The Cinema Show #15

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The Artist

* Mosse vincenti * Midnight in Paris * Miracolo a Le Havre

the first iPad movie magazine n. 15 • DICembre 2011

Le idi di marzo: quoque tu Ryan Exclusives * Oliver Stone * Robert Benton

Rising

Star Isabelle Adriani

Sherlock Holmes: Gioco di ombre

L’anima nera dell’America

Clint Eastwood e i file segreti degli Stati Uniti



Dark Christmas

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on vogliamo essere disfattisti e negativi. Non vogliamo parlare della crisi che attanaglia il nostro paese, non abbiamo intenzione di dire che sarà un gramo Natale. A The Cinema Show piace il Natale, e non perché tutti sono più buoni, ma per il panettone, il torrone, la tombola e i regali sotto l’albero. Anche per tutte queste cose, certo, ma soprattutto perché escono tanti film, il pubblico riempie le sale e non c’è niente di meglio che vedere spettatori felici davanti a uno schermo cinematografico mentre le luci si abbassano e partono i titoli di testa. Questo Natale ha dei piacevoli toni scuri, dal noir al dark, che lo rendono molto intrigante, e lo abbiamo voluto sottolineare nell’ultimo numero del 2011 di The Cinema Show. Abbiamo anticipato l’anno nuovo dedicando la copertina a uno dei più grandi cineasti viventi, Clint Eastwood, che con J.Edgar racconta un lato molto oscuro della storia americana, che si collega a Le idi di marzo, film di un altro attore e regista che ha le potenzialità per essere, fra molto tempo, un degno erede dello straniero senza nome. Scure sono le ombre del secondo Sherlock Holmes firmato Guy Ritchie, ancora con la coppia Robert Downey-Jude Law, nero è l’oro dello sceicco Antonio Banderas, noir è Courmayeur e black and white The Artist, un po’ come la neve e la notte. E se il cinema non vi basta, il giorno di Natale lo potete passare in salotto con tutta la famiglia godendovi su Fox C’era una volta,

una serie TV fantasy in cui è il lato oscuro delle fiabe a essere protagonista assoluto. Insomma, abbiamo scelto di essere degli ottimisti di genere, ma questo non ci ha impedito di fare tanti buoni propositi per l’anno nuovo, che secondo i maya e Roland Emmerich sarà l’ultimo. Ma per ora noi preferiamo concentrarci sui tanti film che attendiamo trepidando, dallo scontro supereroistico tra Spider-man, Batman e i Vendicatori, ai ritorni in 3D di Star Wars e Titanic, ma anche cinema italiano, con titoli come Romanzo di una strage, ACAB e Diaz che nei primi due mesi dell’anno segneranno un importante ritorno all’impegno civile da parte della nostra produzione, raccontando storie dai molti lati oscuri. Alla fine sempre lì torniamo. Sarà perché guardare nel buio risveglia i nostri sensi, le nostre passioni sopite, ci impaurisce e ci affascina. Alcuni anni fa alla Tate Modern di Londra c’era un’installazione eccezionale: un gigantesco container dentro cui entrare e camminare nella più totale oscurità fino alla parete. Dopo pochi passi ci si sentiva smarriti, dopo pochi metri impauriti, verso la fine elettrizzati e quasi con la speranza che quell’emozione non finisse mai. Il cinema è così, e lo è ancora di più quando devi confrontarti con un oscuro scrutare. Buon Natale da tutti noi e come sempre… Stay in TOUCH! Alessandro De Simone Editore


contents

Editoriale Dark Christmas How It Works La guida a tutti nostri touch

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Anticipazioni, novitĂ e revival per chi ama le serie TV


The Last Picture Show

Columns

Ken Russell l’anarchia dell’estremo di Alessandro De Simone

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e n’è andato anche Ken Russell e il cinema perde un altro pezzo di quella stagione magnifica che sono stati gli anni Settanta, decennio figlio, per fortuna ribelle, del normalizzante ‘68, che come tutte le rivoluzioni o presunte tali ha generato solo una diversa forma di borghesia. Russell la sua rivoluzione l’ha fatta prima, frequentando gli ambienti del Free Cinema e costruendo una poetica personale in cui hanno sempre avuto un ruolo preminente la danza e soprattutto la musica. Liszt, Tchaikovski, Wagner, Strauss: tutti sono stati portati sullo schermo, in forme diverse, da Russell, e gli Who e Rick Wakeman (il tastierista degli Yes, per capirci) sono stati suoi complici in occasioni diverse. Una carriera controversa quella di Russell, divisa tra il suo desiderio di stupire e scandalizzare e quello di raccontare storie lontane dalla quotidianità. Arrivato molto presto addirittura alla nomination all’Oscar con Woman in Love, film che diede la statuetta a Glenda Jackson, corteggiato da Hollywood, buttò consapevolmente tutto alle ortiche con I diavoli, tratto da Huxley, con un grande Oliver Reed e una carica sovversiva strabordante. Molto bravo a vendere la sua voglia d’essere scandaloso, Russell viene ricorda-

to universalmente per Tommy, opera rock sontuosa, ma il suo miglior film è certamente Stati di allucinazione, in cui riesce a cogliere l’essenza del testo di Paddy Chayefsky, portando sullo schermo un disagio esistenziale doloroso e realistico all’interno di un’opera sci-fi. Quello che voleva fare Nolan con Inception, film che deve moltissimo proprio alla coppia Russell-Chayefski. Era il 1980, il resto della carriera di questo simpatico e colto cineasta non ha riservato molte altre soddisfazioni, da Gothic a Whore, prodotti fatti più per il gusto di far discutere che altro. Ma di registi come lui, con questo desiderio di stupire e con la capacità di prenderti allo stomaco, ce ne sono sempre meno. Film come The Boy Friend, che costruì il mito di Twiggy, o Lisztomania, avevano una libertà espressiva che i giovani cineasti di oggi non hanno, più preoccupati della tecnica e dei movimenti di macchina digitali che del linguaggio. Mr. Russell can you hear me? Goodbye.


The Last Picture Show

Columns

Vittorio De Seta Crepuscolo italiano di Andrea Pirrello

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ultimo testimone di un mondo crepuscolare. Vittorio De Seta è stato per il cinema italiano l’autore che ha scritto, in modo del tutto personale, il lessico del documentario. Vero outsider dell’industria cinematografica, De Seta inizia il suo percorso da puro indipendente, girando tra il ’54 e il ’59 una serie di brevi documentari che raccontano la vita quotidiana nell’Italia meridionale (Sicilia, Sardegna e Calabria). Coglie l’urgenza di carpire l’identità di una società che, alle soglie del boom economico, stava andando incontro a profondi mutamenti. I contadini, i pescatori, i pastori della Barbagia e i zolfatari siciliani sono gli eroi dei racconti epici del regista. Vinni lu timpu di lu pisci spada, Isola di fuoco, Sulfarara, Pasqua in Sicilia, Contadini di mare, Parabola d’oro, Pescherecci, Pastori a Orgosolo, Un giorno in Barbagia, e I dimenticati, costituiscono un unico corpus di una testimonianza antropologica inestimabile. Girati a colori, alcuni in cinemascope, tracciano l’epica del nostro passato recente. A distanza di quasi dieci anni l’emozione rimane inalterata. Banditi a Orgosolo, il suo primo film di finzione, vince il premio come miglior opera prima al Festival di Venezia del ‘61, e inaugura un

nuovo percorso del regista. Un uomo a metà e L’invidia sono le due opere con cui più il suo sguardo antropologico e il suo linguaggio si fanno profondi e complessi. Diario di un maestro, girato nel ‘72 per la RAI, regala una scrittura cinematografica senza pari, mescolando la realtà di una classe della periferia romana alla finzione del racconto di Albino Bernardini, Un anno a Pietralata. Poi il ritorno ai documentari, e a parte il progetto del Vangelo secondo Matteo, mai realizzato, nessun lungo, fino al 2008. Lettere dal Sahara è il suo ritorno al cinema, dopo un lungo silenzio, in una dimensione digitale, sempre a metà tra documentario e finzione. La sua vita e le sue opere (per la maggior parte irreperibili, tranne i documentari degli anni ’50 nel cofanetto Feltrinelli Il Mondo Perduto), le possiamo riscoprire in un documentario, Detour De Seta, di Salvo Cuccia, che parla dell’autore, con l’autore. Lo sguardo di De Seta sulla realtà, analitico, formalmente elaborato e contemporaneamente spontaneo, è una preziosa eredità che il cinema contemporaneo non dovrebbe perdere di vista.


Rising Star

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Attrice e scrittrice, vorrebbe star fuori dal typecasting. E intanto fa ricerche storiche sulle fiabe…

Isabelle Adriani mai stata amante nella vita! di Federica Aliano e Ilario Pieri

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a iniziato a fare teatro e danza da bambina, poi ha fatto la giornalista, ha un figlio… Ha scritto libri, soprattutto di fiabe, e a poco a poco ha scalato la vetta. “Se sei una ragazza onesta cominci con una posa”. Poi ha incominciato con i ruoli da amante, come nell’ultimo film di Pupi Avati Il cuore grande delle ragazze. Perché il typecasting esiste anche in Italia: “Ho fatto l’amante ucraina di Preziosi, poi l’amante francese di Vaporidis, poi Checco Zalone ha detto che dovevo fare l’amante spagnola. Cercavo solidarietà, invece lui ha detto ‘Ti manca la zoccola italiana!’. Ecco, me l’ha fatta fare Avati!”. L’anno prossimo la vedremo nel nuovo film di Sergio Castellitto Venuto al mondo. “Penélope Cruz è l’artista più generosa che conosca. Mi ha sentita fischiare e ha detto a Sergio che doveva farmi fischiare nel film! Faccio l’amante anche lì”. Sembra che fischi come un angelo, tanto che Al Pacino ha voluto che fischiettasse per lui a Los Angeles. Ma intanto lei ha girato il mondo per il suo libro su Cenerentola. Isabelle compie da sempre ricerche storie sull’origine delle

“Nella vita sono buonissima: ho il corpo di Jessica Rabbit e il cuore di Biancaneve” fiabe e quella di Cenerentola ha scoperto che risale addirittura fino agli antichi egizi. “Questa versione del mio libro comprende delle tavole originali dei più grandi artisti contemporanei”. Corpo prorompente, sorriso e modi di fare coinvolgenti, Miss Adriani è un cocktail di curve, testa e tanta voglia di fare cose diverse: “Ditelo pure ai registi: io sono tanto buona. Ho il corpo di Jessica Rabbit e il cuore di Biancaneve! Non ho mai rubato l’uomo a nessuna! E L’Italia è un paese meraviglioso, ma se fai più di una cosa, non ti capiscono”. Le chiediamo com’era l’atmosfera sul set di Pupi Avati, Pupi ti dà tutto, per prima cosa la luce giusta. L’unica cosa che mi hanno promesso e non è arrivata sono i tortellini!”. Presto la vedremo anche nel film Ci vediamo a casa di Maurizio Ponzi. Intanto gustatevi il suo brio cliccando sul tasto play.


Flashback

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Ritratto di famiglia di Adriano Ercolani

Read the Interview

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l 14 aprile del 1980 Kramer contro Kramer vinse l’Oscar, battendo la concorrenza di Apocalypse Now e All That Jazz. Al tempo si parlò di una decisione “ecumenica”, che premiava l’opera maggiormente conciliatoria di Robert Benton rispetto alla rottura estetica e contenutistica dei film di Coppola e Fosse. L’arrivismo sociale ed economico, l’alienazione della donna all’interno dell’istituzione familiare, la battaglia dei sessi e quella legale per l’affidamento di un figlio sono questioni che possono essere considerate conciliatorie? Se la risposta è negativa oggi, proviamo a inserirla nel contesto socio-economico della fine degli anni ’70, un decennio che ha tentato rivoluzioni radicali e le ha viste disilluse. Kramer contro Kramer ha portato dentro la scatola del melodramma intimista una serie di problematiche che avevano scosso l’opinione pubblica negli anni precedenti, risultando un lungometraggio la cui innovazione risiedeva più nel contenuto che nella forma. E se a livello di messa in scena il film di Benton non è abbagliante quanto il

Kramer contro Kramer. Ovvero la moderna famiglia dissezionata

musical di Fosse o il capolavoro di Coppola, si tratta comunque di un’opera dall’eleganza e dalla lucidità esemplare: l’intimismo creato dalla fotografia soffusa di Nestor Almendros e dalla regia intima e delicata di Benton sono vera arte cinematografica. Basterebbero le sole scene girate nella cameretta del piccolo Billy, riprese da dietro una porta che nasconde come a esplicitare la volontà di pudore e di intimità nel raccontare la (ri)costruzione del rapporto padre-figlio. Tratto dal romanzo omonimo di Avery Corman pubblicato nel 1977, Kramer contro Kramer è costruito su una sceneggiatura che lo stesso Benton ha elaborato in maniera incredibile: ogni singola scena è logicamente collegata alla precedente e funge da prologo per la successiva. Non ci sono momenti di pausa sia nella narrazione che nello sviluppo psicologico ed emotivo dei personaggi. Lo script evita totalmente di inserire momenti di “colore” che caratterizzino le giurie in scena, ma lascia che sia il concatenarsi degli eventi a sviscerare il carattere e l’arco narrativo di Ted Kramer,


Flashback di suo figlio Billy e dell’ex moglie Joanna. Il resto lo fanno gli attori: la compostezza di Jane Alexander e di una grande Meryl Streep sono sublime contraltare alla frustrazione sempre repressa di Dustin Hoffman, qui alla performance più riuscita di una carriera straordinaria. Grazie al suo volto capace di svelare emozioni trattenendole, conosciamo e ci affezioniamo a un uomo che in favore del lavoro ha sacrificato sua moglie, che da genitore ha dovuto imparare a essere padre, che ha capito i propri errori e ha accettato di non potervi porre rimedio. La scena finale di Kramer contro Kramer non è edificante: si tratta della constatazione che Ted e Joanna sono diventati qualcos’altro rispetto al percorso che hanno iniziato insieme e hanno poi interrotto. La coscienza del cambiamento è il massimo traguardo a cui i due adulti possono arrivare, non c’è possibilità di riconciliazione se non come enti separati e autonomi, che hanno imparato sulla propria pelle che la coppia – e più in generale l’istituzione familiare – è un concetto che va continuamente messo in discussione perché non si atrofizzi. Per il bene del loro bambino devono trovare un equilibrio nuovo, che però non precede il ritorno a schemi che non possono più funzionare. L’ultima immagine del film è la porta dell’ascensore che si chiude e separa definitivamente Ted da sua moglie. Fino a Kramer contro Kramer il cinema americano non aveva mai problematizzato la famiglia, il cuore del nucleo sociale, con tanta forza propositiva. Robert Benton lo ha fatto con l’arma più forte, quella del sentimento e della sua descrizione intimista.

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Cronaca familiare Il film di Benton ha aperto la strada al racconto dei problemi tra le mura domestiche. Molti grandi film lo hanno seguito, The Cinema Show ha scelto i migliori per voi:

Gente comune (Ordinary People, di Robert Redford, 1980) Sconvolta dalla perdita di un figlio, la famiglia Jarrett si è chiusa nel proprio dolore. A farne le spese è l’altro ragazzo, Conrad. Esordio alla regia di Redford premiato con quattro Oscar, un melodramma secco e sensibile, in cui gli attori scrivono animi e sfumature di rara forza emotiva. Su tutti l’umanissimo terapeuta Judd Hirsch e il padre Donald Sutherland, perfetto in un ruolo così sommesso. Sentimenti al calor bianco, personaggi capaci di commuovere con un solo sguardo.

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What’s up, doc?

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Extra-ordinario! di Francesco Del Grosso

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a chiuso i battenti la sesta edizione del Festival Internazionale del Film di Roma e con essa la sezione diretta da Mario Sesti, L’Altro Cinema – Extra, che sin dai primi vagiti ha regalato alle platee dell’Auditorium le sorprese più piacevoli. Dodici i titoli chiamati a contendersi il Marc’Aurelio per il miglior documentario, che la giuria presieduta da Francesca Comencini ha finito con l’assegnare a Girl Model di David Redmon e Ashley Sabin. La coppia di registi statunitensi ha battuto due premi Oscar del calibro di Gibney e Guggenheim, oltre alla nutrita rappresentativa nostrana, che puntualmente non è riuscita a mantenere il passo e a reggere il confronto con molte delle pellicole straniere presenti nella competizione. L’Italia con ben tre selezionati, infatti, ha risposto con cartucce che a malapena hanno sfiorato il bersaglio, e quando questo si è verificato lo ha fatto toccando le corde del cuore grazie a The Dark Side of the Sun di Carlo Shalom Hintermann, intenso e commovente diario che racconta la storia di un gruppo di bambini affetti dalla XP e della loro straordinaria forza d’animo. Un autentico inno alla vita che colpisce per la delicatezza della narrazione live e per la poesia delle sequenze animate,

sul quale pesano però l’eccessiva lunghezza che frena il flusso emotivo diretto allo spettatore e alcune soluzioni tecnico-stilistiche che appaiono troppo leziose. Al contrario, le quote rosa battenti bandiera tricolore hanno fatto due buchi nell’acqua: da una parte Heidi Rizzo con il suo Grazia e furore non sfrutta né la spinta produttiva di Edoardo Winspeare né il potenziale intrinseco dell’operazione, costruendo un documentario che presenta evidenti squilibri e la mancanza di uno scheletro drammaturgico; dall’altra una Sabina Guzzanti che in Franca la prima, annebbiata dal bisogno irrefrenabile di protagonismo, non riesce a mettersi da parte, lasciando il giusto spazio a quello che sarebbe dovuto essere il solo e unico centro di gravità, la grande Franca Valeri. Il risultato è una biografia a metà, assemblata alla peggio, che restituisce un interessante confronto/incontro generazionale tra artiste e donne, ma pochissimo della straordinaria attrice milanese. Da parte sua, il vincitore di questa edizione di Extra, vale a dire Girl Model, non convince del tutto, afflitto dalla stessa patologia che ha influito sugli esiti di Dead Men Talking e How to Die in Oregon. In tutti e tre i casi i registi non hanno saputo – chi per un motivo e chi per un altro - gestire

Panoramica sui titoli in concorso nella sezione L’Altro Cinema - Extra della sesta edizione del Festival Internazionale del Film di Roma


What’s up, doc?

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L’Italia con i tre film selezionati ha risposto con cartucce che a malapena hanno sfiorato il bersaglio fino in fondo la potenza devastante e l’importanza dei temi trattati (lo sfruttamento del corpo, la pena di morte e il suicido assistito), permettendo che il contenuto venisse prevaricato dall’incapacità di raccontarlo nel migliore dei modi: in Girl Model si intravedono lampi di grande cinema che lanciano verso il pubblico inquietanti interrogativi sulla mercificazione e la destrutturazione del corpo, ma che non bastano a risollevarne le sorti; Dead Men Talking di Robin Newell ci spedisce diritti all’Inferno, attraverso un meccanismo metalinguistico che avvicina il piccolo al grande schermo, inabissandosi però nelle sabbie mobili della spettacolarizzazione del dolore; How to Die in Oregon di Peter D. Richardson (Gran Premio della Giuria al Sundance Film Festival), nonostante lasci profondi e strazianti solchi nella memoria dello spettatore, vede tramontare il tutto dietro un cammino narrativo che appare incerto su quale strada percorrere, ossia un’analisi socio-politica sul tema del suicidio assistito con spunti d’inchiesta oppure un racconto intimo nato per dare voce alla disperazione e alla speranza dei malati e dei loro parenti. Due titoli nella rosa dei dodici in concorso sono passati nell’indifferenza generale, probabilmente a causa di un DNA filmico non particolarmente attraente mediaticamente, ma meritevoli di attenzione. Si tratta di People in White e di Patria o muerte. Nel primo caso, la docufiction firmata da Tellervo e Oliver Kochta-

Kalleinen sorprende per il coraggio di sperimentare forme diverse di linguaggi visivi da parte dell’apparato filmico, ma anche sul linguaggio fisico, sensoriale, corporeo ed emotivo, dei suoi interpreti, chiamati a confrontarsi in una sorta di Grande Fratello, nel quale è la mente a dettare le regole del gioco. Nel secondo il regista russo Vitaly Manskiy è bravo a dipingere, con una fotografia di ottima fattura, un ritratto anticonvenzionale della Cuba dei giorni nostri, ma comunque attaccato a quelle tradizioni che brulicano tra le strade degradate e gli occhi della gente che le popolano. Il compito di risollevare il livello qualitativo della selezione è toccato come prevedibile alla nutrita spedizione a stelle e strisce: ai tre pezzi da novanta presenti nella sezione competitiva - Gibney, Guggenheim e Spurlock - e a un sorprendente outsider dell’ultimo minuto, Tristan Patterson che con Dragonslayer firma un folgorante biopic politically incorrect dal retrogusto roadmovie su un mito della decadenza delle quattro rotelle, sorta di antitesi degli Z-Boys raccontati da Stacy Peralta. Punk Rock e hardcore allo stato puro, piscine vuote, skater, alcool e droghe a volontà sono gli ingredienti di questo trip allucinante e allucinogeno che esalta e diverte, stordisce e persino commuove. Il premio Oscar è da sempre sinonimo di qualità e le ultime due fatiche di Gibney e Guggenheim non fanno altro che confermarcelo. Con Catching


What’s up, doc?

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Hell, il primo disegna con toni surreali e tragicomici la traiettoria di una deriva esistenziale prima che sportiva. Non ha la potenza devastante e l’impatto emotivo di Enron o di Taxi to the Dark Side, ma la stessa perfezione formale, figlia di scelte e trovate visive (gli inserti di fiction che vanno a incastrarsi magnificamente con il materiale di repertorio) che fanno la differenza. La stessa che caratterizza From the Sky Down, un piacere per gli occhi e soprattutto per le orecchie: un valzer inarrestabile senza soluzione di continuità nel quale Davis Guggenheim riversa le sonorità, le note e i testi travolgenti dei brani di un album che ha fatto la storia della discografia mondiale, Achtung Baby, ma anche i momenti intimi e privati legati agli U2. A metà strada tra il backstage in stile The Promise: The Making of Darkness on

the Edge of Town di Thom Zimny e il classico rock movie, il regista di Una scomoda verità firma un’opera che restituisce al pubblico un ritratto diverso e inedito della band irlandese. Chiudiamo in bellezza con un documentarista che l’Oscar lo ha assaporato nel 2005 con Super Size Me, quel Morgan Spurlock che ha fatto dell’irriverenza e della satira le sue armi di offesa. In Comic-Con Episode IV: A Fan’s Hope le ripone nel fodero, girando un Geek-movie che diverte dal primo all’ultimo fotogramma. Documentario classico fatto di interviste, nel quale si vanno a innestare sequenze di creazione e di backstage, che trasformano una manifestazione attesissima come il Comic-Con di San Diego in una specie di gigantesco spettacolo di cabaret da non perdere assolutamente.

Catching Hell (di Alex Gibney, USA, 2011)

touch the Number I Chicago Cubs sono a un soffio dal vincere il campionato di baseball, la National League del 2003, quando dal pubblico la mano di Steve Bartman si tende e sfiora la palla deviandone la traiettoria. Da allora in poi il match è una catastrofe. Il regista Alex Gibney analizza all’infinito ogni filmato dell’accaduto e si mette sulle tracce di Bartman, l’uomo più odiato di Chicago, che vive nascosto perché, come succede dai tempi della Bibbia, e anche prima, tutto il mondo ne ha fatto il responsabile di eventi avversi e inaccettabili.

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Cover Story

Insider

L’anima nera dell’America

di Alessandro De Simone

Clint Eastwood racconta la vita dell’uomo di potere più controverso del Ventesimo secolo in J. Edgar, offrendo a Leo DiCaprio l’ennesima sfida per l’Oscar

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inema e letteratura sono stati enormemente grati a J.Edgar Hoover nel corso degli anni. Senza questa figura avvolta in un alone di mistero, tanti intrecci narrativi non si sarebbero potuti dirimere nella mente di sceneggiatori e scrittori. Hoover è diventato un McGuffin hitchcockiano, una maniera per mandare avanti la storia, l’uomo su cui addossare le colpe di un qualcosa, a cui far prendere una decisione che cambierà le sorti di una o più vite, quando non di un intera nazione. Hoover è l’uomo nero, in tutti i sensi, è il grande manovratore, è Andreotti, ma è anche

Read the Review 26 | esubero | the cinema Show


Cover Story

quello che le leggende vogliono indossare biancheria femminile, possibilmente della madre, sotto gli austeri completi da G-man, che preferisce la compagnia maschile a quella femminile, è colui che insieme a Howard Hughes ha fatto il bello e il cattivo tempo in America dagli anni Trenta agli anni Settanta. Almeno questo è quello che dice di lui James Ellroy e con lui tanti altri creatori di storie che in questo personaggio hanno trovato fonte inesauribile di ispirazione. Tra questi, oggi, c’è anche Clint Eastwood, che insieme a Brian Grazer, grande produttore e socio di Ron Howard, voleva raccontare la vita di quest’uomo che tanto ha fatto, nel bene e nel male, per il suo grande paese. Grazer ha commissionato così la sceneggiatura a Dustin Lance Black, premio Oscar per lo script di Milk, film sulla vita dell’attivista per i diritti dei gay che ha portato la seconda statuetta come protagonista a Sean Penn, e Eastwood ha gradito, offrendo la parte principale a Leonardo DiCaprio, attore che non si tira mai indietro davanti a una sfida e che amerebbe essere trattato come Sean Penn dall’Academy almeno una volta nella vita. Così è nato J. Edgar, che racconta la vita del direttore del Federal Bureau of Investigation dalla fine degli anni Venti fino alla fine della sua onorata carriera, soffermandosi su alcuni momenti cardine della sua vita, come il caso del sequestro del figlio di Charles Lindbergh, trovato morto quattro mesi dopo la sua sparizione e per cui Hoover trovò alla fine un colpevole, vero

Insider

o presunto che fosse. Ma la giustizia ha le sue sfaccettature, si sa. Il Federale Clint Eastwood si è interessato molto alla Storia in quest’ultima fase della sua carriera. Invictus trattava un argomento di fondamentale importanza per l’umanità intera, come la fine dell’Apartheid, in Hereafter aveva raccontato lo tsunami in Indonesia, mentre il dittico Flags of Our Fathers e Letters from Iwo Jima gli hanno dato l’opportunità di affrontare la Seconda Guerra Mondiale. J. Edgar attraversa oltre cinquant’anni di storia americana, soffermandosi su un periodo che Eastwood ha già raccontato in Changeling, gli anni Trenta, quelli della Depressione ma anche del New Deal di Franklin Delano Roosevelt. La posizione del due volte premio Oscar nei confronti di un paladino dei repubblicani come Hoover è invece assai ambigua, divisa tra l’ammirazione per un uomo che ha dato tutto se stesso allo Stato, un patriota vero, e la critica nei confronti di un burocrate che a capo della più importante e organizzata agenzia investigativa del paese ha condotto operazioni con mezzi che andavano ben oltre la legalità. Ancora una volta Eastwood si dimostra ideologicamente diverso da come la critica lo ha dipinto negli anni Settanta e Ottanta, ovvero un repubblicano di ferro, paladino della politica reaganiana. Ma come spesso accade per autori apparentemente non allineati a un certo tipo di letteratura, soprattutto in Europa, l’analisi dell’opera


Cover Story

Eastwood ha cercato in Hoover l’eterno conflitto tra il bene e il male di Eastwood è stata nella maggior parte dei casi superficiale e travisata. Se escludiamo Firefox – Volpe di fuoco, film oltretutto etichettato come militarista, ma in realtà semplicemente un veicolo per poter ramazzare un po’ di soldi, per il resto Eastwood è sempre stato un regista estremamente attento prima di tutto ai rapporti tra i personaggi, alle loro psicologie, disinteressandosi quasi dell’ideologia e preferendo l’umanità del racconto. Una scelta che è evidente in ogni fase del suo cinema, sin dagli anni Settanta, in cui un action come Filo da torcere finisce con un atto di disubbidienza all’ordine costituito, così come Bronco Billy e Honkytonk Man sono storie di assoluti dropout, al pari di Gunny e Bird, due film apparentemente agli antipodi, ma che hanno in realtà molte cose in comune. Eastwood ha cercato in Hoover un elemento che caratterizza tutti i suoi personaggi preferiti: la divisione dell’anima, l’eterno conflitto tra il Bene e il Male, un mistero a cui da sempre cerca di dare una spiegazione. Lo ha fatto vestendo i panni di William Munny ne Gli spietati e offrendo a Kevin Costner il ruolo di Butch Haynes in Un mondo perfetto. Hoover è quindi un personaggio che entra di dirit-

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to nella galleria degli antieroi del cinema di Eastwood e non potendolo interpretare lui, ha dovuto trovare qualcuno che fosse all’altezza di quest’impresa. Il Re del mondo J. Edgar Hoover è l’uomo che ha inventato l’FBI, dandogli questo nome nel 1935 e dirigendo il Bureau per quarantotto anni, dal 1924 al 1972. Tutte le tecniche investigative, d’addestramento, l’avanzamento tecnologico e tutto quello che permette ancora oggi all’agenzia di essere all’avanguardia nella lotta al crimine sono frutto del suo maniacale lavoro, aggettivo che può essere usato anche per molte delle interpretazioni di Leonardo DiCaprio, paradossalmente uno degli attori più sottovalutati della storia di Hollywood. Da più di vent’anni nello show business (chi non lo ricorda in Genitori in blue jeans) Leo è stato l’unico a essere davvero affondato con il Titanic, diventando l’idolo di tutte le adolescenti del mondo dopo il successo del film in cui recitava in coppia con Kate Winslet, ma al contempo divenendo inviso alla comunità cinematografica, in buona parte invidiosa che tanto talento potesse unirsi al più grande incasso, allora, della storia del cinema. Non potendo silurare la corazzata Cameron, la cosa più semplice era prendersela con lui. Quattordici anni dopo DiCaprio può vantare una lunga collaborazione con Martin Scorsese, è stato protagonista di uno dei migliori Spielberg di sempre, Prova a prendermi, Christopher Nolan lo ha voluto nel suo ambizioso Inception,


Cover Story

e presto sarà alle dipendenze di Quentin Tarantino in Django Unchained, per poi trasformarsi in un’altra icona americana ancora per Scorsese: Frank Sinatra. Eastwood e DiCaprio si cercavano da tempo, non poteva essere altrimenti, e si sono trovati per il progetto giusto, quello in cui il primo può dare fondo a tutto quello che ama di più, raccontare le due facce di una medaglia con una messa in scena perfetta, creata dal team di collaboratori prediletti, mentre il secondo può alzare ancora un po’ l’asticella delle sue performance. Il miglior DiCaprio degli ultimi anni è probabilmente quello di Revolutionary Road, in cui incarna l’America insoddisfatta della provincia, costretta a una vita ordinaria mentre il mondo va avanti. Hoover è un personaggio in qualche modo complementare a Frank Wheeler, avendo votato la sua vita a proteggere quella di middle man come l’insoddisfatto marito e padre di famiglia dei suburbs e allo stesso tempo ben deciso a frustrare le bolsceviche tensioni a una vita diversa dall’American Way. Un percorso, quello di DiCaprio, estremamente coerente e di cui fa parte anche un ruolo da molti atteso e difficilissimo, quello di Gatsby nella nuova trasposizione cinematografica del romanzo di Francis Scott Fitzgerald. Se Leo dovesse reggere il confronto con Robert Redford, il passaggio di consegne sarebbe definitivo. Gli manca solo un bel film sul baseball. Clint e le donne Hoover non si è mai sposato, ha vissu-

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to con sua madre fino alla di lei dipartita, non ha mai manifestato interesse nei confronti di una vita matrimoniale. Dedizione al lavoro, un morboso rapporto con la mamma, soprattutto uno spiccato interesse nei confronti del suo stesso sesso, in particolare nella figura del suo migliore amico e vice direttore del Bureau da lui nominato, Clyde Tolson (nel film interpretato da Armie Hammer). Niente che sia mai stato provato, ovviamente, anche se da più parti sono spuntate testimonianze oculari della sua omosessualità. Eastwood non ama raccontare storie in cui le donne non abbiano un ruolo di primo piano, è sempre stato così, un elemento che sfata l’altro mito urbano relativo al presunto maschilismo di cui il suo cinema sarebbe permeato. Niente di più falso, perché Eastwood ammira le donne, le ha sempre considerate ben più integre moralmente e anche intellettualmente superiori agli uomini, capaci di controllare meglio le proprie emozioni. Lo dimostrano personaggi straordinari come Maria ne I Ponti di Madison County,


Cover Story

Christine in Changeling, e ovviamente Maggie in Million Dollar Baby. In J. Edgar il protagonista si divide tra la madre, interpretata da Judi Dench, e la segretaria che lo accompagnato praticamente in tutta la sua carriera, Helen Gandy, il cui ruolo è stato affidato a Naomi Watts. America oggi J. Edgar è un film che arriva in un momento storico importante per gli Stati Uniti. Se Hoover avesse immaginato che alla Casa Bianca ci potesse essere un nero, avrebbe fatto del suo meglio perché questo non accadesse, ma è altrettanto vero che il panorama politico è molto complicato, lontano da ciò che era l’America fino alla presidenza Nixon, che di fatto ha cambiato le carte

Insider

in tavola. Hoover era un potente burocrate, ma con un profondo senso dello stato, un sentimento che gli americani pretendono dalle persone delegate a far funzionare il paese. La politica di Obama è in buona parte mirata a ridare questo tipo di fiducia ai cittadini, e anche il cinema sta facendo la sua parte, dato che c’è una frangia democratica molto potente che sta sostenendo l’amministrazione Obama anche sul grande schermo. Lo fa Clooney ne Le idi di marzo, lo fa DiCaprio come sostenitore dichiarato di Obama, lo fa anche Clint ricordando al suo paese cos’era prima di otto anni di governo di George Bush Jr. Anche lui avrebbe avuto vita difficile con J.Edgar, perché il direttore del Bureau non avrebbe mai voluto vedere il suo paese messo in ginocchio da un buffone.

Classified: La lista nera di J. Edgar Leggenda vuole che Hoover avesse un archivio privato pieno di registrazioni e immagini compromettenti di molti personaggi in vista della politica, dell’economia e dello spettacolo americano e non solo. Una sorta di assicurazione per il paese sotto forma di delirio di onnipotenza. Se quest’archivio esistesse o meno lo sanno solo al Bureau e probabilmente in pochi. Noi di The Cinema Show abbiamo trovato alcuni di questi file segreti e ve li proponiamo, a rischio della nostra incolumità.

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Who NEEDS glamour? di Michela Greco

Il Torino Film Festival conferma il suo stile e la sua linea: moltissimi titoli, nessuna scorciatoia. E per questo è già ricchissimo

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uecentodiciassette titoli in nove giorni, con trentadue prime mondiali e venti internazionali, una grande retrospettiva dedicata a Bob Altman e un programma talmente forte sulla carta da aver suscitato l’entusiasmo della critica. Il tutto con un budget di due milioni, che corrisponde a circa un sesto di quello del Festival di Roma e a cui la crisi ha anche rosicchiato trecentomila euro rispetto all’anno scorso. In programma dal 25 novembre al 3 dicembre, la ventinovesima edizione del Torino Film Festival si presenta con grandi promesse e un film d’apertura – Moneyball – L’arte di vincere di Bennett Miller – che sbandiera un duetto

di protagonisti come Brad Pritt e Philip Seymour Hoffman. Non ci saranno, i “divi”, a Torino, ma d’altronde lo storico festival piemontese vuole rimanere duro e puro e ostentare il suo tradizionale disinteresse per glamour e red carpet in favore della scoperta, della qualità e della partecipazione più ampia possibile di quel pubblico di cinefili che sotto la Mole non si ferma a chiedere autografi nemmeno se sbatte contro una star. “Considero la mia terza direzione – ha detto il direttore Gianni Amelio in conferenza stampa – un’edizione di sintesi e di assestamento rispetto a un progetto di allargamento di orizzonti che vuole uscire dalla nicchia e far entrare in sala

Il poster del 29 TFF è firmato dall’artista Marco Cazzato

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anche il pubblico della domenica, ma senza populismi e non per palati facili. Perché noi ci confrontiamo con Berlino, Rotterdam e il Sundance, e abbiamo degli spettatori che sono anche potenziali cineasti: un terzo di loro vuole fare cinema”. Per il concorso la scelta si restringe tra opere prime, seconde e al massimo terze, proprio per il desiderio di non percorrere strade troppo battute e di far nascere a Torino il “nuovo Hitchcock”. Grandi ambizioni, supportate da sobrietà e ricerca, “perché noi i film ce li

andiamo a cercare”, rivendica con orgoglio Amelio. Nella sua competizione ha messo due film italiani: I più grandi di tutti di Carlo Virzì, commedia rock con Alessandro Roja e Claudia Pandolfi, e Ulidi piccola mia, esordio di Matteo Zoni in cui la realtà di un gruppo di ragazze che vive in una casa famiglia viene osservata e partecipata con affetto, curiosità ed empatia. Un film ammiccante e una scommessa, insomma, che dovranno vedersela con quattordici altri concorrenti che esplorano quasi ogni tipo

I film piu’ attesi L’arte di vincere – Moneyball di Bennett Miller Festa mobile L’arte di vincere – Moneyball

Albert Nobbs

Dopo Philip Seymour Hoffman per Truman Capote – A sangue freddo, Miller si affida a Brad Pitt per l’American Dream in salsa sportiva ispirato a una storia vera accaduta nel 2002 che cambiò il volto del baseball. Quando l’allenatore degli Oakland Athletics si rende conto che la sua squadra sta affondando, pensa di riscrivere le regole degli ingaggi con l’aiuto di un neolaureato. Se il giovane Jonah Hill sarà bravo come in Cyrus (che era proprio a Torino l’anno scorso) e Pitt e Seymour Hoffman (che anche stavolta è tra i protagonisti) faranno la loro parte, sarà un peccato dover aspettare fino a gennaio per l’uscita nelle sale italiane.

50/50

touch the Photo The Descendants

L’era legale


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Twixt di Francis Ford Coppola

di genere e linguaggio, dalle 17 ragazze francesi di Delphine e Muriel Coulin - che decidono a tavolino di rimanere tutte incinte nello stesso momento - all’orda di alieni sanguinari decisa a impadronirsi di un quartiere proletario di Londra, nel mix tra fantascienza e realismo urbano proposto da Attack the Block di Joe Cornish. O con il noir filosofico sudcoreano di Park Su-min A Confession e la “commedia della disperazione” 50/50 di Jonathan Levine, in cui Joseph Gordon-Levitt, Seth Rogen e Anjelica Huston raccontano la vicenda di un ventisettenne a cui viene diagnosticata una rara forma di cancro. Una storia affine a quella del russo Heart’s Boomerang, in cui un giovane impiegato scopre di avere un grave difetto al cuore che potrebbe seppellirlo da un momento all’altro, mentre Thomas McCarthy (L’ospite inatteso) sceglie Paul Giamatti per raccontare le Mosse vincenti di un mediocre avvocato che cerca di risolvere i suoi problemi economici sfruttando la tutela di un anziano cliente affetto

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dall’Alzheimer. Nella Festa Mobile che celebra con il Gran Premio Torino Aki Kaurismaki (che viene a presentare, dopo Cannes, il suo Miracolo a Le Havre) – si affollano invece trenta film inediti in Italia senza limitazioni di età o curriculum. Ci entrano Alexander Payne e un George Clooney in sordina con The Descendants, e Glenn Close nel film di chiusura Albert Nobbs di Rodrigo Garcia, Fabio Volo e Isabella Ragonese per l’arrivo sul grande schermo, con Massimo Venier, delle pagine del libro Il giorno in più e Mathieu Amalric con L’illusion comique tratta da Corneille. E poi Alain Cavalier e Vincent Lindon con Pater e L’era legale di Enrico Caria, tentativo di ottimistica fantapolitica ambientato nel 2020, in una Napoli trasformata da un sindaco “antiproibizionista per caso” in un paradiso di pulizia. E poi tanta paura con The Intruders di Juan Carlos Fresnadillo e l’atmosfera ballardiana in cui si risveglia Adrien Brody in Wrecked di Michael Greenspan, e la tensione “a prova di privacy” con 388 Arletta Avenue del canadese Randall Cole e Mientras duermes di Jaume Balaguerò. Ancora più “estremo” della Festa mobile è il Paesaggio con figure che mescola formati e durate, monumenti ed esordienti, senza pudore. E così si passa da Martin Scorsese che racconta George Harrison al film scritto e interpretato dagli abitanti indios di un villaggio wachì che affermano il loro diritto all’autorappresentazione, dall’abisso della pena di morte con Werner Herzog ai mi-


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La rivelazione Attack the Block di Joe Cornish

granti di Calais immortalati da Sylvain George, da Claire Denis immersa nella foresta amazzonica ai ventidue minuti di Miramen, elegia della Camargue. La scelta è così ampia – e alta - che si rischia di trascurare il Rapporto confidenziale che due anni fa sottolineò con lungimiranza il talento di Nicolas Winding Refn e ora propone diciotto titoli del giapponese Sion Sono, tra i quali scoprire un cinema visionario, provocatorio e torrenziale che unisce in modo irriverente pop e politica, horror e Nouvelle Vague, melò e psicanalisi. Oppure di non avere tempo di spulciare nella storica sezione dei documentari italiani che ha lanciato, negli anni, personaggi come Saverio Costanzo e Daniele Gaglianone o di scoprire i fili che legano due film affini e complementari che potrebbero offrirci una nuova consapevolezza su una stagione politica che avremmo voluto sepolta per sempre, ma di cui continuiamo a subire gli strascichi e le influenze. Uno di questi è Il corpo del duce, per cui

Fabrizio Laurenti si è ispirato all’omonimo libro di Sergio Luzzatto in cui si legge che “L’Italia ha uno specifico corporale che ha a che fare con la religione dominante. Il problema del carisma, del crisma, del crisma, dell’unto”. Una utile riflessione sul culto della personalità che ritorna in Il sorriso del capo di Marco Bechis, tutto basato su immagini di repertorio di Mussolini dell’Istituto Luce, ma che vuole essere “un film che si riferisce a un’epoca ma la travalica. E diventa un simbolo di cosa sia la manipolazione della realtà a ogni latitudine e in ogni epoca”. Peccato che il messaggio, sacrosanto, alla fine difficilmente potrà arrivare ai cittadini più esposti ai pericoli della fascinazione mediatica senza filtri. Scommettendo su un festival che ha sempre scelto rigore artistico e sobrietà, e che ha presentato un programma 2011 con i fiocchi, si potrebbe dire che un’immersione in questo 29° TFF potrebbe essere un ottimo antidoto all’omologazione e alla passività.


Poster d’autore: Valentina Vannicola: L’Inferno di Dante – Canto IV, primo Cerchio. Il Limbo

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E tutto divento’

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Il Courmayeur Noir in Festival giunge alla XXI edizione e si conferma una kermesse imperdibile

di Federica Aliano

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on il 2012 alle porte sembra che l’argomento all’ordine del giorno sia la fine del mondo. Questo sarà il tema del Biografilm Festival a giugno, come già annunciato durante la Mostra di Venezia, e questo sarà anche il filo conduttore della ventunesima edizione del Courmayeur Noir in Festival. Non poteva essere diversamente, dal momento che proprio Courmayeur, nel 1960, fu teatro di una profezia apocalittica, quella che spinse l’ex pediatra Elio Bianco, ri-

battezzatosi Fratello Emman, a costruire un’arca per salvarsi dall’Apocalisse che i Cieli gli avevano preannunciato arrivare il 14 luglio dello stesso anno. Quando i fedeli accorsi sul Monte Bianco restarono letteralmente all’asciutto, Emman disse che l’appuntamento era solo rimandato. Folklore a parte, il Noir in Fest è uno degli avvenimenti che non ci perderemmo per niente al mondo, una delle kermesse cinematografiche più belle in Italia, non ci stancheremo mai di dirlo. E non solo


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perché la location è quel Paradiso che ha con tanto di autori al seguito che mai si fatto da cornice al più bel film di Francerisparmiano dal dibattere con il pubblico. sco Nuti, ma anche e soprattutto perché In questo senso le due sezioni si mescolaogni anno l’offerta sia filmica che letteno ancora una volta, dato che uno dei film raria è varia e interessante. In particolare che più ci incuriosiscono è Headhunters, la sezione dedicata al cinema, quella che tratto dall’omonimo romanzo di Jo Neanni fa fu raccomandata da Variety come sbo, ancora inedito in Italia. Il Raymond uno dei festival imprescindibili nel monChandler Award andrà quest’anno ad do, conferma anche quest’anno come non Andrea Camilleri e a Petros Markaris, sia necessario avere un budget altissimo a ma a cento anni dalla nascita di Giorgio disposizione perché la qualità trionfi. DieScerbanenco non possiamo non pensare ci anteprime, il consueto Mininoir (con le che il secondo premio letterario italiano, a anteprime di Arthur e la guerra dei due lui intitolato, viene ogni anno consegnato mondi, di Luc Besson, proprio qui. Ma veniamo e L’incredibile storia di al cinema, e alle pellicole Ospite d’onore del Winter il delfino, toccante che dal 5 all’11 dicemfilm in 3D tratto da una bre verranno proiettate Noir 2011 sarà storia vera e in uscita nelle nell’ambito del Noir in il cineasta inglese nostre sale a gennaio), le Fest. Noi di The Cinema serie televisive che da diShow non stiamo nella Stephen Frears verse edizioni arricchiscopelle per In Time, il nuovo no ancor più il palinsesto film di Andrew Niccol che del Palanoir, ma soprattutto un’atmosfera sembra tornato a temi e stilemi dei tempi rilassata e gioviale, con gli autori a contatdel magnifico Gattaca – La porta dell’Uto con il pubblico come è sempre più raro niverso, ma anche titoli meno mainstream vedere altrove.Quest’anno l’ospite d’osono a dir poco stuzzicanti. Come la black nore sarà Stephen Frears, l’appassionato comedy A Yakuza’s Daughter Never Criesploratore di generi che a sessant’anni ha es, prima produzione russo-giapponese ancora voglia di raccontare e raccontarsi mai realizzata, o il “noir di tutti i giorni” con freschezza. Da Gumshoe – Sequestro De bon matin, con Jean-Pierre Darpericoloso, a Piccoli affari sporchi, passanroussin, che vede la rabbia di un uomo do per Rischiose abitudini, sono state dicomune sfociare in derive non previste. verse le volte in cui il suo cinema si è tinto O ancora, come l’opera prima Hashoter di noir. La parte letteraria, dal canto suo, (Policeman), dell’israeliano Navad Lasi presenta sempre più ricca e attenta sia pid, che in un curioso gioco di specchi alla qualità che alle tendenze. I noir proracconta del figlio di uno scrittore di noir venienti dall’Europa del Nord ormai hanche giunge a Courmayeur, ma poi si spono invaso anche le vette di Courmayeur, sta per raccontare il conflitto di classe e


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I film piu’ attesi Una selezione delle anteprime in Concorso per il Leone Nero, più un Fuori Concorso imperdibile

Margin Call

Martha Marcy May Marlene

Bernie

The Yellow Sea

In Time

Don’t Be Afraid of the Dark

We Need to Talk About Kevin

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la società da cui il protagonista proviene, dilaniata dall’interno. L’altra opera prima è stata la rivelazione del Festival di Sitges: Sergi Vizcaino, sulla scia di Balaguerò, Fresnadillo e De La Iglesia, continua la nuova tradizione dell’horror iberico con il thriller psicologico Paranormal Experience 3D. In un festival poi non mancano le proiezioni speciali, in questo caso a dir poco curiose e sfiziose: The Suspicions of Mr. Whicher è la ricostruzione minuziosa del caso di Jack lo squartatore e di Charles Dickens (al quale il festival rende omaggio alla vigilia del bicentenario della sua nascita). Il capolavoro “ritrovato” grazie al restauro di quest’anno è La scala di Satana, di Benjamin Christensen, pietra miliare del genere datata 1929 che sarà musicata dal vivo da Pivio & Aldo De Scalzi. Infine, il Doc Noir, la sezione che ogni anno diventa più stimolante e che presto terrà testa alla parte fiction. Tra i cinque titoli meritano la menzione il biografico Hearing Radmilla, che racconta i ventuno mesi di prigionia di Radmilla Cody, prima nativa americana di colore ad essere eletta Miss Navajo nel 1997, cantante e artista, vittima di violenze domestiche e accusata ingiustamente di spaccio, e il tedesco Khodorkovsky, sempre biografico, che ci fa incontrare l’uomo che fece tremare gli oligarchi russi e che oggi, da dietro le sbarre, lancia la sua sfida a Putin. Giunto è il tempo di accomodarci, tremanti e vogliosi di maggiori brividi, nelle poltrone del Palanoir, in attesa dell’Apocalisse che ci salverà.


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Un violino, una puntura e un pugno in faccia

di Alessandro De Simone

Robert Downey jr. veste nuovamente i panni di Sherlock Holmes in Gioco di ombre, sempre diretto da Guy Ritchie

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i dice sempre così, squadra che vince non si cambia, perciò dopo il successo mondiale di due anni fa, la Warner Bros ha deciso di rimettere insieme Robert Downey, Jude Law, Rachel McAdams e l’ex signor Madonna Guy Ritchie per dare seguito al più longevo franchise della storia del cinema e della letteratura. Non parliamo di James Bond, né di possenti supereroi o maghetti quattrocchi, ma di un investigatore londinese tossicodipendente, egocentrico, misogino e pessimo violinista. Il personaggio creato da Arthur Conan Doyle festeggia quest’anno il suo centoventiquattresimo compleanno, ma ne dimostra molti meno, nonostante lo sfruttamento industriale che la sua immagine ha subito durante questo lungo periodo. Tra una gita a Baker Street e

uno dei tanti romanzi successivi alle opere di Sir Arthur, Sherlock è ancora oggi uno dei character da cui i creativi dell’intrattenimento traggono maggiore ispirazione, basti vedere la figura di Gregory House, dichiaratamente costruita sull’investigatore, o l’ultima riduzione televisiva, ringiovanita e modernizzata per un tar-


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get specifico, quello sempre più massiccio franchise aveva dei numeri. Soprattutto e remunerativo delle serie. L’operazione non tradiva lo spirito del personaggio, cotentata, e riuscita, almeno in termini di gliendone alcune caratteristiche presenti incassi, due anni fa da Guy Ritchie è stanell’educata prosa vittoriana del dottor ta quindi assolutamente sensata, cosa che Watson, quali l’assoluto egocentrismo, la non si può dire della sua carriera precepoca propensione alla cura personale, le dente, partita alla grande con l’inaspettato passioni popolane, oltre che naturalmente successo di Lock & Stock, gangster movie l’intuito geniale e l’analisi scientifica dei britannico girato con uno stile sincopato fatti. Un successo di cui ha grande merito e di facile appeal che lo portò rapidamenanche il cast, a partire da Robert Downey te sulla ribalta internazionale. Una fama Jr., reduce dalla consacrazione della rinaguadagnata facilmente, a dire il vero, se si scita regatagli dal primo Iron Man e in pensa che solo un paio d’anni dopo Paul assoluto uno degli attori più amati degli McGuigan avrebbe girato Gangster n.1, ultimi anni, che con la sua faccia da schiafaltro film di genere sotto bandiera U.K., fi e il suo incredibile talento ha ricreato decisamente più interesun personaggio a lui sante sotto tutti i punti assai affine, genio e sreSherlock Homes di vista ma che ha avugolatezza e oltretutto to molta meno fortuna. anche facilmente prodovrà scoprire la parte Ritchie invece aveva fatto penso alle dipendenze, innamorare addirittura più oscura di sé dimensione a lui ben Brad Pitt, che volle forconosciuta. In questa tissimamente una parte seconda avventura poi, in Snatch, e poi Madonna, con cui ha Holmes si scontrerà con la sua nemesi stoavuto un burrascoso matrimonio finito rica, il genio del male professor Moriarty. male durante il quale il buon Guy non ne L’esistenza di questo malvagio figuro si paha azzeccata una, facendo quasi naufraventa nella vita dell’annoiato investigatore, gare la propria carriera con Swept Away, sempre alla ricerca di qualcosa che possa folle remake di Travolti da un insolito dedare una scossa al proprio intelletto supestino nell’azzurro mare d’agosto di Lina riore, con la morte del principe ereditario Wertmuller interpretato dall’allora signora del trono del regno austro-ungarico, la Ciccone-Ritchie e da Adriano Giannini. cui dipartita viene archiviata dall’ispettore Da far accapponare la pelle. L’incontro con Lestrade come un suicidio. Holmes però l’eccentrico investigatore è stato quindi non è convinto da questa versione e grazie provvidenziale e, pur nel suo stile eccesalle sue eccezionali capacità deduttive casivo e naive e con un notevole lifting per pisce che non solo si tratta di un omicidio, renderlo più cool e in linea con i tempi ma che questo crimine è in realtà parte che corrono, il primo episodio della rinata di un disegno ben più complesso e folle-


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mente ambizioso. Moriarty si dimostra per Holmes un avversario capace di tenere testa alla sua straordinaria intelligenza, con il vantaggio di avere dalla sua una totale mancanza di moralità che gli permette di progettare piani che neanche il più grande detective del mondo è in grado di prevedere. Holmes dovrà essere in grado di pensare come lui, scoprendo la parte più oscura di sé, solo così potrà fermarlo nel suo diabolico proposito di cambiare il corso della Storia. Al fianco di Holmes troviamo naturalmente il dottor Watson, suo amico e biografo, e il già citato ispettore di Scotland Yard, interpretati rispettivamente da Jude Law, che grazie a questo personaggio è letteralmente rinato, Rachel McAdams, bellissima e intrigante in corsetti e pizzi, ed Eddie Marsan, un affezionato frequentatore del clan Ritchie. Rachel MacAdams torna nei panni di pizzi e corsetti dell’ambigua Irene Adler. A questi si aggiungono una misteriosa avventuriera con le fattezze di Noomi Rapace, che dopo l’exploit di Lisbeth Salander, la hacker emo-punk della trilogia Millenium, è diventata una delle attrici più ricercate del momento, e Jared Harris nei panni di Mo-

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riarty, un casting perfetto avendo interpretato praticamente lo stesso ruolo in Fringe, gli X-files di J.J. Abrams. Sul successo del film non ci sono molti dubbi, ma l’aspetto più interessante è in quella che potrebbe essere la prossima miniera d’oro di Hollywood, basata su trame di sicuro successo come questa. Evitando errori come mettere i tre moschettieri in mano a un regista dalla poetica discutibile come Paul W. S. Anderson, gli studios possono trovare nuova linfa proprio dalla riscoperta dei classici di genere. Due semplici esempi: Miss Marple e Monsieur Poirot, entrambi personaggi di Agatha Christie, già protagonisti di fortunati film per un pubblico attempato nei passati decenni (compreso quel capolavoro di Assassinio sull’Orient Express di Sidney Lumet). Pensare oggi a un loro reboot significherebbe risolvere molti problemi al comparto sceneggiature di una major, dando magari a una diva sul viale del tramonto la possibilità di avere un glorioso finale di carriera, mentre il “belgioso” investigatore farebbe la gioia di molti caratteristi in eterna attesa di quel ruolo per cui essere ricordati. Elementare, no?


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Il mio nome e’ Holmes, Sherlock Holmes

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Basil Rathbone

In molti hanno avuto il privilegio di mettere in testa quel buffo cappello e martoriare le corde di un violino per interpretare l’investigatore di Baker Street, ma quelli da incorniciare sono molti di meno. Ecco la personale classifica di The Cinema Show - e se non siete d’accordo scrivete sulla nostra pagina Facebook qual è il vostro Holmes preferito.

Protagonista della più longeva serie cinematografica di Holmes, l’attore inglese resterà per sempre il perfetto investigatore di Conan Doyle. Phisique du rôle irripetibile, identificazione con il personaggio minuziosa, ma soprattutto quell’inconfondibile stile anglosassone che un attore dalla classe innata come Rathbone era capace di offrire allo spettatore. Meraviglioso.

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a m e n i c Il ollazzo

di Boris S

to e in i t r e v i d , o t a Spudor ival t s e F l a D . o bianco e ner lle e n a v i r r a s di Canne rtist A e Th e l a s e nostr

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m u to che parl a


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Io sono ancora grande, è il cidel genere: Michel Hazanavicius, Jean nema che è diventato piccolo”. Dujardin e Berenice Bejo. Vi dice qualForse è la più bella frase delcosa? Purtoppo quasi sicuramente no, la (e sulla) storia del cinema. a meno che non foste qualche anno fa Gloria Swanson meriterebbe al Courmayeur Noir In Festival, in una di essere ricordata anche solo seconda serata nevosa, e non vi foste troper quegli occhi, per quell’evati di fronte a OSS 117- Le Caire nid spressione, per quelle parole dette con la d’espions, un divertentissimo remake copassione glaciale di chi ha classe da venmico delle famose spy-story transalpine dere. The Artist è la versione più buffa ma di qualche decennio fa. Inspiegabilmente non meno malinconica di quel Viale del mai distribuito in Italia, era un saggio tramonto che imboccarono tanti, troppi, di comicità surreale e demenziale (indiquando il cinema cominciò a parlare e, menticabile la versione “egiziana” della forse, a perdere la magia. Rivoluzioni ce canzone Bambino) in cui due attori e un ne sono state tante, nella Settima Arte, e regista di altissimo livello facevano cineognuna sembra averle tolto poesia: perma “basso” con talento d’autore. Qui siaché il cinematografaro e il cinefilo sono mo nel 1927 e Hollywood è una terra di inguaribili conservatori, piegati verso il mezzo, di nessuno, di confine. Tutto sta passato, dicono di volere innovazioni ma cambiando, come poi avverrà forse, con poi sognano i registi classici, li citano e si quella forza e quella violenza, solo con la eccitano con loro. E così la parola, il coNew Hollywood più di quarant’anni più lore, il digitale, ora il 3D, sono tutti step tardi. George Valentin - Dujardin, attoche hanno lasciato vittime tra gli alfieri di re magistrale colpevolmente sconosciuquesta industria di prototipi che ci fa imto da noi - è un divo, Peppy Milller (la pazzire. Certo, rifare meravigliosa Bejo, Viale del tramonto al compagna nella vita maschile, nel Terzo di Hazanavicius) “In tempi di 3D, Dolby Millennio, era abbaun’aspirante attriSurround e diavolerie stanza imprevedibile. ce. Si incontrano a E infatti, in fondo, un’anteprima, quansimili, qui ci bastano non è così. Perché il do lei, con furbizia e trio che anima The intraprendenza, si fa il bianco e nero e la Artist, una delle vere fotografare con lui musica, con le parole sorprese dell’ultimo per finire, insieme, su Festival di CanVariety (fra qualche dei personaggi sui nes, è quello da cui anno le attricette facartelli” mai potresti aspetranno la stessa cosa, tarti uno “scherzo” ma per finire su The


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Cinema Show). Torneranno a vedersi sul set di un film: lei qui fa la ballerina. Le loro carriere si incrociano mentre lei sale e lui scende, il sonoro sarà la scossa che ribalterà il loro mondo. Semplice, quasi matematico, efficacissimo come stratagemma narrativo: infatti, in tempi di 3D, Dolby Surround e diavolerie simili, qui ci bastano il bianco e nero e la musica, con le parole dei personaggi sui cartelli. Ora non azzardatevi a smettere di leggere e tanto meno provate a non accettare la sfida di The Artist. Perché ha momenti alla OSS 117 e sa essere commovente come un’opera cinematografica classica dei “bei” tempi, ma allo stesso tempo non è un’operazione d’essai, volta a pochi, malati appassionati ma un film adatto a tutti, popolare e immediato, cinema d’intrattenimento allo stato puro. Hazanvicius vuole sì comporre un inno d’autore al cinema glorioso degli anni Venti, ma anche

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dimostrare che seppure i nostri biglietti sono raddoppiati, se andiamo in sala con occhialetti scomodi e poltrone a diverse regolazioni, se ci sono Imax e affini a farci vivere “nuove” esperienze, chi ama e guarda il cinema non è cambiato. Gli serve quello che vedeva ottant’anni fa, la base delle emozioni e delle scosse che sa darti il grande schermo sono tutte là, in bianco e nero e silenziose. The Artist riconsegna le responsabilità e le fila della narrazione al regista, quelle delle scene a chi scrive il copione, la fisicità e la capacità di riempire lo schermo agli attori: nessuno può sfuggire al suo compito, ed è forse questo il suo segreto. Oltre a una bella storia d’amore, rotonda e commovente e a Dujardin, che sembra il Gassman più gigione e in forma. The Artist è un manifesto e un gioco, come il cinema dovrebbe, deve sempre essere. Divertito, divertente, un po’ sexy e spudoratamente ambizioso.


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Tutti i Re degli uomini di Alessandro De Simone

Il cinema politico americano ci ha regalato opere indimenticabili. Le idi di marzo è una di queste, ma Clooney ha imparato dai più grandi.

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el cinema italiano si fa sempre un gran parlare della stagione impegnata delle opere civili firmate da Petri, Rosi, Montaldo, tanto per citarne alcuni tra i più rappresentativi, che con film come Le mani sulla città, La classe operaia va in Paradiso, Sacco e Vanzetti, hanno tratteggiato in maniera mirabile la storia di una nazione giovane e confusa. Quarant’anni dopo, l’Italia è nella stessa situazione, anzi, ben peggiore, e nel mentre nessuno, o pochissimi a voler essere proprio corretti, ha fatto sua l’eredità straordinaria che questi cineasti ci hanno lasciato. Neanche il celebrato Paolo Sorrentino con Il divo, biopic lisergico tanto bello da vedere quanto banale nel raccontare la storia di un uomo che ha segnato, nel bene e nel male, la vita politica del nostro paese. Andando oltreoceano, ci troviamo invece davanti a un paradosso straordinario. Gli Stati Uniti d’America, patria di Reagan,

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Bush e il senatore McCarthy, hanno una grande tradizione di cinema politico e che parte oltretutto da molto lontano. La nascita di una nazione e Intolerance di David Wark Griffith sono di fatto due opere politiche, la seconda in particolare è il primo manifesto antirazzista della storia del cinema. Nel 1940 John Ford portò sullo schermo la potenza evocativa di Furore, il romanzo di John Steinbeck che fotografò la Grande Depressione, aggiungendovi quella spinta in più nei confronti del New Deal necessaria per appoggiare l’imminente entrata in guerra del paese e il suo condottiero Franklin Delano Roosevelt. Altri tempi, in cui un regista come Frank


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Capra nel giro di dieci anni poteva raccontare l’everyman, il John Doe, spiegare ai suoi compatrioti perché centinaia di migliaia di uomini dovevano andare in terre lontane a morire e poi, un anno dopo la fine della guerra, affermare con una poetica di chiaro impianto orrorifico che le banche sono il Male e il capitalismo la rovina dell’uomo. Il potere logora chi non ce l’ha Spencer Tracy corre per la presidenza proprio per Capra nel 1948, l’anno dopo Broderick Crawford è il protagonista di Tutti gli uomini del Re, uno dei film simbolo del genere, storia di un coraggioso uomo qualunque che grazie alla forza delle sue idee riesce a farsi eleggere governatore, diventando poi un piccolo dittatore corrotto, corruttore, avido e malvagio. Cinquant’anni dopo Tim Robbins avrebbe tratto ispirazione a piene mani per il suo esordio dietro la macchina da presa, Bob Roberts, in cui un giovane politico dalla faccia pulita si rivela un calcolatore freddo e senza scrupoli. Nella finzione cinematografica i protagonisti si fanno entrambi sparare per salvare la loro carriera politica, nella realtà c’è chi si limita a farsi tirare statuette del Duomo di Milano. Mr. President La Casa Bianca è un set affascinante, lo stesso non si può dire di molte delle persone che l’hanno abitata. Le biografie dei presidenti sono da sempre un buon

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mercato per Hollywood. Uno dei più gettonati ultimamente è stato Richard Nixon, prima interpretato da Anthony Hopkins nel discutibile biopic di Oliver Stone (di cui potete leggere però una bellissima intervista più avanti), poi da Frank Langella nell’invece magnifico Frost/Nixon, in cui Ron Howard mette a nudo l’Imperatore caduto con una lezione di cinema classico, fatto di campi e controcampi che hanno la stessa suspence di un thriller tesissimo. Stone, tornando a bomba, è comunque un esegeta dei suoi presidenti, e se da una parte W. è un dimenticabile sfogo nei confronti di un uomo che ha quasi messo in ginocchio il paese, dall’altra J.F.K. è una delle più attendibili analisi e ricostruzioni del complotto per porre fine alla vita di John Kennedy. Sul cinema kennediano e postkennediano è necessario soffermarsi. La famiglia di cattolici irlandesi più potente d’America è stata anche una delle più sfortunate, un fascino maledetto che il cinema non poteva farsi sfuggire. Bisognerebbe scriverne un libro, e chi scrive è a buon punto, ma dovendo scegliere ci sono alcuni momenti fondamentali. Bobby, di Emilio Estevez, è un’opera struggente che racconta l’America di ieri e di oggi con mirabile lucidità. Thirteen Days di Roger Donaldson è un thriller storico di incredibile intensità. Un mondo perfetto di Clint Eastwood è il film che meglio racconta cosa successe a Dallas in quel dannato 22 novembre 1963 senza mostrare neanche un fotogramma preso in Elm Street. Già, proprio quella di Freddie Krueger, per


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Salve, siamo gli Ex Presidenti Hollywood ha regalato al suo pubblico tante figure di capi di stato eccellenti. Peccato che, essendo frutto della fantasia di sceneggiatori e registi, non si potesse anche votare per loro. Ecco le primarie di The Cinema Show per la Casa Bianca.

Andrew Shepherd – Il Presidente (The American President, di Rob Reiner, 1995) Rob Reiner, dopo dodici anni di regno reubblicano, celebra il ritorno dei democratici al potere con una commedia romantica che è un chiaro prodotto di propaganda atto a lanciare la volata a Bill Clinton per il suo secondo mandato. Michael Douglas interpreta il presidente illuminato, vedovo, affascinante e innamorato che tutti vorremmo votare. Al suo fianco Annette Benning, signora Warren Beatty, da sempre un sostenitore della causa, e la coppia portante di West Wing, Aaron Sorkin al copione e Martin Sheen comprimario di lusso.

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quei pochi che non se fossero mai accorti. Il vero incubo non aveva gli artigli, ma una pallottola magica. Le idi di George Mr. Clooney, tra una Canalis e una wrestler, ha voluto per la sua quarta regia gettarsi in politica, raccontando la storia di un democratico aspirante alla Casa Bianca, con un programma ultraprogressista, ai limiti del socialismo, con un piccolo scheletro nell’armadio. Ma La figura chiave non è lui, ma il suo staff, in particolare il suo giovane, geniale e rampante addetto stampa, un Ryan Gosling sempre più in ascesa. Le idi di marzo è un film dal fascino classico, ingiustamente rimasto a mani vuote all’ultima Mostra del Cinema di Venezia, ma con buone prospettive per la stagione americana dei premi. La cosa che impressiona di più del film è senza dubbio il coraggio con cui Clooney espone il suo pensiero nei confronti della situazione politica americana, dando un’alternativa ideale persino al già ultraprogressista Obama. E poi c’è la lucidità con cui analizza la macchina politica, cosa che era riuscita con la stessa efficacia solo a quel genio di Aaron Sorkin nelle sette stagioni di West Wing, forse la migliore serie televisiva degli ultimi vent’anni e anche la più illuminante nei confronti della macchina elefantiaca che ci ostiniamo a chiamare democrazia, ma che in realtà altro non è che un’azienda complessa che fa import export di un prodotto usurabile indicato dal nome in codice Libertà.


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Happy New

Marshall di Ilario Pieri

Il regista di Pretty Woman e Paura d’amare ha deciso di raccontarci ogni ricorrenza? Dopo San Valentino, è la volta di Capodanno a New York

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resto sul grande schermo anche Capodanno a New York. No, non è l’ultimo cine panettone, bensì l’adattamento italiano dell’originale New Year’s Eve di Garry Marshall. Dopo San Valentino è la volta dell’ultima notte dell’anno e l’impianto narrativo non cambia: storie, tematiche e personaggi differenti per un’unica festività. Tra i più fortunati e prolifici produttori, scrittori e registi di Hollywood (classe 1934 from New York City), Marshall ha girato alcune indimenticabili pellicole degli anni Novanta. Paura d’amare, Se scappi ti sposo e Pretty Woman, reimmaginazione di una Cenerentola moderna nelle mentite spoglie di una Julia Roberts in odore di successo planetario. Passano gli anni, cambiano le mode e questi continua a muoversi all’insegna di

un genere collaudato: la commedia romantica. Con una carriera alle spalle di autore televisivo (Mork & Mindy, Laverne & Shirley, ad esempio) ha curato anche produzioni indipendenti attraverso il suo teatro in quel di Toluca Lake, fino ad aver vestito più volte i panni di interprete e aver prestato la voce per I Simpson e The Looney Tunes Show. Da menzionare il significativo contributo reso da Happy Days, una delle opere più importanti e celebrate nella storia del piccolo schermo. Oggi il regista ha ancora voglia di divertire, magari proponendo un mosaico narrativo, un puzzle di racconti per uomini e donne colti nelle diverse fasi della vita, riunite dalla celebrazione di particolare ricor-


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renza: la notte dell’ultimo dell’anno in una Grande Mela agghindata a festa, tra folle in delirio, tappi di champagne fatti esplodere come proiettili e un girotondo di gioia e colori dopo tante pene. All’ufficiale dell’esercito del precedente Appuntamento con l’amore seguono storie “in corsia” tra malati terminali senza figli al capezzale e coppie in dolce attesa. Per giustificare la presenza di Jon Bon Jovi gli sceneggiatori hanno scelto, quale luogo deputato all’incontro e allo scontro di opinioni, uno studio di registrazione dove il cantante del Jersey, la sua ex, la corista e l’amico si troveranno più volte a confronto. Completano il quadro, mentre fervono i preparativi per i festeggiamenti della mezzanotte, Michelle Pfeiffer, Ashton Kutcher, Abigail Breslin, Sarah Jessica Parker, Carla Gugino, Hilary Swank, Jessica Biel, Zac Efron, Katherine Heigl e tanti altri. Chissà cosa avrebbero pensato i “fantasmi cinematografici dei capodanni passati” di questa frenesia, baldoria e lucida follia della metropoli. Si pensi alle memorie trascritte per immagini in Radio Days (l’entrata del 1944, le voci alla radio e ricordi d’infanzia dissolti dal tempo). Ancora all’inutile apprensione per un’invitata che non si presenterà a cospetto del vagabondo innamorato ne La Febbre dell’oro o l’effetto sorpresa stampato sul volto della diva Norma, vecchia gloria del cinema muto, dinanzi al suo immenso salone imbandito ma vuoto, in Viale del tramonto. Che cosa avrebbe detto poi quel malinconico C.C. Baxter, affit-

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tacamere per gioco, fino a quando non si invaghisce dell’ascensorista Fran la quale lo sorprenderà sulla porta con una bottiglia di Champagne nel meraviglioso L’appartamento. Chi ha poco da stare allegro nella notte dove tutti si scatenano è Harry in Harry ti presento Sally, solo e affranto, mentre tenta di centrare il canestro davanti alla TV sintonizzata su una diretta da Times Square in compagnia delle tradizioni, dei biscotti e delle passeggiate notturne davanti ai negozi chiusi perché, dice “è il momento migliore per guardare le vetrine”. Se la passa peggio però il disperato Norville di Mr. Hula Hop, ubriaco e con indosso il grembiule di quando è stato assunto, deciso a farla finita lanciandosi dal quarantaquattresimo piano (senza contare il mezzanino) dell’impero Hudsucker salvato da un angelo (attempato e con sigaro, ma sempre un angelo). Diverso e tormentato è il legame che unisce Lenny e Mace negli strani giorni di un futuro alla Philip K. Dick. Un sentimento più forte dell’odio, del delirante bisogno di intossicarsi con esperienze virtuali altrui e della solitudine che avvolge tutti i personaggi. L’azione si sposta da New York a una città degli angeli cupa e selvaggia, nella quale lo scoccare del fatidico 2M verrà salutato come la fine di un società distopica. L’appuntamento nelle sale italiane è per il 28 dicembre. Come recita lo slogan del manifesto americano “Let the countdown begin” con la speranza di non dover esclamare usciti dal cinema “e anche questo Capodannno…”


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Il mese scorso vi abbiamo proposto l’intervista ad Antonio Banderas, che ci aveva parlato anche di Black Gold, che da noi arriva con il titolo Il principe del deserto…

The in the Sahara di Luca Svizzeretto

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e vi dicessimo che Il principe del deserto, film tratto dal romanzo South of the Heart dello svizzero Hans Ruesch, deve la sua produzione in parte a Guerre Stellari e in parte al calcio italiano voi ci credereste? Eppure è proprio così. Il progetto è nato infatti sul set di Star Wars, dove il produttore tunisino Tarak Ben Ammar si trovava per lavoro, e passava i suoi momenti di relax a leggere il libro di Ruesch, restandone fortemente appassionato. L’idea di farne una trasposizione cinematografica cominciava così a farsi largo nella sua mente. Sono passati più di trent’anni da quel momento e Ben Ammar ha fatto fortuna in Italia anche come editore televisivo,

comprando l’emittente satellitare Sportitalia, famosa per essere stata la prima ad acquistare i diritti della Serie B di calcio. Partendo da Han Solo e Luke Skywalker, e passando per il mondo del pallone, ecco un bel giorno la decisione di realizzare non solo la pellicola pensata tanto tempo prima, ma di farlo insieme al regista Jean Jacques Annaud, amico di lunga data del produttore nato a Tunisi e naturalizzato francese. La realizzazione di un sogno per i due che non avevano mai trovato il momento giusto per lavorare insieme. La vicenda è ambientata nell’Arabia degli anni ‘30 del secolo scorso e narra le avventure del Principe Auda, un eroe diviso tra due padri, due amori e due scelte, e di Amar,


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sovrano di Salmaah, costretto essere sottolineata, vanno a cedere i suoi due amacitate anche le cinquemila ti figli al suo feroce pallottole a salve sparanemico, dopo aver te, i tre aerei e le otto perso una battaglia. macchine blindate Annaud non solo progettate e costruha viaggiato molto ite appositamennelle terre arabe te per le riprese. insieme alla sua Annaud fin dal famiglia ma è anche primo momento un grande appassioha chiesto i mezzi nato delle leggende giusti per dare alle del posto. Il principe sequenze delle battadel deserto è un film con glie la giusta autenticità e un’atmosfera da Mille e la necessaria potenza sul una Notte, ambientato grande schermo. Specie I numeri del film: in un passato non molto se si considera che il relontano. Si tratta di una gista non ha voluto uti20000 comparse, storia universale, quella di lizzare in alcun modo gli 10000 cammelli e un giovane principe divieffetti in computer grafiso tra due modi di vedere ca. Il principe del deserto 5000 pallottole. il mondo, un’opera cineè un film d’avventura e matografica epica. Le riprese sono durate d’azione realizzato come si faceva una volcinque mesi con il cast diviso tra Tunisia e ta. Con un grande budget a disposizione, Qatar, avvalendosi di un team internaziograndi mezzi tecnici e non tecnologici e nale di artigiani e tecnici di altissimo livelun grande cast di attori. Protagonisti della lo, alcuni provenienti dalla stessa Tunisia, pellicola sono Antonio Banderas, Freida per costruire e disegnare la Penisola Araba Pinto, Mark Strong e il divo franco-algeagli inizi del Ventesimo Secolo. Ben Amrino Tahar Rahim, divenuto famoso per mar ha voluto fare le cose in grande e ha il suo ruolo ne Il Profeta di Jacques Aumesso a disposizione di Annaud ben vendiard. Sulle orme del Lawrence D’Arabia, timila comparse, diecimila cammelli (molche lanciò Omar Sharif, la pellicola diretta tissimi presenti contemporaneamente sul da Annaud e prodotta da Ben Ammar set) e oltre duemila cavalli. Per non parlare catapulta nuovamente il pubblico delle dei sarti di grande livello che hanno idegrandi sale cinematografiche nel deserto ato e realizzato settemila costumi diversi. del Sahara, dove tra scimitarre, miraggi, Visto che siamo in tema di numeri e dato oasi, principi e principesse tutto è possibiche una simile organizzazione merita di le… anche sognare.



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Oliver Stone, courtesy of Forum Film Festival, NYC

Oliver Stone

di Adriano Ercolani

“Spero che la protesta a Wall Street sia solo l’inizio” Il regista di Wall Street, si schiera con gli Indignati e racconta a The Cinema Show il suo cinema e la crisi economica

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a protesta degli Abdusters (gli Indignati) cominciata lo scorso 17 settembre con l’occupazione di Zuccotti Park, nel cuore del quartiere finanziario di New York: non c’era momento migliore per incontrare Oliver Stone, il più schierato e politico dei cineasti americani contemporanei. L’occasione l’ha fornita la sesta edizione del Forum Film Festival diretto da Thane Rosenbaum, rassegna che si promette, attraverso proiezioni e successivi dibattiti, di analizzare lo stato dell’America di oggi. Stone è venuto a (ri)presentare Wall Street, considerato all’epoca un’o-


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pera di forte denuncia contro il cinismo e la sfrontatezza dei broker newyorkesi. E The Cinema Show c’era. Come vede il suo film alla luce degli eventi di oggi?

Sono due epoche completamente differenti, è incredibile pensare quanto siano cambiate l’economia e la finanza in meno di venticinque anni. Il mio Wall Street voleva essere un atto di denuncia contro un certo tipo di spregiudicatezza negli affari, adesso siamo arrivati alla criminalità più o meno consentita. Ho raccontato una storia che in fondo non verteva neppure troppo sul fare denaro, o meglio superava la questione: si trattava di andare oltre i propri limiti e le proprie aspettative, come succedeva al protagonista Bud Fox. Non credo che Wall Street sia stato un film anticipatore di quello che sta succedendo oggi, all’epoca non fu neppure un grande successo. Il pubblico non sapeva bene come prenderlo, era un prodotto che in pieno yuppismo rampante spingeva a pensare troppo… In che modo sta vivendo l’occupazione di Wall Street?

Onestamente in maniera contraddittoria. Non sono sorpreso di quello che è successo, lo sono delle proporzioni e dell’eco mediatico che sta avendo. Per carità, ne sono felice: era ora che qualcuno tentasse seriamente di fermarli prima che andassero oltre i limiti consentiti, posto che non l’abbiano già fatto. Spero continui per tutto il tempo necessario e

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segni un momento di svolta nei rapporti tra la massa della popolazione e l’oligarchia che gestisce l’economia americana. Lo slogan è “We are the 99%”, ma finora questa percentuale non ha avuto veramente voce in capitolo. Magari adesso qualcosa cambierà. Ammetto però che vedere Wall Street assediata in qualche modo mi sconforta: per quelli della mia generazione è un luogo mitico. Mio padre poi ci ha lavorato per trent’anni, collaborando con quelli che al tempo erano gli “squali” più pericolosi e spietati tra i broker. Quali sono le cause che secondo lei hanno scatenato una protesta così vibrante?

Non c’è dubbio che lo stato attuale è una diretta conseguenza della crisi finanziaria del 2008, che aveva portato alla luce la terrificante speculazione che Wall Street aveva perpetrato in maniera molto vicina all’essere criminale. Al forum Film Festival è stato proiettato anche Too Big to Fail, film TV tratto dall’omonimo libro di Andrew Sorkin che racconta di come Henry Paulson, allora Segretario del Tesoro degli Stati Uniti, nel 2008 convinse il governo a dare alle banche di Wall Street settecento milioni di dollari per evitare il fallimento. Cosa pensa di questo film?

Cosa penso del film o cosa penso dell’evento? (Ride) Il film di Curtis Hanson è molto ben scritto ma è troppo morbido, non mantiene il tono accusatorio del libro di Sorkin. È vero che nell’ultima parte la messa in scena si apre a esplora-


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re l’ambiguità di fondo della soluzione adottata, ma per tre quarti Paulson appare come il salvatore della patria che non mette in discussione l’operato sciagurato dei banchieri. In Wall Street: il denaro non dorme mai ho messo in scena in maniera sintetica lo stesso evento, e credo di essere stato più lucido e imparziale nel farlo. In quanto all’operato di Paulson, bisogna ammettere che fu una decisione impossibile da evitare: il crac di Wall Street sarebbe stato radicale e definitivo, e avrebbe messo a repentaglio molto di più che la sola economia americana. Però non riuscirò mai ad affermare che quegli uomini meritavano di essere salvati… Torniamo a Wall Street. Come riscriverebbe adesso un personaggio come lo “squalo” Gordon Gekko?

Non potrei più scriverlo, non saprei da

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dove cominciare, non conosco il mondo finanziario contemporaneo. Sicuramente so che oggi Gekko sarebbe visto come un male minore: non ha trascinato a picco l’economia, non ha infranto le regole, non ha distrutto la vita di nessuno, al massimo l’ha complicata. Era uno che conosceva i problemi del suo mondo e ne traeva vantaggio, ma senza andare oltre determinati limiti. Con il secondo Wall Street ho provato a mettere in luce un aspetto inquietante della finanza di oggi, talmente impazzita da vedere Gekko come un eroe. Pensa di poterlo portare ancora sul grande schermo?

Al momento non ci sto pensando seriamente, anche se mi piacerebbe vederlo

"La finanza di oggi è talmente impazzita da vedere Gekko come un eroe"


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personaggi che ho portato in scena, cerco di cogliere sempre lo spirito dei tempi che voglio raccontare e a istinto vado sempre dietro a quello che le riprese mi suggeriscono. Per lei fare cinema rimane ancora oggi una sfida?

muoversi nel marasma di adesso. E poi la cronaca di questi giorni mi regala talmente tanti spunti d’azione! Lei è un cineasta che lega indissolubilmente il suo lavoro alla Storia e a personaggi realmente esistiti: ha mai avuto la tentazione di “abbellirli” per esigenze narrative?

Può sembrare una contraddizione, ma in realtà non penso mai un film in termini di Storia, ma cerco sempre di dare un giudizio su quello che sto raccontando. Questo comporta sempre una sorta di “interpretazione”, e me ne infischio se poi piace o non piace. Ad esempio ho avuto molti problemi con gli ex componenti dei Doors, che non erano contenti di come li avevo dipinti nel mio film. E allora? Non volevo fare un documentario, era la mia versione di Jim Morrison! Vado fiero del modo con cui mi sono avvicinato a tutti i

Oggi più che mai! Anche se devo ammettere che oggi di sfide ne perdo di più: Wall Street 2 non ha l’impatto di Platoon o di J.F.K., forse non riesco più a raccontare con la stessa forza, o forse mi era troppo vicino come storia. A livello neppure troppo inconscio sia in questo Wall Street che nel primo ho messo in scena l’amore verso mio padre. Nel 1987 gli ho reso omaggio con il personaggio integerrimo interpretato da Martin Sheen, l’anno scorso con il rapporto padre-figlio che sviluppano Michael Douglas e Shia LaBeouf. Comunque trovo sempre maggiori difficoltà nel farmi finanziare i progetti. Non siamo più negli anni ’70 o anche solo nella prima parte degli ’80: alla gente non interessa più che venga raccontato cosa sta succedendo intorno a loro, il momento storico e politico che si sta vivendo. Di solito a un regista si chiede quale sia stato il miglior attore con cui ha mai lavorato. Invece da Stone, cineasta “contro” per antonomasia, vogliamo sapere qual è l’interprete che non vorrebbe mai più incrociare…

Non ho bubbi: Richard Dreyfuss, che ha interpretato Dick Cheney in W.: la peggior esperienza lavorativa della mia vita!


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Il regista di Kramer contro Kramer racconta al nostro inviato la genesi del film che strappò l’Oscar ad Apocalypse Now

Robert Benton di Adriano Ercolani

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ncontrare Robert Benton è, senza mezzi termini, un privilegio. Poterlo intervistare dopo aver rivisto Kramer contro Kramer è un’esperienza toccante, scandita per entrambi dall’emozione che il film ha nuovamente provocato. “È stato il miglior momento della mia carriera. È un film sulle relazioni personali e sulla ricerca di equilibrio”. Ecco l’anima di Kramer contro Kramer, espressa in una frase. Il Forum Film Festival ci concede di rimanere nella sala dove si è tenuta la proiezione - il McNally Amphitheatre dentro la Fordham University, a due passi dal Lincoln Center. Dopo la chiacchierata di rito con il pubblico, l’autore è stanco,

“Abbiamo raccontato la nuova famiglia americana” si porta dietro i suoi quasi ottant’anni che pesano su un fisico asciutto, dai movimenti ormai lenti ma sempre composti. Rimane seduto sulla poltrona e mi fa cenno di sedere accanto a lui. Cosa ha rappresentato per lei Kramer contro Kramer?

È stato un film che ha molto toccato a livello personale non soltanto me, ma anche il produttore Stanley Jaffe. In qualche modo era profondamente legato alla nostra vicenda personale. Tra il ‘77 e il ‘78 stavo vivendo un periodo intenso, ero un uomo molto occupato e purtroppo un padre non molto presente. Quasi senza accorgermene avevo accu-


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“Alla fine dei Settanta eravamo nel mezzo di una vera e propria lotta tra i sessi” mulato così tanta rabbia per questo, che poi sono riuscito a convogliare nel film. La sfida più importante per me la affronta Ted Kramer, quando guarda suo figlio Danny e si dice: “Devo diventare tuo padre”. Mentre giravo mia moglie mi è stata sempre vicina, pronta a spiegarmi la portata emotiva di quello che stavo facendo. Stanley proprio in quel momento stava affrontando un divorzio, si è immerso nella produzione ed è stato fondamentale per tenerla unita: lavorava al secondo piano, io avevo il mio ufficio per scrivere proprio sotto al suo, spesso mi suggeriva delle idee urlandomele dalla finestra. Come reagì il pubblico a questa storia?

All’epoca ne nacque un caso, ci si concentrò molto sul processo legato alla custodia di Billy, anche più di quanto avrei voluto: un numero sempre maggiore di uomini andò in aula per chiedere la custodia dei figli. Vollero una migliore rappresentazione, prima neppure si provava a cercarla per vie legali. Molte donne invece chiesero una maggiore partecipazione alla vita familiare. Prima di Kramer contro Kramer non si era mai sentito dire a una donna in tribunale “Voglio costruirmi una vita e una carriera e insieme crescere mio figlio”. Se il

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film ha contribuito a legittimare questa esigenza non posso che esserne fiero. Lo vede quindi come un film femminista?

Non direi, però è un’opera che mostra un padre che deve imparare a gestire un bambino e una casa, e trovo che sia umiliante che prima non ne fosse capace. Come ha costruito il lavoro sui personaggi con Dustin Hoffman e Meryl Streep?

Non c’è quasi stato bisogno di dare loro indicazioni sul set perché avevamo parlato dello script per dieci giorni, lo avevamo analizzato passo per passo. Ho riscritto molti dialoghi con loro, quindi durante le riprese non c’è stata improvvisazione. Mi ricordo che sul set erano molto emozionati, Meryl soprattutto interpretava uno dei suoi primi ruoli importanti ed era spaventatissima. Non credo che Kramer contro Kramer avrebbe potuto essere realizzato senza di loro: sono stati l’anima e la sintesi di ogni possibile discorso riguardante il film, lo hanno reso accessibile e umano. Ha mai considerato l’idea di cambiare il finale riunendo la famiglia per chiudere il film in maniera più accomodante?

Impossibile: quel che c’è era l’unico finale autentico. Per me Kramer contro Kramer non è un film sul sistema legale, ma sul perdono, su qualcuno che impara a conoscere i propri errori e a cambiare. Il discorso principale riguarda la compassione: se la vediamo sotto questo punto di vista, capiamo che la famiglia


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non può tornare indietro perché Ted è troppo cambiato e così anche Joanna. Avevamo pensato di girare la scena con loro che salivano insieme sull’ascensore, ma avremmo perso forza metaforica, sarebbe stato un gesto frainteso. Non poteva esserci un finale convenzionale, era importante che ribaltasse il verdetto della corte, un giudizio basato su una legge che non vedeva veramente le persone, mentre alla fine sia Ted che Joanna ascoltano la loro nuova voce. È anche un racconto sulla capacità di ascoltare e connettersi. Se però Kramer contro Kramer voleva istituzionalizzare la “nuova” famiglia americana, come spiega allora il personaggio di Jane Alexander che invece torna con il marito?

Quella linea narrativa serviva a testimoniare che puoi divorziare con una persona, ma non puoi mai smettere di essere suo marito o sua moglie. Il film ribadisce che concetti come marito, moglie e famiglia vanno anche oltre le regole sociali o le leggi. Anche quando non sono più istituzionalizzati, ci sono legami che continuano a esistere e sono impossibili da sciogliere. Mentre scriveva lo script sapeva di star realizzando un’opera che modo rappresentava un momento sociale e politico?

Sì, il romanzo di Avery Corman da cui è tratto è uscito nel 1976 e coglieva perfettamente il momento che stavamo vivendo. Eravamo nel mezzo di una vera e propria lotta tra i sessi, che era quin-

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di anche una questione politica. Negli anni ’70 il numero dei casi di divorzio è letteralmente esploso, Kramer contro Kramer ha portato al cinema questo fenomeno. A quel tempo era uso comune affidare il bambino alla madre. Si tendeva a pensare che il rapporto tra madre e figlio fosse più forte. Era difficile non trarre un bel film da quel materiale straordinario. Lei è stato anche un grande sceneggiatore per film diretti da altri: quali sono tra quelli che ricorda con più piacere?

Non saprei, credo che la sceneggiatura di Kramer contro Kramer sia veramente il mio lavoro migliore: tra gli adattamenti merita di essere messa al fianco di script come quelli de Il padrino o Il buio oltre la siepe, lo dico senza falsa modestia. La mia carriera è decollata con Gangster Story, ma confesso che trovo quella sceneggiatura sopravvalutata, non aveva un bel ritmo. Per fortuna Arthur Penn la sistemò con la regia e con il montaggio. Quella di Superman me l’hanno distrutta e ricostruita, a me sono rimasti i credit, ma non posso dire di considerarla mia: avevo scritto tutt’altra storia, soprattutto riguardo l’infanzia dell’eroe. Alla fine penso che le migliori sceneggiature che ho scritto siano quelle che poi io stesso ho diretto. Quella che ho più a cuore dopo Kramer contro Kramer è La vita a modo mio, forse perché mi ha dato la possibilità di dirigere un grande amico e un attore immenso quale era Paul Newman.



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Credi ancora alle favole?

C’era una volta, in una terra lontana lontana… No, questa volta le fiabe sono tra noi

di Mattia Nicoletti

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e favole nascono nella notte nei tempi. Quando l’uomo ha avuto l’esigenza di trasferire saggezza ed esperienza attraverso storie popolate da esseri fantastici. Le fiabe ancora oggi fanno parte dell’infanzia di ognuno di noi. La Disney, grazie all’animazione diffusa su larga scala, ha rappresentato Biancaneve, Cenerentola, La bella addormentata nel bosco dando un imprinting forte allo spettatore pari a quello che aveva dato il Frankenstein interpretato da Boris Karloff (la testa squadrata con la frangetta è stata tradita dal solo Kenneth Branagh per la sua versione filologica del romanzo di Mary Godwin Shelley). Favole e fiabe sono una sorta di religione pagana che insegna fin dai primi anni ad affrontare la vita. La televisione

per molto tempo le ha snobbate, forse per un desiderio assoluto di realtà, mentre il cinema ci ha giocato. Con Shrek ad esempio, oppure con Come d’Incanto in cui il principe azzurro prende vita. Oggi ABC, in attesa che Desperate e Grey’s Anatomy si concludano, punta sulla fantasia. C’era una volta, in originale Once Upon a Time (dal 25 dicembre alle 21 su Fox), è una storia che ha origine nelle favole per parlare delle esistenze di ognuno di noi. Emma Swan interpretata da Jennifer Morrison, la Cameron di House, arriva a Storybrook, una cittadina del Maine, guidata da un bambino che la convince a seguirla. Emma, inconsapevole, è la figlia di Biancaneve e di Prince Charming, che dopo ventotto anni dovrebbe salvare da un’incan-


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tesimo della strega cattiva. Ideata da Adam Horowitz ed Edward Kitsis, i due autori di Lost che hanno ideato il van della Volkswagen travestito da Dharma, C’era una volta fonde tutti gli elementi fiabeschi con la realtà attuale. Come in Lost ci sono due mondi paralleli. Entrambi reali nella loro relatività. Mastro Geppetto, il Grillo Parlante, i sette nani, Biancaneve: nei flashback sono personaggi delle favole e ai tempi nostri avvocati o insegnanti, appartengono a ciò che abbiamo sognato e a ciò che viviamo. Difficile in un certo senso, percepirne le differenze. Se volessimo approfondirne le valenze psicologiche potremmo dichiarare che in C’era una volta esiste il nostro essere fanciulli. Cosa accadrebbe se incontrassimo Biancaneve di persona? Probabilmente le chiederemmo che cosa ne è della mela rossa, dei nanetti, del vivere da sola in attesa dell’amore eterno. Le risposte da adulti le abbiamo già, ma nel retro del nostro cervello continuiamo a porci delle domande: incontreremo mai o abbiamo già incontrato l’amore della nostra vita? Riusciremo mai ad affrontare il male o ciò che consideriamo tale?

Riusciremo mai a vincerlo? C’era una volta, senza metterci di fronte a dilemmi esistenziali, affronta questi aspetti. Un’altra serie ha voluto fare riferimenti al mondo delle fiabe, ed è Grimm, che facendo appoggiandosi alle storie che i noti favolisti scrivevano, mette in scena un mondo fantastico, esaltando una vena horror e una struttura procedural. Il protagonista indaga e non vive una favola. In C’era una volta invece ciò che sorprende è la semplicità. Chi avrebbe mai pensato di realizzare una favola con i personaggi delle favole ambientandola in una società in crisi come quella che viviamo oggi? Esistono la solitudine, il rapporto con i genitori e con le persone in generale, la maternità, il potere, la politica, tutti adattati a un universo fiabesco. “House era un modo per approfondire un personaggio nei dettagli, ma Emma, il personaggio che interpreto qui, lascia ogni spazio all’invenzione, Non so cosa potrà accaderle domani. Non so se potrà sparire o volare. Non so se crederà alle favole o se tornerà con i piedi per terra”, ha dichiarato Jennifer Morrison, “e per questo sogno di poter fare tutto. Senza limiti”.


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La Vendetta è donna di Emanuele Rauco

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rendete Edmond Dantes, il protagonista che nel Conte di Montecristo evadeva da carceri impenetrabili e tornava a casa sotto mentite spoglie per vendicarsi di chi l’aveva ingiustamente costretto a tutti quegli anni di isolamento. Prendetelo e trasportatelo nell’America benestante degli anni Dieci del Ventunesimo Secolo, poi ringiovanitelo tanto da portarlo a essere un post-adolescente. Ma soprattutto cambiategli sesso. A questo punto avrete Amanda Clarke, ossia Emily Thorne, la protagonista di Revenge, serie ABC che dal 30 novembre è anche sugli schermi italiani di FoxLife. Creata da Mike Kelley (autore di serie di poco conto come Providence, ma produttore TV di successo), Revenge racconta le vicende della bella e dolce Amanda, nuova arrivata in uno di quei sobborghi marittimi pieni di bella gente e opportunità sociali. Ma Amanda nuova non lo è per davvero. Molti anni prima, quando era ancora piccola e tutti la chiamavano Emily, viveva lì assieme alla sua famiglia, distrutta dalla morte del padre: è per questo motivo che la ragazza torna, cambiata nell’identità e nei

Revenge, la nuova serie “noir” di Fox Life. Ovvero: il tema della vendetta per giovani donne connotati, e addestrata come una micidiale macchina di morte e vendetta che si scatena contro quelle persone (a occhio e croce tutto l’abitato) che distrussero la vita a lei e al padre. Dramma purissimo della vendetta, Revenge aggiorna (e stravolge a dire il vero, ma sia benedetta l’essenza sempre viva dei classici) il capolavoro di Alexandre Dumas ammiccando alle nuove generazioni TV, quelle che sognano gli Hamptons, Orange County o Manhattan attraverso Gossip Girl e The O.C., cercando di togliere pubblico alle serie teen di CW ma allo stesso tempo raccontando una storia più matura, adulta, vicina al noir, e coinvolgendo sapientemente un pubblico più grande – quello di riferimento del network – tramite


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l’uso dei personaggi, come la subdola ma al contempo umana Victoria Grayson interpretata da una Madeleine Stowe ancora in grande forma. La sua controparte giovane invece è Emily VanCamp, che gli appassionati seriali ricorderanno (non senza un certo languore) in Everwood e Brothers & Sisters. È attraverso queste due attrici – sperando che la più grande delle due non muoia con la prima stagione – che ABC si sta preparando la strada per salutare Desperate Housewives, la sua storica serie che a maggio saluterà gli spettatori con la fine dell’ottava stagione, lasciando le signore orfane di un dramma passionale, appassionante, venato di melodramma oscuro. Con Revenge, ABC cerca di sfruttare il filone molto fortunato della donne vendicatrici, tornato in grande spolvero dopo che Quentin Tarantino mescolò La sposa in nero di Truffaut con il giapponese Lady Snowblood per creare la mitica Beatrix Kiddo di Kill Bill. Certo, di tarantiniano - per non dire di truffautiano - nella serie di Kelley c’è ben poco se si esclude la raffinatezza

perversa di certi omicidi, ma è forse la prima volta che la vendetta prende un posto così importante, assoluto, decisivo all’interno di una serie. Le vendette tra personaggi nel corso di una storyline non mancano, né gli scontri per screzi che ritenevamo morti e sepolti, ma prendere una rivalsa che si perde nella memoria e farne il centro il cuore di uno show televisivo è impresa non da poco. Perché il tema della vendetta non ha un respiro dilatabile in tredici o ventidue episodi, perché ha un nucleo forte e concentrato che rischia di disperdersi in TV e perché ridurrebbe tutto a una sfilza di omicidi gustosi ma ripetitivi, come una versione più consapevole di Final Destination. E in parte Revenge è anche questo, svelando presto la sua natura di meccanismo, più che di racconto: ma è anche una discreta operazione di rinnovamento di un caposaldo della narrativa, e il tentativo di rendere il noir per signore più vicino al thriller che alla soap-opera. Almeno stando al seguito di pubblico, Mike Kelley c’è riuscito.


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B positive, please di Federica Aliano

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he Alan Ball sia il creatore di una delle migliori serie in assoluto della storia (Six Feet Under, ovviamente) è un fatto assodato. Che sia anche uno sceneggiatore abbastanza scaltro da saper accontentare il gusto collettivo del momento è pure assodato dai tempi di American Beauty. Ed è per questo motivo che, nonostante True Blood stia prendendo la deriva dark fantasy che ormai un po’ tutti i cicli letterari dei cosiddetti “nuovi vampiri” hanno, bisogna pur sempre leggere tra le righe (in questo caso tra le scene) e un messaggio diverso da quello evidente verrà fuori, potente e disturbante e stimolante al ragionamento come solo Ball sa essere. La prima stagione è stata di una bellezza devastante: prendendo tutte le distanze del caso dal ciclo di Sookie Stackhouse, Ball ha portato sul piccolo schermo una parabola sulla diversità e la difficoltà di integrazione di rara potenza narrativa, infarcendo in più la trama già forte con i concetti contrastanti di fanatismo religioso e sete sessuale tipici degli stati del sud. Poi la necessità di non ripetere ciò che era accaduto con Six Feet Under (un prodotto eccellente, ma difficilmente vendibile alle fasce primarie di pubblico) e per la costante intromissione dell’autrice, ha fatto riavvicinare il creatore ai testi di Charlaine Harris, inserendo

True Blood è alla quarta stagione. E tra intrighi amorosi e tendenze dark fantasy, noi continuiamo a fidarci di Alan Ball…

sempre maggiori elementi dai romanzi, ma non tralasciando la coralità che nei testi manca. In particolare, i due personaggi più belli, Lafayette e Tara, sono frutto della mente di Ball. La seconda stagione è una digressione sulle dipendenze di tipo più diverso, la terza è sulla smania di possesso, la territorialità, il concetto di regno, ed è il preludio di questa quarta stagione, che è tutta sul potere e il delirio di onnipotenza che spesso ne deriva, ma anche la necessità di guardarsi sempre le spalle per timore che ciò che è stato conquistato venga strappato via. La storia principale,


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il triangolo tra Sookie, Bill ed Eric è oramai un pallido e pretestuoso romanzetto. Tutte le altre creature (licantropi, mutaforma, fate e una necromante interpretata da una grandissima Fiona Shaw) sono il pretesto e spesso il veicolo per Ball per raccontare ciò che davvero gli interessa. Il tutto sempre supportato da un cast eccellente e strizzando l’occhio alla nuova moda dei succhiasangue che tanto pubblico young adult

riesce ad assemblare. Ma persino i vampiri, con tutto il rispetto per certa letteratura “classica” e il recupero di molti elementi tradizionali, sono l’escamotage per spiegare altro, la diversità soprattutto, ma anche l’avidità, la bulimia, la sete perenne e le dipendenze, nonché gli istinti primordiali degli esseri umani, sequenzialmente e inevitabilmente acuiti come tutti gli altri sensi dopo la vampirizzazione. Certo, tra le varie creature di un mondo di non umani e gli intrecci amorosi in stile soap opera, nonché una regia e una fotografia che si fanno via via più dozzinali, non c’è da gioire, ma pensando al famoso prequel a fumetti che indicava il TruBlood come bevanda pensata per far arricchire una multinazionale gestita da vampiri, speriamo che molto presto Ball riprenda in mano le redini del racconto e sviluppi meglio quel risvolto. Intanto siamo positivi.

Bevi Tru-Blood responsabilmente Il Tru-Blood è la bevanda al sangue sintetico che ha permesso ai vampiri di uscire allo scoperto. Ora che non sono più costretti a nutrirsi degli umani, possono integrarsi e vivere nella società. Per promuovere la serie è stata creata una vera a propria campagna pubblicitaria viral sulla bevanda. Tra la prima e la seconda stagione, il Tru-Blood è stato realmente prodotto (si tratta di una soda al gusto di arancia rossa, la cui confezione riproduce fedelmente le bottigliette della serie TV) e messo in commercio. Prima della terza stagione, il viral si è spostato sui concept pubblicitari più disparati, ora ironici, ora vicini alle pubblicità progresso. Ecco alcuni tra i poster più belli.

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Monthly Movie Magazine

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info@thecinemashow.it El Pibe de Oro: Boris Sollazzo — direttore@thecinemashow.it Genio di male: Alessandro De Simone — desimone@thecinemashow.it Nerdette in chief: Federica Aliano — aliano@thecinemashow.it Performers: Tirza Bonifazi, Francesco Del Grosso, Mauro Donzelli, Pierpaolo Festa, Michela Greco, Andrea Grieco, Mattia Nicoletti, Federico Pedroni, Ilario Pieri, Emanuele Rauco, Ilaria Ravarino, Emanuele Sacchi, Luca Svizzeretto Introducing: Andrea Pirrello Corrispondente da New York: Adriano Ercolani Special Guest: Giovanni Chinsella, Barbara Gordoni Art Director – Our Personal Pollock: Maria Chiara Santoro — santoro@thecinemashow.it Sviluppo interfaccia iPad: TechnoSolutions srl Marketing e pubblicità, alias “La longa mano” Alessandro De Simone Thanks to: Francesca Ungaro, Emanuela Semeraro, Antonio Viespoli, Federica De Santis, Daniela Pagani, Cristina Casati, Marina Caprioli, Riccardo Tinnirello, Francesco Marchetti, Cristina Partenza, Giulia Martinez, Giancarlo Di Gregorio, Annalisa Paolicchi, Rebecca Roviglioni, Cristiana Trotta, Ornella Ornato, Cristiana Caimmi, Laura Martorelli, Marianna Giorgi, Alessandra Izzo, Carmen Danza, Pierluigi Manzo, Giusy Santoro, Raffaella Spizzichino, Maya Reggi, Alessandra Tieri, Studio Punto e Virgola, Studio Lucherini Pignatelli, Rita Nobile, Massimo Scarafoni, Claudio Trionfera, Maria Teresa Ugolini, Valentina Guidi, Mario Locurcio, Alessandro Russo, Sara Bocci, Daniela Staffa, Federica Ceraolo, Maria Antonietta Curione, Studio Sottocorno, Viviana Ronzitti, Barbara Perversi, Francesca Mele, Stella Pulpo, Marco Giannatiempo, Jacopo Sgroi, Lucrezia Viti, Alessandra Margaritelli, Maria Scoglio, Elisabetta Louise, Anna De Santis, Stefano Locati, Francesca Ginocchi, Laura Crivellaro, Gabriele D’Andrea. Cover: Photo by Brigitte Lacombe © Warner Bros. All Rights Reserved The Cinema Show – Mensile di cinema, anno 2, numero 15, dicembre 2011 Testata in attesa di registrazione presso il Tribunale di Roma. Tutti i diritti riservati All Rights Reserved


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