TheFLR numero 4 è stato realizzato con il supporto di: TheFLR Issue 4 is brought to you by the following institutional supporters:
Watercolor by Alessandro Andreuccetti
Fin dal Medioevo San Gimignano ha accolto scrittori che hanno scelto la nostra città come luogo di ispirazione o rifugio per vivere, pensare e amare. Ancora oggi accogliamo scrittori per condividere con loro la nostra storia e il nostro paesaggio. Since the Middle Ages, San Gimignano has welcomed writers who’ve chosen our city as a place of inspiration and refuge to live, think and love. Still today, we welcome writers and share with them our history and our landscape.
Carolina Taddei Assessore alla Cultura del Comune di San Gimignano
Beatrice Andreuccetti Responsabile Operativa FAI - Torre e Casa Campatelli
Una torre immersa nel paesaggio La 1a edizione della Residenza per Scrittori The FLR a San Gimignano maggio - settembre 2018 Fare una residenza di giovani scrittori contemporanei a San Gimignano ha significato molto di più che abitare un luogo incantato: ha significato provare ad abitare l’Italia nel suo passato creativo e fecondo, di crocevia, per rilanciare uno sguardo nel futuro. Perché il paesaggio stesso è un luogo da dove veniamo, ma anche luogo al quale andiamo o vorremmo andare. E l’ha dimostrato la vincitrice di questa prima edizione, Ruska Jorjoliani: una scrittrice italo-georgiana che si è appropriata con una lingua originale di un passato a lei estraneo, riportando allo stesso tempo suggestioni dal proprio territorio d’origine. L’autrice ha vissuto nella torre FAI - Casa Campatelli dal 7 al 9 settembre 2018, avendo il tempo per passeggiare per la città, incontrare i suoi protagonisti locali, ascoltando i rumori delle strade e testando le proprie prospettive sul territorio. Con una sorpresa finale: l’arrivo di Michel Houellebecq in città ad incontrarla. “Nel fitto buio” è il racconto frutto di questa esperienza: una storia d’incomprensione famigliare e di emblematica prigionia, ispirato anche da una leggenda sulla Torre della Rognosa.
A tower set against a scenic backdrop The first edition of The FLR Writers’ Residency in San Gimignano May – September 2018 Creating a San Gimignano residency for young contemporary writers has meant much more than just providing the chance to stay in a charming place: it’s provided an opportunity to dwell in the creative, prolific past of Italy, a past defined by crossroads, in gearing up to face the future. A landscape itself is a place of origin, but it’s also a place we’ll go or where we’d like to go. Ruska Jorjoliani, winner of this first edition, demonstrated this fully: an Italian-Georgian writer who was able to make sense of a past foreign to her (in an original style, no less), she simultaneously incorporated traces of her own homeland. The author stayed in the FAI – Casa Campatelli tower from September 7 to 9, 2018, enough time to stroll through the town, meet key local figures, listen to the sounds of the streets and examine her own perspective on the area. There was a nice surprise, too: Michel Houellebecq came to town to meet her. “Pitch Dark” is the story that came out of this experience: a story of familial misunderstanding and symbolic imprisonment also inspired by a legend of the Torre della Rognosa.
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ISSUE 004 Landscape/Paesaggio The Florentine Literary Review A literary magazine made in Italy with short stories and poetry by contemporary Italian authors. In Italian and English. The Florentine Literary Review Un magazine letterario italiano con racconti e poesie di autori italiani contemporanei. In italiano e inglese. Editor / Curatore Alessandro Raveggi Managing Editor / Caporedattore Martino Baldi Editorial Board / Comitato editoriale Luca Baldoni, Diego Bertelli, Raoul Bruni, Helen Farrell, Giuseppe Girimonti Greco, Gianni Montieri, Daniele Pasquini, Alice Pisu, Vanni Santoni Translators / Traduttori Johanna Bishop, Frederika Randall, Jamie Richards, Mary Gray Illustrazioni / Illustrations Franz Lang Editorial coordinators / Coordinatori editoriali Helen Farrell, Giovanni Giusti Book design / Progetto grafico Marco Badiani, Leo Cardini Layout / Impaginazione Leo Cardini Website: http://theflr.net/theflr Facebook: http://facebook.com/theflr Info: theflr@theflorentine.net ISBN 9788897696179 2018 B’Gruppo Srl, Prato | Collana TheFLR All rights reserved | Riproduzione vietata We seek corporate sponsors as literary patrons to fund forthcoming issues of TheFLR. Email theflr@theflorentine.net for further information. Siamo alla ricerca di sponsor-mecenati letterari per sostenere la pubblicazione dei prossimi numeri di TheFLR. Per informazioni scrivici a theflr@theflorentine.net Ogni numero di The FLR è su invito personale da parte del Comitato editoriale. Una parte dei testi raccolti nei prossimi numeri verranno reperiti tramite bandi periodici, come le Residenze per Scrittori The FLR, e strettamente tematici. Non si riceveranno testi né si valuteranno al di fuori delle regole segnalate dai bandi.
Andrea Inglese Lo stanzone|The Big Room
Alessandro Raveggi Editoriale | Editorial
Giusi Marchetta Arturo|Arturo
Giampaolo Simi La casa delle vacanze The Beach House
Ruska Jorjoliani Nel fitto buio|Pitch Dark
Azzurra D’Agostino Fratture|Fractures
8 10 20 36 44
Carmen Pellegrino Ciò che resta|What is Left
Simona Baldanzi Accettazione|Processing
Francesco Targhetta Tiziano tra le bandiere Tiziano Among All the Banners Sugli autori About the Authors
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Edito
Alessandro Raveggi
The fourth issue of The FLR parallels the tower of San Gimignano that hosted our first residency for emerging writers: it presents an extreme and vertical opening toward a horizontal and enchanted territory, an intersection of travels, contacts and excursions, but it also displays a prison for the “I,” prompting a look inward, a search for the threads of a familial or personal subject. Read the story — full of hope and terror— by the competition’s winner Ruska Jorjoliani as an example. When discussing a landscape, it’s not necessarily required that we contemplate (or, least of all, appreciate) someplace entirely separate from us; introspective perspective is as much a part of a landscape as dazzling views themselves are. In our case, the particular landscape we’re concerned with is Italy, which further complicates matters: for Italians, landscapes represent both patrimony and fragility, an inheritance to be cared for as well as a looming threat of environmental and historical disfigurement. The landscape therefore becomes emblematic of the dream of being freed from that Tower—or, better put, the necessity of living in it in a different kind of way. It’s perhaps for this reason that a shared idea emerges from these texts: one of knocking down the narrow restrictions we place on personal and cultural identity, of re-arranging them, of using them to make a utopian (or dystopian), ruddy, terrible,
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giant Room with ephemeral walls (Inglese would say—or “arrange”—with his verses). Or perhaps an idea of repositioning oneself amid many different banners as a way of hiding a radical solitude, as we see in the poetry of Targhetta. Or finally, to return to one’s own land, to the South, to bid farewell to the ghosts of both present and past, as the narrator of Marchetta’s story suggests. We don’t see as much theorizing about beauty, then, as we do about fragility: landscapes are something both beloved and dangerous, precious and pernicious, as seen in the Venetian apologue of Pellegrino or the Stations of the Cross hospital of Baldanzi, a space that absorbs you with its toponymy, so much that it nearly kidnaps you. Despite its vastness, it’s the setting for a frequently imperceptible violence, which operates through tiny rifts as compared to macroscopic history (just see the D’Agostino poem published here), or a series of violent tremors set fittingly within the parvenu life along the Tuscan coast in the story by Simi. We could say then that the landscape that emerges from this new issue is one with Handle with care written above it: a spacebox with fragile contents that we could have once decided not to open, except now it’s too late.
oriale Questo quarto numero di The FLR risponde idealmente a quella torre di San Gimignano che ha ospitato la nostra prima residenza per scrittori emergenti: presenta un’apertura estrema e verticale, verso un territorio orizzontale e incantato, un crocevia di viaggi, contatti e scorribande, ma anche inscena una prigione per l’io, che porta a guardarsi dentro, alla ricerca dei fili di un discorso famigliare o personale - si legga il racconto della vincitrice del bando, Ruska Jorjoliani, pieno di speranze e terrori, nato proprio lì. Non è detto così che per parlare di paesaggio si debba necessariamente rimirare (o tanto meno apprezzare) un altrove, perché il paesaggio è fatto di sguardi abbagliati quanto di sguardi introspettivi. Che poi questo Paesaggio si chiami nel nostro caso Italia, rende le cose ancora più complesse: per gli italiani, il paesaggio è sia patrimonio che fragilità, un retaggio da amare quanto una costante possibilità di deturpazione ambientale e storica. Il paesaggio diviene quindi anche il sogno di liberarsi di quella Torre, o meglio la necessità di abitarla in modo diverso. Forse per questo si trova una certa idea comune in questi testi: quella di buttare giù i limiti angusti dell’identità personale e culturale, di ri-arredarli, di farne un utopico/distopico, florido e terribile Stanzone dalle pareti labili (direbbe o meglio “arrederebbe” Inglese coi suoi versi), di tropicalizzarsi fra molte
bandiere per mascherare una solitudine radicale, come nel racconto in versi di Targhetta. Infine di ritornare alla propria terra, al Sud, per dire addio ai fantasmi del presente e del passato assieme, come ci indicherebbe il narratore del testo di Marchetta. Nessun teorema della bellezza, quanto della fragilità, dunque: il paesaggio è qualcosa di caro e pericoloso, prezioso e pernicioso, come nell’apologo veneziano di Pellegrino o nella via crucis ospedaliera di Baldanzi, un posto che ti fagocita nella propria toponomastica, fino a farti sparire. Nonostante la sua vastità, è scenario di una violenza spesso impercettibile, che agisce attraverso minuscole crepe rispetto alla Storia macroscopica (si pensi alla poesia di D’Agostino qui pubblicata) o una serie di scosse violente ben inscenate anche nella vita dei parvenu della costa toscana del racconto di Simi. Si direbbe che il Paesaggio che viene fuori da questo nuovo numero sia qualcosa con su scritto Maneggiare con cura: uno spazio-scatola dal contenuto fragile, che avremmo potuto decidere di non aprire, ma oramai è troppo tardi.
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Arturo
Arturo Giusi Marchetta
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Giusi Marchetta
Arturo Translated by Jamie Richards
Matteo’s feet don’t touch the floor. The seats on the train are enormous and he swims in his, filling my fatherly heart with a warmth that, through the highs and lows, has lasted for seven years and two months. I shouldn’t be this mad. “Finish your cookies, Matteo.” He ignores me. He stares out the window at Calabria rushing past like a land set there to surprise him. At every curve the pack of Ringos slides across the table, empty except for one lone survivor. A cookie, the last slice of apple, the last bite of pasta—Arturo’s share. I can’t stand it. “Matteo, I say.” He looks at me for a moment with his blue eyes and Anna’s voice starts spooling in my head again: don’t take him, please, it’s not an appropriate place for a child. It’s my weekend, I remind her, even though we’re kilometers away and she can’t hear me. My weekend, my child. Matteo places a finger on the dirty window. “What if he gets hungry?” With an abrupt swipe, I grab the cookie and crumble it to pieces. The town is a strip of houses along a road a kilometer and a half from the train station. With our backpacks on, we walk through a dry yellow field. I was born here, my son wasn’t. I act like nothing’s out of the ordinary but I search his face for signs of the missing
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tall buildings and concrete. All this emptiness between us and the sky—I would understand if he didn’t know what to make of it. Suddenly, Matteo runs over, giggling. “Arturo swallowed a cricket.” He’s chased off three caregivers and it’s not like from Rome there’s much I could do to make them stay except offer more money. I offered more money. No one accepted. So it is the nurse who shows us in to the dusty living room of what had been my home for twenty-four years and is now uninhabited except for the upstairs bedroom. “It won’t be long now,” she says as we go up. She whispers, even though I left Matteo downstairs with the single instruction not to hurt himself and it’s doubtful that he can hear her. She is not pleased about having him around. When she saw him come in she gave me a sharp look that I decided to ignore. It’s not an appropriate place for a child, I know. We come to the door and she lets me go first. The room’s darkness only gradually reveals the profile of my father, who is propped against the headboard vegetating; yet I’m the ghost, for the moment he opens his eyes it’s his brother’s name of his brother to come sputtering out, like a cough. “Marcello.” “No, Dad. It’s me.”
Giusi Marchetta
Arturo
I piedi di Matteo non toccano terra. Il sedile del treno è enorme e lui ci affonda riempiendo il mio petto di padre di un calore che, tra alti e bassi, dura da sette anni e due mesi. Non dovrei essere così arrabbiato. “Matteo finisci i biscotti”. Lui mi ignora. Contempla la Calabria che scorre dall’altra parte del vetro come una terra messa lì per sorprenderlo. A ogni curva il pacchetto di Ringo scivola sul tavolino, vuoto, tranne che per un singolo superstite. Un biscotto, l’ultimo pezzo di mela, l’ultimo cucchiaio di pasta: la parte di Arturo. Non lo sopporto. “Matteo” dico. Lui mi guarda per un momento con i suoi occhi blu e la voce di Anna riparte a nastro nella mia testa: non lo portare, ti prego, non è il posto adatto per un bambino. È il mio weekend, le ricordo, anche se siamo lontani chilometri e non può sentirmi. Il mio weekend, il mio bambino. Matteo appoggia un dito sul vetro sporco. “Se poi gli viene fame?” Con un colpo secco della mano afferro il biscotto e lo sbriciolo. Il paese è una strada di case a un chilometro e mezzo dalla stazione. Camminiamo con i nostri zaini sulle spalle attraversando una campagna secca e gialla. Io ci sono nato, mio figlio no. Faccio finta di niente ma cerco sul suo viso i segni della mancanza dei palazzi e dell’asfalto. Tutto questo vuoto tra noi e il cielo: capirei se non sapesse che farci.
Di colpo, Matteo mi corre davanti, ridacchia. “Arturo ha ingoiato un grillo”. Ha messo in fuga tre badanti e non è che da Roma si possa fare molto per costringerle a restare tranne che offrire più soldi. Ho offerto più soldi: nessuna ha accettato. Per questo è l’infermiera a farci entrare nel soggiorno polveroso di quella che è stata la mia casa per ventiquattro anni e che adesso è disabitata eccetto che per la camera da letto al piano di sopra. “Manca poco” dice lei mentre saliamo. Sussurra anche se Matteo è rimasto al piano di sotto con la sola istruzione di non farsi del male e dubito che possa sentirla. Non è entusiasta di averlo tra i piedi. Quando l’ha visto entrare mi ha lanciato una lunga occhiata che ho deciso di ignorare: non è il posto adatto per un bambino, lo so. Sulla porta mi lascia passare per primo. Nel buio della stanza mi appare un po’ alla volta il profilo di mio padre che vegeta appoggiato alla testiera del letto, eppure il fantasma sono io perché appena apre gli occhi è il nome del fratello che risale come un colpo di tosse. “Marcello”. “No, papà. Sono io”. Come un idiota faccio ciao con la mano. “Sei tu” dice lui. L’infermiera ci osserva aspettando almeno un gesto d’affetto. Che aspetti. Dopo qualche minuto in silenzio, co-
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I wave hello like an idiot. “It’s you,” he says. The nurse watches us, waiting for some sign of affection. What does she have to wait for? But after a few minutes of silence, I decide to appease her; I go over and take his hand, not easy without even a flicker of light. He notices. “What are you doing?” “Nothing.” I go back to my spot by the door. “Let’s let him get some rest,” the nurse says. But I’m the only one who leaves. In the living room there’s no sign of Matteo. I venture out onto the terrace where we used to have lunch with the sea in the background and grapes hanging overhead from the pergola. Matteo is standing on the table and gesturing for me to go back inside: Arturo has covered the ground with lava. Arturo is my fault, obviously. Children always have an imaginary friend but the persistence of Arturo over the years, the tenacity with which Matteo defends his existence, his degree of infiltration in our lives, must derive from my decision to leave home after three years of marital unhappiness. At least that’s Anna’s diagnosis, along with her mother’s, the
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teachers’, and a large group of parents’, who for months on a WhatsApp chat have been discussing the need to bring a psychologist to class to deal with the issue delicately so as not to upset their children. My personal contribution to the matter was insulting my ex-wife, her mother, and the teachers, and committing harakiri on WhatsApp by writing: “It’s weird. He’ll get over it. It’s not contagious but if in doubt go ahead and vaccinate.” Only against Arturo I’m powerless. I wish it were a tablet, a video game or just a cheap smartphone to see Matteo zoning out like every other kid. Instead I spend my nights dreaming of stifling the birth of a creative mind. Or a sick one. In her report, the psychologist said that Arturo is just a phase in Matteo’s psychological development and that it will eventually go away. I offered her more money but the bitch wouldn’t agree to write that it isn’t my fault. “At least shelter him from it,” says Anna on the phone, as if my father were a storm about to rain down on us. “He’s his grandfather. He’s dying,” I say. “Exactly,” she says. I toss some more jars with mysterious contents into my shopping basket. “It’s my weekend,” I say and hang up quickly as I’ve convinced her and because this child that his mother and I are fighting over, the one and only apple of my eye, is no longer in sight—he’s disappeared. I drop everything on the floor and from across the counter the owner gives me a dirty look. A couple of strangers step aside as I lunge for the exit, their eyes following me without recognition, without knowing anything about me. Just a son and grandson pass-
munque, decido di accontentarla; mi avvicino e gli cerco la mano: non è facile senza un filo luce. Lui se ne accorge. “Che stai facendo?” “Niente”. Torno al mio posto davanti alla porta. “Lasciamolo riposare” dice l’infermiera ma poi sono il solo ad uscire. Nel soggiorno non c’è neanche l’ombra di Matteo. Mi avventuro sul terrazzo dove pranzavamo con il mare alle spalle e l’uva che ci scendeva addosso dal pergolato. Matteo è in piedi sul tavolo e mi fa segno con le braccia di tornare dentro: Arturo ha ricoperto il pavimento di lava. Arturo è colpa mia, ovviamente. Tutti i bambini hanno un amico immaginario ma la persistenza di Arturo negli anni, la tenacia con cui Matteo difende la sua esistenza, il suo grado di infiltrazione nelle nostre vite, non possono che dipendere dalla mia decisione di andare via di casa dopo appena tre anni di infelicità coniugale. Questa almeno è la diagnosi di Anna, di sua madre, delle maestre, di un nutrito gruppo di genitori che sulla chat di WhatsApp hanno discusso per mesi della necessità di invitare una psicologa in classe per affrontare con delicatezza la questione in modo da non turbare i loro figli. Il mio personale contributo alla faccenda è stato insultare la mia ex moglie, sua madre e le maestre, e fare harakiri su WhatsApp scrivendo: “È strambo. Gli passerà. Non è contagioso ma nel dubbio voi vaccinateli”. Solo contro Arturo sono impotente. Vorrei che fosse un tablet, un videogame o anche solo uno smartphone da due soldi per vedere Matteo che ci rincoglionisce davanti come tutti i ragazzini. Invece passo le notti a sognare di strozzare il parto di una mente creativa. O malata. Nella sua relazione la psicologa ha detto che Arturo è solo una fase della
crescita psicologica di Matteo e che scemerà col tempo. Le ho offerto più soldi ma la stronza non ha accettato di scriverci che non è colpa mia. “Almeno tienilo al riparo” dice Anna al telefono, come se mio padre fosse una tempesta pronta a pioverci addosso. “È suo nonno. Sta morendo” dico. “Appunto” dice lei. Finisco per buttare nel cestello della spesa un altro paio di barattoli dal contenuto ignoto. “È il mio weekend” dico e attacco subito per averla vinta e perché questo bambino che io e sua madre ci stiamo litigando, sola e unica luce dei miei occhi, non si vede più: è scomparso. Lascio cadere tutto a terra e la proprietaria dal bancone mi lancia un’occhiataccia. Un paio di sconosciuti si fa da parte mentre mi precipito verso l’uscita, mi segue con lo sguardo senza riconoscermi, senza sapere nulla di me. Figli e nipoti di passaggio, mi dico. Sono tutti morti in paese. Mio padre è l’ultimo. “Matteo!” urlo. “Sono qui” dice subito ed è davvero qui, ai margini della strada, nascosto in un cespuglio che gli ha sbrindellato una maglietta nuova di zecca. “Facevamo la marcia nella giungla”. “Facevamo chi?” Mi inginocchio e lo stringo per le spalle. “Che cosa ti ho detto cento volte?” Gli tremano le labbra. Ha sette anni. Non dovrei scuoterlo però lo faccio, una spinta per ogni parola. “Non. Esiste. Nessun. Arturo”. Lo giro con forza verso il paese: le strade, le case, i campi tutti vuoti. “Allora? Vedi qualcuno?” Matteo fa no con la testa. Quando arriviamo a casa corre subito in terrazzo come se fossi un incendio da cui deve scappare. Al piano di sopra
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ing through, I tell myself. Everyone in town is dead. My father is the last. “Matteo!” I yell. “Here I am,” he says without delay, and he’s really there, on the side of the road, hiding in some hedges that have torn up his brand new t-shirt. “We were marching through the jungle.” “Who was?” I kneel down and grab him by the shoulders. “What have I told you a hundred times?” His lips tremble. He’s seven years old. I shouldn’t shake him, but I do, one time for each word. “There. Is. No. Arturo.” I spin him toward the town: the roads, the houses, the fields all empty. “Well? Do you see anyone?” Matteo shakes his head no. When we get home he runs straight to the terrace as if I were a fire he had to escape from. On the floor above us the doctor and nurse stomp around my father’s bed. In the kitchen the wood cabinets squeak as they always have. I put away the bread, the milk, the eggs. Behind me, my mother rifles through the bags to make sure I didn’t forget anything. “You weren’t supposed to die,” I say, without turning around. He’s still breathing, breathing raggedly. “It might be time to make some calls,” the nurse says. I shrug. My father is the last one in the whole town: his neighbors, his lifelong friends, are already gone. “He always asks about someone called
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Marcello.” I shrug again as if to say that she wouldn’t understand. My uncle lives down the street, still alive and in good health. They just haven’t spoken for thirty years. She changes his IV drip, adjusts his pillow. “Costs nothing to try,” she says. While Marcello stares at me with contempt I have plenty of time to regret having come to knock on his door at dinner time after a life spent on the other side of Italy without a phone call, without ever trying to figure out whether the embargo also applied to me, whether this uncle who’d carried me around ’till I was three and taught me to pee standing up against the wall was alive or dead. “He wants to see you. Why don’t you come?” He doesn’t budge from the doorway, doesn’t ask me in. He cocks his head to the side and his eyes move past me to Matteo in the courtyard. I hear the tap of his shoes on the wood planks by the front gate and picture his mother in tears before a judge asking me how could I have not stopped to make sure there weren’t any nails before letting him jump all over them. My weekend, I think. Leave me alone. “That’s my son.” I turn around to bark out a command. “Get away from there, it’s full of nails.” Matteo stops climbing on the planks and makes a leap that lands him mere centimeters from shovels and picks. No harm done: I survived in this courtyard my whole childhood. I left before hoes and spades could become work tools: clearly the skill of survival is in our blood. “If you…” I start, but the door is al-
il dottore e l’infermiera calpestano il pavimento attorno al letto di mio padre. In cucina gli armadietti di legno della dispensa cigolano come hanno sempre fatto. Io metto a posto il pane, il latte, le uova. Alle mie spalle, mia madre fruga nei sacchetti per vedere se mi sono ricordato di prendere tutto. “Non dovevi morire” le dico, senza girarmi. Respira ancora, respira male. “Forse è il caso di avvisare” dice l’infermiera. Alzo le spalle. Mio padre è l’ultimo in tutto il paese: i vicini, gli amici di una vita sono già andati. “Chiede sempre di questo Marcello”. Alzo ancora le spalle come a dire che lei non può capire. Mio zio abita in fondo alla strada, ancora vivo e in salute. Solo non si parlano da trent’anni. Lei cambia la flebo, gli aggiusta il cuscino. “Provare non costa niente” dice. Mentre Marcello mi fissa con disprezzo ho tutto il tempo di pentirmi di essere venuto a bussare alla sua porta all’ora di cena, dopo una vita trascorsa dall’altra parte dell’Italia senza una telefonata,
senza mai cercare di capire se l’embargo valesse anche per me, se fosse vivo o morto questo zio che mi ha portato in braccio fino all’età di tre anni e mi ha insegnato a fare pipì in piedi contro il muro. “Vuole vederti. Perché non vieni?” Lui non si sposta dalla soglia, non mi invita ad entrare. China la testa di lato e il suo sguardo mi supera, raggiunge Matteo nel cortile. Sento il tamburellare delle sue scarpette sulle assi di legno all’ingresso e immagino sua madre in lacrime davanti a un giudice che mi chiede come abbia potuto non fermarmi a verificare che fossero prive di chiodi prima di lasciare che ci si tuffasse sopra. Il mio weekend, penso. Lasciatemi in pace. “È mio figlio”. Mi giro ad abbaiare un comando: via di là, è pieno di chiodi. Matteo smette di arrampicarsi sulle assi e spicca un salto che termina a un paio di centimetri da vanghe e picconi. Niente di male: io stesso sono sopravvissuto in questo cortile per tutta l’infanzia. Me ne sono andato prima che zappe e badili diventassero strumenti da lavoro: è evidente che la capacità di sopravvivere ce l’abbiamo nel sangue. “Se tu…” comincio ma la porta è già
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The Beach House
Giampaolo Simi
La casa delle vacanze
Giampaolo Simi
The Beach House Translated by Johanna Bishop
The last time was in April. It was nearing dusk and raining. The furrowed asphalt was dotted with small new leaves torn off by the storm. He forced open the gate hidden under the ivy. A few more steps and they were on the porch. She stopped as soon as she was out of the rain. Arms folded, face framed by the fake fur of her hood, she said, “I’m getting married.” All he asked was, “When?” “In September.” He’d gotten married in September, too. Eighteen years ago. “A good month for weddings,” he remarked. He opened the door and went in. Inside was colder than out. It was a summer house and had no heating. Now it’s August. According to the dashboard display they’ve traveled three hundred twelve kilometers in two hours and four minutes. “Sooner or later the speed camera’s going to get you,” prophesied Lucilla, his older girl. If she weren’t his daughter, he probably wouldn’t like her very much. “If I stay under one-twenty I’ll fall asleep, kiddo.” His younger girl rolls down the window. “Keep that shut, it’s hot,” he warns her. On the Versilia coast a whitish haze is hiding the hills and the mountain peaks look like they’re hanging in midair. There’s a wait at the tollbooth. The marble in the big shipping yard has an
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orangish tint to it. The afternoon is almost over. “It’s late,” he says. “For what?” asks his wife. “Just late.” Their last time at the beach house, he uncorked a bottle. A Piedmont red sent as a Christmas gift by a supplier who had since gone out of business. “Let’s toast to your happiness,” he said. She was sitting on the edge of the sofa. Gripping one ankle in both hands as if she wanted to unscrew it. “What about yours? “I’ve got my family.” Outside, the sky played a long drum roll. He found a few candles, then shut off the breakers behind the door. He sat down across from her with a paper-wrapped tray. The only delicatessen that was open around there, glowing in the middle of nothing, reminded him of some Hopper painting. He’d gotten out and bought all the canapés they had left. “It’s only right for you to start a family of your own,” he told her. “That way we’re even?” “Here, I know you’ll like these, they’re salmon.” Lucilla is stretched out in the swing chair with her phone. Martina is running through the grass kicking a yellow ball.
Giampaolo Simi
La casa delle vacanze
L’ultima volta era stata d’aprile. Imbruniva e pioveva. Sull’asfalto rugoso spiccavano le foglie nuove strappate dalla bufera. Lui spostò a forza il cancello nascosto dall’edera. Qualche passo e furono sotto il porticato. Lei si fermò non appena fu al riparo dalla tettoia. A braccia conserte, il viso incorniciato dalla pelliccia sintetica del cappuccio, disse: “Mi sposo”. Lui chiese solo: “Quando?” “A settembre”. Anche lui si era sposato a settembre. Diciotto anni prima. “Un bel mese per i matrimoni” considerò. Aprì la porta ed entrò. Era più freddo che all’esterno. Era una casa per l’estate e non aveva il riscaldamento. Ora è agosto. Secondo il computer di bordo hanno percorso trecentododici chilometri in due ore e quattro minuti. “Il tutor prima o poi ti sgama’” ha profetizzato Lucilla, la più grande. Se non fosse sua figlia, probabilmente gli starebbe antipatica. “Se guido a centoventi mi addormento, tesoro”. La più piccola invece abbassa il finestrino. “Chiudi, che fuori fa caldo” la rimprovera subito lui. In Versilia una caligine biancastra nasconde le colline e le punte delle montagne sembrano sospese. C’è coda al casello. C’è una lieve tinta arancione su un grande deposito di marmi. Il pomeriggio è al termine. “Faremo
tardi” dice lui. “Per cosa?” domanda sua moglie. “Tardi”. La loro ultima volta nella casa delle vacanze lui stappò una bottiglia. Un rosso piemontese speditogli in regalo per Natale da un fornitore fallito nel frattempo. “Brindiamo alla tua felicità” disse. Lei era seduta sul bordo del divano. Si stringeva una caviglia con tutte e due le mani come se volesse svitarsela. “E la tua, di felicità?” “Ho la mia famiglia”. Fuori i tamburi del cielo mandarono una lunga rullata. Lui trovò delle candele, poi tolse la corrente dal pannello dietro la porta. Si sedette davanti a lei con un vassoio ancora incartato. L’unica gastronomia aperta nel circondario risplendeva nel nulla, gli aveva ricordato certi bar di Hopper. Era sceso ed aveva comprato tutte le tartine rimaste. “È giusto che anche tu ti costruisca una famiglia” le disse. “Così siamo pari?” “Queste qui sono al salmone, so che ti piace”. Lucilla è sdraiata sul dondolo assieme al suo smartphone. Martina scorrazza per il prato calciando un pallone giallo. “Così rovina l’erba” osserva lui. “Vuoi toglierti almeno i tuoi sandalini nuovi, amore?” dice sua moglie. Martina neanche le risponde.
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“I need to be in the piazza at ten,” Lucilla states, in the impersonal tone of a railway station announcement.
“You’re going to ruin the lawn,” he observes. “Could you at least take off your new sandals, sweetie?” says his wife. Martina doesn’t even answer. He checks the closet with the golf clubs, plucks the strings on a couple of rackets. His wife discovers that Gabriela forgot to take the seafood tartare out of the freezer. It was supposed to be their dinner. She sends Gabriela a brusque, chilly voice message, while he informs the girls they’ll be going out to a restaurant. “I need to be in the piazza at ten,” Lucilla states, in the impersonal tone of a railway station announcement. A few minutes later his wife comes down in a beige linen suit, her hair loose and brushed. She’s a woman with a stiff sort of bearing. Like anyone who carries around an antiquated name honoring a cumbersome ancestor. Her grandmother, Adelaide de Marinis, founded Italy’s leading theatrical tailoring house, but only Gabriela calls his wife Adelaide. To him, to their friends in Forte dei Marmi, and to the Historic Homes of Versilia club, she’s Ady. Ady has her phone out. “This thing near Piacenza... the name means nothing to me, but the face...” He lifts his glasses to read the screen up close. How long has he been putting off bifocals? Martina has thrown the ball into the pool.
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“Nice one, moron,” Lucilla comments, without looking up from her phone. Before her mother can say a word, Martina takes off her new sandals and jumps in fully clothed. As Ady dashes into the yard, he brings the face into focus. It’s a photo from a few years back, when Sara had short straight hair. “Alberto got his transfer to Piacenza,” Sara said. The candle flames flickered restlessly, threatening to go out. She pulled the throw up to her shoulders. It was made of rough, cream-colored wool, and smelled of mothballs and lavender. A wool throw at a beach house spends its life in a dark closet. “He did well on the state exam for deputy inspector,” she added with a hint of subdued pride. “This doesn’t change anything for me,” he said. He divvied out the rest of the wine between the two glasses. Pier Maria Valli always had the answers, often before other people came up with the question. He grasped the problems that his clients didn’t even know they had. And so in ten years he had become the king of logistics software. “Alberto wants a kid,” she said. She stared into the dark, stroking her ponytail like a wounded puppy. “You’ll be back in shape in no time. Just like now, don’t worry.” Ady had her first at thirty-one. At forty-six she could still turn men’s heads, on the teak walkway that led to their frontrow cabana by the water’s edge. But Pier Maria knew better than to say that. The candles had burned down to shapeless lumps. She took the glass out of his hand and kissed him, tossed aside the blanket, almost crashed down on top of him. They fucked as the darkness slowly reclaimed the living room. With no foreplay, no talking. The familiar
Lui controlla l’armadio delle mazze da golf, saggia con l’unghia l’incordatura di un paio di racchette. Sua moglie scopre che Gabriela non ha tolto le tartare di pesce dall’abbattitore. Dovevano essere la loro cena. Invia a Gabriela un messaggio vocale freddo e ruvido, intanto lui annuncia alle figlie che andranno al ristorante. “Io alle dieci devo essere in piazza” chiarisce Lucilla, con il tono asettico di un annuncio in stazione. Poco dopo sua moglie scende dal piano di sopra con un completo di lino beige e i capelli sciolti. Ha un portamento severo, sua moglie. Come tutti quelli che portano un nome demodé in onore di un avo ingombrante. Sua nonna Adelaide de Marinis aveva fondato la migliore sartoria teatrale d’Italia, ma solo Gabriela chiama così sua moglie. Per lui, per gli amici di Forte dei Marmi e per il Club Ville Versiliesi è Ady. Ady ha il cellulare in mano. “È successo vicino a Piacenza… il nome non mi dice niente, ma il viso…” Lui si solleva gli occhiali per leggere da vicino il display. Da quanto tempo rimanda le lenti multifocali? Martina ha appena buttato il pallone in piscina. “Brava scema” commenta Lucilla, senza alzare lo sguardo dallo smartphone. Prima che sua madre riesca a commentare, Martina si toglie i sandalini nuovi e si butta in acqua vestita. Sua moglie scatta verso il giardino, lui mette a fuoco quel volto. È una foto di qualche anno prima, quando Sara aveva i capelli corti e lisci. “Alberto ha ottenuto il trasferimento a Piacenza” disse Sara. Le fiamme delle candele sventolavano inquiete, prossime a spegnersi. Lei si tirò il plaid di lana fino sulle spalle. Era lana ruvida, color panna, odorava di lavanda e tarmicida.
Un plaid di lana in una casa per l’estate passa la sua esistenza al buio di un armadio. “Ha vinto il concorso per viceispettore” aggiunse lei, con un accenno di rassegnato orgoglio. “Per me non cambia niente” disse lui. Divise equamente fra i due bicchieri il rosso rimasto nella bottiglia. Pier Maria Valli aveva sempre le risposte, spesso prima ancora che gli altri formulassero la domanda. Capiva i problemi che i suoi clienti non sapevano ancora di avere. Così in dieci anni era diventato il re dei software per la logistica. “Alberto vuole un bambino” disse ancora lei. Lei guardava il buio carezzandosi la coda di capelli come se coccolasse un cucciolo ferito. “Tornerai in forma. Come adesso, tranquilla”. Ady era stata una primipara di trentun anni. A quarantasei anni faceva ancora voltare gli uomini, sulla passerella di teak che portava alla loro tenda in prima fila, davanti alla battigia. Ma Pier Maria evitò di dirlo. Le candele erano ridotte a grumi informi. Lei gli tolse il bicchiere di mano e lo baciò, si liberò della coperta, quasi gli rovinò addosso. Scoparono mentre il buio si riprendeva a poco a poco il salone. Senza preamboli, senza mai parlare. La loro coreografia abituale di amanti clandestini era essenziale. Il freddo della casa delle vacanze si ritrasse, come risucchiato dalle pareti. Lui la toccava nell’oscurità, immaginava di modellarle i fianchi, le cosce, le spalle larghe e ossute. Lei sembrava resistere al piacere, però poi il piacere la sollevò, La spinta dell’acqua che sale dalla terra profonda quando sembra risvegliata dal richiamo della pioggia. Il freddo tornò a posarsi su di loro poco dopo le nove. Lui si era assopito, lei era avvolta nella coperta di lana.
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choreography of their secret trysts was pure and simple. The coldness of the beach house ebbed away, as if sucked in by the walls. He touched her in the dark, imagined his hands modeling her hips, her thighs, her broad, bony shoulders. She seemed to be holding pleasure at bay, but then the pleasure buoyed her up. With the force of water rising from deep in the earth, as if woken by the rain. The cold settled down over them again shortly after nine. He had dozed off, she was wrapped in the wool blanket. At nine thirty-five the last Intercity of the evening would be coming through Pietrasanta. He would walk her to the track, as always, while the bells of a level crossing rang through the darkness to announce the train pulling in. She would get off in Parma and hug Antonio, who would be waiting at the track as always. As Pier Maria was getting dressed, she told him: “This is the last time.” “What do you mean?” “It’s over.” She couldn’t see it, but the king of logistics software felt a unexpected jolt of sadness. “Is that what you want?” “It’s what you want.” She got up, collected her shoes, underwear, and jeans, grabbed her bag. Then vanished into the small bathroom by the kitchen to fix herself up, as always. Just a childish threat. But that night Pier Maria Valli stayed over at his beach house. Roma Imperiale, as that part of Forte dei Marmi was called, was a shadowy checkerboard of narrow streets with no sidewalks, designed for a moneyed generation that drove Alfa Romeos, not SUVs. Only the pine trees bore any resemblance to Rome, and it was an empire of privacy more than anything else.
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He called his wife and told her he’d be back the next day. “Where are you, Pier?” she asked. He told her he was still in Rome, the real Rome, that he’d checked into a hotel because he was exhausted. Not entirely untrue. Pier Maria Valli calmly undid his shoelaces, fell back on the sofa, and curled up in the wool blanket, still in his clothes. The storm was over, there were noises scuttering through the beach house that he never heard in summer. He thought back to Sara’s body, how lissome it was in the dark. Her soft hips, scent of almond milk, slender wrists. A driver who had pulled over on the highway spotted the body lying at the base of the overpass. They didn’t print the fact that when the driver noticed the corpse of Sara Martinengo, 28, a resident of Fiorenzuola sull’Arda, he was probably taking a piss. Or at least that’s how Pier Maria imagines a scene that he’s been struggling in vain not to imagine for the last twenty minutes. Shallot essence, wild strawberries, and blue cheese foam in a shower of scabious petals. Martina asks what an essence is. Lucilla does a web search to see how a deconstructed flan is made. They got there late and the best tables were already taken. “The usual Russians,” his wife murmurs. “They’re everywhere, by now we’re surrounded. Even Villa Fiori, did you see, Pier?” That’s the house next to theirs. Call a place Imperial Rome, and sooner or later the barbarians come knocking. “The men all have beer bellies. There’s no point in wearing Armani if you’re toting around a blimp.” Ady is irritable, the sandals she put on are torturing her. At some point a doubt crosses her mind: “That Sara, though... doesn’t she look like the girl who in-
Alle nove e trentacinque l’ultimo Intercity della notte passava da Pietrasanta. Lui l’avrebbe accompagnata fino al binario, come ogni volta, mentre lo scampanio di un passaggio a livello nel buio annunciava l’arrivo del treno. Lei sarebbe scesa a Parma e avrebbe abbracciato Antonio che la aspettava al binario, come ogni volta. Mentre Pier Maria si rivestiva, lei disse: “Finisce qui”. “Cioè?” “Stasera”. Lei non lo vide bene, ma il re del software per la logistica ebbe un sussulto di tristezza inaspettata. “È questo che vuoi?” “È questo che vuoi tu”. Lei si alzò, raccolse scarpe, slip e jeans, afferrò la borsa. Sparì a rimettersi a posto nel piccolo bagno di servizio di lato alla cucina, come faceva sempre. Solo una minaccia infantile. Quella sera però Pier Maria Valli tornò nella sua casa delle vacanze. Roma Imperiale era una scacchiera ombrosa di strade strette senza marciapiedi, concepite per una borghesia che amava le spider, non i SUV. Di Roma aveva solo i pini e quanto all’impero, era quello della privacy. Chiamò sua moglie e disse che sarebbe rientrato l’indomani. “Dove sei, Pier?” gli chiese. Le rispose che era ancora a Roma, quella vera, che si trovava un albergo perché era stanco morto. Non erano tutte bugie. Pier Maria Valli si sciolse con calma le stringhe delle scarpe, si lasciò cadere sul divano e si raggomitolò nella coperta di lana ancora vestito. Il temporale era finito, nella casa delle vacanze strisciavano rumori mai sentiti d’estate. Ripensò al corpo di Sara, a come era stato duttile, nel buio. Fianchi morbidi, profumo di latte di mandorla, polsi fini.
Un automobilista si è fermato in una piazzola e ha visto il corpo alla base di un pilone del cavalcavia. Non hanno scritto che mentre scorgeva il cadavere di Sara Martinengo, anni 28, residente a Fiorenzuola d’Arda, l’automobilista stava probabilmente pisciando. O almeno, così Pier Maria si immagina la scena che da venti minuti si sforza inutilmente di non immaginare. Essenziale di scalogno, fragoline di bosco e spuma di erborinato in pioggia di ambretta. Martina chiede: cos’è un essenziale? Lucilla invece cerca su internet come si fa un flan destrutturato. Sono arrivati tardi e i tavoli migliori erano già occupati. “I soliti russi” mormora sua moglie. “Sono dappertutto, siamo circondati, ormai. Anche la villa dei Fiori, hai visto, Pier?” Era la villa accanto alla loro. Se chiami un posto Roma Imperiale, prima o poi i barbari arrivano. “Gli uomini hanno tutti la pancia. È inutile che ti vesti Armani, quando porti in giro una mongolfiera”. Ady è nervosa, ha messo un paio di sandali che le torturano i talloni. A un certo punto si lascia attraversare da un dubbio: “Ma quella Sara lì… non somiglia a una che fece uno stage nello studio di tuo fratello?” Lui risponde che non ricorda, però può darsi. Arriva il cameriere e ordinano, dopodiché lui fugge alla toilette. In bagno c’è lo stesso sottofondo musicale acquoso e inutile che aleggia fuori, sotto i gazebo. C’è un bouquet di fiori secchi. I due specchi a parete lo intrappolano in una fuga prospettica senza fine. Camicia azzurra, vezzosi occhiali rossi, cronografo con la cassa in oro bianco. Era questo che aveva attratto Sara? Era il benessere che non avrebbe mai potuto ottenere da lui?
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