Real Steel
* Warrior * Immortals * Anonymous * Breaking Dawn
the first iPad movie magazine n. 14 • novembre 2011
Anteprima
metri
Rising
Star Juno Temple
Exclusives Antonio Banderas * Ben Stiller * David Nicholls * Cristina Comencini *
Guarda il video saluto di
Anna Faris!
Speciale
Festival di Roma
La kermesse capitolina alla sua sesta edizione
Luca Argentero *
Pina vive! Wim Wenders porta sullo schermo la rivoluzionaria della danza
La passione e il furore
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acciamo un divertente parallelo: la coppia di fratelli di Warrior, Tom Hardy e Joel Edgerton, e Pina Bausch. Incredibilmente non ci sono molte differenze tra loro. Entrambi usano il proprio corpo per l’arte e lo fanno con la stessa potenza, energia, determinazione e convinzione. Siamo molto felici di dedicare la copertina di questo quattordicesimo The Cinema Show al meraviglioso film di Wim Wenders, un’opera straordinaria che racconta la passione di un’artista per il suo lavoro e probabilmente proprio per la stessa ragione abbiamo costruito un numero in cui ci sono molte anime meravigliosamente irrequiete. C’è tanto sport, prima di tutto, i ring particolari di Warrior e Real Steel, ma anche il rettangolo del campo di calcio che ci racconta Francesco Del Grosso prima nella sua rubrica What’s Up, Doc? e poi in prima persona, testimoniandoci l’emozione che ha provato nel raccontare la vita di un grande campione, Agostino Di Bartolomei, in 11 metri, documentario scelto come Evento Speciale alla sesta edizione del Festival Internazionale del Film di Roma. Passione, dicevamo. L’abbiamo trovata anche negli incontri di questo mese, con Antonio Banderas, con Dave Nicholls, autore del bellissimo romanzo One Day, con Cristina Comencini, Ben Stiller e Luca Argentero. Ci hanno trasmesso tutti una
bella energia che ci ha aiutato a portare a casa un altro numero della nostra rivista che da questo mese sarà più agile. Niente più sezione inglese, ma non è una resa. Al contrario, stiamo preparandovi una sorpresa, ne saprete di più nei prossimi tempi. Più interviste, tante rubriche, una ricerca continua della rivista di cinema perfetta, quella che ognuno di noi della redazione vorrebbe leggere da sempre. Un desiderio che porta anche a confrontarci e a discutere apertamente di un film e di un regista controverso come Lars Von Trier, dando l’occasione ad Adriano Ercolani e Federico Pedroni di sfidarsi in un duello dialettico e letterario preludio di molti altri che vi proporremo nei prossimi mesi. Speriamo di essere stimolati anche da voi, sulla pagina Facebook di The Cinema Show, sul blog www.thecinemashow.it e da questo mese anche su Issuu.com, dove pubblichiamo una selezione del giornale per convincere i non possessori di iPad a correre in un Apple Store a comprarne immediatamente uno per sfogliare una rivista fatta ogni mese con passione e furore, emozioni che speriamo di trasmettere anche a voi e per molto, molto tempo. Stay in TOUCH! Alessandro De Simone Editore
contents
Editoriale Un’ottima annata How It Works La guida a tutti nostri touch
Columns
Il vero show sono le nostre rubriche!
Insider Dentro il cinema: preview, interviste e approfondimenti
Review Le recensioni dei film in uscita
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Series
Anticipazioni, novitĂ e revival per chi ama le serie TV
Rising Star
Columns
Dai piccoli ruoli a Friedkin, con dolcezza e sensualità
Juno Temple Lolita io? di Federica Aliano
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a il nome di una dea, il viso da bambina e il piglio di chi la sa lunga. In molti la definiscono “sugar & spice” e mai accostamenti così contrastanti furono più azzeccati. Juno Temple ha ventitré anni, ma le idee chiare le aveva già a quindici, quando disse a suo padre Julian che fare l’attrice per lei non era un capriccio e superò i provini per Diario di uno scandalo. Poi in Espiazione dimostrò di non aver problemi a cambiare anche per un piccolo ruolo, e in seguito si è fatta notare in tanti altri titoli, in parti più o meno importanti (dal guascone Anno Uno al meraviglioso Mr. Nobody). Fin quando Gregg Araki non l’ha voluta protagonista del suo delirante, ipersensuale e allucinatorio Kaboom, in cui tutta la carica erotica di questa piccola bionda è venuta alla ribalta. “Non mi sento a disagio a esplorare la sessualità sullo schermo”, ha dichiarato Juno. “E penso che la gente non dovrebbe essere nervosa a parlarne. Per me è molto più difficile girare scene violente che di sesso. Il sesso è nella vita di tutti, la violenza no. Credo che la sessualità sia importante. Dice chi sei. Ti rende una donna, ti fa cambiare, ti fa crescere, ti rende consapevole del tuo corpo”. Lei consapevole sembra esserlo
“Sono molto europea nel mio approccio alla sessualità, e non nascondo la mia vulnerabilità” a tal punto che non ha avuto alcun problema a mostrarsi completamente nuda davanti all’obiettivo di William Friedkin in Killer Joe, il più bel film passato alla 68. Mostra di Venezia, che speriamo di vedere presto in sala. E adesso negli States sta riscuotendo un buon successo anche con Dirty Girl. “Sono molto europea nel mio approccio alla sessualità”, commenta lei sicura. “Ma quando giri una scena è tutto finto. È molto più imbarazzante che ti dicano dove devi mettere la gamba, molto coreografato e poco sensuale”. Nel prossimo futuro di Juno ci sono ben sei film, ma l’attenzione dei media è tutta focalizzata sul ruolo di Holly Robinson, nel prossimo lavoro di Nolan sul Cavaliere Oscuro. Che detto fra noi, è forse la cosa meno interessante sull’orizzonte di questa giovane star che sa mettersi in gioco come poche altre. “Non ho paura di mostrare la mia vulnerabilità, a volte gioca a mio favore e altre no. È qualcosa di cui sto diventando più consapevole crescendo. Ma che trovo davvero difficile da nascondere”.
Flashback
Columns
Il silenzio e l’attesa di Adriano Ercolani
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tre giorni del Condor di Sidney Pollack possiede una sua malinconia. A rivederlo oggi si percepisce piuttosto chiaramente che questo capolavoro ha chiuso un periodo storico, un’epoca in cui dentro il cinema di genere, come poteva essere la spy-story, si trovavano soluzioni narrative ed estetiche di enorme rilevanza. Con questo film il regista ha preso alcune coordinate – soprattutto hitchcockiane – del thriller classico e le ha adoperate nella loro massima potenza espressiva. Basterebbe la prima sequenza, quella della strage nell’ufficio della CIA, per capire come l’uso del montaggio e del sonoro siano di una competenza inarrivabile. Il prologo di presentazione delle vittime è scandito con una lucidità e un tempo filmico impressionanti: in pochi minuti ci viene detto che Joe Turner (Robert Redford) è un impiegato geniale ma discontinuo, che ha un flirt con una collaboratrice di origine asiatica, che non ama particolarmente il suo lavoro ma che apprezza i suoi colleghi, anche i superiori più burberi. Nell’ufficio in sottofondo rimane costante il rumore vaga-
La strage che si consuma, il nichilismo e la sfiducia. I tre giorni del Condor è un capolavoro non solo di genere
mente fastidioso della telescrivente. Quando Turner esce per andare a comprare la colazione, i killer entrano e compiono la strage. Qui il film fa un salto qualitativo come pochi se ne sono visti nel cinema contemporaneo: la scena è praticamente senza dialoghi, l’unico rumore è ancora quello della telescrivente, che adesso è divenuto ossessivo, minaccioso. Pollack elabora un prodigio di regia e montaggio tenendo le inquadrature il tempo necessario perché siano esse stesse a creare tensione invece del loro concatenarsi frenetico. L’attesa dell’evento sanguinoso in questa scena è un orologio calibrato al millesimo, un congegno cinematografico perfetto. Il realismo del massacro è dato dall’assenza di sottolineature, dall’utilizzo di elementi sonori e scenografici preesistenti. Come nella realtà, il passaggio dalla condizione normale a quella di tragedia non viene preannunciato da musica o altro, avviene e basta. Una sequenza da brividi. Durante il successivo percorso narrativo questo procedimento viene poi adoperato per accentuare il senso di straniamento che il protagonista sviluppa
Flashback nei confronti della realtà: chiunque può essere una spia, a nessuno è concesso ricevere fiducia. Con I tre giorni del Condor Pollack costruisce una ragnatela sensoriale che abbina efficacia ed eleganza, aiutato da un direttore della fotografia leggendario come Owen Roizman. Come già splendidamente elaborato ne L’esorcista, il suo uso di punti luce all’interno dell’inquadratura, soprattutto nelle scene con il “nemico” Max Von Sydow, accresce a dismisura il senso di angoscia. In un’America paranoica, logorata dalla guerra in Vietnam e appena scossa dallo scandalo Watergate, I tre giorni del Condor è diventato un manifesto dello stato di un Paese che a metà degli anni ’70 si ritrovava a riflettere sulla sua condizione di potenza politica ed economica, e a scoprire di essere scricchiolante e molto poco amato. Sidney Pollack e Robert Redford – il cui film successivo a questo sarà Tutti gli uomini del presidente di Alan J. Pakula – sono la coppia che più di ogni altra ha provato a raccontarne il malessere, e con questo lungometraggio ha evidenziato come il nemico da combattere fosse soprattutto il deterioramento interno, percepibile sia negli organi istituzionali come la CIA che nel sistema sociale immobile rappresentato dal film: Joe Turner nella sua fuga è realmente solo, non ha l’appoggio della collettività o del prossimo, entrambi paralizzati dal terrore e dalla paranoia. Il magnifico, apertissimo finale è la testimonianza che l’individuo può sperare di sopravvivere soltanto se smette di credere nel Paese che dovrebbe garantirgli sicurezza. Il nichilismo di questo paradosso è uno degli apici ideologici del cinema americano di quel decennio.
Columns
Quei “terrificanti” anni ’70 Mai come in quel decennio Hollywood ha esposto sul grande schermo le paure americane: ecco quali sono i film che rappresentano un periodo di turbamenti e pericoli endemici.
LA NATURA – Lo squalo (Jaws, di Steven Spielberg, 1975) L’estate, la spensieratezza, l’orrore proveniente dal mare. Il film epocale che ha rivoluzionato il sistema industriale hollywoodiano è una riflessione sull’uomo e sul dominio fittizio sulla natura che lo circonda. Avventura epica e orrore nascosto, Ernest Hemingway e le musiche incredibili di John Williams. La scena di culto è quella in cui lo sceriffo Brody pasturando vede il mostro e sussurra: “You’re gonna need a bigger boat…”: una verità assoluta.
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touch the Number
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What’s up, doc?
Columns
Gli dei del pallone di Francesco Del Grosso
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l cinema e il calcio hanno in comune una storia ultracentenaria. Harry The Footballer, un film muto inglese del 1911 fu la prima rappresentazione cinematografica di questo sport. Se da una parte il cinema di fiction ha dato alla luce tra alti e bassi un buon numero di pellicole a sfondo calcistico, (dalle varie declinazioni della commedia al dramma, passando per rarissime biografie come ad esempio Best di Mary McGuckian), dall’altra parte il sottobosco documentaristico ha dimostrato nei decenni una certa vitalità, non di carattere numerico quanto qualitativo. Una filmografia povera di titoli ma ricca di sorprese, molte delle quali hanno sopperito alla mancata distribuzione nelle sale con una soddisfacente diffusione nel circuito festivaliero, seguita a ruota – con non poche difficoltà – dalla messa in onda televisiva e dal mercato home video. Anche qui è possibile suddividere le opere prodotte in questi anni. Non per generi, piuttosto per l’argomento o il personaggio trattato. Ne scaturisce una duplice veste, traducibile in una classificazione di pura comodità più che di utilità, che da un lato mette una se-
rie di documentari che mostrano le tappe di una manifestazione (Rimet L’Incredibile Storia della Coppa del Mondo, Scrittori nel Pallone e Il Mercato della Coppa d’Africa) o di un’impresa sportiva (Un sogno serio, Gli undici moschettieri, Liberi Nantes Football Club, Tutto il resto non esiste, Mostar United, Sogni di cuoio e Ragazzi del Ghana), dall’altro è possibile trovare una raccolta di ritratti dedicati ad allenatori (Zemanlandia, Vittorio Pozzo: quando il calcio parlava italiano, Grazie Novellino), a direttori da gara (Arbitri e Kill the Referee) e naturalmente a calciatori (Centravanti nato su Omar Petrini, Il Capitano su Giacinto Facchetti, Garrincha alegria do povo, Saeta rubia e La Batalla del Domingo entrambi su Alfredo Di Stefano, Idoli controluce su Omar Sivori). Trascorsi due mesi circa dall’inizio della nuova stagione “pallonara”, What’s Up, Doc? punta l’obiettivo proprio sul mondo del calcio e in particolare su tre suoi grandi interpreti, che con le loro gesta dentro e fuori dal rettangolo di gioco hanno lasciato un segno indelebile nella storia di uno dei sport più popolari a livello internazionale.
Le storie di tre grandi interpreti del calcio internazionale raccontate in altrettante avvincenti biografie.
What’s up, doc?
Columns
Il profeta del gol - Joahn Cruyff Story (di Sandro Ciotti, Italia 1976)
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elè bianco, Olandese volante, Anatroccolo dai piedi d’oro, Papero d’oro, il Candido: sono solo alcuni dei soprannomi di Hendrik Johannes Cruijff (Joahn Cruyff al di fuori dei Paesi Bassi) durante la straordinaria carriera che lo ha portato a vestire le casacche di Ajax e Barcellona, oltre a quella della nazionale olandese, conquistando sei campionati, tre Coppe dei Campioni, una Coppa Intercontinentale, due Supercoppe UEFA e tre Palloni d’Oro. Un palmares stellare per un giocatore che ha inciso a caratteri cubitali il proprio nome nella storia di questo sport, al quale Sandro Ciotti dedicò una delle sue rare performance documentaristiche. Il titolo richiamava il soprannome che lo stesso giornalista aveva cucito addosso a Cruyff. È un ritratto fatto in corsa, quando il fenomeno Cruijff non aveva ancora terminato la sua evoluzione calcistica e incantava le platee facendosi portabandiera del “calcio totale” messo in vetrina dall’Olanda di Rinus
Michels negli anni Settanta. Ciotti firma una biografia classica, che intreccia però il DNA con il reportage giornalistico. Congiunzione che ne rappresenta la forza e il limite, merito e demerito di un utilizzo invasivo della voce narrante. Filo conduttore sono le interviste che il regista conduce al fianco del protagonista e di noti esponenti del calcio tricolore: da Zoff a Facchetti, da Mazzola a Bulgarelli, da Chinaglia a Rivera. Tutti guidati da un Ciotti che, con una prorompente ironia di fondo, ci conduce attraverso preziosi e avvincenti materiali d’archivio tra stadi, campi d’allenamento e il salotto di casa Cruijff, alla scoperta delle radici del mito. Non c’è solo lo sportivo al centro dell’opera, ma anche l’uomo comune, amorevole padre, marito, amico e figlio. A distanza di trentacinque anni, il documentario conserva intatto un fascino irresistibile, precursore di un biopic sportivo al cui stile in molti hanno attinto, da la trasmissione Sfide al sottoscritto per il suo 11 metri.
touch the Photo
Pina vive! di Federica Aliano
La vita, il pensiero, i gesti della rivoluzionaria della danza. Vividi sullo schermo grazie a Wim Wenders
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ome posso solo iniziare a spiegare Pina Bausch? Come posso racchiudere in poche pagine la grandezza della sua rivoluzione? Il lettore perdoni la prima persona, ma anche noi critici siamo esseri umani e a volte capita che ci sentiamo in crisi. Com’è accaduto a me in questo caso. Perché Pina Bausch ti spoglia di tutte le sovrastrutture che tutti si costruiscono per arrivare immuni alla vita adulta, anche se non sei uno dei suoi danzatori. Perché basta perdersi anche una sola volta nella reiterazione Read the Review
dei movimenti, sempre più enfatici e ossessivi, del suo corpo di ballo per sentirsi senza alcuna difesa. Lì, su quel palco, vedi la tua vita, e ti domandi come faccia lei a conoscerla, dal momento che non ti ha mai incontrato. Provate per credere: vi accadrà di certo. Catturare il movimento La danza, si sa, è arte effimera. Che muore nel momento in cui nasce, che si consuma al suo apice. Pochi attimi, e tutto è finito. E a differenza della musica o del teatro, è praticamente impossibile da riprodurre in maniera duratura. La musica si può incidere, il teatro si può filmare con i dovuti accorgimenti. La danza no. Lo si fa, ma non è mai la stessa cosa, nessuno ci è mai riuscito. Per ora. Dalla nascita della fotografia artistica, catturare l’essenza del movimento è stata l’ossessione di praticamente chiunque fosse dietro un obiettivo. Allo stesso modo, in molti hanno provato a raccontare Pina Bausch. Anche al cinema, non ultimi Anne Linsel e Rainer Hoffmann con il documentario Dancing Dreams – Sui passi di Pina Bausch, uscito alla fine dell’estate nel nostro paese, ma in pochissime sale. Dancing Dreams raccontava di quando Pina tornò a lavorare sul suo Kontaktof chiamando quaranta adolescenti a ripetere passi, schemi e gesti che aveva prima sperimentato con dei danzatori, poi con persone comuni rigorosamente sopra i sessantacinque anni. Il documentario è certamente un’analisi interessante di una piccola parte del la-
voro di colei che è considerata unanimemente una delle più grandi coreografe del nostro tempo. Wim Wenders ha provato l’esperienza che vi ho descritto sopra. Nel 1985, assistendo a uno spettacolo della compagnia di Pina Bausch è stato folgorato e la sua vita è cambiata. Certo, lui è stato più fortunato di chiunque di noi: Pina è diventata sua amica, i due hanno intrapreso un sodalizio artistico, una comunità di visioni e di intenti che è durata negli anni, fino all’improvvisa dipartita di lei. Pina e Wim (li chiamiamo per nome, che ci piace immaginarli proprio come due vecchi amici che chiacchierano di progetti da realizzare insieme) avevano un sogno in comune. Un sogno che oggi, grazie alla tecnologia 3D e soprattutto ai danzatori del Tanztheater Wuppertal Pina Bausch, è realtà. Di questo sogno realizzato, Pina non ha potuto vedere nemmeno una scena.
Lebe die Revolution! da sempre ossessiona la sottoscritta: la Il segno che Pina Bausch ha lasciato nel sua versione de Le Sacre du Printemps di mondo della danza e dell’arte in genere, Igor Stravinsky. Quella musica così ossessin da quando era ancora in vita, è quello siva e violenta, così densa di passioni e di che lasciano tutti i geni più puri. La sua paganesimo scritta per uno dei più grandi opera non è solo importante, ma è stata danzatori della storia: Vaslav Nijinskij. una rivoluzione senza la quale l’arte del Ebbene, Pina nel 1975 prende quella movimento non sarebbe ciò che è oggi. musica e la fa sua (come già avevano fatLa danza odierna non può prescindere to in precedenza altri coreografi: non si da Pina Bausch, chiunque si approcci al può non tentare di danzare La sagra della linguaggio del corpo deve fare i conti con Primavera), la spoglia di tutti gli elementi il suo lavoro. L’immagine di Pina, picconarrativi della composizione di passi di la, con l’immancabile sigaretta, diventa Nijinskij (già rivoluzionaria di suo), eliossessione come ossessiva è la ripetizione mina i costumi dal sapore etnico in favore dei suoi movimenti. E con quegli occhi di abiti minimalisti e assolutamente neuguizzanti si capisce subito cosa l’ha resa tri e soprattutto non tende più all’alto e così unica. Pina Bausch era un’osservaall’etereo (Nijinskij è stato l’unico uomo trice. Di più: era una scrutatrice. Con lei ad andare sulle punte), ma a restituire il nessuno era al sicuro, eppure i suoi danproprio peso alla terra. E di terra è cozatori lei li proteggeva tutti, li metteva in perto il palcoscenico, in modo che ciacrisi per poi far loro ritrovare il contatto scun passo dei danzatori lasci un segno con se stessi. Ritrovarlo davvero, profonvisibile, e che lo stesso corpo di ballo si do e nuovo. “Quella non era danza, né impregni degli elementi scenici. Questo pantomima o balletto, e meno che mai è solo un assaggio, come pure la porzione opera. Pina è, lo sapete, la creatrice di una di coreografia nel film di Wenders (purnuova arte”, così Wenders la ricorda. Il troppo non c’è l’estatica danza sacrificale corpo dei suoi interpreti lo dimostra una della solista) delle tante convenzioni letvolta di più: la bellezza teralmente demolite è relativa, così pure la da quella donna dal forma fisica. Non imcorpo esile, ma dalla portavano il peso, l’alsensualità e la potenza tezza o il background emotiva devastanti. La “Pina è, lo sapete, artistico. Anzi spesso pellicola continua con la creatrice di una Pina scelse chi la danza Café Müller, Vollmond nuova arte”, accademica non l’aveva e Kontakthof, opere neppure mai studiata. Il eccezionali intervallate Wim Wenders film di Wenders si apre da brevi a solo dei dancon la coreografia che zatori del Tanztheater
Wuppertal. Omaggi a Pina, che manca a tutti moltissimo, pensati ed eseguiti come lei li avrebbe voluti: il suo movimento di base è rivisitato dalle emozioni, le paure, il senso di perdita di ciascuno di loro, che reinterpreta Pina e la sua opera in maniera personalissima. Davanti alla quale lo spettatore è ancora una volta nudo: ride e si commuove a seconda non tanto di ciò che passa sullo schermo, ma di ciò che ogni gesto dice all’anima di chi sa ascoltare con gli occhi. La danza fuori Il film Pina era un progetto che i seguaci (non chiamateci fan) di Pina Bausch attendevano da anni. Troppe volte i due autori lo avevano annunciato, troppe volte Wenders aveva mestamente ammesso a Pina che non aveva ancora trovato il modo per rendere appieno sullo schermo la vera essenza della sua arte peculiare. Personalmente lo ringrazio per questo, per non aver ceduto fino al momento in
cui ce l’ha potuta restituire così vividamente. Anche se lei non ha girato nemmeno un fotogramma di questo film, in qualche posto in fondo all’anima ci si rende conto che ne sarebbe stata soddisfatta. Wenders non avrebbe voluto portare il progetto a compimento dopo la morte dell’amica. Sono stati i danzatori di Pina che lo hanno contattato dicendogli che già si erano messi al lavoro. Guardando il film si avverte fortissima la loro perdita, la loro urgenza di rendere omaggio alla donna che ha cambiato le loro vite, di celebrare Pina facendola rivivere attraverso il movimento e l’arte. Lontano anni luci dalle operazioni commerciali, questo è un documentario che ha spinto in avanti la ricerca tecnologica cinematografica. Wenders, come già Herzog nel suo Cave of Forgotten Dreams (guarda caso entrambi i film sono stati presentati all’ultima Berlinale) usa il 3D per rendere al meglio qualcosa che vista su due dimensioni non sarebbe affatto la stessa. Ma il grande merito del cineasta, tornato finalmente in gran forma, non è tutto qui: Wenders porta la danza di Pina Bausch fuori dal teatro. La fa eseguire per la strada, sui treni, sotto la ferrovia sospesa di Wuppertal o poco fuori dalla città, in una riappropriazione dello spazio da parte del gesto che è l’essenza della danza stessa. E sembra ancora una volta di percepire l’aria su di sé, come se fosse qualcosa di tangibile. Elementi di un tutto Come tutte le menti geniali, Pina
Bausch non è stata compresa da subito. La commistione tra la danza e altre arti performative, i danzatori non professionisti assieme a quelli provenienti dalle accademie, la quasi totale assenza di passi di danza convenzionali hanno da subito destato scalpore. Se poi si aggiungono gli oggetti scenici tipici del teatro, che diventano ora ostacoli, ora elementi portanti della coreografia, ci si può immaginare il disorientamento che lo spettatore della fu Opera di Wuppertal deve aver provato al principio. E ancora, con Café Müller, nel 1978, Pina fa calzare al suo corpo di ballo scarpe comuni ed eleganti. Le donne hanno tacchi e abiti, gli uomini sono in camicia o addirittura in giacca e cravatta. Con innumerevoli sedie sparse sul palco e lei, piccolissima e sola, che si muove a sinistra sullo sfondo, presenza assoluta, connessa e insieme separata dal resto. Come per la musica, anche per gli oggetti scenici in Pina non c’è mai stata distinzione tra “nobile” e “popolare”. Così gli elementi della natura (fuoco, terra, pietre, acqua) valgono quanto una comune sedia, una porta, una corda. Alla continua ricerca di un’interiorità da esternare, di una sincerità superiore, di un contatto con i propri tormenti che per forza di cose purifica, investito com’è dall’uragano ottimista che ogni suo lavoro portava con sé. Non è stato facile per i primi spettatori accettarlo, ma poi ciò che era evidente è stato premiato: Pina cercava amore e amore ha avuto. Oltre ai premi, ai riconoscimenti e al successo. “Il movimento in sé non mi aveva mai
emozionato, lo davo per scontato. Uno si muove, e basta. Tutto si muove”, racconta ancora Wenders. “Solo attraverso il Tanztheater di Pina ho imparato ad apprezzare movimenti, gesti, pose, comportamenti, il linguaggio del corpo, e a rispettarli. Ogni volta che vedo una sua coreografia, anche per la centesima volta, resto come folgorato e re-imparo che la cosa più ovvia e più semplice è anche la più commovente: custodiamo un tesoro nel nostro corpo! La capacità di esprimerci senza parole. E quante storie possono essere raccontate senza pronunciare una sola frase”. Noi di frasi ne abbiamo usate tante. E come dicevamo all’inizio, tutto ciò non rende l’idea di cosa e chi era Pina Bausch. Il film di Wim Wenders invece sì. E la verità è racchiusa in una frase, pronunciata da un giovane danzatore della compagnia stabile. Pina era una rivoluzionaria, e come tale ci ha insegnato a lottare “Per ogni gesto, ogni passo, ogni singolo movimento”.
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e r o u c l a o p Un col l Grosso
di Francesco De
La parabola esistenziale prima che calcistica di Agostino Di Bartolomei. Il nostro Francesco Del Grosso racconta la genesi del suo nuovo documentario
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Tu dicevi che tornando non si trova ciò che si è lasciato, ma la presenza di quello che è perduto”: scriveva così Elisabetta Rasy nel folgorante epilogo del suo romanzo Posillipo, ma nel raccontare dal principio la storia di Agostino Di Bartolomei nel mio ultimo documentario dal titolo 11 metri, ripercorrendo insieme a una coralità di volti e voci le tappe principali della sua vita dentro e fuori dal rettangolo di gioco, mi sono reso conto che ritornare nei luoghi a lui cari ha significato immergere me e il pubblico in atmosfere e ricordi ancora vivi e presenti, lontani dal logorio del tempo. Girare un film su Ago, dunque, ha rappresentato l’occasione di tornare in spazi topografici pubblici e privati nei quali è conservata intatta una memoria mai rimossa, che sono sicuro non si per-
derà strada facendo. Sono trascorsi diciassette anni da quel maledetto 30 maggio del 1994, quando lo storico capitano del secondo scudetto giallorosso decise di togliersi la vita con un colpo di pistola al cuore, a un decennio esatto dalla finale di Coppa Campioni persa dalla Roma ai calci di rigore contro il Liverpool. Ma tornado sulle sue tracce, ascoltando i discorsi e gli aneddoti della gente comune e delle persone che lo hanno conosciuto, la sensazione di confrontarsi con qualcosa di mitico e indelebile allo stesso tempo mi ha spinto a cercare di andare oltre, alla radice, parlando dell’uomo prima che del calciatore. Il pericolo più grande, che spero di aver dribblato, era quello dell’apologia, della celebrazione elegiaca del personaggio, perché se questo non fosse, allora ho fallito. Con 11 metri ho voluto
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scavare nell’intimità di un uomo dalFrancesco Del Grosso al lavoro la personalità assai complessa, spesso in conflitto con se stesso e con il mondo che lo circondava: quello machiavellico e contorto del calcio. Lo scopo principale del film era focalizzare l’attenzione sui pregi e i difetti, le passioni e le debolezze, le parole e i profondi silenzi, gli sguardi e i gesti, quelli di una persona come Agostino, capace di calorosi slanci di affetto e di momenti di indecifrabile “Ho voluto riflessione. Prima dell’apraccontare parenza, del ruolo pubblico, mi interessava raccontal’uomo prima catartico che somigliasse più re la storia di una persona che il calciatore” a un diario intimo che a un come tante che, per un ritratto biografico convenmotivo o per un altro, è zionale. Mi piace definire i caduta nel dimenticatoio. miei lavori dei “road movie Nel farlo ho deciso a priori, prendendomi emozionali”. Così era stato per Stretti al tutti i rischi del caso, di non percorrere vento sui navigatori in solitario o per Nela strada dell’inchiesta, non per paura di gli occhi su Vittorio Mezzogiorno. Così è scoprire questa o quella verità riguardo stato per 11 metri, quando in compagnia ai retroscena del suicidio, ma perché non degli intervistati, con troupe al seguito, mi interessava dare delle risposte, piutsono passato dai campetti in terra battuta tosto sollevare nuovi interrogativi sulle di periferia della Capitale (Tor Marancia cause di una latente depressione. A molti e Garbatella) a quello della scuola calcio come lui il destino ha permesso di toccadi San Marco di Castellabate nel Cilento. re il cielo con un dito, raggiungendo dal Una lavorazione difficile ed emotivamennulla traguardi professionali importanti, te coinvolgente, durata più di un anno; il quello stesso destino che ci ha messo un tutto per ricomporre un “puzzle filmico” battito di ciglia a spingere le persone che fatto di parole, immagini e istantanee di potevano aiutarlo, dopo aver appeso gli vita vissuta, purtroppo troppo in fretta dal scarpini al chiodo, a farlo sentire meno suo protagonista. Percorso che termina solo. Riportare Di Bartolomei alla sua con la proiezione di 11 metri come evenessenza, quella di amico, marito, padre e to speciale alla sesta edizione del Festival figlio, è stato l’input dal quale partire per Internazionale del Film di Roma, a sanportare sullo schermo un viaggio fisico e cire la perfetta chiusura del cerchio.
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Il Festival della discordia di Michela Greco
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ompiere sei anni e sentirsene sessanta sulle spalle. Il Festival Internazionale del Film di Roma in meno di un decimo delle edizioni vissute dalla Mostra di Venezia le ha viste un po’ tutte: cambi di denominazione (Festa, poi Festival, ora Festival con l’anima della Festa) e sconvolgimenti ai vertici. Coccole della politica che l’ha creato, poi umiliazione e rischio chiusura (con l’avvento minaccioso del sindaco Alemanno) e poi ancora un muro difensivo, eretto da quello stesso primo cittadino, contro i missili in arrivo dal Ministero e dalla Laguna. Su tutto, una questione di identità: inevitabilmente incerta alla nascita, forzatamen-
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Il ministro Galan non lo vuole, il sindaco Alemanno non gliela manda a dire. E intanto Detassis, Sesti e Co. presentano una selezione interessante, a dispetto delle polemiche.
te dirottata altrove dopo solo un paio d’anni, poi un ritorno alle origini compiuto a metà. Nel calderone italianofilo che in questi anni è stato il Festival di Roma, solo una sezione è rimasta dura e pura, fedele a se stessa e alla sua libertà. Quella Extra(ordinaria) – di formati, linguaggi, formule, incontri – pensata da Mario Sesti. Quasi un paradosso, perché ne L’altro cinema le anime sono talmente tante da far pensare a una non-scelta. Ma, al contrario, il percorso è chiaro: ricerca, indipendenza e scoperta, ma senza inutili snobismi cinefili che allontanano un pubblico meno avvertito. Le scelte di Extra sprizzano passio-
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ne per il Cinema da tutti i pori, che si tratti di un incontro con il mostro sacro Michael Mann o del piccolo documentario che narra l’incredibile avventura umana di Bobby Fischer (Against the World), il più grande talento mondiale degli scacchi ma anche un eccentrico personaggio che oscilla tra misantropia e politicamente scorretto. Dodici i documentari che Extra presenta in concorso, sette quelli fuori concorso – con dentro i premi Oscar Alex Gibney, James Marsh e Davis Guggenheim – e cinque i film di finzione che esplorano con originalità mondi molto diversi. Dagli appassionati di fumetti di Morgan Spurlock con
Comic-Con, al cucciolo di scimpanzé di Project Nim, dalla giornalista cinese che intervista i condannati a morte pochi giorni prima dell’esecuzione in Dead Men Talking a Bono degli U2 in From the Sky Down. Uno sguardo nuovo sul cinema, tutto da scoprire, dove il sesso racconta la storia e la società, vedi Case chiuse di Filippo Soldi, e parla di libertà, come nel norvegese Turn me on. Festival in Pink Quest’ultimo è firmato da una donna, un “segnale rosa” che ricorre in tutte le sezioni di questa sesta edizione del Festival di Roma, che nella selezione ufficiale
Selezione ufficiale Festival di roma 2011 Hysteria di Tanya Wexler CONCORSO Hysteria
Poongsan
1880, Londra vittoriana, il dottor Mortimer Granville è assistente per la cura di casi di isteria femminile che il suo capo, il dottor Dalrymple, seda con l’aiuto di terapeutiche manipolazioni clitoridee. Granville, da giovane intraprendente qual è, ha un’idea geniale: inventare un presidio medico che permetta alle donne di vivere meglio. E così nacque il vibratore. Tratto da una storia vera.
A Few Best Man
Like Crazy
Catching Hell
Diversamente giovane
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curata da Piera Detassis (il cui incarico scade a fine manifestazione) sfoggia una carrellata di stelle al femminile composta da Penélope Cruz, Noomi Rapace, Kristin Scott Thomas, Charlotte Rampling, Maggie Gyllenhaal, Isabelle Huppert, Micaela Ramazzotti, Claudia Gerini, Cristiana Capotondi, Maya Sansa, Carolina Crescentini e Sabina Guzzanti, che in un documentario celebra Franca Valeri. Anche l’apertura è rosa, grazie a The Lady, con cui Luc Besson racconta l’epopea dell’attivista birmana Aung
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San Suu Kyi. “Quella femminile è stata un’onda anomala un po’ casuale e un po’ cercata - dice la Detassis - che torna in tutto il programma, con l’omaggio alla straordinaria Monica Vitti, la chiusura con la versione restaurata di Colazione da Tiffany e la conferma della presenza di grandi attrici”, ha detto la direttrice artistica. Che porta sugli schermi dell’Auditorium la computer grafica 3D di Tintin, firmata Spielberg, e mette in concorso quattro italiani su quindici film. Sono l’esordio alla regia dello sceneggiatore Ivan Cotroneo con La Kryptonite nella borsa, commedia napoletana con Luca Zingaretti, Valeria Golino, Cristiana Capotondi e Libero De Rienzo; Il cuore grande delle ragazze, con cui Pupi Avati concede il grande schermo al cantante pop Cesare Cremonini e parla delle donne capaci di sopportare i comportamenti meschini degli uomini; Il mio domani di Marina Spada con Claudia Gerini donna manager in una Milano antonioniana e l’affresco meridionale de Il paese delle spose infelici del pugliese Pippo Mezzapesa (anche se il titolo sembra, anche lui, avatiano). Una competizione in cui i nostri connazionali dovranno gareggiare con titoli come La femme du cinquième con Kristin Scott Thomas ed Ethan Hawke, The Eye of the Storm con Geoffrey Rush e Charlotte Rampling, Une vie meilleure di Cédric Khan con Guillaume Canet e Voyez comme ils dansent, in cui Claude Miller ospita la nostra Maya Sansa. Anche il fuori concorso è un po’ tricolore,
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con L’industriale di Giuliano Montaldo e Un giorno questo dolore ti sarà utile, diretto da Roberto Faenza ma tutto americano, dagli attori, alla lingua parlata nel film, al romanzo da cui è tratto... troppo bello per rischiare di essere rovinato da un regista sempre più spento. Vedremo. Nella città delle meraviglie Alice nella città spara le cartucce – oltre che di Tin Tin – di The Twilight Saga: Breaking Dawn parte I, de Il re Leone 3D e di Martin Scorsese con Hugo Cabret, e poi propone un percorso spesso accidentato attraverso l’infanzia e l’adolescenza con titoli come Jesus Henry Christ prodotto da Julia Roberts e interpretato da Toni Collette, l’esordio francese di Emmanuelle Millet con La brindille, il belga Hasta la vista con tre amici uniti dall’handicap e dalla voglia di perdere la verginità e gli adattamenti letterari No et moi e Death of a Superhero (con Andy Serkis). Da tenere d’occhio gli Eventi speciali, che riservano alcune chicche come 11 metri, documentario emotivo con cui Francesco Del Grosso ricostruisce l’epopea sportiva e umana del campione romanista Agostino Di Bartolomei, il film disegnato “di” Furio Scarpelli Tormenti, l’inedito di Lelio Luttazzi L’illazione, le confessioni del “Califfo” nel doc Noi di settembre e La
passione di Laura (Betti). Infine i ribelli e i patrioti del focus di Gaia Morrione, che punta sulla Gran Bretagna nell’anno della guerriglia urbana a Londra e del matrimonio reale, e alla vigilia delle Olimpiadi. Una retrospettiva in dodici film (uno “punk” e uno “patriot” ciascuno) scelti da Hanif Kureishi, Tilda Swinton, Michael Nyman, Terence Davies, David Hare e Joanna Hogg e sette titoli inediti in vetrina, dove a quattro registi emergenti (come gli attori Paddy Considine e Dexter Fletcher) si affiancano autori consacrati come Michael Winterbottom con Trishna e gli stessi Davies e Hare.
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n u i Scegl un nume ro, Anna! di Alessandro De
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In (S)ex List è a lla ricerca dell ’amore della sua vita, ma Anna Faris meriterebbe anche un ruolo d a ricordare
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i sono due cose di cui Hollywood non si fida: le tette, se coperte, e il cervello. Quando coesistono, allora bisogna avere le palle per diventare qualcuno. Esempi ce ne sono: Goldie Hawn, Diane Keaton, Bette Midler e oggi Tina Fey e Sandra Bullock. Donne dalla grande autoironia e con uno spiccato senso degli affari, capaci di creare una lobby potentissima che si rinnova continuamente. Anna Faris ha il talento per entrare a far parte di questo club esclusivo: dopo un primo tentativo tutt’altro che da disprezzare, La coniglietta di casa, ha deciso di produrre come executive anche (S)ex List, commedia rosa in cui la protagonista, Ally Darling, è alla ricerca del perduto amore nella molto lunga, lista dei suoi precedenti fidanzati. Nella ricerca verrà aiutata
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dall’aitante amico Chris Evans che si cimenta in un genere che negli ultimi anni sembrava essere ormai diventato l’orticello privato di Kathrine Heigl, anche lei produttrice rampante di se stessa. Anna Faris non è però la paladina delle single frigide che scoprono che lasciarsi andare può essere un esperimento interessante, e lo ha dimostrato sin dagli esordi, in cui si concedeva una ceretta inguinale con cesoie e tagliaerba nello spoof Scary Movie, per non parlare di Hot Chick – Una bionda esplosiva, in cui recita al fianco di Rob Schneider, scelta da Adam Sandler in persona: un’investitura vera e propria. E come lo stesso Sandler ha dimostrato in tempi recenti, essere un grande attore comico significa recitare qualunque ruolo. Prima Sofia Coppola le affida la parte della diva schizzata e annoiata in Lost in Translation, poi Ang Lee ne I segreti di Brokeback Mountain la fa diventare una moglie fedifraga innamorata dell’uomo sbagliato, una parte piccola ma che lascia il segno. Eppure il colpaccio non arriva, nonostante una costanza ammirevole, alternando comodi successi a film indi-
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pendenti interessanti, e diventando una figura importante nella Twentieth Century Fox, studio con cui ha un rapporto privilegiato e che ha prodotto e distribuito anche What’s Your Number?, questo il titolo originale. A The Cinema Show piace molto Anna Faris, per il bellissimo videosaluto che ci ha regalato e che potete vedere toccando il bottone Play, ma soprattutto perché raccoglie un’eredità importante, quella della caratterista leggera, figura fondamentale nel cinema americano dagli anni Quaranta in poi. Lucille Ball ne è l’esempio più eclatante, ma prima ancora Celeste Holm, capace di passare da Eva contro Eva di Makiewicz ad Alta società, in cui duetta ballando e cantando con Frank Sinatra e Bing Crosby. E poi Shirley MacLaine, musa di Billy Wilder negli anni Sessanta, Marilyn Monroe e Judy Holliday. La prima, croce e delizia ancora di Wilder, dimostrò la sua completezza nello straziante commiato che John Huston le regalò insieme a Clark Gable e Montgomery Clift, Gli spostati. La seconda pochi la ricordano, ma nella sua breve carriera si tolse la soddisfazione di vincere un Oscar nel 1950 per il personaggio di Billie Dawn in Nata ieri. Morì nel 1963, dopo una carriera segnata dalle indagini su di lei intraprese da parte della Commissione McCarthy. I tempi non cambiano, far ridere è pericoloso, perché fa vedere tutto con maggiore chiarezza. Per questo a The Cinema Show quelli come Tina Fey, Steve Carell, Adam Sandler, stanno tanto simpatici. E anche Anna Faris.
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Ai giochi addio
di Federica Aliano
Si avvia sul viale del tramonto anche la Twilight Saga.
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l ciclo di Twilight si avvia verso il gran finale e, come fu per Harry Potter, i produttori hanno ben pensato di dividere l’adattamento cinematografico dell’ultimo libro in due parti. Edward e Bella stanno per coronare il loro sogno d’amore, uniti in matrimonio saranno finalmente una cosa sola, e con buona pace del resto del mondo, i Twilighters saranno felici e contenti. Ma cosa accade in questa prima parte di Breaking Dawn? Ammettiamolo subito e senza peli sulla lingua: raramente nella vita mi è capitato di leggere qualcosa di più deleterio per le giovani menti, specie femminili, della Twilight Saga, e il culmine di questo pensiero oscurantista e retrogrado si raggiunge proprio nella prima metà di Breaking Dawn. Antifemminista, antiabortista, e ben poco velatamente dell’opinione che “certi panni sporchi” debbano lavarsi in casa, la Meyer ha voluto mascherare sotto la metafora del soprannaturale il suo pensiero che un tempo sarebbe stato definito passatista, e che oggi con il termine “integralista” forse riusciamo a far intendere. Se le viene domandato perché mai
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Bella si guarda nello specchio e minimizza il suo volto ricoperto di lividi provocati dall’amoroso marito, lei risponde sempre e comunque che l’unica ragione è che Edward è un vampiro, che nell’impeto della passione non controlla la sua forza, e che non ci sono altre letture. Ebbene, se Stephenie si fosse presa la briga di sfogliare altri libri oltre a quello di Mormon, saprebbe che il soprannaturale è metafora della realtà dalla notte dei tempi. L’eroina greca Se pensate che siamo troppo duri, veniamo dunque alla storia in sé. Bella ed Edward si sposano e finalmente possono compiere il sommo atto d’amore. Porsi in una condizione di non-morti, quindi non restituire mai la propria anima a Dio, va bene; il sesso prematrimoniale invece ti danna l’anima. Isolati sin dal primo appuntamento dal resto dei loro coetanei (nei libri viene più volte sottolineato come Bella non abbia più tempo per amici e compagni di scuola: lo trascorre tutto con il suo bel vampiro), il viaggio di nozze lo passano su un’isola vera. Lì Bella rimane incinta (perché un vampiro donna non produce più ovuli, ma un vampiro uomo evidentemente è ancora in grado di generare) e la “diagnosi” le viene fatta per telefono. La creatura che nasce da questa unione è rarissima, un ibrido umano-vampiro che cresce molto velocemente e che, sin dalla condizione di feto, è fortissimo, lacera gli organi interni e spacca le ossa della
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puerpera che lo sta mettendo al mondo. C’è la quasi sicurezza che Bella muoia di parto, ma pur di salutare una nuova (non)vita, la nostra eroina non solo si incaponisce e porta avanti la gestazione, ma la trascorre su un divano tra atroci sofferenze stando ben attenta a non fiatare e a non tradire la minima espressione facciale, altrimenti il suo tesoruccio si turberebbe. Se avete dei figli, forse è meglio che ci chiacchieriate sulle letture che fanno, perché la frase “Almeno sta leggendo un libro” non vale proprio per tutto… Per fortuna c’è il grande schermo La figura di Bella, fin’ora, ha avuto solo vantaggi dalla trasposizione su grande schermo. La giovane Swan è sembrata da subito più moderna al cinema che sulla pagina. Inoltre i produttori si sono resi conto che avere la protagonista distesa per tutto il tempo a fingere di dormire era noioso su carta, figuriamoci su schermo. Quindi la visione della storia si sdoppierà e vedremo le cose anche dal punto di vista di Jacob, il bel licantropo idolo delle ragazzine almeno quanto Edward. Molti elementi “discussi” saranno tagliati e, con limature qua e là, il tutto sarà meno medievale. In attesa della promessa battaglia finale, la venuta dei Volturi e la risoluzione del tutto. La prima parte si chiuderà sull’atroce parto di Bella, un cliffhanger per i pochi che guarderanno questo film senza aver letto il tomo che lo ha generato.
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s n a i l a r Aust do it better di Ilaria Ravari
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? y s a t n a f n e e t a Un nuova sag es, i r e S w o r r o m o The T e un t t e m o r p , a i l a r t dall’Aus so r e v i d e o v o u n war game
ubblicato nel 1993, a insospettabile distanza dall’incubo dell’11 settembre, Tomorrow When the War Began di John Marsden è la Bibbia degli adolescenti australiani. Gli ingredienti, talmente azzeccati da trasformare il primo libro del preside-scrittore in una serie di sette (più una trilogia di appendici), avrebbero fatto la fortuna di qualsiasi editore del mondo occidentale. Meno di trecento pagine, otto protagonisti di un’età imprecisata fra i sedici e i diciannove anni, ambientazione da provincia rurale e un clima da survival horror che terrebbe attaccato alla pagina anche l’ultimo degli adolescenti più svogliati. Tra i motivi del successo del romanzo, ristampato ventisei volte solo in Australia e tradotto in quattordici lingue, c’è proprio il mix di azione e disperazione che è tipico del genere di sopravvivenza. Solo che nel caso della saga di Marsden, a isolare gli otto ragazzi
e a renderli eroi, non è un virus letale, né un’invasione aliena, né una catastrofe naturale. È la guerra. “Le nostre vite erano sempre state così tranquille, così appartate – scrive Ellie Linton, voce narrante del romanzo – Certo, ascoltavamo i telegiornali e ci dispiaceva vedere immagini di guerre, carestie e inondazioni. Ogni tanto cercavo di mettermi nei panni delle vittime di simili catastrofi, ma l’immaginazione ha i suoi limiti”. La realtà no. E così ecco che la saga di Marsden, che ipotizza un’Australia militarmente occupata dal nemico (la cui identità non sarà mai definita), si conclude nel 1999, due anni prima della perdita dell’innocenza dell’Occidente, per trovare rinnovata ispirazione due anni dopo, con Le cronache di Ellie, che raccontano il ritorno alla realtà dei teenager trasformati dalla guerra in soldati. Una storia immaginaria di guerra “in casa”, a cavallo di un incubo molto più che realistico.
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Australian Boom Uscito l’anno scorso in Australia, dove ha incassato più di tredici milioni, Il domani che verrà è il primo film tratto dalla saga di Marsden ed è in arrivo in Italia il 4 novembre. Esordio alla regia dello sceneggiatore de I Pirati dei Caraibi Stuart Beattie, è un film nato per diventare, prima di tutto, un grande successo in patria. “Volevo fare un film d’azione con personaggi incisivi, qui in Australia – scrive il regista nelle note che accompagnano il film - qualcosa che potesse competere a livello internazionale”. L’orgoglio di un continente in una pellicola: laddove il melò di Australia ha fallito, potrebbe riuscire il survival alla Marsden. “Era ora che nel cinema australiano si facesse esplodere qualcosa”, ha sintetizzato con efficacia l’artista degli effetti speciali Andrew Mason. Eppure, ironia del business o della sorte, nel passaggio al grande schermo Il domani che verrà perde proprio ciò che lo rendeva così autenticamente australiano. Azzerata l’ambientazione rurale, qui ridotta ai minimi termini di un country che ha il sapore di un americanissimo Twilight: di Ellie, la ragazza che guida trattori e spulcia pecore, rimane ben poco. Resta un bel viso, quello dell’attrice Caitlin Stasey, appiccicato a un’eroina più action di quel che il suo fisico esile lascerebbe immaginare. Si perde per strada la Fiera del Bestiame, dove tutto ha inizio, l’appuntamento della comunità rurale al quale i ragazzi si sottraggono fuggendo in un campeggio che paradossalmente gli salverà la vita. Resta
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I kit d’emergenza Il genere survival è un leit motiv di Hollywood. Come fare per essere pronti in caso di pericolo? Il copione sarà anche lo stesso, ma ogni emergenza richiede un kit particolare. The Cinema Show vi illustra cosa mettere in valigia per ogni evenienza.
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Virus Will Smith, in Io sono leggenda, è alle prese con un virus che trasforma gli esseri viventi in vampiri. Quello che gli serve per la sopravvivenza è soprattutto un buon arsenale: lasciate a casa paletti di frassino e corone d’aglio e dotatevi di almeno quattro tipi diversi di pistole, cinque tra mitra e fucili, e una buona scorta di bombe a mano. Sempre utili un coltello, un paio di occhiali con microcamera e una torcia. Tanto meglio se si hanno a disposizione un computer e un laboratorio, per fare qualche esperimento con gli antidoti, e un cane per compagnia. Non abbrutitevi: portate con voi almeno un disco di Bob Marley.
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la natura, restano lussuriosi panorami di foreste, ma non resta nulla, nemmeno un canguro, che richiami pur da lontano un continente che dall’America dista almeno un Oceano e otto ore di volo.
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star della TV australiana, e agli stranieri, come Rachel Hurd Wood (nel ruolo della migliore amica di Ellie, Corrie) ha imposto un coach verbale che addestrasse la loro lingua all’accento locale. Un cast di bei volti made in Australia tra i quali spicca per avvenenza Phoebe Tonkin, prima artista a ricevere un premio per una serie TV teen in Australia, e per talento la giovane Ashleigh Cummings, che ha già un piede a Los Angeles e che nel film interpreta la parte della religiosa Robyn.
(Not) Only for Teens L’età dei protagonisti aumenta, di poco. Ma chiunque abbia attraversato l’adolescenza sa bene quale abisso separi i sedici dai diciannove anni. I ragazzi nel romanzo preparano la guerriglia muovendosi in bicicletta tra le case abbandonate del paese, Wirrawee. Nel film inveWar Games ce usano motociclette, e l’orCinemetadone per adoIl domani che sacchiotto Alvin, che Ellie lescenti in astinenza da nel romanzo individua tra le Twilight, tra triangoli sentiverrà è edito in cose indispensabili da pormentali e imponenti esploItalia da Fazi tare con sé nel rifugio, esce sioni, Il domani che verrà inevitabilmente di scena. non dimentica il tema da Una scelta dolorosa ma calcui la saga ha preso forma: colata, che trasporta i personaggi in una la guerra. Il nemico la cui violenza monta dimensione adulta compatibile sia con le nel romanzo in maniera ambigua si fa nel aspettative di un pubblico più addestrafilm più feroce e, se nelle pagine del libro to al genere teen che a quello fanciullea fare il primo morto erano i ragazzi, qui sco alla Goonies, sia con l’età anagrafica è il nemico che uccide fin da subito. Più dei lettori di Marsden: ventenni ormai spietato, più cattivo, talmente inumano affrancati tanto dalle case sull’albero e da chiamare i giovani all’azione immedalle bambole, quanto dagli innocenti diata, quella che non gli lascerà tempo di amori delle scuole d’infanzia. A guardaporsi grandi quesiti morali. Il tempo che, re avanti, oltre alle ambizioni degli stessi nelle pagine migliori del romanzo, Ellie autori che dalla saga vorrebbero trarre impiega a farsi domande destinate a reuna trilogia, l’età degli interpreti potrebbe stare senza risposta: “Non riuscivo a decicausare qualche problema: se si volesse dere se le mie azioni erano buone o cattitrasporre il ciclo per intero, ci si ritroveve. Avevo ucciso per amore, per salvare gli rebbe nell’ultimo sequel con protagonisti amici e conservare libero il nostro paese, ampiamente over thirty. Nei ruoli chiave oppure avevo ucciso perché stimavo la Beattie ha scelto quasi esclusivamente mia vita più di quella altrui?”
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Con il pugno di ferro di Ilario Pieri
Shawn Levy abbandona la commedia per la sci-fi melò di Real Steel. Cinema sportivo del futuro, Hugh Jackman e la “sperduta” Evangeline Lily
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arena era gremita. La folla, assiee rabbia, sudore e violenza, colpi a segno pata sulle gradinate, scrutava con contro ganci sotto la cintola. A un angolo curiosità il centro della scena. Tra il gladiatore alzava il braccio in segno di gli spalti manager, ricche signore vittoria; al lato opposto, l’avversario si ave puttane d’alto bordo, avanzi di galera e viava verso il tunnel della sconfitta. E poi gentiluomini in doppiopetto assistevano silenzio. La storia si ripeteva di epoca in allo spettacolo. Urla e fischi si levavano epoca, attraverso duelli sempre più feroci. dall’alto tra nuvole di fumo denso spigioIl cinema è spesso riuscito a tradurre per nato da qualche pessimo sigaro, mentre immagini atmosfere come questa. Tutti qualcuno occupava gli ultimi posti ancora ricordano la tecnica di attacco (meglio, liberi. Un microfono calava dall’alto per di difesa) di Charlie Chaplin protetto da dare modo all’annunciatore di turno di un omaccione dietro il quale si nasconpresentare il beniamino del pubblico e lo deva per evitare il peggio. Ma la settima sfidante, accompagnato solo da arte ha anche offerto ritratti più Read the insulti. Sul ring fiotti di sangue amari di figure in cerca di riscatReview
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to. Ordinarie avventure di piccoli uomini a caccia di rivalsa. Cronache di una quotidianità dura, spietata e senza sconti, con la vita sempre pronta a inchiodare il lottatore tra le corde. Ultimo esempio, The Fighter: i perdenti di David O’Russell si muovono in uno spazio ostile popolato da una famiglia modello Soprano in gonnella, tra anime maledette e sogni di gloria, crack e alcol, sullo scorcio della misera periferia americana. Avvincente, ben interpretato, dalle atmosfere malsane e poco rassicuranti, il film descrive la leggenda e il declino di un figlio della classe operaia alle prese con un successo pagato a caro prezzo. Anche il nuovo lungometraggio di Gavin O’Connor Warrior (dopo il convincente Miracle) promette bene, grazie alla partecipazione di Tom Hardy e Nick Nolte e a una vicenda familiare non dissimile da quella dei fratelli Micky e Dicky di The Fighter. Ai confini del ring Ma se le cose improvvisamente si evolvessero, cosa accadrebbe? Se in un futuro non distante la boxe fosse veramente abolita come paventa qualcuno perché ritenuta troppo pericolosa? Se l’uomo obsoleto fosse sostituito da robot così da
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far incrociare i guantoni solo alle macchine? Su questi presupposti si basa Real Steel, con Hugh Jackman, Evangeline Lilly e il giovane Dakota Goyo, ennesimo ripescaggio di un’idea vincente sfruttata in parte, un copione liberamente ispirato al racconto di Richard Matheson tradotto sul piccolo schermo per la serie Ai confini della realtà creata da Rod Serling. Lo scrittore del New Jersey votato alla creazione di un immaginario realistico (anche quando si profilano universi fantastici o futuribili, come in questo caso) ha lo sguardo rivolto verso quell’umanità sottomessa a un sistema spesso letteralmente mostruoso. Questi antieroi a volte finiscono al tappeto, eppure non si danno mai per vinti combattendo fino all’ultimo round. Nel racconto così come nell’episodio televisivo diretto da Don Weis con Lee Marvin nei panni dell’ex campione di pesi massimi Steel Kelly, la cornice era assolutamente credibile nonostante si parlasse di androidi, di rottami e di introvabili pezzi di ricambio. La vicenda ambientata nel 1974 (sei anni dopo l’entrata in vigore di una legge contraria alla boxe fra esseri umani) relegava nel dimenticatoio leggende del pugilato con le stesse speranze di trionfi riposte nei nuovi guerrieri meccanici. Steel in compagnia del fedele meccanico Pole, avrebbe voluto ancora una volta vedere il battagliero Maxo non gettare la spugna, ma nella “società del bisogno di denaro e della crudeltà” (direbbe Serling) l’automa aveva fatto il suo tempo e la sola cosa che sapeva raccogliere era il disprezzo. L’idea ori-
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ginale vedeva Steel travestirsi da Maxo, affrontare con tenacia e coraggio lo spietato B7 (un attore in carne e ossa per l’occasione robot grazie all’ottimo make up di allora) e finire stremato al suolo. Real Steel prende spunto da Matheson per rielaborare quel materiale adattandolo alla contemporaneità così da unire allo spettacolo le emozioni. Rocky vs Terminator? Il verdetto al campo, meglio allo schermo. Certo, si fa un gran parlare di questa ambiziosa pellicola targata Disney e se anche Sugar Ray Leonard viene tirato in ballo quale preparatore, allora l’affare si fa davvero interessante. Il regista Shawn Levy (lontano dal suo famoso museo da viaggio dell’immaginario del nuovo secolo) si è entusiasmato a tal punto al progetto da seguire le varie fasi della lavorazione prestando attenzione anche al design dei differenti prototipi. Piuttosto singolare anche tutto il sottobosco che si agita intorno al mondo robotico, con ncontri clandestini in fight club per esseri di metallo disposti
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a darsele di santa ragione fino alla morte. Firmano lo script John Gatins (specialista in redenzioni sportive dopo Coach Carter e Hardball), Dan Gilroy e Jeremy Leven. Il regista e il produttore esecutivo Steven Spielberg hanno modellato una fantascienza di stampo naturalistico tra effetti speciali e sentimenti, mescolando diversi registri narrativi, dalla novella sportiva al melodramma familiare, dal film d’azione alla fantascienza, e Jackman è il volto giusto per interpretare Charlie Kenton il cavaliere solitario di questo 2020 retrò, in cerca di rivincita. Un ex campione egoista e meschino, un truffatore con alle calcagna i creditori condannato a vagare a bordo di un pick up in cerca di rottami da rimettere a nuovo per sbarcare il lunario. Charlie troverà sulle proprie tracce un figlio e assieme a lui costruirà una rinascita chiamata Atom, suo alter ego meccanico. Gli ingredienti per un buon intrattenimento ci sono tutti, basterà aspettare il 25 novembre, data d’uscita italiana. Chissà che un giorno un robot non esclami: stasera ho vinto anch’io!
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n o i L a f o l u o S
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di Pierpa
Joel Edgerton vs . Tom Hardy. L egami di famiglia ben olia ti dal sangue in Warrior
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n un angolo Brendan, stimato professore di liceo, amato da moglie e figli. Nell’altro Tommy, vagabondo il cui mondo è racchiuso in una sacca contenente qualche ricambio, una bottiglia di whisky e un paio di guanti imbottiti. Brendan è un uomo dal cuore d’oro, Tommy ha raggelato la sua anima dopo aver visto la morte in faccia nel fronte iracheno. Entrambi condividono
una montagna di muscoli e un qualcosa di primitivo che gli si legge nelle palle degli occhi: una bestia dentro pronta a svegliarsi improvvisamente, a ruggire e mordere se necessario. Entrambi condividono anche lo stesso sangue, due fratelli che si ritrovano dopo quattordici anni avvolti da una gabbia di ferro dalla quale soltanto uno uscirà vincitore. È l’ora del gong.
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Warrior - Un ring formato famiglia “Let’s go to war” è una frase che viene spesso pronunciata nel film di Gavin O’Connor: con un susseguirsi di scariche di pugni, il regista riesce a ottenere un concentrato emotivo intenso ed efficace, e lo fa sporcandosi le mani nel lato oscuro degli USA. La scelta delle arti marziali miste gli ha permesso di mettere insieme i pugni del wrestler Mickey Rourke, i calci del kickboxer JeanClaude Van Damme e gli occhi della tigre dell’iconico Rocky di Sly Stallone. Piazzando la macchina da presa tra palestre sudice e ring infiammati dal rosso del sangue, il regista di Warrior racconta una saga familiare americana contemporanea. I legami di famiglia, che nel cinema hollywoodiano hanno spesso e volentieri riscaldato chi sta a guardare, rischiano qui di diventare la ragione
principale del crollo di ogni umanità. Un padre il cui cuore è stato sempre guidato dalla bottiglia (interpretato da Nick Nolte, date subito un Oscar a quell’uomo!), due fratelli speculari come il giorno e la notte che devono sistemare vecchi rancori a suon di pugni, e una moglie e dei figli che necessitano garanzie e stabilità, ma soprattutto un tetto sotto cui dormire. Purtroppo tutti hanno scelto l’epoca sbagliata per dare la gioia per scontata. La crisi economica, i demoni della guerra e il profitto mediatico basato su una scorpacciata di violenza: il ring di O’Connor li contiene tutti, diventando la piattaforma perfetta per sviscerare i demoni della nostra epoca e magari, per liberarsene definitivamente.
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Gli altri bros. del cinema, tra fratelli coltelli e veri e propri Caino e Abele
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Tom Hardy, the best bad boy Notato dagli Studios dopo la sua performance in Bronson, il londinese Tom
Il padrino: parte II (The Godfather: Part II, di Francis Ford Coppola, 1974) “Fredo, tu sei mio fratello maggiore e ti voglio bene. Ma non ti azzardare a schierarti mai più contro la famiglia, chiaro?”. John Cazale intona una serie di Ave Maria durante la pesca, Al Pacino è il figlio di buona donna senza cuore seduto in attesa dell’esecuzione. Una volta che mamma Corleone riposa in pace, il fratello che ha sbagliato può essere tolto di mezzo. L’esecuzione di Fredo è il biglietto di sola andata per l’inferno di Michael Corleone.
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remo d e v 2 1 0 2 l Ne re e d n e r p y d Tom Har an m t a B i c l a c a Hardy è già un veterano del grande e piccolo schermo. Nel giro di dieci anni è stato arruolato da Spielberg in Band of Brothers, salendo a bordo dell’Enterprise in Star Trek: La nemesi ed entrando sia nelle gang londinesi di Guy Ritchie in Rocknrolla, sia nella banda di ladri della mente di Inception di Nolan. La sua definitiva consacrazione arriverà nell’estate 2012, quando lo vedremo prendere a calci nel sedere l’uomo pipistrello in persona. Con muscoli scolpiti nel marmo e un repertorio espressivo capace di bilanciare tenerezza e inquietudine, il trentaquattrenne Hardy è Gary Oldman e Tim Roth messi insie-
me: un uomo affascinante capace di liberare la sua natura selvaggia e pericolosa in una manciata di secondi. Merito di una fortissima determinazione, la stessa che per sviluppare al meglio il ruolo di Tommy Conlon in Warrior lo ha guidato fino a casa del regista in piena notte: “È arrivato a mezzanotte di domenica, senza preavviso – ricorda O’Connor - Ho sentito bussare e alla porta, c’era Tom Hardy. Era previsto che andasse in albergo invece è rimasto cinque giorni a casa mia, quindi abbiamo avuto modo di conoscerci molto bene. E ho trovato le sue qualità umane perfette per il personaggio che avrebbe dovuto interpretare”.
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Il cinema fantasmagorico di Tarsem Singh di Andrea Grieco
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Arriva anche in Italia Immortals, un’occasione per scoprire il visionario regista indiano
empo e luogo indefiniti, un’arena che assomiglia in tutto e per tutto al Colosseo; nel fragore di un pubblico ipereccitato si consuma un agone senza esclusione di colpi tra un team di fuoriclasse del football mondiale e una schiera di monolitiche creature infernali. Tra dinamiche mutuate dai più tonitruanti action movie e azioni calcistiche che strizzano l’occhio al classico Fuga per la vittoria di John Huston si articola uno degli spot più riusciti di sempre, che neanche il miglior Ridley Scott del periodo pubblicitario può eguagliare in magniloquenza e visionarietà. Qualità, queste ultime, che si confermeranno, insie-
me ad una cura maniacale per la composizione di ogni elemento linguistico e un accento provocatoriamente ironico, inconfondibili cifre stilistiche di Tarsem Singh. In breve i videoclip e i lavori promozionali per rinomati brand diretti dal regista di origini indiane si costituiscono come un corpus autonomo e coerente, l’universo di un autore che non tarderà a manifestarsi sin dal suo primo lungometraggio, The Cell - La cellula. Un esordio che ben si inserisce nel solco tracciato da pellicole come Il Silenzio degli innocenti e Seven, che a partire dagli anni Novanta hanno ridefinito le coordinate del thriller virandole sempre più verso i territori dell’horror,
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dai quale al contempo si discosta perché si le doti da metteur en scène di Tarsem, che alimenta di un originale supporto immarealizza una pellicola che sfugge a ogni ginifico, transculturale. Tarsem riproduce tentativo di classificazione. In un plot sofedelmente i topoi del genere, deadline stanziato da un intreccio “a matrioska” si e detection innanzitutto, salvo creare un alterna il rapporto tra due pazienti di un effetto straniante dirottandoli in territori ospedale ortopedico di inizio XX secolo narrativi inusuali e inaspettati. Dal moe una storia che ha il sapore delle fiabe, mento in cui Carl Stargher, un serial killer ma dal respiro e dall’umore epico. Banditi, che condanna a una morte lenta e dolopirati, schiavi affrancati, possenti guerrierosa le sue vittime, viene catturato in stato ri, armature scintillanti, nientemeno che catatonico dalla polizia, questa si vede coCharles Darwin in persona e, neanche a stretta ad affidarsi a una tecnica poco ordirlo, incantevoli principesse e perfidi sitodossa per riuscire a strappargli informagnori. Per The Fall, nato sotto l’egida di zioni che aiutino a David Fincher e trovare, prima che sia Spike Jonze, la fitroppo tardi, l’ultima guratività di Tarsem In The Fall la figuratività donna da lui rapiesplode in tutta la ta: lasciare che una sua magnificenza. Le di Tarsem esplode in tutta scienziata penetri scenografie sontuose la sua magnificenza letteralmente nel suo e i costumi sfarzosi inconscio. E qui si realizzati da Eiko annida il “cuore nero” Ishioka materializdi Carl, che Tarsem concepisce come un zano suggestioni derivanti dalla letteratura viaggio all’interno della più avanguardistidi ogni tempo e luogo, da quella antica ca e provocatoria galleria d’arte contemmedio-orientale canonizzata nei Racconporanea, in cui si susseguono senza soluti delle Mille e una notte fino al Dante zione di continuità fantasmagorie violente della Commedia, declinata con l’attitudiispirate alle body performance di Stelarc, ne all’intrattenimento di tanta narrativa le vivisezioni in formaldeide di Damien popolare e d’avventura, da Pierre-Alexis Hirst, l’erotismo soffocante di Jan Saudek, Ponson du Terrail a Emilio Salgari. Quail barocchismo camp di Pierre & Gilles, le lità tutte che lasciano ben sperare per Imcyber installazioni di Mariko Mory. Onimortals, l’ultima fatica di Tarsem, forse rismo e spettacolarità si combinano in una l’unico davvero in grado di trasformarsi formula alchemica che il regista ripropone nell’aedo di un genere, quello fantasticoidentica nel suo secondo film, The Fall, mitologico, che sembra essere tornato in sfortunata opera caduta immeritatamente auge, seppure con insipidi blockbuster in un limbo oscuro, ma forse persino più come 300 di Zack Snyder, o le redivive paradigmatica e indicativa per apprezzare gesta di Conan il cimmerio.
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The Shakespeare Apocalypse di Pierpaolo Festa
Lontano da invasioni aliene e disastri planetari, Roland Emmerich realizza Anonymous, forse il suo film più apocalittico
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Wanted: Dead or Alive”. Dai castelli del Medioevo al Vecchio West, fino all’era tecnologica dell’FBI. I volti dei Most Wanted sono stati sempre affissi su un cartello con scritto in calce il loro nome e la ricompensa per la cattura. Siamo pronti a scommettere che gli stessi cartelli appariranno presto sulle strade di Stratford Upon Avon, dove sarà il volto di Roland Emmerich a essere incorniciato, dopo che il regista ha provato a scuotere le fondamenta dello Shakespeare’s Birthplace, mettendo in discussione l’autorevolezza degli scritti del bardo. William Who? Per due decadi il regista tedesco si è fatto largo nello showbusiness a colpi di effetti speciali, beffando i più grandi simboli americani e radendoli al suolo in un batti-
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baleno. Soprannominato “il piccolo Spielberg”, Emmerich ha vinto le sue sfide hollywoodiane realizzando il migliore (e forse non era difficile) film con Jean Claude Van Damme (l’action I nuovi eroi), rilanciando l’Antico Egitto sul grande schermo (Stargate, declinato in TV quasi quanto Star Trek) e scacciando gli alieni dalla Terra a colpi di missili e sigari nel giorno dell’Indipendenza, quello in cui il Presidente Bill Pullman ha pronunciato un discorso tanto potente da abbattere ogni odio tra Oriente e Occidente. Dopo un paio di passi falsi con titoli numerici (da 10,000 a.C. a 2012), Emmerich sgancia la sua bomba H colpendo al cuore la letteratura e il teatro inglese e creando un sillogismo cinematografico tutto suo: “Tutti gli analfabeti non sono in grado di comporre versi. William Shakespeare era analfabeta. William Shakespeare non
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ha scritto nemmeno uno dei suoi pentametri”. E non finisce qui, dal momento che in Anonymous il bardo è ubriacone, vigliacco e frequentatore di bordelli. Forse più uomo politico capace di muoversi abilmente verso la sua scalata al successo, che uno degli autori più geniali della storia. Il regista ci scherza sopra: “Di certo in molti mi hanno attaccato, ma non ho ancora ricevuto minacce di morte”.
la storia elisabettiana affidandosi anche al volto emo di Jamie Campbell-Bower (preso in prestito direttamente dalla Twilight Saga), la sceneggiatura di John Orloff trasuda intrighi con una storia ambientata sul palcoscenico (la parte migliore) e a corte, dove lo spettatore viene travolto da un’overdose di misteri, segreti e scandali che culminano in una sequenza di colpi di scena finali.
Anonymous: la penna è più potente della spada Più che una gara di composizione di versi, il film di Emmerich si sofferma sulla gara di scaltrezza al fine di mantenere o conquistare il potere. I personaggi finiscono per rimanere vittime delle loro stesse azioni e nel mirino del regista ci sono proprio tutti: da autori come Ben Johnson e Christopher Marlowe, fino a Sua Maestà Elisabetta I in persona. Un labirinto elisabettiano in cui la natura umana viene osservata dal palchetto su cui è seduto il conte di Oxford, il vero autore dei preziosi scritti, geniale tuttologo sullo spirito dell’uomo come Amleto, capace di amare con la stessa potenza di Romeo. Cavalcando la scia del successo di The Tudors e rielaborando
Tutto il mondo è palcoscenico Mentre la sua testa è attesa con ansia a Stratford, Emmerich gira il mondo sostenendo al cento per cento le teorie avallate dal suo film, trasformandosi in uno Sherlock Holmes mediatico con tanto di prove per ridiscutere, una volta e per tutte, la questione shakespeariana. Il suo protagonista, il gallese Rhys Ifans, la prende con più ironia, paragonando il suo conte di Oxford a un mix tra Karl Lagerfeld e David Bowie e rivelandoci il suo più grande augurio: “Ho i miei dubbi su Shakespeare anch’io. Ho dovuto crederci per interpretare il ruolo di Oxford. Ma di una cosa sono certo: in Anonymous nessuno viola mai il potere del palcoscenico. Mi auguro che questo film farà con il teatro quello che Rocky ha fatto con la boxe”.
Molti mi hanno attaccato, ma ancora nessuna minaccia di morte Roland Emmerich
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Antonio Banderas
di Boris Sollazzo e Alessandro De Simone
“Non sarò Don Chisciotte, ma ne avremmo bisogno” Doppio incontro con l’attore e regista spagnolo, parlando di Pedro, El Gato e gli Indignados
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he Cinema Show ha incontrato Antonio Banderas due volte in pochi giorni nello scorso settembre. Prima a Roma, dove accompagnava l’amico Pedro AlmodÓvar e la bellissima Elena Ananya per presentare La pelle che abito, il tanto atteso horror del regista spagnolo. Poi, pochi giorni dopo, a San Sebastian, dove l’attore ha mostrato a una platea fatta soprattutto di bambini festanti venti minuti di footage de Il gatto con gli stivali, spin off della saga di Shrek che vede protagonista il felino spadaccino. Entrambi gli incontri sono stati magnifici, perché così è la persona che ci siamo trovati davanti e che conoscevamo già bene, avendolo incrociato varie volte nel corso degli anni. Attore dal grande talento e dalla grande serietà, Banderas è anche
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un personaggio incredibilmente interessante, stimolante, vivo, cosa che non è così comune tra i suoi colleghi. Regista, produttore, con molti progetti nel futuro più o meno prossimo, Antonio si meritava l’intervista del mese di The Cinema Show. Finalmente di nuovo con il suo amico Pedro Almodóvar, in un film di genere.
Non so se considerare La pelle che abito un film di genere, perché per me Pedro stesso è un genere e lo adoro perché non ha mai fatto film per il grande pubblico. Tranne forse Donne sull’orlo di una crisi di nervi, che è piaciuto a tutti, anche a me farlo, ma non è davvero ciò che Pedro è. Il vero AlmodÓvar è quello de La pelle che abito, un regista che va sempre oltre le convenzioni, che non si ferma dove tutti gli altri si fermano. La scena finale del film, per esempio: avrebbe potuto chiudere con Vera che entra nel negozio e vede la madre. Ma Pedro non è così, lui voleva vivere anche il momento della rivelazione. Ammetto che anche io, quando ho letto il copione, ero perplesso, ma quando ho visto ho capito che avevo torto. Come ha costruito il suo personaggio, lo scienziato pazzo Robert Ledgard?
Pedro ha voluto che lavorassi molto in sottrazione, preferiva che lo spettatore percepisse la follia di questa persona, ma che non fosse mostrata in maniera evidente. Robert è molto naturale, è una persona con una grande sensibilità, eppu-
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re non sai mai quello che sta per fare. Pedro mi ripeteva che non dovevo pensare di star facendo qualcosa di male, perché Robert ha la certezza di avere ragione. La scena che spiega meglio la sua psicologia è quella in cui insegna a Vera come usare i dilatatori vaginali, in maniera professionale e cortese, come stesse prescrivendo un qualunque farmaco. La pelle che abito non è un film su una vendetta, ma sull’arte e sull’ossessione del Creatore nei confronti della sua opera, destinata a essere condivisa.
È esattamente quello che ho pensato quando ho letto per la prima volta la sceneggiatura e ho capito che è veramente così quando, parlandone con Pedro, ha preferito non affrontare l’argomento in maniera approfondita. Quando fa così
“Per me il cinema europeo è Almodóvar: lo identifico con lui”
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non vuole rivelare quello che davvero è importante per lui in una storia. Ma è vero, Robert è un artista che crea il suo capolavoro e non vuole lasciarlo andare via, ne è ossessionato. Dopo tanto tempo torna in Spagna. Preferisce il cinema europeo?
Per me il cinema europeo è Almodòvar, abbiamo girato sei film insieme, quindi lo identifico in lui. Non faccio distinzioni, amo tutto quello che ho fatto, lavorare a Hollywood mi ha permesso di fare prodotti di tutti i tipi, dall’action di Assassins ai cartoni animati alle commedie romantiche. Di commedie voglio farne di più, le adoro e servono agli attori per non prendersi troppo sul serio. Cinquantuno anni ed è ancora considerato un latin lover. Come la vive?
È una cosa divertente quella del latin lover, perché non credo ci sia un attore al mondo che abbia interpretato più ruoli omosessuali di me. La vivo con grande tranquillità, se devo essere sincero mi piace molto come mi ha visto Pedro in quest’ultimo film. Anche se mi sento comodo a stare qui con voi con jeans, maglietta, stivali, in un futuro prossimo mi vedo come Robert. Il suo matrimonio con Melanie Griffith è uno dei più solidi di Hollywood. Qual è il vostro segreto?
L’amore è una cosa meravigliosa è complicata, in tutti i luoghi del mondo, non solo a Hollywood. Solo in Spagna ci
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sono undicimila separazioni l’anno, figuriamoci in un luogo in cui incontri sempre persone avvenenti e interessanti. Ecco perché stare insieme una vita non è solo un sentimento, ma anche un “lavoro”: devi sapere agire giorno per giorno perché tutto questo, per te, non abbia importanza. Sapere essere sempre diverso, rilassarti e soprattutto non farti mai prendere dal panico. Il primo spin off di Sherk è proprio quello del suo personaggio. Una bella soddisfazione.
Trovo che una delle più grandi rivoluzioni recenti, nel cinema, non solo d’animazione, sia stata proprio quella di Shrek, entrare in un universo e metterlo sottosopra. Lo stile Disney prima dell’orco verde sembrava invincibile, mentre quello che facciamo nella nostra saga sembra una follia. Sono felice dell’accoglienza di questi primi venti minuti de Il gatto con gli stivali, il pubblico mi sembrava entusiasta, soprattutto i bambini. Che tipo di film le sembra sia venuto fuori?
È in linea con la saga di Shrek, ma c’è anche qualcosa di diverso. C’è molta avventura, tanto umorismo e quel modo informale di vedere l’animazione che è tipico della Dreamworks, con un omaggio a Sergio Leone e un po’ di Tarantino. Ci sarà Shrek?
Ci ho provato, ma mi ha detto che mai avrebbe fatto un supporting role. Scher-
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zi a parte, comunque non c’entrerebbe nulla in questo film. Com’è per lei lavorare a un film d’animazione?
Mi affascina il lavoro degli animatori, questi geni che vengono dalla Silicon Valley che uniscono talenti con altri creativi e creano universi straordinari. Sono ammirato dal mio regista: seguire un film come questo è molto più difficile che con un set di attori in carne e ossa. A volte mi viene il desiderio di dirigere un film d’animazione. Forse arriverà prima o poi, ma sarà qualcosa di più tradizionale. Si diverte quando doppia il suo personaggio?
Moltissimo, anche se una delle cose che mi inquieta di più è scoprire che lavorano modellando il personaggio su chi lo interpreta. Hai idea quanto possa turbarti scoprire che il gatto con gli stivali ha le tue stesse espressioni facciali, la tua stessa camminata, persino il tuo sguardo? Sono saltato sulla sedia quando l’ho visto la prima volta! Mi sembra molto contento di quello che ha fatto.
Ho capito in questa fase della mia vita che il peggior nemico è dentro di te, ora so guardare al mio lavoro in maniera molto più rilassata. E cerco sempre più cose che voglio fare, di cui sento il bisogno, perché le ritengo importanti o semplicemente divertenti da fare. Motivo per cui ho anche creato una piccola casa di
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produzione, con base in Spagna, con cui spero di portare avanti bei progetti, ma più europei, perché ho voglia di stare più spesso nel mio paese. Sto imparando anche la parte meno affascinante del lavoro del produttore: cercare soldi! Per il futuro cosa la aspetta?
Adesso mi attende Zorba il greco, non credo farò Don Chisciotte come si dice in giro. Anche se in questo periodo di crisi sarebbe un personaggio molto attuale. Lei è sempre stato attento a questi temi, cosa pensa di questo momento politico ed economico globale?
Non sono un addetto ai lavori, ma quello che mi colpisce è l’incredibile confusione che regna nel sistema finanziario, nessuno ha idea di che strade prendere agli incroci che gli presenta l’economia, tutti sembrano sprovvisti degli strumenti per superare questa crisi. È agghiacciante, sembrano non esserci soluzioni, non si riesce a ragionare in prospettiva. E forse non c’è neanche voglia di farlo, ci si accontenta di strumentalizzare la situazione. In Spagna la crisi ha un nome: Zapatero. E in Inghilterra si chiama Gordon Brown e in America Obama. E in Italia Berlusconi. E nel vostro caso è vero, lo sapete? La prego, non ce lo ricordi anche lei…
Vero, forse non ho fatto l’esempio migliore (ride). Intendo solo che a dare questi nomi sono sempre le opposizioni che, di qualsiasi colore siano, hanno
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sempre ragione. Semplicemente perché non governano.
Eppure lei è stato in Tunisia proprio durante la rivoluzione contro Ben Ali, ha visto le cose cambiare di persona.
In Italia non abbiamo un’opposizione, stia tranquillo.
Infatti che tutto cambi non mi sembra un’utopia. Ora ci sembra tutto fermo, ma in Tunisia c’erano foto di Ben Ali ovunque, nelle banche, negli uffici istituzionali, in ogni piazza. Sono sparite dall’oggi al domani ed è cambiato tutto. Non va sottovalutata la rabbia delle persone, né sopravvalutata la loro tolleranza verso le ingiustizie. Certo, poi c’è da sperare che il rimedio non sia peggiore del male.
Siete perfidi! (e ride più forte) Cosa le interessa in particolare in questo momento nel panorama politico?
Ora seguo con affetto il movimento degli indignados, mi sembra che lì ci sia più sincerità e passione di quello che troviamo nella politica. Non mi interessano i rating di agenzie che danno una tripla A a chi poi fallisce rovinosamente tre settimane dopo, né le decisioni di chi non sa cosa succede nelle proprie strade. Mi piacciono questi ragazzi, uomini e donne, che in piazza mettono le loro vite. Qual è la soluzione? Forse quella di Chavez, le nazionalizzazioni? Temo che al di là di lui, il metodo rischi di diventare l’unico modo. Ma immaginate cosa succederebbe?
“Seguo con affetto il movimento degli Indignados, mi sembra che abbiano sincerità e passione”
È stato un momento difficile per lei e per la troupe immagino.
Abbiamo dovuto interrompere le riprese per alcune settimane, molti membri della troupe non si presentavano sul set, ma allo stesso tempo c’era un fermento straordinario, mi ha ricordato la Spagna della mia adolescenza, dopo la morte di Franco. Poi è successa anche una cosa divertente. Jean Jacques Annaud, il regista di Black Gold, era molto preoccupato per Freida Pinto, visto l’aumentare degli scontri e della tensione, e aveva pensato di farla andare via finché le cose non si fossero calmate. Siamo andati a dirglielo insieme e lei ha risposto: “Perché? Sono nata e vissuta a Bombay, tutto questo è normale per me”. Lei è un grande appassionato di calcio. Noi siamo del Napoli, ma lei è contento che il Malaga sia stato comprato dagli arabi?
Sì, siamo pieno di soldi, possiamo comprare giocatori fortissimi. Grande Malaga!
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Lezioni di cioccolato 2, terza commedia in un anno per l’attore, sempre più lanciato nel genere più difficile
Luca Argentero
di Alessandro De Simone
C
he Luca Argentero sia nato artisticamente nella casa del Grande Fratello non se lo ricorda quasi più nessuno. Ammetto che anche io ho dovuto fare mente locale per farmelo tornare alla mente, ma il merito va tutto a questo ragazzo che con costanza, umiltà e modestia è riuscito a ritagliarsi un ruolo nel panorama cinematografico italiano, oltretutto in un genere difficile come la commedia, sofisticata e anche romantica, di cui è ormai protagonista indiscusso da qualche anno, un primato che ribadisce con l’uscita di Lezioni di cioccolato 2, seguito del fortunato esordio di Claudio Cupellini, diretto da un altro freshmen, Alessio Maria Federici, e interpretato da Hassani Shapi, Nabiha Akkari, Angela Finocchiaro e Vincenzo Salemme.
Un ragazzo troppo modesto Luca, ormai sei il Hugh Grant del cinema italiano.
Mamma mia, che complimento! Esagerato! Perché? Sei un veterano della commedia romantica in Italia e non è un genere facile.
È vero, ne ho fatte molte, ma non credo ci siano molti segreti in questo mestiere, o ti diverte quello che fai o hai poche speranze. Non è cosi semplice, ma ho avuto spesso la fortuna di avere dei mostri al mio fianco con dei tempi affinati con cui in realtà devi fare poco per sembrare bravo. Hai anche la fortuna di lavorare in una factory creativa bene avviata.
Cattleya, la produzione, qualche anno fa
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Vincenzo e Angela sono due attori eccezionali, sul set i tempi li hanno dettati loro ha pensato che sarebbe stato bello rifarsi allo stile della Working Title, compagnia che ha realizzato film come Notting Hill e Love Actually, lavorando su un’eleganza stilistica e drammaturgica che si allontanasse dal modo lineare di fare commedia che c’è in Italia. Fabio Bonifacci è una penna molto felice e l’impianto produttivo è collaudatissimo, così il lavoro dell’attore finisce con l’essere molto semplice. Luca, ma non sarai troppo modesto?
No, figurati, ho ancora un sacco di cose da fare e imparare. A questo proposito, quanto hai rubato sul set da Vincenzo Salemme e Angela Finocchiaro?
Vincenzo e Angela sono due attori eccezionali, sul set i tempi li hanno dettati loro, capendo perfettamente quello che Alessio Maria Federici voleva. Alessio è stata una vera sorpresa, per essere un esordiente è già un regista con le idee chiare e un gran senso del ritmo, ma soprattutto lui ha voglia di fare la commedia, gli piace il genere e non è stato un ripiego per fare il primo film più facilmente. Sul set c’è stato un grosso lavoro di riadattamento proprio per la capacità di Vincenzo e Angela di lavorare sul testo
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e con i tempi, la commedia fa parte del loro bagaglio artistico e io ero lì a rubare. È la seconda volta dopo Oggi sposi che sei protagonista di una storia d’amore interrazziale.
Probabilmente perché è una cosa sempre più attuale. Se ti fai una passeggiata a Londra vedi più coppie miste che tradizionali. Meno male che cominciamo a raccontare storie così anche in Italia. Solo quest’anno tre commedie, ma hai già dimostrato di poter fare anche ruoli diversi. Ti vedremo prossimamente in un ruolo drammatico.
Prima di tutto ancora non so quali saranno i prossimi progetti, quindi non te lo so dire, ma in generale io accetto le storie se sono belle, se poi sono commedie o film più impegnati non è un problema. Nei prossimi mesi arriveranno i pezzi da novanta che dovrebbero anche rivitalizzare il box office. C’è qualcuno con cui ti piacerebbe lavorare per poter carpire qualche altro segreto?
Diciamo che ho voglia di lavorare, per fortuna, quindi andrebbe bene tutto. Certo, fare un film con Carlo Verdone sarebbe un onore, ma ce ne sono tanti bravi, da Ficarra e Picone a Claudio Bisio, Pieraccioni. Il problema degli incassi in questo inizio di stagione è legato all’estate allungata, secondo me, con l’arrivo delle commedie più attese il pubblico tornerà al cinema.
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Azione e regia classica in Tower Heist: Ben e i suoi magnifici sette
Ben Stiller
di Adriano Ercolani
“Mi ci voleva un po’ d’azione!”
è
uno dei comici più affidabili e intelligenti di Hollywood e con Tower Heist prova a cambiare rotta: oltre alla solita dose di risate, anche un tuffo nell’action e uno sguardo trasversale all’America colpita dalla crisi economica. Abbiamo incontrato Ben Stiller a New York, dove ci ha presentato il suo nuovo atteso film, che ha interpretato insieme a un’altra icona come Eddie Murphy.
In Tower Heist ha lavorato con un cast di primo livello: come si è trovato a dividere il set con tanti e tanto bravi attori?
Lavorare con Eddie Murphy è stato appagante. Sono stato un suo fan per così tanto tempo che già conoscevo il suo stile recitativo, è stato bello vedere che avevamo molti punti di riferimento in comune, come i vecchi film di Harold Lloyd. Sul set è preparatissimo: si porta dietro un bagaglio comico d’attore in-
credibile, ha un repertorio sconfinato. Tea Leoni è una bravissima attrice, intelligente e con un senso perfetto della battuta. Con lei è proprio una questione di chimica, riusciamo a perderci nel momento di una scena, come quella al diner in cui lei si ubriaca. Non lavoravamo insieme da Amori e disastri di David O’Russell, è stato fantastico ritrovarsi. Casey Affleck è stato sorprendete, un attore divertente e superserio insieme, due facce che porta dentro il personaggio nello stesso momento. Ha improvvisato molto nel film, è uno che si interessa del realismo e anche della comicità di una situazione. Ma anche Gabourey Sidibe e Michael Pena sono spiritosi.
Interview Come si è trovato a essere diretto da Brett Ratner?
Ha portato energia, entusiasmo e fiducia. Lo conosco da vent’anni, siamo ottimi amici, ma non avevamo mai lavorato insieme e finalmente ci siamo chiesti il perché. Brett è un entusiasta e sa trasmetterlo. Sa fare film divertenti, che poi piacciono al pubblico a prescindere dal genere. Ha un team con cui lavora sempre e questo aiuta moltissimo nell’amalgama tra cast tecnico e artistico. Per Tower Heist ci siamo intesi immediatamente su quello che volevamo riguardo il tono e il ritmo, per me era fondamentale perché questa è un’operazione differente da quello che ho fatto in precedenza, una commedia ma con in più l’elemento della rapina: è molto più action rispetto ai miei film passati, in qualche modo volevo realizzare un classico heist-movie. Torniamo a Murphy: ha sentito la rivalità con un’icona comica così grande?
Non proverei mai a essere più divertente di Eddie Murphy. Lui ha la sua comicità, io la mia. Come ho detto tutto il cast del film ci ha messo una dose di comicità personale. Quando si gira un film del genere si ragiona in termini di commedia, si devono costruire molte opportunità per essere divertenti e si cerca di esserlo il più possibile. Perché deve esserlo il film, non per creare competizione. Quando lavori insieme quello che conta è il gruppo e la giusta interazione. Non penso mai in termini di comicità, ma di personaggi: regia
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e sceneggiatura devono occuparsi del divertimento, gli attori di interagire. Avete seguito il copione alla lettera o c’è stato spazio per l’improvvisazione?
Abbiamo cercato di equilibrare le due cose. Ci saranno sempre alcune scene che in una sceneggiatura funzionano e non hanno bisogno di ritocchi, ma succede anche il contrario: allora devi adattare il tuo stile a quello degli altri per rendere una situazione migliore. Sì, c’è stata improvvisazione, anche se lo script era già molto elaborato e pieno di trovate spassose. A essere sincero, a me non piace comunque entrare in film in cui è tutto scritto e organizzato... Tower Heist parla dell’attuale crisi economica americana, e affronta la delicata questione della vendetta. Come si pone riguardo a questi due temi?
La crisi economica non mi ha colpito in maniera traumatica, so di essere privilegiato. Con questo lungometraggio volevamo raccontare la frustrazione di chi invece si è ritrovato al tappeto, soprattutto evidenziare il fatto che in alcuni casi ci sono state persone che si sono prese il denaro di altre. La vendetta è una cosa difficile da gestire: è gente che è stata fregata, e moralmente mi sento dalla loro parte, ma bisogna sempre definire ciò che è giusto e ciò che è sbagliato. Qual è il segreto della comicità di Ben Stiller?
Credo sia che non penso di essere sempre
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divertente. O meglio, non cerco di esserlo. Se tentassi a ogni costo di essere comico non funzionerebbe, penso che nessun vero comico lo faccia. Un attore mette in scena quello che reputa divertente con naturalezza, questo lo rende efficace. Cercare troppo le situazioni è sbagliato. Ognuno ha un suo senso dell’umorismo, è fondamentale lavorare con gente che riesce a comunicare il proprio. A che punto è la sua carriera di attore? Si sente realizzato come persona?
Non mi vedo solo come un attore, mi sento più un filmaker nel senso più generale del termine. Sono molto soddisfatto perché so di avere l’approvazione degli spettatori: con gli anni cambi come uomo e il tuo pubblico cambia con te, e se continua a seguirti vuol dire che hai lavorato bene. Mi sento realizzato, sono felice della strada che ho intrapreso. Se non avessi lavorato nel mondo del cinema, avrei scelto l’archeologia, anche se non l’ho mai
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connessa allo studio: da giovane non ero un grande studente, mi piacevano più i film. Ricordo che vidi Lo squalo e capii cosa volevo fare. Mi piace la storia: con Una notte al museo ho potuto combinare questa passione con il cinema, è stata una bella esperienza. Ho dei figli magnifici e voglio che siano felici di quello che faranno, non importa cosa. Sarei emozionato se riuscissero anche in qualche mestiere fuori dallo showbusiness. Ci vorrebbe qualcuno che fa un lavoro serio in famiglia! L’ultima, consueta domanda: quali sono i suoi progetti più prossimi?
Sto lavorando a un nuovo film, Neoghborhood Watch, una commedia su degli alieni che atterrano nei sobborghi di una città. C’è un grande cast: Vince Vaughn, Jonah Hill, Richard Ayoade e Rosemarie Dewitt che interpreta mia moglie, è una grande attrice. Poi farò il remake di The Secret Life of Walter Mitty, che dovrei anche dirigere.
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David Nicholls
di Federica Aliano
D
avid Nicholls è simpatico e disponibile. Del resto, leggendo il suo romanzo Un giorno (edito da Neri Pozza – e se non lo avete ancora letto, andate subito in libreria) si capisce benissimo che una persona in grado di far ridere e piangere nell’arco di una sola pagina abbia molto da dare ai suoi lettori. Di One Day, il film che lui stesso ha adattato per il grande schermo, vi abbiamo già parlato sul numero estivo di The Cinema Show. Una storia potentissima di amicizia e di amore, di sentimenti che sopravvivono al tempo e allo spazio, alla lontananza, le differenze sociali, le aspirazioni divergenti, e tutte le piccole meschinità umane. Il film arriva anche in Italia, distribuito da BIM. Anne Hathaway è Emma, la secchiona impenitente, Jim Sturgess è Dexter, il rampante arrivista. Eppure quella che volevamo ascoltare è, ancora una volta, la voce dell’autore…
L’autore di One Day, il bestseller più amato degli ultimi anni parla di come è nato il suo libro e di come è diventato un film Prima di tutto: ho amato molto il suo romanzo. Ma questa è certamente una cosa che molte persone le dicono...
Grazie, è molto gentile da parte sua, è qualcosa che certamente non ci si stanca mai di sentirsi dire Due persone, vent’anni. Quanti anni ci sono voluti per scrivere questa storia?
Due anni, anche se nel frattempo mi presi una piccola pausa per lavorare su una sceneggiatura, una versione TV di Tess dei D’Urbervilles per la BBC. Poi sono tornato all’inizio del romanzo, l’ho riletto da capo e l’ho scritto di nuovo da zero. Un periodo molto felice – è la cosa più divertente che abbia mai scritto, e spero che questo traspaia alla lettura. Come è stato trasformare il romanzo in uno script? Probabilmente ha dovuto sacrificare elementi che le piacevano…
Molte, molte cose. Alcune semplice-
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“La felicità è fragile, è un momento, poi si trasforma in qualcos’altro”
mente non funzionano sullo schermo - lettere, per esempio, o i lunghi, malinconici anni in cui Emma è bloccata nel vicolo cieco di posti di lavoro senza futuro. La noia e la malinconia sono eccessivamente difficili da mettere sullo schermo. Inoltre, molte delle migliori battute sono nella testa dei personaggi e non possono risultare credibili se dette ad alta voce. Come per tutti i romanzieri, la mia trasposizione ideale del romanzo sarebbe stata di sei ore. Ma in quel caso sarei stata l’unica persona al mondo a non annoiarsi a morte. Credo che la forza dei personaggi principali sia il loro realismo. Non sono perfetti, sono spesso egoisti e fanno un sacco di errori...
Una delle note più frequenti di un autore, e in particolare uno sceneggiatore, è chiedersi “i personaggi sono gradevoli? Sono simpatici?” Ovviamente, spero che Emma e Dexter siano entrambe le cose, ma sono anche egoisti, indulgenti, arroganti, negativi, disonesti, irresponsabili - proprio come i nostri amici nella vita reale. Molte volte anche io ho messo giù il telefono a un amico e sono stato arrabbiatissimo con lui, e sono sicuro che i miei amici potrebbero dire lo stes-
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so di me. Eppure non ho mai dubbi che rimarranno i miei amici per la vita. Anche il libro, e in misura ancora maggiore il film, racconta due storie di riscatto, di come i nostri amici ci possono salvare, ci rendono persone migliori. E non è possibile la redenzione senza peccato. È magnifica la forza che scaturisce dal non detto, dai sentimenti tenuti nascosti. Penso che sia molto realistico. La gente semplicemente non è capace di esternare i propri sentimenti?
No, certamente no, e certamente non gli inglesi. Il produttore del film, un americano, era solito scherzare sul fatto che la storia non avrebbe mai potuto essere trasferita negli Stati Uniti perché gli americani in realtà dicono più facilmente ciò che sentono. La storia sarebbe finita alla quarta pagina. Em e Dex si amano, ma sono amici. Poi si sposano, ma non sono felici. Si sentono tristi, lei vuole un bambino. Lui è insicuro. Pensa che alcune persone semplicemente non possano essere felici?
Be’ io quella parte l’ho sempre vista più sana e più felice di così. Certamente loro due restano combattivi e polemici, ma dopo il matrimonio li ho sempre visti come una coppia piuttosto felice. È quella battaglia casalinga, di cui la tradizione comica inglese ha splendidi esempi in Molto rumore per nulla, Orgoglio e Pregiudizio, ma che trovi anche nelle screwball comedy americane degli anni ‘30 o in Harry ti presento Sally, Io e Annie…
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Ma è certamente vero che nella moderna storia d’amore, il bacio, il matrimonio non sembrano più funzionare come una progressione soddisfacente in quel modo tradizionale shakespeariano. Che cosa accade dopo è molto più interessante. E la felicità è fragile, è qualcosa che viene catturato in un momento, poi si trasforma in qualcos’altro. Non c’è niente di meno drammatico dell’appagamento. Cosa ne pensa del casting? Ha avuto voce in capitolo? Cosa ne pensa di Anne Hathaway e Jim Sturgess?
No, il casting è lavoro per il regista, ma credo che Anne e Jim abbiano fatto un lavoro eccezionale. Anne ha una presenza meravigliosa e saggezza, e Jim ha un fascino straordinario che supera alcune delle caratteristiche meno attraenti del personaggio. E certamente amiamo moltissimo Patricia Clarkson.
Sì, è una grande, grande attrice, anche se non ho mai avuto l’occasione di incontrarla. Il suo modo di rendere il rapporto con suo figlio e con suo marito, interpretato dal geniale Ken Stott, è eccezionale. Ci racconti come è stato lavorare con Lone Sherfig...
Ha fatto un ottimo lavoro, credo. Lone è anche una scrittrice, per cui è molto smaliziata sul trattare certi personaggi. E con gli attori è stupenda, loro si fidano completamente di lei.
Insider E dopo cosa viene? Sente di avere un’altra storia di questa stessa intensità dentro di lei? Per favore, dica di sì…
Be’ lo spero. Non penso che sarà necessariamente una storia d’amore - mi sento un po’ vecchio ormai per scrivere di amori giovani. Ma forse scriverò sulla famiglia, o sul rapporto tra padri e figli. Mi piacerebbe avere lo stesso grande effetto emotivo, anche con vendite più piccole. Attualmente sto lavorando su un adattamento di Grandi speranze, il mio romanzo preferito, con un cast formidabile che ha in testa Helena Bonham Carter e Ralph Fiennes. Dopo di che, non ci sono più scuse e mi siedo per iniziare a scrivere il nuovo libro. Vivo con l’orrore di scrivere un seguito deludente. Anche se ho il sospetto che ancora ci vorrà del tempo per fuggire da Emma e Dexter.
“One Day racconta di come gli amici possono salvarci e renderci migliori”
Interview
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Cristina Comencini
di Ilaria Ravarino
Nel nome della madre Il film più discusso alla 68. Mostra di Venezia raccontato dalla sua stessa autrice. Quando la notte e il disagio del dover essere madre
T
ristano e Isotta. Freud. Le femministe degli anni ’70. E macchine da presa a quattromila metri sotto la neve, sotto l’unica parete delle Alpi di dimensioni e temperature himalayane, d’inverno sotto allo zero di trenta gradi e d’estate sotto il sole, quello cattivo, quello del caldo secco e torrido che ti brucia e leva il fiato. Giorni passati nascosti dietro una parete per catturare movimenti, sorrisi e gesti di quegli animali strani che sono i bambini. Nove settimane di riprese. Una vita a riflettere su donne e uomini. Era un romanzo, il suo più richiesto e più tradotto. È diventato un film: il più discusso, il più amato, il più odiato. Quando la notte, la pellicola che ha diviso l’ultima Mostra di Venezia e che prende il titolo in prestito dalle passioni di Tristano e Isotta, è profondo
come il mare. Che calma, culla e rassicura, oppure offende, aggredisce, ferisce. Dietro la macchina da presa c’è Cristina Comencini. Un’artista, l’ultima dei nostri registi a sfilare sul tappeto rosso degli Oscar nel 2006 con La bestia nel cuore. Una femminista, che il 13 febbraio 2011 ha aperto emozionata e scapigliata la più grande manifestazione in Italia dal dopoguerra in poi. Una donna che fa cose da uomini: prima economista, poi giornalista, infine regista. E una madre, di tre figli. Due maschi e una femmina. Uno solo di loro ha avuto “il coraggio” di affrontare il suo film: al centro del racconto c’è una madre, Marina, che ha un problema. Suo figlio, a volte, lo odia. Il disagio di Marina è un problema delle donne di oggi o è sempre esistito?
È difficile tracciare una linea di demarca-
Interview
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succedere a molte donne. Il suo è solo un atto di impazienza, ma può accadere a chiunque. Non c’entra niente con casi come quello di Cogne. Marina è una madre come tutte noi, in una giornata di solitudine.
“Essere madre è un lavoro, se fosse una cosa naturale non ci vorrebbe niente a farlo”
Se non fosse stata sola, le cose sarebbero andate diversamente?
zione precisa. Nel meraviglioso saggio che è Storia dell’amore materno, di Elisabeth Badinter, uscito negli anni ’70, si dice che l’istinto materno non esiste. La cura vera del bambino nei paesi occidentali nasce da poco. Comincia nell’Ottocento, prima non ha nessuna importanza: il bambino è quello che permette alle classi più povere di lavorare, e a quelle più ricche di ereditare i titoli. Noi siamo le prime generazioni di madri che riflettono su questo compito: la scelta di avere o non avere un bambino è recente, e fa sì che di colpo possiamo ragionare su una cosa data per scontata per millenni. La donna oggi riflette in modo moderno su un’esperienza antica. Marina rischia di assassinare suo figlio. In scrittura ha mai pensato di farle varcare il limite?
No. Il punto è che lei fa una cosa che può
Non sentirsi capace di fare la madre, e non poterlo ammettere, è qualcosa che Marina sentiva anche quando era in città. Dice: “Mio marito si aspetta molto da me”, e ha la sensazione di non essere mai all’altezza. La solitudine, pur causando l’incidente, in fondo è anche liberatoria: Marina può finalmente dire cosa sente. Che il bambino lo ama, ma a volte lo odia. Le madri, prima di tutto, sono donne. Donne imperfette, ognuna con le sue caratteristiche. Se riesci a vedere dietro alla madre un essere umano, di colpo tutto appare più fluido. Essere madre è un lavoro, se fosse una cosa naturale non ci vorrebbe niente a farlo. Ha fatto vedere il film ai suoi figli?
Mia figlia ha letto il libro, i due maschi invece non hanno avuto il coraggio. E qui capisci il problema: mentre per le donne confessare e vedersi confessare questi sentimenti, in un romanzo o in
Interview
un film, è liberatorio, non lo è altrettanto per gli uomini. Ad alcuni, sapere di essere stati nelle mani anche incerte di una madre, fa paura. Non a tutti, certo, ma per affrontare questo argomento bisogna avere un buon livello di conoscenza di sé. Allora questo è un film solo per donne?
No. Anzi, penso che sia un film proprio per gli uomini. Spero che faccia sentire le donne più libere di prima, che le aiuti a liberarsi da questo peso sul cuore, da questa angoscia. Ma per gli uomini potrebbe essere un film importante: li spinge a riconoscere che dietro una madre c’è sempre una donna. È l’idealizzazione della madre che crea negli uomini una specie di sogno di donna che poi non esiste. Non tutti potrebbero essere pronti a un simile impegno.
Ma un tempo il cinema era questo. Era come la letteratura: una riflessione profonda. Tirare fuori situazioni, relazioni, legami complessi e difficili. Ci siamo un po’ disabituati. Credo che il pubblico femminile si emozionerà, quello maschile si dividerà. Il film farà parlare e discutere, ma va bene. Questo è il compito del cinema. Poteva scriverla un uomo, questa storia?
No. Anche se gli uomini c’entrano, eccome. L’uomo è parte in causa. Manfred, il protagonista maschile, vede nelle donne un pericolo. Manfred è cresciuto in un
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duro mondo senza donne. La sua storia rinvia al distacco naturale dell’uomo con la propria madre, cioè l’universale maschile, la paura dell’abbandono. Ogni bambino si separa dalla madre, e quella è la sua grande storia: diventare un uomo e potersi prendere un’altra donna. Il senso dell’abbandono della madre, e della crescita, c’è in tutti ma è fortissima nel maschio. La paura della donna che hanno gli uomini nasce da questo. Perché ha ambientato questa storia in montagna?
Per me la salita che Manfred e Marina fanno in montagna è cruciale. È una salita quasi metafisica, una specie di Via Crucis. C’è la fatica, c’è lui che sente che Marina deve smettere di giocare e che gli rivelerà la verità. In quella salita nasce il desiderio reciproco. Qual è stato il momento più difficile nelle riprese?
Girare con i bambini, dirigere tre piccoli di due anni è stato un lavoro gigantesco. Abbiamo costruito delle piccole pareti nascondendoci con la macchina da presa, aspettando giorni e giorni. La troupe ha fatto un lavoro straordinario. Dopo un film così intenso le è tornata voglia di fare commedia?
Sì. Mi è tornata la voglia di fare un film di totale fantasia. Forse la voglia di non avere un libro davanti, ma una sceneggiatura libera, senza costrizioni romanzesche.
Series
Casa Dolce Casa di Mattia Nicoletti
“
Ho sempre pensato che il vero terrore è quello del nostro quotidiano e che i mostri più terribili possano essere i nostri vicini di casa”. La frase di George A. Romero, regista de La notte dei morti viventi, esprime un concetto molto chiaro: il genere horror nelle sue espressioni più elevate e attraverso alcune metafore racconta le nostre paure, le nostre insicurezze di tutti i giorni, spesso in modo più efficace di una rappresentazione della realtà. Nel 1922, ad esempio, Murnau con Nosferatu faceva riferimenti alla guerra da poco conclusa e alle grandi e frequenti epidemie dell’epoca, mentre Don Siegel nel 1956 con L’invasione degli ultracorpi, dove l’umanità veniva replicata e sostituita con cloni, parlava del comunismo
L’horror prende sempre più piede nelle serie TV. Dopo vampiri e zombie, è giunto il tempo delle case dall’oscuro passato: FX presenta American Horror Story e del maccartismo. L’horror è un genere molto vicino a noi e quando non è funzionale a se stesso esprime con forza le paure della nostra società. Negli ultimi anni anche la serialità televisiva, spesso più rappresentativa del cinema dei tempi in cui viviamo (non fosse altro per la rapidità produttiva), ha deciso di affrontare questo genere e a prodotto TV show di vera qualità. Come True Blood, che dietro la maschera vampiresca affronta
Series il problema dell’integrazione, così come The Walking Dead narra le difficoltà quotidiane di un microcosmo umano stressato da una situazione limite: una terra popolata da zombi. Fino a oggi però sono state soprattutto le cable TV (HBO e AMC nei casi citati) mentre i network hanno in genere sempre evitato di mostrare troppo sangue e scene efferate (anche se in parte TWD è co-prodotto da FOX International Channels). E in questa stagione, in cui comunque qualcosa è cambiato perché i network dopo un netto calo di audience si sono sentiti in dovere di rischiare per recuperare un pubblico in parte annoiato dai tanti crime e medical drama, l’horror rimane ancora sulla TV via cavo. FX si è infatti affidata alla grande creatività di Ryan Murphy (Nip/Tuck, Glee) e del suo eterno collaboratore Brad Falchuk per dare vita ad American Horror Story, un drama a tinte fortissime in cui una famiglia colpita da una disgrazia decide di trasferirsi in una casa dall’oscuro passato. Protagonisti sono Dylan McDermott nella parte di Ben Harmon, uno psichiatra accusato di essere stato infedele, la moglie Vivien (Connie Britton) ancora turbata dalla perdita del figlio, e la loro figlia Violet (Taissa Farmiga). Intorno a loro una casa custode di atroci delitti e l’inquietante vicina, interpretata da Jessica Lange, madre di Addy, bambina down curiosa e invadente. A prima vista, se si volesse inquadrare American Horror Story, si potrebbe definirlo come “Amityville Horror incontra American Beauty”. Tuttavia la serie di Murphy si focalizza su un nucleo familiare allo sbando nell’America attuale. Il genere horror - così come era stato quello catastrofico per Steven Soderbergh in occa-
sione di Contagion - è solo una maschera, uno stratagemma per raccontare i fantasmi che vivono nelle menti di Ben, Vivien e Violet, peggiori di un incubo reale. I muri casalinghi diventano un palcoscenico per ogni tipo di paura. Ben ha l’ossessione del sesso e vede una vecchia governante trasformarsi in un’avvenente e provocante fanciulla, Vivien viene visitata da amanti ignoti, e Violet si relaziona con gli spiriti e con un paziente del padre pur di sfuggire alle questioni familiari. Le atmosfere degli incipit degli episodi (parliamo per ora dei primi due) ha un’ispirazione anni ‘70, con colonne sonore che respirano aria di Hammer film per poi passare all’attuale. “Giocare” con i fantasmi e con i serial killer non è come mettere in scena vampiri e zombi, perché i fantasmi e le presenze e gli assassini seriali sono molto più vicini a noi, sono esseri ed essenze del quotidiano. Chi non ha vissuto dei drammi o dei traumi che vivono latenti nella mente? Chi non ha paura tutti i giorni magari quando è solo in casa e pensa ai propri problemi? Chi non subisce un’influenza negativa da qualcosa che è accaduto nella propria famiglia? American Horror Story è una fotografia di una modern family in stato di crisi assoluta che sprofonda agli inferi tra le mura di casa.
Series
Il potere logora (chi non ce l’ha) di Adriano Ercolani
Uno sguardo in anteprima sulla nuova serie politica di Starz. Dopo aver visto il pilota diretto da Gus Van Sant
U
n segreto da custodire a ogni costo, anche passando per le maniere forti. Un vecchio governatore da rimpiazzare con un giovane rampante. Un cimitero in cui sono stati scoperti ruderi indiani, notevole intralcio per lucrosi progetti edilizi. Chicago proprio non è una città che lascia tranquillo il più potente dei suoi cittadini… Queste le storie principali dell’episodio pilota di una delle novità più attese ed esplosive della nuova stagione televisiva. Boss, miniserie in otto puntate con cui la lanciatissima TV via cavo Starz ha deciso di aprire l’autunno a partire dal 21 ottobre. Al centro della vicenda il sindaco della “Città del vento” Tom Kane, che governa come un vecchio feudatario dispotico e attento soprattutto ai propri interessi. Alla sua “corte” una serie di vassalli più o meno fedeli attraverso i quali l’uomo tiene le redini di una metropoli soltanto in
apparenza tranquilla, in realtà dilaniata da problemi economici, sociali e dalla criminalità dilagante. Kane è un uomo stanco, logorato dall’interno, schiacciato dal peso delle sue azioni passate, distrutto dal rapporto burrascoso con sua figlia. Come un personaggio shakespeariano si sforza di mantenere saldo il suo potere e insieme di riconquistare quell’equilibrio interiore e quegli affetti persi che la sua umanità ancora rivendica. Questo è il personaggio principale di Boss, che ha come sfondo
Series principale il lato oscuro della politica americana. Protagonista assoluta delle puntate un’icona del piccolo schermo, quel Kelsey Grammer che con la sitcom Frasier ha scritto la storia della TV negli anni ’90, conquistando due Golden Globe e una manciata di Emmy. Con questa nuova sfida Grammer cambia totalmente registro e si cala nei panni ambigui di Tom Kane con una forza prorompente: basta la bellissima inquadratura fissa sul suo volto all’inizio dell’episodio pilota per capire e ammirarne la bravura e l’adesione al ruolo. Accanto a lui un cast che si preannuncia affilato come una lama pronta a colpire: Connie Nilesen, Marin Donovan e Kathleen Robertson tra i volti più conosciuti. Ma Boss promette anche un grande lavoro sulla qualità propriamente estetica del prodotto: il pilota, presentato in anteprima a New York al Clearview Sunshine Cinema, è stato diretto niente meno che da Gus Van Sant, che ha costruito un impianto visivo di impressionante realismo e allo stesso tempo capace di mettere in risalto la bellezza dei
set cittadini, grazie soprattutto all’uso preciso della profondità di campo. Nelle scene in cui la tensione si fa più tangibile invece sono i primissimi piani e i tagli di luce a diventare la cifra stilistica principale della messa in scena. La resa visiva è degna dei migliori film diretti dall’autore. Tra gli altri direttori degli episodi successivi è d’obbligo segnalare Mario Van Peebles, storico e “scomodo” cineasta che sempre all’inizio degli anni ‘90 fece scalpore con New Jack City, lanciando insieme a Spike Lee e John Singleton l’onda nuova del black cinema. Scritto da Farhad Safinia, Boss non tarderà a confermarsi come una serie in grado di far discutere: giochi di potere, macchinazioni occulte che di certo non hanno come scopo primario il benessere del normale cittadino, atti di coercizione e intimidazione che contengono una violenza sotterranea ma pulsante. Un prodotto qualitativamente notevole, che fin dal suo folgorante inizio garantisce tensione narrativa mescolata con doverosa introspezione piscologica.
Il dibattito sì! Boss è soltanto l’ultimo dei prodotti seriali che hanno portato sul piccolo schermo la politica. Ecco le serie TV che The cinema Show preferisce: touch the Photo
Series
Le cupcakes della speranza di Emanuele Rauco
I
n tempi in cui chiunque e da qualunque pulpito parla di crisi, vengono in mente sacrosante parole pronunciate da Lillo & Greg in Figlio mio, ovvero dritte per svoltare: “C’è la crisi, c’è la crisi, ma tutti hanno per lo meno due macchine”. O due cameriere, come nel caso del diner – quei ristoranti molto cheap che sono più americani della Statua della Libertà – in cui è ambientato 2 Broke Girls, la nuova serie CBS creata niente meno che dal Michael Patrick King di Sex & The City e dalla stand-up comedian Whitney Cummings, protagonista e autrice di un’altra sitcom del momento, l’omonima Whitney di NBC. Le due ragazze al verde del titolo sono Kat Dennings, giovane bomba sexy vagamente punkeggiante (la ricercatrice di Thor o la Susan di Charlie Bartlett), e Beth Behrs,
2 Broke Girls, idee ricche ma poca sostanza nella nuova sit com del creatore di Sex and the City
biondina più ossuta di Barbie, ossia Max e Caroline, cameriere che si conoscono per una circostanza sfortunata: Caroline deve trovarsi un lavoro dopo che il ricchissimo padre è finito in galera per una truffa piramidale e Max, oltre a ospitarla, deve insegnarle a vivere il passaggio dalla ricchezza di Manhattan alla povertà di Brooklyn, come dire da Gossip Girl a Shameless. Ma ovviamente nessuno è maestro e nella vita, specie senza un soldo in tasca, siamo tutti allievi. Lo spunto di partenza ricorda, oltre a molti altri, quello imbarazzante di Material Girls, indecente filmetto delle sorelle Duff, ma grazie al cielo si va a parare da altri parti, quelle di una situation comedy più tradizionale, con tanto di risate fuori campo, che prova a raccontare in modi più o meno contemporanei il lato
Series
ilare della crisi economica. A essere sinceri è poco meno di un pretesto, visto che non è una bancarotta a scatenare l’incontro ma uno schema Ponzi, un reato comune in America da ben prima del crollo delle banche. Poco importa perché l’obiettivo della serie è quello di raccontare il contesto sociale della povertà, dandogli precise coordinate geografiche – almeno limitate a New York – e culturali, con lo scontro tra Max e i ragazzi hipsters che si fingono poveri nell’aspetto. King e Cummings descrivono tutta una serie di barriere, limiti sociali ed economici che i personaggi cercano di sondare e di infrangere finendo però per finirci contro: ricchi contro poveri, bianchi contro latino-americani, fighetti contro proletari. Alla fine è Max, l’unica brillante in un mondo di idioti o di sprovveduti, contro tutti: la cameriera russa sessualmente disinibita che viene licenziata per assumere Caroline, il cuoco anche russo sempre pronto a provarci, il direttore scemo che non conosce la lingua (pensate un po’ È coreano), l’ex-ragazzo oltre la soglia di cretineria, ma pronto a possedere anche una lavastoviglie, e così via per ogni personaggio
che incontra, Caroline compresa, con cui sembra sul punto di chiudere alla fine di ogni episodio. Il luogo comune e il cliché vagamente razzista regnano sovrani, ma della scorrettezza politica e della travolgente forza comica di It’s Always Sunny in Philadelphia non c’è che il ricordo: in 2 Broke Girls c’è tutto quello che pensavamo sepolto con le vecchie sitcom, ravvivato – secondo gli autori – con la scatologia e l’umorismo volgare. Prendete Laverne & Shirley, lo spin-off di Happy Days con due amiche operaie in una fabbrica di birra, ma soprattutto Alice, sitcom in cui le protagoniste cercavano di barcamenarsi tra le difficoltà della vita quotidiana lavorando come cameriere in un diner, appunto. Prendetele e aggiungeteci la cacca di cavallo, che pare il leit-motiv comico, visto che la bizzarria delle protagoniste è di avere un cavallo nel giardino, al posto di un cane o un gatto. Lo show è tutto qui, tra battute che sembrano uscite dai momenti peggiori di Samantha – quando in Sex & The City 2 sbraitava parolacce come un De Sica ad Abu Dhabi – e personaggi futili, (vogliamo parlare di Earl, vecchio dj nero che sembra una macchietta dei Jefferson?). Soffocando l’opportunità di parlare dei paradossi del “default” e della povertà (lo hanno fatto anche i Muppet, per spiegarla ai bambini), sprecando idee gustose come quella del sapore delle patatine indice di miseria, disperdendo il talento e la sensualità a stento trattenuta dall’uniforme di Kat Dennings, vero peccato mortale dello show. Che se non fosse per i richiami bambineschi e ossessivi a sesso ed escrementi sarebbe già pronto per il preserale di Italia 1.
Monthly Movie Magazine
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Cover: Pina by Wim Wenders © 2009. All Rights Reserved. The Cinema Show – Mensile di cinema, anno 2, numero 14, novembre 2011 Testata in attesa di registrazione presso il Tribunale di Roma. Tutti i diritti riservati All Rights Reserved