orribile quando quelli intorno a te negano e ti
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dicono: “Sistemeremo tutto, funzionerà”, e sanno perfettamente che non è possibile, un film non è un qualcosa che si inventa. Però devo dire che sono stato quasi sempre fortunato, ho trovato registi che avevano le idee chiare. Daniel Espinosa ad esempio ha una sua visione precisa del cinema, sa quello che fare, avevo completa fiducia in lui anche se è più giovane di me e sembra un alieno! Safe House sotto certi aspetti è un thriller basato su un gioco politico. Lei si interessa di politica?
Molto, anche se in questi giorni è difficile farlo senza soffrire di crisi d’ansia o depressione… Al momento sto seguendo le primarie dei repubblicani e sono piuttosto contrariato da come si strappano brandelli di carne a vicenda per racimolare ogni singolo consenso. Sembrano belve ben vestite… Questa competizione non c’è anche a Hollywood?
Questa faida del tipo “uccidi o vieni ucciso?” Non so, non credo, io mi sento un pezzo di merda se dico qualcosa di cattivo su uno che fa il mio stesso lavoro. Cerco di non farlo, mi sentirei io l’idiota. Quale sarà il suo prossimo film?
Ho appena finito di girare R.I.P.D. con Jeff Bridges, un lavoro in cui credo molto, è stata una grande esperienza. Abbiamo girato a Boston, uscirà nel giugno del 2013 perché si dovrà fare un sacco di postproduzione.
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Al rendez vous del cinema francese di Unifrance abbiamo incontrato le due sorelle registe di 17 ragazze
Delphine e Muriel Coulin
di Boris Sollazzo
17 ragazze per me, posson bastare...
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he strano film 17 filles. Non diresti mai che è ispirato a una storia vera, non penseresti mai che è l'esordio dietro la macchina da presa di due sorelle, Delphine e Muriel Coulin, che finora a casa avevano portato solo due corti. Questo è un racconto d'amore e di ribellione, di emulazione e psicologia, persino di sensualità e rivalità adolescenziali. C'è tutto, raccontato con una leggerezza e uno stile particolarissimi. Lo amerete, 17 filles, o lo detesterete. Ma certo non lascerà indifferenti. Così come l'incontro con le sue due registe.
deciso di fare un figlio nello stesso periodo. Me lo ricordo bene quel momento, scesi in giardino e lo mostrai a mia sorella Muriel. MC: Lo trovammo subito incredibile e davvero interessante, credo che fin da quel primo istante capimmo che ci avremmo fatto un film. Ne parlammo subito al nostro produttore, lo stesso dei Dardenne, e lui ne fu piacevolmente spaventato ma ci disse che avremmo dovuto farlo. Così cominciammo a scrivere.
Allora, come nasce quest'opera folle come la storia che racconta? DC: Tutto nasce da un trafiletto su un gior-
della sensibilità femminile è fondamentale, ma lo è trattandolo in maniera originale e non ideologica, badando alla psicologia più che ai “principi”, e parlando di ciò che sappiamo. Ecco perché i ragazzi qui sono
nale. Due righe, dove si diceva solo che diciassette ragazze, in un paesino, avevano
Vi arrabbiate se lo chiamiamo film postfemminista? DC: No, perché per noi il tema del corpo e
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secondari. Poi era attraente un progetto così nuovo, forte, anche un po' folle. Quasi un progetto “politico”.
la libertà di scegliere. Ci sono adolescenti incinte, si parla di maternità, ma la posta in gioco è molto più alta.
Dopo la prima visione del film, l'ho definito rivoluzionario. Siete d'accordo? DC: Rivoluzionario? Sì, credo di sì. Direi
Come avete scelto il cast?
in un senso profondo, perché con quel gesto le ragazze non volevano cambiare il mondo o un modo di pensare, piuttosto creare una piccola utopia collettiva. Loro non vogliono imporre nulla, ma cercare un'alternativa al modo di vivere attuale, in cui le vie classiche sembrano tutte fallimentari, da quelle della corsa al denaro a quella del neocapitalismo frenetico. MC: Questa sorta di femminismo del corpo è una risposta politica e umana alle convenzioni e convinzioni dominanti, una risposta puramente femminile ai disagi attuali. Non è qualcosa, insomma, che possa passare in un sistema di partiti, struttura di potere, peraltro, che ha fallito ora come ora. Questa risposta intuitiva, spontanea spiazza tutti e risulta, forse, molto efficace. Un film del genere, in Italia, rischia di riaprire il tema dell'aborto, come Juno. In Francia ha sollevato polemiche? MC: No, il dibattito non c'è stato sulla con-
traccezione né sull'aborto, quanto proprio su questo femminismo che è stato definito anche irresponsabile. Un post-femminismo che va contro quel movimento che ha “costretto” la donna a fare figli tardissimo, perché in carriera, ma anche contro quelle attiviste che vogliono tutto e subito. Questo è un film sulla libertà, e basta. Sul-
La ricerca è stata lunga e difficile, non abbiamo avuto paura di arruolare “novizie” e abbiamo avuto ragione: dalle più esperte alle esordienti, hanno dimostrato tutte una grande professionalità, anche mettendo alla prova la loro bellezza, la loro gioventù con cambiamenti fisici importanti, quelli della gravidanza appunto. Da qualche anno escono film, ovunque, sulla difficoltà di essere madri. La maternità non è più vista in maniera monolitica. Vi siete chieste perché?
Viviamo in una società contraddittoria, che incoraggia la maternità ma non aiuta le madri. Nelle pubblicità, in Italia come in Francia, vediamo famiglie sdolcinate e rapporti idilliaci tra madre e figlio, ma poi leggi e consesso sociale penalizzano le donne che vogliono bambini. E questo, con un'indipendenza e una consapevolezza crescente della donna, crea una sorta di crisi del modello tradizionale. E il nuovo modello femminile passa peró di nuovo per il corpo della donna? DC: In qualche modo se questa è una rivo-
luzione, utilizza il corpo come arma pacifica, scusate l'ossimoro, come arma d'amore. Una riflessione del genere, un evento così speciale come la gravidanza, vissuta come nel film poi, può cambiare il tuo modo di vedere le cose.
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Il vostro stile cinematografico è quasi un neosurrealismo. Come l'avete creato? DC: Volevamo privilegiare una rappre-
sentazione realistica ma allo stesso tempo fantastica, sopra le righe. Ne esce, crediamo, un film contemporaneo e allo stesso tempo diverso, fondato su queste ragazze dall'immaginario fantasmagorico e stilizzato. E di questo siamo molto felici, perché il nostro è un cinema di sensazioni, più vicino a Lucrecia Martel e Marco Ferreri, che ad altri. C'è l'arte contemporanea, ci sono molte ispirazioni diverse.
E a livello umano che esperienza é stata?
È stato emozionante vedere in queste ragazze, alla fine del film, una crescita. Non avevano più lo stesso viso, lo stesso corpo, lo stesso sguardo e noi, pur più grandi di loro, siamo cresciute insieme a quel gruppo meraviglioso. E forse anche la loro spontaneità, il loro istinto ci ha consentito di creare 17 filles com'è ora.
Louise Grinberg: "La mia Camille, che donna" di Boris Sollazzo
Quattro chiacchiere con la protagonista di 17 ragazze
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iciotto anni appena compiuti, una bellezza pulita ed emozionante, una bella testa. Sedendomi nella stanza d'albergo assegnataci da Unifrance, temevo una ragazzina immatura. Mi sono ritrovato, invece, una giovane donna decisa e intelligente. E che si racconta volentieri. La sua carriera è lanciata (è appena uscita dal set di Je me suis fait tout petit dove ha recitato accanto a Vanessa Paradis), ma l'umiltà è rimasta intatta.
Ora cosa c'è nel vostro futuro?
Un altro film insieme. Abbiamo cominciato a scriverlo, per lo stesso produttore. Probabilmente ancora con Louise Grinberg, noi e lei abbiamo vissuto insieme un'esperienza d'esordio pazzesca ed entrambe abbiamo dato e ricevuto molto da questo film: lei per aver fatto un ruolo da protagonista a diciassette anni, noi per aver affrontato con lei una storia così particolare. Posso però anticiparti che anche il prossimo film parlerà di donne, del loro corpo, della condizione femminile.
Si sta abituando alla macchina cinema dopo questo esordio sorprendente? Sì, è stato il primo ruolo importante per me, al cinema. Ero colpita dall'essere al centro di tutto, di dover lavorare per restituire alla mia Camille il massimo della credibilità. Ho fatto di tutto per entrare nel personaggio, per farmi toccare da questa ragazza, allo stesso tempo simile e completamente diversa da me. Volevo essere una ragazza di oggi che però ha il coraggio di fare una scelta così controcorrente. Una ragazza adolescente e una donna che diventa mamma. Mi ha aiutata anche l'esperienza, sia pur da comprimaria, in La Classe (che valse a Cantet una Palma d'Oro, ndr).
Interview
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ra o mai più. Uno dei titoli che ho più amato, in quanto tale e come film, nella mia vita di spettatore cinematografico. Uscii dalla sala, quel giorno, incazzato nero contro quel regista che si azzardava a inquinare Genova 2001 con una commedia sentimental-giovanile. Ideologizzato e ottuso, capii solo nei giorni a venire quanto quel film fosse importante nella sua poetica, romantica, durissima normalità. Fu importante anche per il regista Lucio Pellegrini che lì trovò la compagna di una vita (Camilla Filippi, eccezionale nel film) e anche un certo ostracismo dall’ambiente cinematografico. Conclusosi proprio in questi anni: I figli delle stelle, La vita facile e ora è nata una star? sanciscono, in due anni, un ritorno alla grande di un cineasta che
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Lucio Pellegrini di Boris Sollazzo
Come si tira su un figlio pornodivo Da un racconto di Nick Hornby, Arriva È nata una star? Perché se tuo figlio è un cazzone… può sempre avere una carriera sembra forse l’unico esponente di una “comédie dramatique” che in Italia, di fatto, non esiste. Qui Pellegrini pesca nella produzione di Hornby, a cui lo accomunano molte cose. Proviamo a scoprirle.
Interview Allora, Lucio, come hai trovato questo romanzo breve e come mai ne hai fatto un film?
Mi piace molto Nick Hornby, il suo sguardo per me è fonte di ispirazione, così leggero e ironico anche riguardo alle cose più serie e drammatiche. Amo il suo essere positivo, la dolcezza che ha verso tutti i suoi personaggi. Lessi il racconto È nata una star? e mi piacque molto. Per caso, parlando con Luciana Littizzetto, scoprii che condivideva con me la passione per lui e per quell’opera. Così ho provato a cercare i diritti, senza avere molte speranze a dir la verità: Hornby non aveva mai dato i diritti in paesi non anglosassoni. Per una strana serie di combinazioni, invece, erano stati liberati da una precedente opzione, e allora Beppe Caschetto si è associato con Warner e Nick ha accettato che noi facessimo il film. Credo pure con pretese economiche non eccesive e sono felice del fatto che lui faccia andare tutti i proventi a un’associazione che tutela i bambini autistici. Mica male come sfida scrivere e riadattare uno scrittore di questo calibro. Lo hai incontrato?
Sono autore della sceneggiatura con Massimo Gaudioso e Michele Pellegrini. Spero di incontrare Hornby presto, finora ci siamo parlati solo attraverso gli agenti. Noi gli abbiamo proposto anche la supervisione della sceneggiatura, sperando in qualche perla ulteriore, qualche suggerimento dei suoi. Lui invece, la-
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sciandoci tutta la libertà, si è riservato di vedere il film e basta. Di sicuro ci siamo appoggiati ad alcuni suoi dialoghi meravigliosi, una buona metà del romanzo l’abbiamo usata, il resto è stato a noi costruirlo, dall’ambientazione alle situazioni diverse. Inoltre lascio molto spazio in prova agli attori e da lì prendo molte cose, do spazio alla libertà soprattutto nella preparazione. Per me la sceneggiatura non è il vangelo, ma un punto di partenza.
“Il conformismo è il problema del nostro Paese: ti condanna a un percorso a senso unico” Cosa troveremo di diverso nel tuo film?
Il romanzo è molto sbilanciato sulla madre, anche con analisi impreviste: la superdotazione del figlio, infatti, probabilmente l’ha ereditata dal nonno materno, e questo la costringe a un percorso di riflessione sentimentale e ironico. Il padre, che ha un rifiuto netto riguardo al fatto che il figlio abbia fatto un porno, è in totale polemica con il figlio, su quelle pagine era poco approfondito mentre qui, considerata anche la sua specificità tutta italiana, l’abbiamo fatto crescere. Luciana è un personaggio più vero e realistico e peraltro molto diverso secondo me da quello che le fanno fare di solito al cinema, Rocco invece è più italiano,
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entra in competizione con suo figlio. Da qui nascono situazioni bizzarre ma anche particolari, spiazzanti, soprattutto quando cozzano con l’ipocrita e apparente perbenismo nella nostra società. In questo lavoro c’è la “solita” iconografia iconoclasta di Hornby?
Direi di no, e anche questo mi ha attratto subito. Mi piaceva che qui fosse meno centrale ciò che intrattiene i personaggi, che fossero meno mediati dalle loro passioni e da ciò che consumano come, ad esempio, avveniva in Alta Fedeltà, Febbre a 90° o nel suo ultimo libro, Tutta un’altra musica, in cui una coppia vive idolatrando un cantante in disgrazia. Qui invece ci sono due personaggi della classe media che vengono sconvolti da un evento che in un paese come il nostro turberebbe chiunque: il debosciato figlio diciannovenne che diventa un divo del porno. Quello che mi piace molto è che la pietra dello scandalo è un figlio maschio, non una femmina: spiazza, immagini un padre persino orgoglioso di qualcosa del genere, quando invece una figlia avrebbe scatenato una tragedia. Qui poi parliamo di un ultracinquantenne a cui il vigore fisico comincia a mancare e che scopre un figlio dall’ormone impazzito. Il corto circuito vien da sé. E Pietro Castellitto protagonista e divo porno è un’altra scommessa vinta?
Diciamo che i veri protagonisti sono i genitori: qui è centrale non il fatto, ma l’elaborazione dello stesso, l’accettazione
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in due giorni di questo trauma devastante che alla fine può trovare anche conseguenze positive o piacevoli. Lui comunque è stato molto bravo. E come hai tenuto a bada due mattatori anarchici come Rocco Papaleo e Luciana Littizzetto?
In questo caso sono stati molto disciplinati, forse è valso il fatto che ci conoscessimo tutti e tre da una vita. Sono stati perfetti, professionali e umili, hanno creato la miglior situazione possibile per facilitare il lavoro di Pietro, peraltro. Faccio i complimenti soprattutto a Rocco, perché veniva da un’esperienza bella e fortunatissima come regista. Straordinari, lui e Luciana. Ti piacerebbe portare altri romanzi di Hornby al cinema?
Questo racconto poteva essere portato in Italia con più facilità di molti altri suoi romanzi, in cui la cultura popolare e l’iconografia inglese sono un ostacolo. Febbre a 90° potevi farlo diventare la storia di uno che tiene per il Napoli, tanto per fare un esempio a caso, ma gli altri? Comunque, certo, non mi dispiacerebbe farlo di fronte alla storia giusta: rimane un autore che ama rovesciare gli stereotipi, guardare la realtà spiazzando e cambiando le carte in tavola, con una grande qualità letteraria. Non è mai banale, nella stranezza sa essere realistico ed empatico, anche i suoi personaggi più orrendi possono suscitare curiosità e simpatia.
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spesso ti condanna, di fatto, a percorrere strade a senso unico. Non so se sono stato penalizzato, ma di sicuro è più facile, in questi anni, scegliere un percorso riconosciuto, farsi trasportare dalla corrente, mentre io ho sempre cercato di evitare le etichette. Presto mi piacerebbe puntare di più sull’aspetto drammatico o fare un noir, è un genere che mi affascina.
“Mi piace che qui la pietra dello scandalo sia un figlio maschio: è una cosa che spiazza”
Un cinema troppo conformista, come il nostro paese?
Non ti senti un po’ penalizzato per la sua capacità di essere autoriale e commerciale allo stesso tempo? Soprattutto in un paese che pretende, invece, un’adesione totale all’una o all’altra scuola?
Amo del mercato anglosassone e francofono l’approccio della commedia corale, leggera nella forma e più profonda nei contenuti, e la cosiddetta comédie dramatique. La terza via è quella che scegli tu rimanendo fedele a te stesso: nel nostro paese scegliere commedia o film programmaticamente d’autore
Sì, il conformismo è un grande problema culturale dell’Italia. Penso al mio film sul G8, Ora o mai più: molti non mi hanno mai perdonato che avessi unito il cinema civile alla commedia giovanil-sentimentale, l’essere andato contro opposte ortodossie. Ma la vita è fatta di dramma e commedia, di piccole grandi felicità e di tragedie. Lì forse mi ha creato qualche problema anche il fatto che mi vennero molto bene le scene di Bolzaneto, meglio di quanto potessi prevedere io stesso. E lì è nata l’ipocrisia delle ortodossie, fui attaccato da destra come da sinistra. Non a caso all’estero quel film è stato molto più amato che da noi.
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La vera storia inventata dei Pluto, un gruppo rock italiano che nei Novanta hanno fatto furore. Erano I più grandi di tutti…
Carlo Virzì di Federica Aliano
Ho fatto questo film per tornare a suonare
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arlo Virzì lo abbiamo incontrato al Torino Film Festival, dove il suo secondo lungometraggio, I più grandi di tutti, è stato presentato in anteprima. Simpatico e modesto, nonostante sappia il fatto suo. Non esattamente doti comuni ultimamente… Qualche tempo dopo ci siamo intrattenuti in una conversazione telefonica che sarebbe potuta durare ore: il confronto che ci ha portati a elencare i gruppi rock che amiamo era troppo spassoso per mettere giù la cornetta. I più grandi di tutti, commedia che racconta la storia del gruppo rock-cialtrone Pluto, è proprio come Carlo: niente male davvero, e simpaticissima. Un modo assai grade-
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vole di trascorrere qualche ora, a ridere e a ricordare che gran casino facevamo nei Novanta, sotto al palco dei concerti di gruppi scalcinati, alcuni anche validi, ma tutti con pochi soldi. Lontani dal divismo, lontani dai talent show che portano urlatrici a Sanremo. Il nostro Almost Famous on the road era sulle litoranee. Ed era una gran figata. I più grandi di tutti è una commedia sincera, e anche veritiera.
Ho cercato raccontando la storia di evitare la retorica che di solito c’è quando si parla di rock, non volevo essere trombone, ma mettere a fuoco ciò che c’è dietro. Quando uno si avvicina a quelli che sono
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sul palco, si rende conto che sono diversi da come se li immaginava, che sono più bischeri. Si è cercato di essere spiritosi e divertenti, di evidenziare l’inadeguatezza di quelli che consideriamo eroi, ma che alla fine si arrabattano come tutti. Tu e tuo fratello Paolo avete creato una sorta di factory: lavorate insieme, avete i vostri attori…
Con mio fratello abbiamo cercato di lavorare sotto lo stesso cappello. Gli attori sono miei amici, ho un affetto particolare nei loro confronti e penso di aver contribuito alla loro carriera. Ho collaborato con mio fratello anche al casting dei film, quindi ho scovato Marco Cocci all’epoca di Ovosodo. Claudia Pandolfi era giovane e vista in un solo film… La fortuna di avere un cast che ha quel vero rapporto con la musica è stato un valore aggiunto al film. E poi c’è un vero musicista: Dario “Kappa” Cappanera.
Cappanera è l’unico che non era apparso in un qualche film di mio fratello, a lui ho pensato sin dall’inizio. Quando scrivi cerchi di visualizzare un volto, poi non sempre è quell’attore che interpreterà il personaggio. Stavolta non pensavo a un attore, ma proprio a lui, per la gestualità, ecc. A Livorno è un mito per tutti noi, che siamo stati ragazzini un po’ pippe a suonare. All’epoca pensavamo: perché uno come lui non suona con Springsteen? Era perfetto per impersonare un talento sprecato, anche se lui non lo è affatto.
Insider È stato bello da parte sua mettersi in gioco e raccontare un approccio al rock un po’ guascone.
Non tutti i rocker sono disposti a ridere sul rock e a prendersi in giro, mentre Dario ha capito subito il mio tentativo di non generalizzare e di rendere l’argomento fruibile a tutti. Ha saputo codificarlo per farlo arrivare al pubblico. I Pluto sono un gruppo rock generale. E poi hai Frankie Franki Hi-NRG come non lo abbiamo mai visto prima…
Frankie è stato un lampo di genio, lo dico in maniera un po’ immodesta. Il suo non era un personaggio chiave, era troppo piccolo per essere affidato a lui, ma allo stesso tempo nel panorma dei caratteristi non mi soddisfaceva nessuno. Ho pensato di andare a cercare tra i musicisti e ho pensato subito a Frankie, perché lo conoscevo già. Ha proprio l’aria del professorino, e se vogliamo del nerd. Un appassionato che sa tutto, ha il physique du rôle, con questa sua bonarietà… Ho scoperto che era convincente sulla scena, quindi spero di vederlo presto in altri film. Come ti è venuto in mente Francesco Villa, del duo di Ale e Franz, per un ruolo così diverso da quello che fa di solito?
È un antico teorema per cui i personaggi dolenti li fanno meglio i comici. Cercavo un attore per un ruolo piccolo, e non volevo i soliti nomi. Quello è forse il ruolo meno spiritoso del film, quindi ho chiesto a Franz se voleva fare qualcosa di slegato dalla coppia comica di Zelig e lui è stato
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Su YouTube è disponibile il videoclip “Vado al mare” dei Pluto anche coraggioso: persone così popolari, con un profilo pubblico molto marcato, è difficile che si prestino a cambiarlo. Invece lui si è buttato con disponibilità disarmante. È una delle persone più gentili che abbia incontrato in vita mia. Per la band, i Pluto, avete pensato a tutto: avete anche scritto la biografia del gruppo!
Il corollario del finto repertorio del gruppo è stata la parte più divertente del film. Copertine, foto, articoli dei giornali. Abbiamo ritrovato un reperto, un videoclip del ’96 di Vado al mare, con tanto di logo di Videomusic! Dovevamo dare credibilità alla storia, ci siamo divertiti da morire anche con la costumista, per capire anche
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cosa è rimasto di tutto quello nel loro modo di essere oggi. Anche tu sei un musicista, con gli Sanporaz hai un passato simile a quello dei Pluto?
Ho esperienza di quel tipo là, soprattutto negli anni Novanta. Oggi è molto più difficile campare a quei livelli, o hai successo o lo devi fare come secondo lavoro. Invece nei Novanta c’era molta attività live nei locali, e Videomusic dava spazio e visibilità alla scena rock italiana. Ora c’è Mtv che è la TV dei reality fascisti, non fa nemmeno quasi più musica. Ho fatto parte anche io di quei gruppi che si spaccavano la schiena, giravano in furgoni scassati per poi suonare per pochi soldi di fronte a venti persone. Chi suona lo fa per passione, non per il successo. Mi hanno chiesto se i Pluto sono
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un gruppo “che non ce l’ha fatta”. Ecco, “farcela” non è nelle priorità di chi fa musica rock. La priorità è suonare. E il rock oggi come sta?
Gino Castaldo ha detto che il rock è morto, ma fino a che ci sarà un ragazzino che alza il volume al massimo del suo stereo non curante dai vicini che si lamentano, ci sarà il rock n roll. Tu con cosa alzi il volume?
Sono onnivoro, soprattutto in questa fase della vita, ascolto dagli Slayer a Bach. Anche di italiani ne ascolto parecchi. Credo che il rock però non sia nel nostro dna, abbiamo la tendenza a fare il rock d’autore, non abbiamo mai avuto gli ACDC, noi italiani abbiamo bisogno di esprimere qualcosa. Forse il primo Vasco... Con i Pluto volevo una band in quattro quarti, con dei testi abbastanza stupidi, fra gli Skiantos e Vasco Rossi. Bisogna essere geniali per essere demenziali. Ora che sei al secondo film, non temi ciò che scriverà la stampa? Sarai il piccolo Virzì…
Sono ventidue anni che lavoro nel mondo del cinema, non sono un novellino. Ho imparato il mestiere da vari punti di vista, ho fatto l’assistente, spesso anche non pagato, perché avevo il complesso di non voler approfittare della situazione. E poi con mio fratello fin da piccoli abbiamo fatto tutto collaborando. Quindi non mi sento un esordiente, sono venti-
tré anni che lavoro. Con Paolo abbiamo un rapporto fantastico, che ci ha permesso di interagire, per me è un punto di rifermento saldo, è stato il mio centro sperimentale personale. Come dicevamo prima, una sorta di factory, un circolo virtuoso.
Il cinema italiano degli anni ‘60 era grande perché ti dava la sensazione che fosse uno solo a fare il film, mentre tutti erano amici e creavano gran movimento. Oggi invece siamo tutti divisi nella propria trincea, anche se l’esperienza dei Cento Autori ha creato un legame. Bisogna fare squadra. Oggi è così difficile fare cinema, l’aspetto produttivo è così complicato che è inevitabile che poi si crei una guerra e competizione. Cosa che invece rifuggite con la vostra produzione…
Motorino amaranto è un ufficio frequentatissimo da artisti, ti passano accanto molte persone da cui succhiare ispirazione. Noi vogliamo coinvolgere le persone creative che ci girano intorno, fare scambi fruttuosi.
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Dopo Persepolis, Marjanne e Vincent tornano insieme per un film con attori in carne e ossa. Basta lasciarsi andare e assaporare il loro Pollo alle prugne
Marjane Satrapi e Vincent Paronnaud di Federica Aliano
Della vita, dell’arte, dell’amore
Q
uando ho letto Persepolis ho pianto convulsamente per più di trenta minuti. La rabbia e il dolore che suscitò in me quel gioiellino della Nona Arte raramente sono comparabili ad altre opere. Perciò quando ho incontrato Marjanne Satrapi, l’autrice, la prima parola che le ho detto è stata “Grazie”. Lei, che non si è fatta una fama da simpaticona, è stata gentilissima e socievole. È spiritosa, malgrado quel che si dice, e fuma moltissimo. È iraniana, ma è anche tanto francese. Un meltin’ pot come quello alla base di Pollo alle prugne, diretto ancora una volta con il fedele ami-
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“Il multiculturalismo funzionava ai tempi di Lubitsch e può funzionare anche oggi” co Vincent Parronnaud, che allo spettatore che non ha paura di lasciarsi andare regala sogni colorati in tinte delicate, viaggi popolati da matti, diavoli e giullari. E nemmeno troppo nascostamente, è autobiografico quanto Persepolis, pur prendendone le distanze. Pollo alle prugne ha uno stile completamente diverso, non solo perché non è un film d’animazione, ma perché si muove su tre diversi piani narrativi: la realtà, il ricordo e il sogno. Vincent Paronnaud: Esattamente.
Marjanne e io, pur essendo molto diversi, abbiamo molti punti in comune. Le nostre radici culturali sono comuni, siamo cresciuti con le stesse basi. Sicuramente entrambi non conosciamo limiti, amiamo sperimentare e non mettiamo freni alla fantasia. L’unico limite potrebbe essere lo stile illustrativo, ma il fatto che né io né Marjanne abbiamo studiato cinematografia ci dà anche lì lo stesso approccio all’oggetto filmico: non ci chiediamo mai se qualcosa non funziona, lo facciamo e andiamo avanti, solo in seguito vediamo se funziona. Marjanne Satrapi: Nonostante questo approccio però, abbiamo voluto omaggiare il cinema del passato.
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Infatti mi sembra che citiate Méliès e quello che mi avete appena detto somiglia al suo metodo di allora: sperimentare e sperimentare ancora, senza porre limiti alla creazione artistica. MS: Se ha notato queste affinità, per noi
è un enorme complimento. Ovviamente lui di limiti non se ne poteva perché il suo fu davvero l’inizio del cinema artistico: Méliès metteva in atto tutto ciò che gli veniva in mente. Quando noi abbiamo deciso di realizzare il film, tutti ci dicevano che la voce fuori campo non è più di moda, che non si usa più, che dà un effetto strano allo spettatore. Ma noi, non essendo mai stati studenti di cinema, che un elemento fosse alla moda o meno non lo consideravamo proprio. Poi naturalmente, essendo persone che vivono in questa epoca, abbiamo anche inserito elementi contemporanei. VP: Questo per noi è il nostro primo film, con degli attori in carne e ossa. C’è molta onestà, molto amore, e forse qualche ingenuità. Penso che il pubblico possa sentire molto questo elemento, guardandolo e vivendolo. Se posso permettermi, la bellezza di questo film sta proprio nella sua freschezza. Nel vostro non essere accademici, avete portato freschezza agli elementi classici. MS: Sicuramente questo film è un melò e
personalmente mi sono ispirata a Douglas Sirk, che adoro. Ma certamente in un film di Sirk non ci sarebbe la scena in cui l’uomo che ha deciso di lasciarsi
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Insider sincero rilassate il vostro spettatore, che poi, quando meno se lo aspetta, si ritrova a piangere, disarmato. VP: Sono scelte ben precise che abbiamo
morire e che convoca i suoi figli accanto al letto per comunicare le sue ultime volontà, si sente rispondere dal ragazzino con un peto! Il nostro metodo lavorativo è questo: costruire delle sensazioni e poi demolirle. Certo, anche scherzando su tutto, quando ci lasciamo andare a dodici minuti di puro melò, il pubblico era così rilassato che è stato pronto ad accettarlo. Mi hanno colpito molto i personaggi dei figli. Quando crescono diventano a dir poco esilaranti. MS: Mi sono venuti in mente semplice-
mente osservando la realtà. Capita molto spesso di conoscere dei bambini adorabili e poi rivederli da grandi e sono diventati dei mostri. E quando li vedi non vuoi crederci, ti chiedi com’è possibile che un bambino così carino sia diventato quello che ti ritrovi davanti. Questo è un elemento che lavora sul piano della realtà, poi però abbiamo calcato la mano facendo subentrare un bel po’ di umorismo.
La commozione fa più effetto proprio per questo: voi due con questo umorismo
fatto e ci piace pensare che, sebbene lo spettatore noti il nostro tocco non accademico, non ci prenda totalmente per degli ingenui. Anche questo fa parte del nostro realismo: nella vita spesso si passa dalle risate alle lacrime in pochi minuti. Con questo non voglio dire che questa è la vita vera, ma che nel nostro film non c’è la commozione televisiva da quattro soldi. Non vogliamo prendere in giro gli spettatori come fa la TV: lavoriamo sui piani emozionali più di tutto.
Nonostante sia il vostro primo film live action, avete nel cast attori di grande esperienza. Come li avete gestiti? Sono un bel meltin pot, non solo di lingue, ma soprattutto di culture ed esperienze davvero diverse. MS: Innanzitutto noi volevamo i migliori,
abbiamo avuto la fortuna che tutti hanno accettato da subito. Temevamo per Amalric, perché si diceva che non voleva recitare in un film subito dopo averne fatto uno da regista. Invece anche lui, aveva letto i libri, gli piaceva molto la storia, ha accettato subito. Noi abbiamo una visione del mondo che è un po’ vecchia, ma anche un po’ scomparsa. Il nostro regista faro è Lubitsch. Lui era tedesco, è emigrato in America per girare un film ambientato a Praga con le scenografie ricostruite in studio. Prese tutti attori americani, ma con origini diverse, e fece loro interpre-
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tare personaggi cecoslovacchi. Alla fine realizzò un film americano con una sensibilità europea. Questo era qual che volevamo fare, e abbiamo realizzato un film che parla dell’Iran, ma è stato interamente girato in studio a Berlino, con attori che vengono da ogni parte del mondo e che parlano in francese con mille accenti, in un film di produzione francese. Quindi ecco la prova: il multiculturalismo funzionava allora e può funzionare anche oggi. L’ossesione della creazione per un artista e quella per la perfezione nella creazione è il tema centrale nel film. VP: Nasser Ali è un po’ il simbolo di ogni
artista e rappresenta tutte le ossessioni artistiche nel bene e nel male. Tutti noi artisti siamo, chi più chi meno, ossessionati dalla perfezione delle nostre opere, però va tenuto presente che la perfezione
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“Si diceva che Amalric non volesse tornare subito a recitare, dopo aver diretto un film, invece ha accetato immediatamente” non è di questo mondo. Noi dobbiamo quindi anelare al suo raggiungimento, ma non possiamo davvero pensare di raggiungerla. MS: Nei limiti, cerchiamo di sforzarci e di arrivare il più lontano possibile. Al contrario di quanto si vuole far credere recentemente, noi artisti non siamo pigri, e lavoriamo moltissimo per raggiungere ciò che aneliamo. Già, anche perché, rispetto al vostro personaggio, lui ha uno Stradivari che già si avvicina da solo alla perfezione, mentre voi usate delle “umili” matite…
Già… si dice che Paganini raggiunse la perfezione, ma noi non siamo Paganini, possiamo solo provarci.
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Iberia, penisola dell’horror, e l’ultimo rappresentante del genere esordisce prendendo subito la strada del 3D
Sergi Vizcaino di Alessandro De Simone
“Sono cresciuto a Goonies e slasher”
P
resentato al Noir in Festival di Courmayeur 2011, Paranormal Xperience 3D è il film d’esordio dell’ennesimo regista di genere spagnolo, ormai conclamata patria europea dell’horror. Sergi Vizcaino racconta, con l’ausilio delle tre dimensioni, l’avventura di un gruppo di giovani che finiscono per scontrarsi con dei terribili fantasmi del passato in un villaggio abbandonato. Ovviamente le cose non sono così semplici e Vizcaino ha cercato di rendere la storia più complessa e interessante, pur rispettando in tutto e per tutto le regole basilari dello slasher movie: una bella e fragile protagonista, un cast femminile ad alto tasso erotico, personaggi maschili tagliati con l’accetta. O con altri utensili, a seconda delle esigenze.
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Ma perché ai registi spagnoli piace così tanto far paura agli spettatori?
È vero, credo sia perché ci piace provocare una reazione nello spettatore, e la paura è un elemento basilare nel cinema di genere. Ma non è l’unico obiettivo, serve anche a soddisfare il desiderio del pubblico di entrare nel film identificandosi nei personaggi, partecipando sensazioni ed emozioni dei protagonisti. La storia di base di Paranormal Xperience è molto dura, parliamo di violenza familiare, un tema che per il cinema mainstream è quasi pornografico, soprattutto in paesi cattolici come Italia e Spagna, in cui l’istituzione della famiglia ha un che di sacro.
Il mio è un film di genere, ma la cosa più importante per me era raccontare
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una storia che effettivamente è molto dura, perché ognuno di noi ha un lato oscuro nella sua vita e quindi è facile per tutti riuscire a identificarsi, anche in una pellicola di questo tipo. È come quando si cerca di dare una medicina a un bambino e lui non la vuole: si cerca di addolcire la pillola. È più o meno lo stesso concetto che ho seguito io per raccontare un tema durissimo come la violenza familiare nei confronti di una bambina, che diventa in realtà il corpo centrale del film attorno al quale abbiamo costruito il genere, uno slasher che mi piace considerare “europeo”, più complesso rispetto al modello americano. Le location del film sono bellissime, da Barcellona al pueblo abbandonato dove si svolge gran parte del film e le grotte dove i protagonisti entrano all’inizio del film.
Questo è un film dal budget molto limitato, quindi dovevamo trovare delle location che ci permettessero di non spendere troppo. Abbiamo avuto la fortuna di trovare un piccolo paese abbandonato non lontano da Barcellona che era in realtà una fabbrica tessile attorno alla quale erano state costruite le case degli operai, creando così un borgo vero e proprio. Anche la chiesa dove abbiamo girato parte degli interni era lì, mentre per gli esterni abbiamo avuto un po’ di problemi con il suono, perché c’è un’autostrada a poche centinaia di metri, quindi molte cose le abbiamo poi dovute fare in missaggio successivamente. Le
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grotte sono in realtà le miniere di sale di Cardonas, famose in tutto il mondo e ancora funzionanti, un posto perfetto visto che si tratta di grotte naturalmente luminose proprio perché le pareti sono ricoperte di sale. Una luminosità che vi serviva soprattutto per gestire il 3D, immagino. Com’è stato lavorare con questa tecnica?
Il nuovo 3D apre moltissime possibilità tecniche ed espressive e in un certo senso chi si sta cimentando con questa nuova tecnologia adesso è un pioniere, visto che è ancora un mezzo molto complicato, lento e che necessità di precisione assoluta, perché basta un milli-
“Sono convinto che il 3D sia il futuro del cinema, anche se al momento il tema è molto delicato”
Interview
Insider C’è un’ispirazione di genere iberica a cui anche tu hai attinto?
In realtà il cinema che mi ha molto influenzato è quello americano degli anni Ottanta e Novanta, da I Goonies a Nightmare. Ho visto anche molto cinema spagnolo, ma la struttura filmica su cui costruisco il mio lavoro viene tutta dall’America, è con quella che sono cresciuto.
“Ognuno di noi ha un lato oscuro nella vita, quindi per il pubblico è facile identificarsi”
metro d’errore perché la scena non sia poi utilizzabile in post produzione. Ma a parte questo, la possibilità di filmare un mondo immaginario ha dato stimoli incredibili a tutta la troupe. Nessuno di noi aveva mai girato in 3D ed è stato un lavoro creativamente favoloso, così come lo sono state le precedenti innovazioni come il sonoro, il colore e in tempi più recenti il dolby surround e il digitale. Sono convinto che il 3D sia il futuro del cinema, anche se il momento è molto delicato, per i suoi costi, per gli incassi e per l’uso che viene fatto della tecnologia. Il tempo ci dirà come andrà a finire. Negli ultimi anni ho intervistato molti registi spagnoli e ho notato quanto vivo sia il vostro movimento cinematografico.
Il sistema cinema statale in Spagna ha funzionato molto bene per anni. Com’è adesso la situazione?
Il finanziamento pubblico sta segnando un po’ il passo, perché molti se ne sono approfittati per poter solo guadagnare realizzando film di basso livello tenuti in poche sale per il tempo necessario per potersi intascare i soldi. Sono convinto che con il tempo questo sistema sparirà, perché il cinema è un’industria e come tale deve essere concepita, chi vuole produrre un film deve rischiare i suoi soldi ed essere convinto del prodotto che vuole portare in sala, contando sul guadagno che il pubblico può generare staccando i biglietti. Hollywood funziona così da sempre e credo che anche il cinema europeo seguirà questa strada. In Spagna sarà probabilmente traumatico, ma lo vedo anche inevitabile.
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Dopo aver sfiorato gli Oscar con Crialese, l’attore siciliano è uno dei protagonisti di Magnifica presenza di Ferzan Ozpetek
Beppe Fiorello di Alessandro De Simone
“Fatemi essere un protagonista”
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li uomini del Sud sanno essere speciali. Probabilmente perché abituati a soffrire e lottare più degli altri, almeno in Italia. Di regola, comunque, quando un napoletano, un pugliese, un siciliano, un lucano o un calabrese si mettono in testa di fare una cosa, ci riescono, e pure bene, anche con un decimo delle risorse necessarie. Nel caso di Beppe Fiorello, le risorse c’erano, bastava dar loro il giusto sfogo. Nato artisticamente all’ombra del fratello Rosario, Giuseppe non ci ha messo molto a trovare la sua strada, diventando nel corso degli anni uno degli attori televisivi più importanti
del nostro panorama, interpretando personaggi come Salvo D’Acquisto, Valentino Mazzola e uno che è il pretesto per iniziare la chiacchierata che The Cinema Show ha voluto fare con lui per parlare di Magnifica presenza, il nuovo film di Ferzan Ozpetek. Giuseppe, c’è un tuo ruolo che amo particolarmente, da ciclista incallito: quello di Sante Pollastri.
Mitico, è stata una bella avventura interpretare Sante, e anche la storia era raccontata in modo piacevole, Lodovico Gasparini ci aveva messo un che di fumettistico.
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“Volevo essere il protagonista di Un giorno perfetto, ma Ferzan mi rispose che avrei avuto la mia occasione” Tempi lontani, come quelli da cui arriva Filippo Verni, il personaggio che interpreti in Magnifica presenza.
Filippo Verna è un fascinoso capo comico di un’importante compagnia teatrale degli anni a cavallo tra la Seconda Guerra Mondiale e la ricostruzione. Allure ammaliante alla Rodolfo Valentino, Filippo tiene le redini della compagnia, detta le regole attoriali e si intuisce che ha avuto una travagliata storia d’amore con Lea Marni, la primadonna interpretata da Margherita Buy, con ancora strascichi di sentimento. È un ruolo che mi ha divertito molto, perchè mi ha dato in un certo senso la possibilità di tornare a teatro, anche per il tipo di recitazione, più impostata. Ci ha aiutato molto in questo senso anche il costumista Alessandro Alai, che mi ha proposto la piacevole sofferenza d’un bustino al limite della respirazione che mi teneva su con la postura corretta. A questo proposito, perché non c’è mai stato un seguito alla tua unica e fortunata esperienza teatrale?
La risposta è semplice il teatro mi ha tenuto in considerazione anche più del cinema, sono io che spesso non ho po-
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tuto per ragioni di tempo, in altri casi non mi piacevano i testi che mi proponevano, e soprattutto il più delle volte ho avuto paura. Quell’unica esperienza con Delitto per delitto è stata straordinaria sotto tutti i punti di vista, da quello umano, per il bellissimo rapporto con Alessandro Gassman e Alessandro Benvenuti, a quello professionale, fino a quello con il pubblico, che però fa anche spavento per molti versi. E poi, lo so che può sembrare banale, non mi piaceva dovermi allontanare troppo dalla mia famiglia e dai miei figli, che all’epoca erano piccolissimi e per me era importante essere loro vicino per seguirne la crescita. Tra te ed Elio Germano non passano anni a sufficienza per dire che può essere tuo figlio. Che rapporto avuto sul set di Magnifica presenza?
Un rapporto di grande rispetto e poche parole, perché non l’ho voluto mai disturbare troppo sul set. Elio raggiunge una concentrazione che non avevo mai visto in un collega, una cosa affascinante. In più di una giornata mi sono trovato a guardarlo di nascosto per diversi minuti, per capire di più di questo ragazzo che a ogni ciak tenta di dare il massimo e ci riesce sempre con grande naturalezza e scioltezza. Davanti a lui mi sentivo un attore alle prime armi e mi dicevo “Minchia, guarda quanto è bello il mio mestiere fatto da Elio Germano”.
Interview Siete due attori diversi come impostazione.
Sì, io lavoro molto di pancia, lui di testa, vuole conoscere i suoi personaggi, si fa tante domande, le ha fatte a Ferzan sul set di questo film. Abbiamo estrazioni diverse, lui viene dal Centro Sperimentale, io dal mio paese in Sicilia, la mia scuola è stata lì, guardando la gente, e adesso ho studiato guardando Elio. Eppure al cinema hai interpretato tanti ruoli notevoli, da quello ne L’ultimo capodanno di Risi al Niki Renda di C’era un cinese in coma, dove da solo reggi tutto il film.
Questa è una cosa che mi disse anche Carlo Verdone quando lo finì, mi disse che mi ero fatto il film da solo. In Terraferma di Crialese poi unisci il meglio e il peggio dell’Italia in un unico personaggio.
Mi fai commuovere dicendomi questa cosa, è proprio così che l’ho voluto costruire. Nino è un archivio storico della mia vita, ho tirato fuori gli anni passati nei villaggi vacanze e il ragazzo che parla con i compaesani al bar, cercando di farlo appassionato, lavoratore, ma anche qualunquista per convenienza. Torniamo a Magnifica presenza. Com’è stato lavorare con Ferzan Ozpetek?
Ferzan sul set è divertente e coinvolgente, serio ma allo stesso tempo giocoso, spiritoso e capace di dare ascolto a tutti. Tra Ferzan e me poi c’era un patto, perché quando lessi il romanzo da cui è
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stato tratto Un giorno perfetto, gli scrissi chiedendogli l’opportunità di provarmi per il personaggio del protagonista che poi interpretò Valerio Mastandrea. Mi rispose di persona tempo dopo, a film fatto, gli dissi che prima o poi lo volevo stupire e alla fine l’occasione è arrivata. Mi auguro che il rapporto possa continuare, così come con Crialese. Domanda di rito: progetti futuri.
Quello a cui tengo di più mi vede come produttore, una commedia per il cinema dal titolo Un lontano parente che sto sviluppando con tre giovani sceneggiatori. Lo script è pronto, stiamo facendo il business plan e poi crecheremo qualcuno che lo voglia distribuire. È la storia di un ragazzo che si innamora di una ragazza, solo che lui non ha nessuno e assolda un manipolo di attori scalcagnati per farsi una finta famiglia, una storia divertente ricca di gag ed equivoci. Come attore, invece, ho ricevuto una bellissima proposta da Mimmo Calopresti per il suo prossimo film, spero di farcela a incastrare le date. Un’ultima curiosità. A Venezia nel 2010 c’era un cortometraggio diretto da Leonardo e Simone Godano, Niente orchidee, che hai supportato molto.
Te lo dico sinceramente: non capisco come mai due talenti come Simone e Leonardo non hanno ancora avuto la loro grande occasione per il cinema, non si può far finta che questi due non esistano.
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Anticipazioni, novità e revival per chi ama le serie TV The Sound of Music. Serialmente Smash. Ovvero, come ti costruisco il musical Nei peggiori bar di Memphis Fa il poliziotto di giorno, canta Elvis di notte: Dwight Hendricks ha il Memphis Beat Touch: La trama spezz(ett)ata Il ritorno di Kiefer Sutherland in un serial: dopo l’assaggio del pilot, da marzo su Fox C’è molta magia là fuori Prodotta da Steven Spielberg, su SkyUno è arrivata The River, serie horror girata come un hidden camera movie
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The Sound of Music. Serialmente Smash, ovvero come di Mattia Nicoletti
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here’s no business like show business. Era il 1954 quando Marilyn interpretava Follie dell’Anno (titolo italiano) insieme a Donald O’Connor, e quel film ambientato nei teatri dove venivano messi in scena i musical è di certo una delle fonti di ispirazione della serie televisiva Smash, in cui viene fotografato il mondo di Broadway attraverso la creazione di un musical sulla vita di Marilyn Monroe. Smash nasce da un’idea originale di Steven Spielberg, che grazie al supporto di Robert Greenblatt (attuale chairman dell’NBC, autore di serie di successo e produttore teatrale) e alla scrittura di Theresa Rebeck (esperta in musical), si è potuto trasformare in uno dei TV show
ti costruisco il musical. Su Mediaset Premium più interessanti della stagione. La serie infatti, il cui pilota è costato 7.5 milioni di dollari, mette insieme molti elementi che mirano a coinvolgere un pubblico adulto in bilico tra passato e presente. La musica, prima di tutto, che con Glee è diventata una fonte di business non indifferente e un importante veicolo di comunicazione (il numero di singoli di Glee entrati nella chart USA sono superiori al record stabilito dai Beatles). Per la colonna sonora di Smash, composta da cover e canzoni originali, è stata affidata a Marc Shaiman e Scott Wittman che hanno
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una grande esperienza sia a Broadway che sullo schermo. Anche qui i numeri musicali classici si alternano a versioni rieditate tra cui ci sono Beautiful di Christina Aguilera, Grenade di Bruno Mars e Rumors has it di Adele. Nel plot invece gli stereotipi delle figure presenti a Broadway strizzano l’occhio alle riviste hollywoodiane e aiutano lo spettatore a riconoscere un universo che hanno visto molte volte in scena. E così il compositore gay, l’assistente impiccione, il grande coreografo seduttore, il produttore in cerca di denaro, e le due cantanti in competizione, una perfetta sconosciuta alle prime armi e un’abituale frequentatrice del palcoscenico in cerca del primo ruolo da protagonista, sono rappresentativi di ciò che è oggi, e anche ieri, il musical. Il musical rappresenta per l’America quello che l’opera rappresenta per l’Europa: la tradizione e la storia. In particolare la golden era di questo genere, tra gli anni ‘40 e i ‘60 idealizzava l’American Dream, e la speranza (quindi la positività nei confronti del futuro). In Smash poi, per ribadire l’importanza del “united we stand” vengono utilizzate nel musical icone leggendarie a stelle e strisce, come la già citata Marilyn, Joe DiMaggio (il baseball è una delle filosofie di vita più
consolidate per gli statunitensi), Kennedy e Arthur Miller. Non è difficile credere quindi che dietro un progetto simile ci sia uno come Spielberg, che finalmente in Smash, dopo i flop di critica (e in parte di pubblico) di Terra Nova, Falling Skies e The River, in cui, almeno in due casi il family drama annacquava i temi principali, ritorna a quel suo modo di raccontare il suo paese, attraverso la storia (The Pacific, lo faceva alla perfezione) vista con gli occhi dell’attualità. In un musical, tra le altre cose, sono fondamentali gli interpreti, e quelli selezionati per Smash sono molto vicini alla perfezione. Megan Hilt, dalle forme e movenze molto marilynesque, è Ivy Lynn, la performer navigata. Katharine McPhee, giunta seconda nella quinta edizione del talent show American Idol 2006 con alcuni dischi alle spalle, è Karen Cartwright, la newcomer. Jack Davenport (lo scienziato di Flash Forward) è Derek Wills, il coreografo geniale e womanizer dall’accento british. Anjelica Huston è Eileen Rand, la produttrice del musical in lotta con se stessa e con l’exmarito per raccogliere il denaro sufficiente. Christian Borle, attore molto noto a Broadway, è Tom Levitt, co-autore del progetto. Debra Messing (la Grace di Will & Grace) infine interpreta con la sua indecisione il doppio ruolo di Julia Houston, autore workaholic e moglie e madre in una famiglia avulsa dalle luci dei riflettori. Finora Smash è un orologio svizzero, giusto equilibrio tra palcoscenico e vite personali, e non è azzardato pensare che se gli ascolti daranno ragione alla serie e se le musiche avranno successo, la prima stagione di Smash si possa trasformare in un vero musical di Broadway.
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Nei peggiori bar di Memphis di Ludovica Sanfelice
Fa il poliziotto di giorno, canta Elvis di notte: Dwight Hendricks ha il Memphis Beat
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uando Marilyn Monroe torna alla ribalta, George Clooney e l’amico Grant Heslov puntano su Elvis Presley. Sono loro infatti, con la Smokehouse, i produttori esecutivi di Memphis Beat, serie TV del cable channel TNT, che il New York Times ha iscritto in quella Slow Television che promuove una narrazione fatta di suggestioni e atmosfere. Ma come si lavora sulle impressioni? Attraverso l’ambientazione, per esempio. E se c’è di mezzo The King, c’è di mezzo anche Memphis: una città stanca e decadente come l’Elvis degli ultimi giorni. Qui deve muoversi un personaggio, che per fare un altro esempio, dovrebbe amare il pensiero autonomo e manifestare qualche stranezza. Ed ecco Dwight Hendricks, Jason Lee, un poliziotto placidamente anarchico che dopo il divorzio è tornato a vivere con la sua adorata mamma, Celia Weston, una donna del Sud che gli ha insegnato a trattare le signore con rispetto. Ciò che però lascia
un graffio è che, una volta slacciata la fondina, il detective ama salire sul palco di qualche localaccio della città per cantare Elvis. No, lui non è uno di quei fantocci che si credono la reincarnazione del rocker e ti obbligano a interrogarti sui misteri più irrisolti della cultura americana. È più che altro un’anima blues, un nostalgico che si limita a rendere omaggio alla sua grandezza con la costanza di una messa serale. Una messa cantata. E così si arriva al terzo esempio, perché senza la musica che atmosfera potrà mai essere creata? E ciò che a Memphis proprio non manca è la musica. Da manuale perciò. Peccato che gli ingredienti non bastino a creare un piatto gustoso. Forse perché sono scaduti. C’è infatti qualcosa di disfunzionale in questa serie, proprio a partire dal setting: Memphis non è Memphis bensì qualche dintorno di New Orleans. Inoltre l’immagine che viene offerta della città si allaccia a luoghi comuni per turisti, generando un effetto fasullo che
Series fa tanto Pizza-Pizza-Mandolì. Anche Dwight è un prototipo abusato nella disinvoltura con cui scansa le regole, e il rapporto conflittuale con il nuovo capo in carica, interpretato da Alfre Woodard, che prova a domarlo ma deve arrendersi al suo indiscutibile intuito, non è di certo una dinamica fresca fresca di giornata. L’intuizione felice del curioso hobby serale risulta così artificialmente incastonata su un procedural di genere crime che al contrario ha un carattere niente affatto originale. Come un brillante su un anello di plastica. La colonna sonora, no, quella è bellissima: Otis Redding, B.B. King e, neanche a dirlo, Elvis che a tratti ispirano la sceneggiatura. I dialoghi migliori sono a ben vedere quelli che rendono omaggio alla musica. Come nell’episodio pilota dove il caso da risolvere riguarda una leggenda della radio locale cui Dwight dichiara tutta la sua devozione: “Se non fosse stato per lei che trasmetteva un certo Sam Cooke, in un certo pomeriggio, con il clima giusto, tuo padre avrebbe potuto non lanciare quella lunga occhiata a tua madre. E tu potresti non essere mai nato”. Ma anche qui purtroppo lo scivolone è dietro l’angolo se le rituali performance con cui Jason Lee conclude ogni episodio vengono doppiate. Memphis Beat non ha superato la scure dei tagli ed è stata cancellata lo scorso ottobre dopo due stagioni, per un totale di venti episodi all’attivo. Resta purtroppo il sapore dell’occasione persa cui neanche il triste e immenso spettro di Elvis riesce a porre rimedio. Sarà colpa dell’attesa creata, che tra le suggestioni è la più forte. In Italia la serie è su Premium Crime dal 1 marzo.
Sulle tracce di Elvis
The King is alive. È innegabile la traccia che Elvis ha lasciato nell’immaginario di tutti, e in particolare nella vita di molti. Come in quella di Steve Rino (il nome non tragga in inganno, è italianissimo), che dopo il corposo volume Elvis Presley Teenage Hero, ha realizzato insieme a Bob Rush la sua seconda raccolta di documenti, articoli di giornale e innumerevoli fotografie sul Re del Rock. Elvis June Tour 1973 – A Unique visual view of Elvis’ live performing in 1973, questo il titolo del bel volume hard cover, che purtroppo è a tiratura limitatissima, destinato ai collezionisti più appassionati e acquistabile solo contattando l’autore. Noi di The Cinema Show ci siamo accaparrati una copia in redazione, e consigliamo a tutti i fan di Elvis di fare lo stesso.
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La trama spezz(ett)ata di Andrea Fornasiero
L’
era televisiva post-Lost ha visto una sorta di empasse per le serie dei network a lunga gittata e con elementi fantastici, da FlashForward a The Event a Visitors tutte franate nel giro di una o due stagioni. Non è un caso che la sola a sopravvivere, pur tra mille difficoltà, sia Fringe, la cui struttura è molto spesso episodica, come si faceva ai bei tempi di X-Files con le varie puntate sul mostro della settimana. L’ibridazione tra gli episodi autoconclusivi e una più lunga trama orizzontale è così il nuovo trend, cui partecipano i due nomi
Il ritorno di Kiefer Sutherland in un serial: dopo l’assaggio del pilot, da marzo su Fox
di punta del periodo Lost: JJ Abrams con Alcatraz e ora il Tim Kring di Heroes con Touch. La sua nuova serie, interpretata da Kiefer Sutherland, vede protagonisti un padre proletario e un figlio, apparentemente autistico, che non si lascia toccare ma capace di vedere attraverso i numeri la connessione tra tutte le cose e le persone, fino a prevedere persino la trama dal fato. La serie, dal pilot trasmesso lo scorso 25 gennaio ma i cui episodi successivi si vedranno solo dal 19 marzo, appare estremamente ambiziosa, quasi un incrocio tra un’iconografia à
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la Malick, un assunto che ricorda Knowing – Segnali dal futuro e uno sviluppo vicino alla coralità transcontinentale dei film di Iñarritu. D’altra parte sono impressioni ingannevoli: solo sigla e locandina rimandano a The Tree of Life, inoltre le immagini sono montate in modo ben diverso, come in videoclip, la spietatezza di Knowing è soppiantata da una sorta di ottimismo New Age verso la sensatezza sfuggente, ma presente, del tutto. Le connessioni tra personaggi lontanissimi sulla scia delle sceneggiature di Arriaga si fanno però assai più esplicite e immediate di quanto piacerebbe allo scrittore messicano. Dunque, più dell’influenza di modelli alti e altri, emerge il marchio di Tim Kring, su un gruppo sparso ai quattro angoli del mondo ma interconnesso dalle trame del
destino, così come la fiducia sull’evoluzione dell’umanità, erano tutti elementi di Heroes. Le serie hanno però impostazione molto diversa: già il pilot di Touch risolve i rapporti tra i personaggi che ha introdotto, in linea con le interviste di Kiefer Sutherland dove la serie è definita un procedural. Certo ci sono l’elemento fantastico e una traccia narrativa che si sviluppa di puntata in puntata, ma a farla da padrone sono soprattutto i racconti autoconclusi di ogni episodio, per seguire i quali non è necessario tenere a mente una complessa continuity. Il ritorno in TV di Sutherland lo vede poi in panni diversi da quelli di Jack Bauer, eppure non ai suoi antipodi. Martin Bohm non sarà un agente del CTU, ma lotta comunque con spirito martire contro cose molto più grandi di lui. Martin è poi segnato da una situazione familiare difficile: è un vedovo dell’11 settembre e dunque del terrorismo, come la moglie di Jack era stata uccisa da Nina nella prima stagione di 24. Inoltre ha un rapporto difficile con il figlio, dove Jack aveva non pochi problemi con la figlia. A differenza che in 24, in Touch non ci sono torture né esplosioni, ma un dramma familiare con un padre triste, una bella assistente sociale, un figlio inavvicinabile e una sorta di scienziato dalle strane teorie (interpretato da un sorprendente Danny Glover). Il pilot vanta ottime qualità produttive e ha avuto buoni ascolti, ma quanto lunghe siano le gambe della serie rimane ancora tutto da vedere. A ogni modo, se anche la corsa dovesse interrompersi, non finirà in medias res. E per il pubblico scottatosi con gli scadenti payoff e il finale monco di Heroes non è rassicurazione da poco.
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C’è molta magia là fuori di Emanuele Rauco
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n Italia è arrivato il 1° marzo su SkyUno, in America è cominciato un paio di settimane prima: è The River, la nuova serie horror di ABC creata da Oren Peli (quello di Paranormal Activity) assieme a Michael R. Perry per la produzione esecutiva di Steven Spielberg. Un ottimo esempio di tecnica innovativa e tensione classica. La trama racconta di Emmet Cole, uno scienziato che in TV cura una trasmissione di scoperte scientifiche agli angoli del mondo. Ma un giorno sparisce. Moglie e figlio sono disperati e ormai rassegnati alla morte quando il suo segnalatore satellitare emette un suono. È tempo di tornare a cercarlo. E visto che ci sono pensano anche di riprendere il tutto per una trasmissione televisiva. Scritto da Peli e Perry con Michael Green (Heroes) e diretto
Prodotta da Steven Spielberg, su SkyUno è arrivata The River, serie horror girata come un hidden camera movie da Jaume Collet-Serra (Unknown), l’episodio pilota di The River è un ottimo punto di partenza, che mescola l’avventura stile Fitzcarraldo con le tecniche di ripresa mutuate dal più famoso prodotto di Peli, ma riadattati al formato reality show. Infatti tutta la serie è filtrata dalle telecamere degli operatori della trasmissione televisiva e il racconto si apre con la classica scritta che spiega come ciò che stiamo per vedere sia il girato ritrovato di quella trasmissione: una premessa che suggerisce legami con The Blair Witch Project,
Series ma che in realtà – anche per l’ambientazione nella giungla – ricorda più l’estremo Cannibal Holocaust di Deodato, punto di partenza di tutto il reality horror contemporaneo. Certo, The River, un po’ perché prodotto da una TV generalista, un po’ per una questione di budget ed effetti speciali, non può essere quella pietra dello scandalo – teorico e orrifico – che fu il film di Deodato. Ma anche con ambizioni più basse, la serie riesce a essere un bel progetto di orrore e avventura: la ricerca del dottor Cole si concentra in un tratto di Rio delle Amazzoni – chiamato Boyuna – che è un ricettacolo di magia e mostri a cui Cole stava dando la caccia prima di sparire, come dimostrano i video mostrati all’equipaggio dalla figlia di un cameraman sparito con il dottore, scivolando in un delirio sciamanico inquietante, mischiato con stralci di orrore e morte (“Più ci addentriamo nella Boyuna, più le leggi della fisica vanno in pezzi”, dice Emmett nel video). E gli elementi tipici dell’avventura per mare, la scoperta, il tesoro, l’ignoto della natura si fondono con l’orrore degli spiriti, delle creature mistiche e soprannaturali che potrebbero aver rapito il dottore e che ora cercano sangue, come quella che sparisce dopo essersi rifugiata dentro una panicroom saldata dall’esterno. Peli, ma non dimentichiamo l’apporto dell’esperta regia di Collet-Serra, riesce come e meglio che in Paranormal Activity a gestire l’apparente sensazione di spontaneità, di realizzazione in presa diretta, che rimanda direttamente a reality show naturalisti sullo stile Nat Geo Wild, facendo anche una riflessione e una parodia su quel modo di raccontare e rap-
presentare la natura, con l’uomo sempre e comunque dominatore: qui invece, l’uomo deve affrontare a viso aperto la propria inferiorità rispetto alla “magia” e grazie a un uso sapiente del montaggio (di Tim Alverson e Alan Cody), che fa apparire l’accuratissima messinscena come frutto di più telecamere contemporaneamente, The River riesce a rileggere il linguaggio televisivo e sorprendere con trovate visive efficacissime, come l’attacco finale e l’operatore preso in volo da uno dei “mostri”. Peli e soci non giocano a fare Lost, che pare ormai uno degli sport più praticati dai produttori contemporanei, ma restano saldi all’horror e al romanzo d’appendice classici, seppure rileggendoli con occhio iper-moderno. E per ora, hanno colto nel segno.
Monthly Movie Magazine
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