Medioevo n. 263, Dicembre 2018

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MEDIOEVO n. 263 DICEMBRE 2018

IN I TR M IG E O D A IC FIR I EN ZE

EDIO VO M E

I

MEDICI

UNA PASSIONE PER GLI AFFARI

ASCESA E DECLINO DI UNA POTENTE DINASTIA FIORENTINA

www.medioevo.it

DICEMBRE 533

Belisario e la sconfitta dei Vandali

LENTATE SUL SEVESO

Santo Stefano e gli affreschi dei miracoli

L’ARTE DELLE ANTICHE CHIESE

Da Casale Monferrato a Vercelli

www.medioevo.it

€ 5,90

BATTAGLIA DI TRICAMERON FONDI ORO ANTICHE CHIESE DEL PIEMONTE LENTATE SUL SEVESO DOSSIER I MEDICI

Mens. Anno 22 numero 263 Dicembre 2018 € 5,90 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.

UN PASSATO DA RISCOPRIRE

IN EDICOLA IL 1° DICEMBRE 2018



SOMMARIO

Dicembre 2018 ANTEPRIMA IL PROVERBIO DEL MESE Mangiare a ufo

Quella sigla fraintesa

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ITINERARI In viaggio con Alberto

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VALORIZZAZIONE Tutto il Medioevo in una rete

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MOSTRE Verso un nuovo umanesimo

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SCOPERTE Chi ha ucciso Pico della Mirandola?

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APPUNTAMENTI Il tempo dei fuochi Una Volata straordinaria L’Agenda del Mese

24 25 26

MOSTRE Milano Quel dorato autunno del Medioevo di Federico Giannini

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LUOGHI ARTE DELLE ANTICHE CHIESE/1 Piemonte Casale Monferrato e Vercelli di Furio Cappelli

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MEDIOEVO NASCOSTO Lombardia

Quarantatré scene di vita

di Corrado Occhipinti Confalonieri 92

CALEIDOSCOPIO PALEOGRAFIA Viterbo e la cometa di Halley 104

34 STORIE BATTAGLIE Tricameron Fine di un regno di Federico Canaccini

34

LIBRI La scuola che ha studiato se stessa Lo scaffale

110 112

MUSICA Languidi canti e danze vorticose

113

Dossier I MEDICI Firenze siamo noi

di Sergio Raveggi e Duccio Balestracci

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MEDIOEVO n. 263 DICEMBRE 2018

IN I TR M IG E O D A IC FIR I EN ZE

MEDIOEVO I

MEDICI

UNA PASSIONE PER GLI AFFARI

ASCESA E DECLINO DI UNA POTENTE DINASTIA FIORENTINA

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DICEMBRE 533

Belisario e la sconfitta dei Vandali

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UN PASSATO DA RISCOPRIRE

IN EDICOLA IL 1° DICEMBRE 2018

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20/11/18 17:02

MEDIOEVO Anno XXII, n. 263 - dicembre 2018 - Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Calabria, 32 - 00187 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione: Alessia Pozzato Amministrazione Roberto Sperti amministrazione@timelinepublishing.it

Hanno collaborato a questo numero: Duccio Balestracci è professore ordinario di storia medievale all’Università di Siena. Franco Bruni è musicologo. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Federico Giannini è storico dell’arte. Paolo Leonini è giornalista e storico dell’arte. Umberto Maiorca è giornalista e autore di saggi storici. Corrado Occhipinti Confalonieri è cultore di materie storiche. Chiara Parente è giornalista. Sergio Raveggi è stato professore di storia medievale all’Università di Siena. Stefania Romani è giornalista. Luca Salvatelli è dottore di ricerca in storia dell’arte medievale. Illustrazioni e immagini: Mondadori Portfolio: pp. 54/55; AKG Images: copertina, a sinistra (e p. 77, a sinistra) e pp. 34/35, 70/71, 72/73, 75 (alto), 79, 84/85, 98/99, 100 (a sinistra), 101; Album/National Gallery of Art, Washington DC: copertina, a destra (e p. 77, a destra); Album/Metropolitan Museum of Art, NY: p. 5; Album: p. 36; Erich Lessing/Album: pp. 37, 89; Leemage: pp. 41, 62; Archivio Quattrone/ Antonio Quattrone: pp. 44/45, 48/49, 50/51, 69; Electa/Antonio Quattrone: pp. 51, 76; Electa/Fabrizio Carraro: pp. 56/57 – Doc. red.: pp. 6, 11, 21 (basso), 39 (basso), 59, 66, 72, 74, 75 (basso), 78, 80-81, 86-88, 95 (basso), 96, 100 (a destra), 105-109 – Shutterstock: pp. 6/7, 8-10, 12, 13 (alto), 14/15, 15 (basso), 16, 58, 90/91 – Cortesia degli autori: pp. 13 (basso), 15 (alto), 46-47, 52-53, 104 – Cortesia Camera di Commercio di Alessandria: Enzo Bruno: pp. 16-20 – Cortesia Ufficio Stampa Università di Pisa: p. 21 (alto) – Cortesia Ufficio Stampa: pp. 24, 25 (alto) – Cortesia Associazione Culturale «Roberto il Guiscardo»: p. 25 (basso) – Getty Images: Print Collector: p. 38 – DeA Picture Library: G. Dagli Orti: pp. 60/61; G. Nimatallah: pp. 82/83 – Cortesia Furio Cappelli: pp. 63, 64 (alto), 64/65, 66/67 – Cortesia Ufficio Stampa Comune di Lentate sul Seveso: Maurizio Finotti: pp. 92/93, 96/97, 97, 98, 102-103 – Marka: Danilo Donadoni: pp. 94 (basso), 95 (alto) – Patrizia Ferrandes: cartine e rielaborazioni grafiche alle pp. 39, 40, 94.

Presidente Federico Curti Pubblicità e marketing Rita Cusani tel. 335 8437534 e-mail: cusanimedia@gmail.com Distribuzione in Italia Press-di Distribuzione, Stampa e Multimedia Via Mondadori, 1 - 20090 Segrate (MI) Stampa Arti Grafiche Boccia Spa via Tiberio Claudio Felice, 7 - 84100 Salerno Servizio Abbonamenti È possibile richiedere informazioni e sottoscrivere un abbonamento tramite sito web: www.abbonamenti.it/medioevo; e-mail: abbonamenti@directchannel.it; telefono: 02 211 195 91 [lun-ven, 9-18; costo della chiamata in base al proprio piano tariffario]; oppure tramite posta scrivendo a Press-Di Abbonamenti SPA c/o CMP BRESCIA Via Dalmazia, 13 – 25126 Brescia BS L’abbonamento può avere inizio in qualsiasi momento dell’anno. Arretrati Per richiedere i numeri arretrati contattare: E-mail: collez@mondadori.it Tel.: 045 8884400 Posta: Press-di Servizio collezionisti Casella postale 1879, 20101 Milano

In copertina a sinistra, busto raffigurante Piero di Cosimo de’ Medici, padre di Lorenzo il Magnifico, realizzato dallo scultore Mino da Fiesole, 1453; a destra, ritratto di Lucrezia Tornabuoni, poetessa e madre di Lorenzo il Magnifico, attribuito al Ghirlandaio, 1475.

Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.

Nel prossimo numero de imitatione christi

«Il quinto evangelo»

itinerari

Sulle orme di Federico II

l’arte delle antiche chiese/2

Aosta. Il Duomo


IL PROVERBIO DEL MESE a cura di Federico Canaccini

Quella sigla fraintesa

L

a locuzione «a ufo» o «a uffo», non ha nulla a che vedere con gli Oggetti Volanti Non Identificati, denominati appunto UFO, con il loro acronimo Unidentified Flying Object. Essa significa, infatti, «gratis» o meglio «a spese altrui» e varie sono le ipotesi sulla sua origine. Alcuni eruditi legano l’espressione a una sigla apposta sulle infinite casse di materiale edilizio, esenti da gabelle, e inviate a Roma per la costruzione della nuova basilica di S. Pietro, a partire dal Cinquecento. Il cantiere durò secoli e divenne infatti proverbiale anche dire di essere come «la fabbrica di San Pietro», che non finisce mai. Su questi materiali che in continuazione giungevano in città, sarebbe apparsa la sigla «ad u. f.», abbreviazione di «ad Urbis fabricam», cioè per la costruzione della città. Per altri, invece, la formula deriverebbe da una pratica dei Magistrati della città di Firenze. Quando infatti ve-

nivano inviate lettere di commissione ai Ministri forensi, vi era l’esigenza di distinguere le lettere inviate privatamente – «mandate per proprio interesse di quel Magistrato, che le fa e per cui non vi è spesa alcuna» – da quelle «che si pagano». Su quelle gratuite veniva apposta la frase «ex uffitio» (si dice ancora oggi: un documento inviato d’ufficio); ma per l’uso di abbreviare, secondo l’abitudine della scrittura del tempo, sulle lettere compariva solamente la sigla «ex uff.o» oppure «ex uf.o». E cosí veniva letta da coloro che, ignorando il significato delle abbreviazioni, le consegnavano al destinatario. Quelle missive diventavano perciò documenti spediti «a spese altrui», «a scrocco», per dirla con un sinonimo. Termine, quest’ultimo, che a sua volta deriva da un germanismo, giacché «s-croccare» significava in origine strappare con un uncino (crocco). Incisione raffigurante una benedizione papale in S. Pietro, da un’edizione dello Speculum Romanae Magnificentiae. XVI sec. New York, The Metropolitan Museum of Art. Al centro, sullo sfondo, si riconosce una macchina da costruzione impegnata nel cantiere della basilica vaticana.


ANTE PRIMA

In viaggio con Alberto ITINERARI • Alla metà del XIII secolo,

il monaco benedettino Alberto di Stade compilò una cronaca, gli Annales Stadenses, fra le cui pagine si conserva la preziosa testimonianza del percorso di un’antica via di pellegrinaggio: la Romea di Stade, o Germanica. E quel resoconto può oggi essere scelto come guida per scoprire (o riscoprire) molte località, grandi e piccole, che ebbero un ruolo di rilievo nei secoli del Medioevo

Miniatura raffigurante pellegrini giunti a Roma per il giubileo del 1300, dalle Croniche di Giovanni Sercambi. Inizi del XV sec. Lucca, Archivio di Stato.

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Veduta di Orvieto, una delle città toccate dall’itinerario della via Romea di Stade, o Germanica.

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«F

ratello Tirri, voglio andare a Roma, descrivimi il percorso che devo seguire». «Buon fratello Firri, da dove vuoi passare?» chiede Tirri. Risponde Firri: «Attraverso la valle Mauriana». Di nuovo Tirri: «Nominerò i luoghi e aggiungerò le distanze. Qui avrai due possibilità per attraversare gli appennini: o da Bagno di Romagna, o da Acquapendente. Ma ritengo sia migliore la strada da Bagno di Romagna». A questo punto il monaco non solo indica la strada, ma fornisce anche le distanze (espresse in miglia o leghe, equivalenti a 2 chilometri): «Da Bologna a Castel San Pietro ci sono 13 miglia, 7 a Imola, 10 a Faenza, 19 a Forlí, 2 a San Martino in Strada, 4 a Meldola, 10 a Civitella, 15 a Bagno di Romagna. Per attraversare l’Alpe di Serra ci sono 15 miglia fino a Campi,

8 fino a Subbiano, 6 fino ad Arezzo, 8 a Castiglion Fiorentino, 8 a Ossaia, 16 a Castiglion del Lago, 10 a Sarminia (secondo Renato Stopani – uno uno dei piú autorevoli studiosi della via Francigena –, si tratterebbe di Moiano, sede di un monastero benedettino e di una chiesa dedicata a san Iacopo; altri studiosi, dal momento che le distanze non coincidono, suggeriscono la rocca di Carnaiola), 6 a Orvieto, 12 a Montefiascone, 8 a Viterbo, 16 a Sutri, 16 a Castel San Pietro, 8 a Roma». Il buon monaco aggiunge anche che «se il Papa per caso fosse a Perugia, o ad Assisi, o a Terni, o in quelle zone, da Ossaia vai per 4 miglia fino a Gunfin e cosí per altre 4 miglia fino ad avere il lago di Perugia alla tua destra, ma la strada descritta da Ursage fino a Castello a sinistra. Quello è il tracciato romano per la valle Mauriana».

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ANTE PRIMA Da sinistra, in senso orario vedute di altri centri toccati dalla via Romea di Stade: Paciano (Perugia), Città della Pieve (Perugia) e Monteleone d’Orvieto (Terni). Questo brano illustra un’antica via di pellegrinaggio, Romea di Stade o Germanica appunto, che collega il Nord Europa con Roma, e fu scoperto per caso tra le pagine degli Annales Stadenses nella biblioteca Herzog August di Wolfenbuttel nel XIX secolo. Una cronaca compilata dal monaco benedettino (e poi frate francescano) Alberto di Stade tra il 1240 e il 1256. Nel dialogo tra i due religiosi viene esposto il percorso per raggiungere Roma (e tornare indietro) con una ricca descrizione di luoghi, usanze e costumi, tappe, distanze, curiosità e anche consigli

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su come muoversi scegliendo i percorsi in base a «societas, et rerum eventus et temporum», cioè compagnia dei pellegrini, situazione politica e stagione dell’anno. Il Passo di Serra e il conseguente percorso per la valle del Bidente e fino alla Valdichiana seguono un antico tracciato appenninico, già utilizzato in epoca preistorica, al pari del Brennero (la Melior Via per Alberto di Stade) per le Alpi, perché consente di passare da una valle all’altra senza particolari dislivelli. Non per nulla il Passo di Serra fu scelto dagli Ottoni e dagli Svevi nelle loro discese in Italia (il percorso segue i confini di città fedeli all’imperatore e feudi di diritto imperiale). Anche Matteo Paris nel suo Iter de Londinio in Terram

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Sanctam (nel quale è inserita anche una mappa di pergamena a colori con tutto il percorso) indica come praticabile il tracciato lungo la via Emilia fino a Forlí e poi l’ascesa verso l’Appennino e la discesa verso Arezzo: «Alpes bolon. Florence. Aresce. Peruse. Asise. Fulins. Spoletum. Rieta».

Personaggi di fantasia Torniamo ai due monaci Firri e Tirri e al buon Alberto di Stade. Quello che racconta, per bocca dei due personaggi di fantasia, è il suo viaggio a piedi, con piccole imbarcazioni, a dorso d’asino, quello che compie realmente, fino a Roma, per presentarsi davanti al papa e chiedere di poter riformare la comunità di cui è abate secondo i dettami cistercensi, per combattere

il lassismo e la ricchezza che allontanano dalla contemplazione e da Dio. Alberto ottiene il permesso dal pontefice, ma quando torna a Stade i monaci si ribellano; lui si dimette ed entra nell’ordine dei Minori. Inizia a scrivere e ci lascia il resoconto di quel viaggio, come se fosse un antesignano di Jack Kerouac o Bruce Chatwin: Austria, Baviera, Turingia, Sassonia Anhalt e Bassa Sassonia, Bolzano, Trento, la Valsugana, Padova, Ferrara, Ravenna, Forlí, Meldola, Bagno di Romagna, l’Alpe di Serra, Campi di Bibbiena, Subbiano, Arezzo, Ossaia, Castiglion del Lago, Orvieto, Montefiascone e Roma (il percorso è raccontato anche all’inverso, per un totale di 3500 chilometri e sei mesi di viaggio). È il cammino di Alberto, la

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ANTE PRIMA paladino in Umbria), già nominata in un documento di Berengario I nel 917. Uscendo da Porta Fiorentina, ci si dirige verso Città della Pieve le cui origini sono molto remote, sebbene sia nominata intorno all’anno Mille come Castrum Plebis S. Gervasi. La città sorge su un’altura che domina l’intera Valdichiana e il Trasimeno e spicca sul paesaggio per il rosso del laterizio con il quale è costruita. È la città natale di Pietro Vannucci, il Perugino, maestro di Raffaello. Il pellegrino, lasciata Città della Pieve, si dirige verso Orvieto, passando ai piedi del castello di Salci, costruito nel XIV secolo dal condottiero Vanni Bandini e inerpicandosi verso Fabro con la sua rocca dell’XI secolo posta a guardia del passaggio sul fiume Paglia, poi Monteleone d’Orvieto e Parrano, borghi fortificati che sorgono lungo l’asse viario della Cassia (oggi A1) e della Romea (Statale 71) con funzione di avvistamento.

La badia del Magister

Romea di Stade o Romea Germanica. La Romea Germanica entra in Umbria attraverso la striscia di territorio racchiusa tra il corso del Chiani e il lago Trasimeno, lungo la strada che scende da Cortona, passando per Ossaia (Ursage, toponimo che richiama la strage dei Romani da parte di Annibale) e le pendici di Castiglione del Lago, l’antica Castellum Leonis, sorta in posizione strategica e contesa da Etruschi e Romani prima, e in epoca medievale da Perugia, Arezzo e Siena, assurta al rango di marchesato nel XVI secolo con i Della Corgna.

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Il pellegrino prosegue, quindi, per Pozzuolo Umbro, un borgo fortificato di origine altomedievale a presidio del passo che evitava le zone di palude, costeggia Villastrada (nome che rimanda a un insediamento sorto vicino a una «strata»).

Orlando in Umbria Sfruttando un antico tracciato etrusco giunge a Paciano, una cittadina medievale fondata nel XIV secolo e arroccata sul monte Petralvella, poco distante dall’ormai diroccata Torre di Orlando (uno dei tanti toponimi del «Grand Tour» del

Nella zona sorge la badia di S. Nicola, fondata nel 1007 e riformata da san Romualdo. Vi vestí l’abito Magister Gratiano, giurista e fondatore del diritto canonico, ricordato da Dante Alighieri insieme con san Tommaso d’Aquino, Pietro Lombardo e sant’Alberto Magno. Il pellegrino cammina all’ombra della rocca di Carnaiola (individuata da alcuni storici come la Sarminiam nel testo di Alberto di Stade e chiamata Sarmugnano o Sermugnano nel Catasto Orvietano del 1292) costruita nel 1055 e luogo di nascita della beata Giovanna da Orvieto, terziaria domenicana del XIII secolo. Un atto giudiziario del Comune di Orvieto ricorda che proprio sulla strada per Sarmugnano «Cola di Guatiero, Ciolo (…) e Giovanni di Amata Angeli di Ficulle contro i quali è questo processo per inquisizione (…) poiché contro il nostro mandato andarono con le armi per la strada che va a Sarmugnano e su questa strada ferirono dei romei». dicembre

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A destra Città della Pieve, oratorio di S. Maria dei Bianchi. Adorazione dei Magi, affresco del Perugino (al secolo Pietro Vannucci). 1504. Nel paesaggio in cui la scena è ambientata si riconosce, seppur idealizzata, la veduta che da Città della Pieve si gode della Valdichiana. Nella pagina accanto la Torre Civica di Città della Pieve, ispirata a modelli del romanico lombardo. Poco distante c’è Ficulle, centro prima etrusco e poi romano, posto a guardia della via Traianea. Le mura medievali e il castello della Sala testimoniano l’importanza del castello per il Comune di Orvieto negli anni di lotte con Comuni vicini. Lasciata Ficulle si arriva ad Allerona, castello medievale posto a baluardo contro la non troppo lontana Chiusi. E la via Romea si avvia, cosí, agli ultimi chilometri in territorio umbro, giungendo proprio ai piedi dell’imponente Orvieto e ai mosaici del duomo che splendono nel sole. L’antica via Romea Germanica è anche disseminata da hospitales, domus leprosorum, tabernae e hosteriae a uso dei pellegrini. Questi luoghi hanno lasciato tracce anche nella toponomastica. A Città della Pieve erano presenti l’Hospitalis Novum di S. Maria dei Bianchi, costruito sul finire del XIII secolo, e quello di S. Giacomo de Porta Vecciani, sorto per iniziativa del beato Giacomo da Città della Pieve nella seconda

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metà del Duecento, diverse tabernae e una domus leprosorum 2 km circa a sud dalla città, in località Lazzaretto, dove si trova la chiesa della Madonna della Sanità. Usciti dal borgo di Sarminian, si incontrava il pineti hospitalis, testimoniato dal Catasto Orvietano del 1292, mentre vicino al Ponte di Carnaiola si trova il vocabolo San Lazzaro, sito di un ospedale per infermi, ricordato in un documento del 1244 come «hospitalis leprosorum de vallis Ficullis».

Il viaggio delle reliquie Nella storia delle vie francigene, francesce o romee si intersecano anche leggende e racconti, come il viaggio del cancelliere di Federico il Barbarossa e vescovo di Colonia Rinaldo di Dassel. Gli storici discutono ancora sul percorso compiuto dal vescovo con le reliquie dei Magi trafugate da Milano l’11 giugno del 1164. Un viaggio non proprio trionfale, ma quasi segreto, tanto che alcune fonti testimoniano

che avrebbe trasportato le reliquie di nascosto, «clam auferens e magno labore et periculo». Tre erano le strade possibili: per il Gran San Bernardo fino a Magonza, oppure le due varianti segnalate da Alberto di Stade, la prima per il Gottardo e per la via fluviale del Reno, la seconda per il Moncenisio. Un documento riporta la notizia secondo la quale Rinaldo abbia presieduto un concilio dei vescovi borgognoni a giugno per sostenere come papa legittimo Pasquale III (il 23 giugno le reliquie erano a Colonia). I tempi fanno pensare che abbia seguito questa seconda via indicata da Alberto di Stade. Una testimonianza di questo tracciato anteriore al monaco tedesco, infine, si riscontra nella cronaca del viaggio a Roma e Gerusalemme, compiuto tra il 1151 e il 1154, del monaco islandese Nicola di Munkatvhera, abate del monastero di Thingorde, partito proprio dalla città anseatica di Stade. Umberto Maiorca

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ANTE PRIMA

Tutto il Medioevo in una rete VALORIZZAZIONE • Grandi

e piccole località di varie regioni d’Italia si sono riunite nell’Associazione Nazionale Comuni Luoghi del Medioevo. Con l’obiettivo di promuovere il proprio patrimonio storico-artistico e gli appuntamenti con feste, giochi e rievocazioni Pistoia. La cattedrale di S. Zeno, il cui aspetto attuale è in larga parte riferibile al XIII sec. La città toscana è fra i promotori dell’iniziativa Medieval Italy.

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N

el panorama dell’offerta turistica italiana c’è una novità interessante: un unico soggetto, Medieval Italy, promuove come marchio di eccellenza, attraverso un network, eventi a carattere medievale. Ben 13 Comuni si sono infatti riuniti in un’Associazione, l’ANCLM, Associazione Nazionale Comuni Luoghi del Medioevo, per fare «cartello» e lavorare a un calendario unico del 2019, che consenta a tutti di apparire all’interno di una stessa vetrina. Le località hanno storie e caratteristiche diverse, ma sono accomunate dalla volontà di valorizzare il loro patrimonio, legato all’età di Mezzo, sia con le rievocazioni, sia con proposte per destagionalizzare il turismo. «Il processo, iniziato con il primo Festival dei Luoghi Medievali di Pistoia lo scorso settembre, al quale hanno preso parte anche Comuni non ancora entrati

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nell’Associazione, culminerà con l’edizione di fine settembre 2019. Ma il piano strategico è già ampiamente avviato», racconta Renato Chiti, ideatore dell’iniziativa. Che continua: «Stiamo preparando un calendario unico delle manifestazioni, nel quale sotto il cappello di Medieval Italy verranno via via aggiunti gli appuntamenti

In alto una veduta di Volterra (Pisa), città che vanta un Palazzo dei Priori fra i piú antichi d’Italia: la sua costruzione fu avviata nel 1208 e ultimata nel 1257. Qui sopra Serravalle Pistoiese, il cui Palio degli Arcieri evoca ogni anno il passaggio di san Ludovico da Tolosa, che raggiunse la cittadina percorrendo la Francigena.

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ANTE PRIMA

delle singole mete. Sotto un unico marchio, anche on line, stiamo già segnalando destinazioni, che propongono eventi tematici e rievocativi (www.medievalitaly.it)». Il secondo passo, come spiega Chiti, sarà quello di fare rete, attraverso forme giuridiche diverse, per far sí che i singoli Comuni si possano presentare assieme, per esempio in un unico catalogo, come prodotto di turismo medievale, in manifestazioni storiche, come la BIT, la Borsa Internazionale del Turismo di Milano. Nella terza fase, quando sarà stato messo a punto un «Club di prodotto», l’ENIT darà il suo supporto, per promuoverlo e posizionarlo nei vari mercati. Ecco le caratteristiche dei centri che hanno deciso di «fare cartello» a vario titolo. Pistoia, che nel duomo

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romanico custodisce una reliquia di san Jacopo, festeggia a luglio la Giostra dell’Orso, una sfida a cavallo fra i rioni storici. E ospita il Festival dei Luoghi Medievali. In provincia, nella val di Nievole, Pescia (Pistoia), che nel Trecento ha avuto un’ascesa forte grazie ai Medici e a papa Leone X, celebra il suo passato con il palio la prima domenica di settembre, proponendo una serata sulla bellezza della donna. Serravalle Pistoiese, prima difesa per Pistoia da Lucca, ricorda con il Palio degli Arcieri san Ludovico da Tolosa, che venne accolto lungo la via Francigena.

Un Medioevo povero Sono invece riunite nell’Ecomuseo delle Alpi Apuane, e accomunate da un Medioevo povero, quattro località come Gallicano (Lucca),

raccolto attorno al castello, che ripropone il Palio di San Jacopo; Fabbriche di Vergemoli (Lucca), che vantava un’importante attività fusoria, perché ricco dell’acqua e del legno necessari per portarla avanti; Fosdinovo (Massa Carrara), vocato al turismo e all’agricoltura, e Casola in Lunigiana (Massa Carrara), che è posta lungo la via Francigena e conta un folclore legato a Carlo Magno e a san Jacopo. Non distante, Fivizzano (Massa Carrara), che ha due manieri e una piazza in cui al Medioevo si sovrappone il Rinascimento, organizza in agosto «Tre sere nel passato», con animazioni, musici e giullari. Anche Vinci (Firenze), sebbene conti 200mila turisti l’anno per i luoghi di Leonardo, intende valorizzare il suo passato medievale dicembre

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Dida, niet qui odio quisquunt, soluptae? Pe moloressenim estis enduci quia nim sequi doluptu rescius eni optiur, quae

In alto un’immagine del Balestro del Girifalco di Massa Marittima (Grosseto). A sinistra una veduta di San Leo (Rimini), dominata dalla fortezza. Il sito è stato piú volte ristrutturato e, nel Quattrocento, Federico da

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Montefeltro incaricò Francesco di Giorgio Martini di ridisegnare la rocca per adeguarla alle nuove esigenze belliche. In basso un’altra veduta di Pistoia, con, al centro, la cupola cinquecentesca della chiesa di S. Maria dell’Umiltà.

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ANTE PRIMA

Gradara (Pesaro e Urbino). La possente Rocca Malatestiana, costruita nel XII sec. e, in seguito, ampliata appunto per volere della famiglia Malatesta, che ebbe in feudo il borgo marchigiano nel 1283. con la festa fantasy dell’Unicorno. Volterra (Pisa), con un Palazzo dei Priori fra i piú antichi d’Italia dopo Perugia, organizza invece il Palio delle contrade cittadine. Nel Senese, San Gimignano, famosa per le torri che testimoniano le lotte di età comunale, torna indietro nel tempo con le Ferie delle Messi, giostre inscenate da cavalieri. Chiusi, al confine con l’Umbria, riscopre le sue radici con il Tria turris, la gara di torri portate a spalla, mentre Montepulciano festeggia il Bravio delle Botti, in cui si scontrano le

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contrade menzionate negli statuti trecenteschi. Monteriggioni (Siena) legata a doppio filo a Dante, per la battaglia del 1244-1254, narrata nel XIII canto del Purgatorio, a luglio «di Torri si corona». Infine la capitale medievale della Maremma, Massa Marittima (Grosseto), che non ha evidenze successive al Quattrocento, si lancia nel Balestro del Girifalco.

Nel «paese delle nebbie» In Umbria è interessante il caso di Bevagna (Perugia), che da «paese delle nebbie» a un quarto d’ora da Assisi, nel corso di trent’anni, grazie al Mercato delle Gaite di fine giugno, è diventato destinazione turistica. E con le visite didattiche ha destagionalizzato il flusso di visitatori. Narni (Terni), con la Rocca albornoziana costruita per fortificare

il tracciato della via Flaminia, ricorda invece il patrono san Giovenale. Gradara (Pesaro Urbino) valorizza la sua storia con L’assedio al castello, che si ripete a cadenza biennale, ma custodisce anche il forte che fece da cornice all’amore raccontato da Dante fra Paolo e Francesca. San Leo (Rimini) evangelizzato dal santo proveniente dall’altra sponda dell’Adriatico, è uno sperone roccioso su una rupe, noto per il castello di Cagliostro, personaggio ricordato con «AlchimiAlchimie». Infine Incisa Scapaccino, nell’Astigiano, conserva il Ricetto medievale, la struttura insediativa caratteristica del Piemonte dell’età di Mezzo e a luglio rievoca una sconfitta, la sua presa da parte del Monferrato. Stefania Romani dicembre

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Verso un nuovo umanesimo MOSTRE • Il Palazzo del Monferrato di Alessandria

propone un affascinante percorso in tre tappe, per seguire, grazie a magnifici gruppi scultorei, il passaggio dalle forme del gotico a quelle del Rinascimento

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naugura un percorso inedito la mostra: «Alessandria scolpita 1450-1535 sentimenti e passioni fra gotico e rinascimento», offrendo una panoramica autentica e vivida su una stupefacente dimensione

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monumentale medievaleggiante e rinascimentale del capoluogo di provincia, che oggi si legge a fatica a causa delle demolizioni sette e ottocentesche e del generale rimodellamento urbanistico.

Nata da un attento studio sul patrimonio storico-artistico del Piemonte alessandrino e maturata dopo anni di ricerca sul campo, la rassegna invita a riconsiderare la fisionomia di Alessandria negli anni a cavallo tra Quattro e Cinquecento. Una periodizzazione che coincide con i decenni di effettivo dominio sforzesco sulla città e con la sua ascesa quale fulcro territoriale e originale snodo culturale di un’area di cerniera tra realtà diverse: Milano e Pavia da un lato e Genova dall’altro. I frammenti figurativi superstiti restituiscono infatti la Compianto sul corpo di Cristo, gruppo in legno policromo riferibile all’ambito di Giovanni Angelo dei Maino. XV-XVI sec. Serravalle Scrivia (Alessandria), oratorio dei Bianchi.

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ANTE PRIMA A sinistra presepe in legno policromo e dorato del Maestro di Trognano. XV sec. Alessandria, Museo Civico di Palazzo Cuttica. In basso calice in argento dorato e niellato del vescovo de’ Capitaneis, opera di un orafo lombardo. Fine del XV sec. Alessandria, catterale di S. Pietro

posizione sorprendente e policentrica di Alessandria nel grande rinnovamento figurativo dell’epoca e l’immagine di una cultura artistica che, ricca di accenti propositivi, elabora modelli propri, specie nel vastissimo campo dei crocifissi.

Emozione e mistero Entrati nelle sale dello storico Palazzo del Monferrato, situato nel cuore cittadino, un mondo di profonde emozioni, misteriosi segreti e sconosciute meraviglie accompagna i visitatori alla scoperta di innumerevoli opere d’arte da tempo dimenticate o dissimulate; le sole a poter permettere la riflessione su una storia, che difficilmente potrebbe essere raccontata in altri modi. Ognuna delle tre ampie sezioni, in cui si suddivide l’esposizione, è

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Ciascun manufatto rappresenta l’ideale manifesto di tre generazioni di artisti piemontesi, che testimoniano i paradigmi di altrettante diverse maniere di intendere la forma. A coinvolgere i visitatori sono soprattutto la raffinata bellezza e gli splendidi colori delle statue in legno policromo. Esse, di notevole impatto visivo se confrontate con dipinti, oreficerie e selezionate sculture in pietra e terracotta, nei moduli stilistici attestano l’uscita dal gotico e lo slancio verso un nuovo umanesimo. Seguendo il fil rouge della scultura lignea da un primo periodo, che racconta il senso della natura alla frontiera del gotico, ben evidente nel linguaggio elegante e intenso

idealmente collegata a un gruppo del Compianto sul corpo di Cristo. La prima parte è incentrata su quello proveniente dal Museo Nazionale di Castel Sant’Angelo a Roma, la seconda su quello dell’oratorio della Pietà a Castellazzo Bormida (Alessandria) e la terza su quello dell’oratorio dei Bianchi a Serravalle Scrivia (Alessandria). DOVE E QUANDO

«Alessandria scolpita. 1450-1535. Sentimenti e passioni fra gotico e rinascimento» Alessandria, Palazzo del Monferrato fino al 5 maggio 2019 (dal 14 dicembre) Info tel. 0131 313400; e-mail: info@palazzomonferrato.it; www.palazzomonferrato.it


Crocifisso e dolenti, dipinto su tavola di Gandolfino da Roreto. XV sec. Alessandria, cattedrale di S. Pietro.

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ANTE PRIMA del crocifisso intagliato nella parrocchiale di S. Pantaleone a Bosco Marengo, dei crocifissi di Baldino di Surso, e della Madonna col Bambino in terracotta di Francesco Filiberti, sul finire del Quattrocento si passa a una seconda fase. Una svolta nel modo di concepire la fisionomia, che diviene piú robustamente strutturata, in sintonia con la pittura di Gandolfino da Roreto e le figure di Santa Maria Maddalena e di San Giovanni Evangelista dal Calvario nella collegiata di S. Maria a Novi Ligure. La terza parte, espressione di una nuova poetica delle passioni e degli affetti, è profondamente pervasa

Due sculture in legno policromo di Giovanni Angelo del Maino: a destra, Dio Padre (Ponzone, oratorio del Suffragio); in basso, Madonna del Parto (Alessandria, chiesa dei Ss. Dalmazzo e Sebastiano). XVI sec.

dalla cultura leonardesca. A interpretarla sono Giovanni Angelo del Maino e la sua bottega.

Una nuova era Accanto ad alcuni capolavori del maestro come le figure di Dio Padre, San Michele Arcangelo e San Giovanni Evangelista provenienti dall’oratorio del Suffragio a Ponzone o della Madonna del Parto in San Dalmazzo ad Alessandria, sono presenti crocifissi decisamente moderni, che documentano una tipologia peculiarmente locale. Il racconto del passaggio da una concezione ancora espressionista del modellato, denso di tensioni lineari, a un naturalismo nobilmente anticheggiante, ma pervaso di pathos, termina con l’apparato scultoreo della macchina vasariana di S. Croce a Bosco Marengo, che simbolicamente chiude un’era per aprirne un’altra. Chiara Parente dicembre

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Chi ha ucciso Pico della Mirandola? SCOPERTE • Sembra avere trovato una soluzione il giallo della morte di colui che

la storia ricorda per la prodigiosa memoria: a stroncarlo non fu una malattia, ma l’esposizione all’arsenico, forse attuata deliberatamente...

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el 1494, quando morí, il grande filosofo Giovanni Pico della Mirandola, conte di Concordia, aveva da poco superato i trent’anni d’età. Si trovava allora a Firenze e stava lavorando a un’opera nella quale si proponeva di confutare tutte le superstizioni. Da sempre, circolava il sospetto che quel decesso improvviso non fosse dovuto a cause naturali, ma ora, a oltre 500 anni di distanza, il sospetto sembra aver lasciato il posto alla certezza. A conclusione di studi sui resti dell’insigne umanista – che riposano in un chiostro vicino alla basilica fiorentina di S. Marco –, un gruppo di ricercatori delle Università di Pisa, Bologna, del Salento, di Valencia (Spagna), di York (Gran Bretagna), dal Max Planck Institute (Germania), coadiuvati dagli esperti del RIS di Parma, ha infatti annunciato che causa della morte fu l’arsenico.

A destra immagine al microscopio che mostra una banda di leuconichia (biancastra) su un’unghia del piede sinistro di Pico della Mirandola, riconducibile a un’esposizione tossica all’arsenico. Qui accanto ritratto di Giovanni Pico della Mirandola, olio su tavola di Cristofano dell’Altissimo. 1568 circa. Firenze, Gallerie degli Uffizi.

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«Gli esami eseguiti – spiega Fulvio Bartoli, del dipartimento di Biologia dell’Ateneo pisano – hanno dimostrato che nei resti di Pico erano presenti segni riconducibili a intossicazione da arsenico e che i livelli del veleno erano potenzialmente letali, compatibili con la morte per avvelenamento acuto del filosofo. Ovviamente, che si sia trattato di avvelenamento intenzionale è difficile da dimostrare, anche se questa ipotesi è sostenuta da varie fonti documentarie e storiche».

Un approccio multidisciplinare La sepoltura di Pico della Mirandola – fra cui ossa, unghie, tessuti molli mummificati, vestiti, legno della cassa – è stata sottoposta ad analisi di carattere biologico e chimico-fisico, sia per confermare l’identificazione dei resti, sia per rilevare la presenza delle tracce di arsenico. In particolare, i ricercatori hanno utilizzato un approccio multidisciplinare mettendo insieme analisi antropologiche e documentali, datazione al radiocarbonio e ad analisi del DNA antico accanto a sofisticate tecniche di microscopia ottica ed elettronica. (red.)

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ANTE PRIMA

Il tempo dei fuochi APPUNTAMENTI • Abbadia San Salvatore si appresta a rinnovare la suggestiva

tradizione delle Fiaccole: un rito ancestrale, che ogni anno evoca il forte legame della comunità locale con il Monte Amiata

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a lunga preparazione delle «fiaccole» di Abbadia San Salvatore (Siena) giunge in questi giorni al termine e si appresta a culminare il 24 dicembre con la celebrazione di una delle piú antiche feste del fuoco italiane, che nasce da una singolare tradizione millenaria, intimamente sentita e molto partecipata. Come detto, la città del Monte Amiata si prepara alla ricorrenza fin dall’autunno, quando i «fiaccolai» iniziano a cercare la materia con cui costruire appunto le fiaccole, tipiche cataste di legna a forma piramidale alte fino a 7 m, che, innalzate in ogni terziere del piccolo borgo medievale, si levano al cielo in attesa della vigilia, quando poi verranno incendiate. Una lavorazione impegnativa che coinvolge tutta la comunità, impegnandola nella costruzione di questi monumenti rurali unici. Si intrecciano tronchi sfidando la gravità grazie a tecniche segrete che qui si tramandano di dicembre

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generazione in generazione, per celebrare un rito del fuoco che coinvolge tutti, sposando simbolici significati pagani e religiosi. Possono infatti dirsi «figli del fuoco» gli abitanti dell’Amiata, una montagna vulcanica che nelle sue viscere nascondeva lava incandescente, una terra che da sempre offre cibo e benessere per la collettività. Si estraeva cinabro, da cui si ricavava mercurio nella grande miniera, che oggi si è trasformata nel magnifico Museo Minerario (la cui visita, oltre allo spettacolo delle Fiaccole, è da non perdere).

Nella pagina accanto e a destra le Fiaccole di Abbadia San Salvatore (Siena), la cui accensione si ripete ogni anno il 24 dicembre. In basso figuranti impegnati in uno dei cortei storici organizzati in occasione della Volata di Paola (Cosenza).

Il gran finale Una storia complessa che qui vede legati uomo e natura, in un dialogo talvolta difficile ma sempre pieno d’amore. È infatti quella montagna amata e sentita come madre, come presenza sacra che i badenghi celebrano anche attraverso la tradizione delle Fiaccole. E dopo giorni di lavoro, arriva il giorno tanto atteso: il 24 dicembre

con il suo rituale consolidato. Alle 18,00, in un momento intimo e spettacolare capace di radunare centinaia di persone, si dà il via alla Cerimonia di Accensione con la «Benedizione del Fuoco», che segna l’inizio della festa. La filarmonica suona canti natalizi e la fiaccola davanti al Municipio viene accesa con il fuoco sacro.

Questo è il segnale convenuto: da qui i Capi Fiaccola, con le loro torce divampanti, portano il fuoco che accenderà le altre decine di Fiaccole disseminate nel centro storico e in tutto il resto della cittadina del Monte Amiata. Uno spettacolo carico di magnetismo e suggestione. Info: www.cittadellefiaccole.it (red.)

Una Volata straordinaria C

ittadina costiera in provincia di Cosenza, Paola è nota soprattutto per aver dato i natali, nel 1416, a Francesco, eremita e fondatore dell’ordine dei Minimi, canonizzato nel 1519 e nominato patrono della gente di mare nel 1943 da papa Pio XII. Il 2 luglio del 1555

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il convento che aveva fondato – che nel tempo si è trasformato nel santuario a lui intitolato, meta costante di pellegrinaggio – fu assalito dall’ammiraglio e corsaro ottomano Dragut Reis, che a Paola lasciò una scia di morte e devastazione, e quegli eventi sono oggi uno dei fili conduttori della rievocazione che ogni anno anima il centro calabrese: La Volata. La manifestazione si tiene abitualmente nella stagione estiva, ma quest’anno si è deciso di organizzarne un’edizione straordinaria, che avrà luogo l’8 dicembre. Per l’occasione sono in programma tre cortei storici, che partiranno dal quartiere della Rocchetta, per poi ricongiungersi nel centro storico della città, dove si esibiranno sbandieratori e musici, prima dei duelli a due per cappa e spada. Inoltre saranno aperte botteghe artigiane che offriranno i prodotti tipici calabresi del periodo invernale e si terrà il consueto Palio dei Cavalieri per la conquista del Nastro d’Oro, detto Giostra Aragonese. (red.)

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AGENDA DEL MESE

Mostre SANSEPOLCRO PIERO DELLA FRANCESCA. LA SEDUZIONE DELLA PROSPETTIVA Museo Civico di Sansepolcro fino al 6 gennaio 2019

Il progetto espositivo si articola intorno al De prospectiva pingendi, trattato composto da Piero della Francesca intorno al 1475, e ha anche l’obiettivo di illustrare, attraverso riproduzioni di disegni, modelli prospettici, strumenti scientifici, plaquette e video, le ricerche matematiche applicate alla pittura di Piero della Francesca e la conseguente eredità lasciata ad artisti come Leonardo da Vinci, Albrecht Dürer, Daniele Barbaro e ai teorici della prospettiva almeno fino alla metà del Cinquecento. La mostra vuole inoltre mostrare

a cura di Stefano Mammini

campo della pittura, poiché per lui, quest’ultima, nella matematica e nella geometria, trovava il suo sostanziale fondamento. I suoi scritti, infine, soprattutto il De prospectiva pingendi, composto in volgare per gli artisti e in latino per gli umanisti, hanno dato inizio alla grande esperienza della prospettiva rinascimentale. info tel. 199 151 121; e-mail: mostre@civita.it; www.museocivicosansepolcro.it VENEZIA IL GIOVANE TINTORETTO Gallerie dell’Accademia TINTORETTO 1519-1594 Palazzo Ducale fino al 6 gennaio 2019

Per celebrare il cinquecentenario del piú veneziano tra gli artisti del Rinascimento, il Tintoretto (al

arte – dalla piena affermazione, verso metà degli anni Quaranta del Cinquecento, fino agli ultimi lavori – e in una grande mostra alle Gallerie dell’Accademia, dedicata ai capolavori del primo decennio di attività e al contesto in cui il pittore avviò il suo percorso artistico. Alle due esposizioni si affiancano numerose ulteriori iniziative, come quelle proposte dalla Scuola Grande di San Rocco, uno dei siti cardine dell’attività del maestro, custode di cicli pittorici imponenti, e dalla Curia Patriarcale, con le molte chiese che ancora oggi conservano preziose opere del Tintoretto. info www.mostratintoretto.it GUBBIO UN GIORNO NEL MEDIOEVO. LA VITA QUOTIDIANA NELLE CITTÀ ITALIANE DEI SECOLI XI-XV Logge dei Tiratori della Lana fino al 6 gennaio 2019

al pubblico le due anime di Piero: raffinato pittore e grande matematico. Oltre a essere Maestro d’abaco, geometra euclideo, studioso di Archimede, l’artista è stato anche un innovatore nel

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secolo Jacopo Robusti, 15191594), la sua città natale ha elaborato un progetto espositivo che si articola in una rassegna monografica in Palazzo Ducale, centrata sul periodo piú fecondo della sua

Le attività economiche, gli stili di vita, le pratiche religiose, gli aspetti culturali e ludici di una città italiana tra il 1000 e il 1500 sono ricostruiti nella mostra allestita presso le Logge dei Tiratori della Lana. In esposizione figura una selezione ricca e articolata di

documenti: dalla lettera con cui la figlia di Marco Polo reclama in dote i beni che il padre ha portato dalla Cina a un trattato medico, impreziosito da figure anatomiche, per fornire consigli su come evitare la peste. Ma anche strumenti utili alla vita di tutti i giorni, dalle armi per difendere la città, ai banchi di commercio e delle attività economiche che si aprivano sulle piazze; e fino agli aspetti piú intimi della quotidianità: dalla dimensione religiosa al letto e alla tavola imbandita per i pasti, agli svaghi e alla musica di una società che sapeva anche gioire e divertirsi. info tel. 075 8682952; e-mail: loggedeitiratori@ fondazionecariperugiaarte.it; www.fondazionecariperugiaarte.it; www.festivaldelmedioevo.it VENEZIA PRINTING REVOLUTION 1450-1500 Museo Correr fino al 7 gennaio 2019

L’esposizione è il risultato di un grande progetto di ricerca europeo, il 15cBOOKTRADE, che usa i libri come fonte storica: basato all’Università di Oxford, alla British Library, a dicembre

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Venezia, e finanziato dal Consiglio Europeo delle Ricerche, applica le tecnologie digitali alle fonti storiche, ampliando la capacità di comprendere la rivoluzione della stampa. La ricerca ha riguardato 50mila di questi libri sparsi oggi tra 360 biblioteche europee e americane con la collaborazione di oltre 130 editor. Attraverso una decina di sezioni, l’esposizione mette in evidenza come nel 1500 in Europa ci fossero milioni di libri, non solo per le élite, come comunemente si ritiene, ma per «tutti», con una vasta produzione per la scuola. La rivoluzione della stampa è una delle colonne portanti dell’identità europea perché si è tradotta in alfabetizzazione diffusa, promozione del sapere, formazione di un patrimonio culturale comune. In quei primi decenni (dal 1450 al 1500) la stampa coincise con la sperimentazione e l’intraprendenza. I libri a stampa furono il prodotto di una nuova collaborazione tra diversi settori della società: sapere, tecnologia e commercio. Anche la Chiesa comprese immediatamente l’enorme potenzialità dell’invenzione e ne divenne precoce promotrice. Le idee si diffusero veloci come mai prima. Ora si è in grado di tracciarne la circolazione seguendo il movimento e l’uso dei libri stessi. Info Call center 848 082 000; e-mail: info@fmcvenezia.it, biblioteca@marciana.venezia.sbn.it; www.correr.visitmuve.it, www.marciana.venezia.sbn.it PARIGI LA NASCITA DELLA SCULTURA GOTICA. SAINT-DENIS, PARIGI, CHARTRES, 1135-1150

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collezione permanente del museo parigino, comprendono importanti prestiti da raccolte europee e statunitensi, nonché opere inedite, fra cui quelle recuperate grazie a recenti indagini archeologiche condotte nella stessa Saint-Denis. info musee-moyenage.fr NEW YORK ARMENIA! The Metropolitan Museum of Art fino al 13 gennaio 2019

Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 21 gennaio 2019 (prorogata)

È un quindicennio davvero cruciale, per la regione dell’Île-de-France, quello documentato dalla nuova mostra allestita al Museo di Cluny: nei grandi cantieri che sono oggetto dell’esposizione – Parigi, Saint-Denis e Chartres – vengono infatti sperimentate soluzioni nuove, che, pur affrancandosi dai canoni del romanico, non possono ancora dirsi pienamente gotiche. Quelle fabbriche tengono a battesimo uno stile embrionale, nel quale si fondono innovazioni tecnologiche e stilistiche. Sono i prodromi della scultura gotica che matura sulla scia dell’emulazione reciproca fra capomastri, scultori e committenti: se, per esempio, l’introduzione dei portali con statue che fungono al tempo stesso da colonne si deve agli scultori che lavorano alla chiesa abbaziale di Saint-Denis, il modello raggiunge la sua piena completezza a Chartres. Nel percorso espositivo che ricostruisce questo fenomeno si succedono poco meno di 150 opere che, oltre a materiali facenti parte della

«Armenia!» si annuncia come uno degli eventi di punta del Metropolitan Museum di New York per la prossima stagione. L’esposizione ripercorre la storia del popolo armeno dal momento della loro conversione al cristianesimo – agli inizi del IV secolo – fino all’epoca in cui ebbero un ruolo di primo piano nel

controllo dei traffici commerciali internazionali, nel XVII secolo. Obiettivo dei curatori della rassegna è quello di sottolineare come gli Armeni abbiano sviluppato una ben definita identità nazionale nella loro madrepatria, ai piedi del Monte Ararat, e come siano stati capaci di conservare e trasformare quelle peculiarità anche quando hanno dato vita

alle numerose comunità che si sono insediate in molte regioni del mondo. A tale scopo viene presentata una selezione di poco meno di 150 oggetti e opere d’arte, che comprende reliquiari, manoscritti miniati, tessuti, preziose suppellettili sacre, khachkar (le tipiche croci in pietra), modellini di chiese e libri. Materiali che, per la maggior parte, sono giunti a New York grazie ai prestiti accordati dal Ministero della Cultura della Repubblica d’Armenia e dalla Chiesa armena, in particolare attraverso la Santa Sede di Echmiadzin. Un contributo essenziale si deve anche al Matenadaran, la biblioteca che ha sede a Yerevan, che ha concesso al museo newyorchese alcune delle opere grazie alle quali l’istituzione viene riconosciuta

come un autentico santuario dei manoscritti antichi. info www.metmuseum.org FIRENZE L’ACQUA MICROSCOPIO DELLA NATURA. IL CODICE LEICESTER DI LEONARDO DA VINCI Gallerie degli Uffizi, Aula Magliabechiana fino al 20 gennaio 2019

Nel Codice Leicester Leonardo da Vinci afferma che è proprio

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AGENDA DEL MESE l’acqua a svolgere e aver svolto da sempre la funzione di motore vero e proprio dell’evoluzione del pianeta: «L’acqua vetturale della natura». Tutto il manoscritto, 36 fogli, 72 pagine, è fitto di appunti, riflessioni, teorie e straordinari disegni per illustrarci i concetti esposti, e la protagonista indiscussa del prezioso testo, acquistato nel 1994 da Bill Gates, è l’acqua. La preziosa opera viene ora esposta a Firenze, a coronamento di un progetto che ha richiesto oltre due anni di preparazione e che presenta apparati tecnologici grazie ai quali è possibile consultare non soltanto il codice leonardesco, ma anche altri preziosi fogli vinciani. Oltre alle teche che espongono le pagine originali dei Codici e altri manoscritti preziosissimi, prestati per l’occasione da altre prestigiose istituzioni, grandi pannelli e schermi digitali narrano, anche con animazioni, del volo degli uccelli, dello scorrere dell’acqua dei fiumi e del moto ondoso dai mari, degli effetti delle maree, della luna, delle gocce d’acqua e delle bolle di sapone, del principio della costanza di flusso uguale sia nella confluenza di due fiumi che nell’organizzazione e funzionamento della circolazione sanguigna nell’uomo, del progetto avveniristico del canale navigabile sull’Arno da Firenze al mare, delle macchine per realizzarlo, per azionare una grande gru, per misurare le grandi distanze sul terreno. info www.uffizi.it TORINO LA SINDONE E LA SUA IMMAGINE Palazzo Madama, Corte Medievale fino al 21 gennaio 2019

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Realizzata in occasione della riapertura della restaurata Cappella della Sindone, opera di Guarino Guarini, la mostra è allestita nella Corte Medievale di Palazzo Madama, suggestivo ambiente fatto edificare da Cristina di Francia nel 1636, dove, sulla parete di fondo, è ben visibile un affresco raffigurante l’Ostensione della Sindone organizzata nel 1642 per celebrare la fine delle ostilità tra la stessa Madama Reale, reggente per il figlio Carlo Emanuele II, e i suoi cognati, il principe Tommaso e il cardinale Maurizio. Il percorso espositivo ripercorre la storia della Sindone e le diverse funzioni delle immagini che l’hanno riprodotta nel corso di cinque secoli, da quando il Sacro Lino fu trasferito da Chambéry a Torino nel 1578, per volere di Emanuele Filiberto di Savoia, fino a oggi. info tel. 011 4433501; e-mail: palazzomadama@ fondazionetorinomusei.it; www.palazzomadamatorino.it

famiglie e delle loro città; una storia, quella di Giovanni Bellini (attivo tra il 1459-1516 circa) e Andrea Mantegna (1430/1-1506), intrecciata di arte, famiglia, rivalità, matrimonio, pragmatismo e personalità. Grazie a prestiti rari ed eccezionali di dipinti, disegni e sculture, Mantegna e Bellini offre un’occasione

unica per confrontare le opere dei due maestri, che erano anche cognati: una connessione familiare dalla quale entrambi hanno tratto la forza e la lucentezza durante la loro carriera. Senza l’altro artista, non sarebbero esistiti né la carriera né lo sviluppo di entrambi e senza queste opere permeate con la loro creatività e innovazione, non sarebbe esistita l’arte rinascimentale come la conosciamo oggi, quella dei personaggi del calibro di Tiziano, Caravaggio e Veronese. Mantegna e Bellini lavorano per sette anni mantenendo uno stretto dialogo creativo; sarà questo ciò che i visitatori della mostra saranno in grado di osservare in prima persona attraverso i raggruppamenti chiave dei soggetti rappresentati da entrambi gli artisti. Ispirati dall’esempio dell’altro, entrambi sperimentano e

LONDRA MANTEGNA E BELLINI National Gallery, Sainsbury Wing fino al 27 gennaio 2019

La National Gallery presenta la storia di due artisti, delle loro dicembre

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lavorano in modi con cui non erano del tutto familiari allo scopo di affinare le loro capacità artistiche e le identità. Mentre Mantegna esemplifica l’artista intellettuale, Bellini è l’archetipo del pittore paesaggista, il primo che utilizza il mondo naturale per trasmettere emozioni. info www.nationalgallery.org.uk MILANO TABULA PICTA. DIPINTI TRA TARDOGOTICO E RINASCIMENTO Galleria Salamon fino al 1° febbraio 2019

Da sempre oggetto di un amore appassionato da parte dei collezionisti, i «fondi oro» sono protagonisti della nuova mostra presentata dalla Galleria Salamon, in Palazzo Cicogna, a Milano. Attraverso 15 dipinti su tavola, tutti databili tra l’ultimo quarto del Trecento e l’inizio del Cinquecento, viene proposto un percorso che si snoda lungo l’intera Penisola e che parte dal Lazio e dalle Marche,

e attraversando la Toscana, approda nel nord-est, senza tralasciare la Lombardia. Le tavole documentano un’Italia chiaramente di territori, in cui tutti gli artisti cercano di parlare una stessa lingua pur con inflessioni e sostrati originali e diversi. Ne risulta un importante confronto fra civiltà, che percorrere l’intero Quattrocento: un’epoca che, come sosteneva Roberto Longhi, non vede l’irradiazione di una temperie formale da un «centro» verso tante «periferie» come accade per esempio in Francia nello stesso periodo, quanto piuttosto la simultanea espressione di lingue differenti. Ciascuna delle 15 tavole rappresenta un capitolo mai secondario della storia dell’arte nell’Italia del Quattrocento. info tel. 02 76024638; e-mail: info@salamongallery.com; https://salamongallery.com/ MACERATA LORENZO LOTTO IL RICHIAMO DELLE MARCHE Palazzo Buonaccorsi, Musei Civici di Macerata fino al 10 febbraio 2019

Lorenzo Lotto torna protagonista nelle Marche, sua terra d’elezione. A Macerata, le sale del settecentesco Palazzo Buonaccorsi, sede del Museo Civico, ospitano una rassegna che riunisce per la prima volta le opere create per il territorio e poi disperse nel mondo o quelle che, per storia e realizzazione, hanno avuto forti legami con le Marche. Un’esposizione di ricerca, per certi versi sperimentale nell’abbinare forza espositiva, supporti multimediali, grandi capolavori ma anche spunti di ricerca e discussione critica. Una mostra preziosa, che rivela inediti materiali

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documentari sull’attività dell’artista e opere mai esposte in precedenti eventi – tra tutti una Venere adornata dalle Grazie di collezione privata, pubblicata da Zampetti nel 1957 e rimasta all’oscuro per sette decenni –, ma che si completa necessariamente nel territorio marchigiano, ponendosi in stretto dialogo con i lavori lotteschi (25 opere) disseminati nei diversi centri e volutamente lasciati nei siti di appartenenza. Ancona, Cingoli, Jesi, Loreto, Mogliano, Monte San Giusto, Recanati e Urbino danno forma con Macerata a una sorta di mostra diffusa, da vivere insieme alle bellezze artistiche e naturali delle Marche: regione ferita purtroppo dall’ultimo drammatico sisma che ha colpito il Centro Italia, ma che tenacemente sta puntando a valorizzare il suo immenso patrimonio. info biglietteria di Palazzo Buonaccorsi: tel. 0733 256361; e-mail: info@maceratamusei.it, macerata@sistemamuseo.it; www.mostralottomarche.it, www.maceratamusei.it, www.sistemamuseo.it TORINO SFUMATURE DI TERRA CERAMICHE CINESI DAL X AL XV SECOLO MAO-Museo d’Arte Orientale fino al 10 febbraio 2019

Le preziose ceramiche cinesi selezionate per la nuova mostra presentata dal MAO coprono un arco temporale di cinque secoli. Si tratta perlopiú di eleganti pezzi monocromi databili tra la dinastia Song (960-1279) e la dinastia Yuan (1271-1368), esemplificativi delle produzioni delle maggiori fornaci del periodo. Opere, che, secondo il gusto estetico di quasi tutti gli intenditori e i collezionisti, rappresentano il massimo grado di raffinatezza mai raggiunto dall’arte ceramica in Cina. Al tempo dei

Song vennero perfezionati i processi tecnologici di una delle piú grandi tradizioni ceramiche al mondo. I risultati furono dei manufatti di grande raffinatezza nella forma, piacevolezza tattile della superficie invetriata, consistenza e brillantezza di colori senza precedenti. info tel. 011 4436927; e-mail: mao@fondazionetorinomusei.it; www.maotorino.it; pagina Facebook MAO. Museo d’Arte Orientale LONDRA REGNI ANGLO-SASSONI: L’ARTE, LA PAROLA, LA GUERRA British Library fino al 19 febbraio 2019

La mostra dà voce alle genti anglosassoni attraverso le testimonianze letterarie che di esse ci sono pervenute e che

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AGENDA DEL MESE dunque abbracciano un periodo compreso tra la fine della Britannia romana e la conquista normanna dell’isola. Per farlo, la British Library ha riunito una selezione di opere di grandissimo pregio, attingendo ai propri fondi e grazie a prestiti eccezionali. Fra gli altri, si possono cosí ammirare i Vangeli di Lindisfarne, il Beowulf e l’Historia ecclesiastica gentis Anglorum scritta da Beda il Venerabile, ai quali sono

affiancati reperti provenienti dal sito di Sutton Hoo e manufatti facenti parte del Tesoro dello Staffordshire. Da segnalare anche la presenza del Vercelli Book, un manoscritto redatto in uno scriptorium verso la fine del X secolo, che costituisce una testimonianza fondamentale della produzione poetica in antico inglese. info www.bl.uk PARIGI MAGICI UNICORNI Musée de Cluny-Musée national du Moyen Âge fino al 25 febbraio 2019

L’esposizione che segna la riapertura del Museo di Cluny-Museo Nazionale del Medioevo prende le mosse

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dagli arazzi del ciclo della Dama e l’unicorno, capolavori della raccolta parigina. Eseguiti intorno al 1500, sono una prova dell’importanza attribuita alla leggendaria creatura nei secoli del Medioevo. Animale «magico» – nell’età di Mezzo era diffusa la convinzione che il suo corno fosse in grado di accertare la presenza di veleni e dunque purificare i liquidi – l’unicorno era al tempo stesso simbolo di castità e d’innocenza. Vari manoscritti miniati ricordano inoltre la tradizione secondo la quale solo giovani vergini potevano avvicinare gli unicorni. A queste testimonianze fa da corollario la documentazione della fortuna moderna del tema, di cui sono prova, per esempio, i costumi disegnati per il balletto La dama e l’unicorno di Jean Cocteau. info musee-moyenage.fr FAENZA AZTECHI, MAYA, INCA E LE CULTURE DELL’ANTICA AMERICA MIC-Museo Internazionale della Ceramica fino al 28 aprile 2019

Nell’affrontare il vasto e articolato universo delle civiltà precolombiane, la rassegna si concentra soprattutto sulla Mesoamerica e sull’area peruviana. E lo fa attingendo

alle notevoli collezioni del MIC, perlopiú con pezzi custoditi nei suoi depositi e finora mai esposti al pubblico. Completano il percorso espositivo reperti selezionatissimi, concessi in prestito dai piú importanti musei e raccolte italiane. Protagonisti principali della mostra sono gli Aztechi, ai quali si deve la creazione del piú potente impero della Mesoamerica, e che stupirono i conquistadores per il livello della loro organizzazione sociale, non dissimile da quella dell’Europa del tempo, pur in presenza di aspetti, come il cannibalismo e i sacrifici umani, inaccettabili per i nuovi arrivati. Poi i Maya, del Periodo Classico, capaci di elaborare sistemi calendariali raffinatissimi e una scrittura

logo-sillabica che è stata decifrata solo negli ultimi decenni. E infine gli Inca, che costruirono il piú grande impero di tutto il Nuovo Mondo. Con un’organizzazione sociale che ha spinto alcuni studiosi a parlare di «socialismo». info www.micfaenza.org GUBBIO TESORI RITROVATI. RESTAURI PER «GUBBIO AL TEMPO DI GIOTTO» Palazzo dei Consoli fino al 1° maggio 2019

La mostra «Gubbio al tempo di Giotto» (vedi «Medioevo» n.

260, settembre 2017) ha restituito alla comunità una serie di opere restaurate, che, di fatto, rappresentano il nucleo piú consistente dell’intero patrimonio museale cittadino d’epoca medievale. Questa operazione ha permesso di realizzare un nuovo progetto espositivo «Tesori ritrovati. Restauri per “Gubbio al tempo di Giotto”», dedicato ai restauri e ai recuperi e quindi ai confronti possibili tra opere e maestri, tra materiali e tecniche

esecutive, tra forme e funzioni del prodotto artistico in un percorso che si dipana tra XIII e XIV secolo, nell’età d’oro di Gubbio e del suo vasto contado. Vengono dunque presentate molte delle opere recentemente restaurate: come le due grandi croci dipinte del Museo Civico di Gubbio, le opere del Maestro della Croce di Gubbio, del Maestro espressionista di Santa Chiara, di Pietro Lorenzetti, del cosiddetto «Guiducci Palmerucci» e di Mello da Gubbio. info tel. 075 9274298; e-mail: museo@gubbiocm.it dicembre

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DICEMBRE 533

Fine di un regno

di Federico Canaccini

Il nemico era almeno tre volte piú numeroso, ma la fortuna non si schierò dalla sua parte. Fu, invece, «il valore dell’anima» – come ricorda lo storico Procopio di Cesarea – a sorreggere le truppe comandate da Belisario, il leggendario generale dell’imperatore Giustiniano. Che a Tricameron, in Nord Africa, sconfisse la minaccia dei Vandali. Una volta per sempre…

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el 527, quando al trono di Costantinopoli salí il giovane imperatore Giustiniano (482-565), si apriva per l’impero d’Oriente una delle pagine piú intense, se non la piú intensa, della sua storia. Guidato anche dall’abilità della moglie Teodora, giovane donna di bassa estrazione sociale ma di grande intelligenza e dalle spiccatissime capacità politiche, il sovrano riuscí a realizzare – anche se per poco tempo – il sogno di una restaurazione dell’antico impero romano, il dominatore del Mare nostrum. Dopo avere riorganizzato il diritto romano, con l’enorme sforzo di risistemare migliaia di leggi e cavilli nel Corpus iuris civilis, curato dal Questor sacri palatii Treboniano, con l’ausilio di dieci giureconsulti, l’imperatore fece Xilografia ottocentesca nella quale si immagina il re vandalo Gelimero in preda alla disperazione nel vedere il suo regno cadere sotto i colpi del generale bizantino Belisario.

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battaglie tricameron A destra Ravenna, S. Vitale. Particolare della decorazione musiva della parete settentrionale dell’abside raffigurante il generale Belisario (primo da destra, con la barba). 540-547. Nella pagina accanto solido aureo di Giustiniano emesso dalla Zecca di Costantinopoli. 527-565.

edificare migliaia di fortificazioni sul limes, a partire da quello balcanico posto sul corso del Danubio. E solo a questo punto, una volta ripristinato l’ordine interno, si dedicò alla politica estera. La prima spedizione militare che Giustiniano volle affrontare fu quella contro i Persiani sasanidi di Kavad, che nei decenni precedenti si erano espansi ai danni dell’impero bizantino. Con l’aiuto degli Eftaliti, i cosiddetti Unni bianchi, l’imperatore Kavad si era già impadronito di Teodosiopoli (502) e di Amida (503). Giustiniano affidò il compito di fermarne l’avanzata al giovane generale Belisario, che aveva allora appena 24 anni: questi seppe distinguersi per abilità tattiche e, pur in inferiorità numerica, ebbe ragione del nemico nella battaglia di Dara (530). Con Kavad in fuga, Belisario ricevette il titolo di Magister militum per la zona orientale e quando, due anni dopo la disfatta di Dara, il successore del sovrano sasanide – che nel 532 aveva comunque sconfitto Belisario a Callinicum (oggi Raqqa, in Siria) – firmò una «pace perpetua» con Giustiniano (che in realtà durò meno di dieci anni), l’imperatore volle inviare il suo generale contro un altro nemico: i Vandali.

Il casus belli

Con lo stesso esercito con cui aveva sconfitto i Persiani, Giustiniano preparò la spedizione contro il Nord Africa. Il casus belli fu una lotta interna al regno vandalo, posto nell’attuale Tunisia: il re Ilderico, infatti, era vassallo di Giustiniano, ma era stato detronizzato da Gelimero e la sua richiesta di aiuto divenne appunto il pretesto per l’invasione del regno vandalo. Belisario partí da Costantinopoli con una flotta composta da circa 500 imbarcazioni per il trasporto delle truppe, seguite da 92 navi da guerra e attraccò in Sicilia, in attesa degli eventi: le sue spie erano state inviate lungo le coste del Mediterraneo per conoscere gli spostamenti della flotta vandala, impegnata a reprimere una rivolta in Sardegna, istigata dallo stesso Giustiniano. Con queste favorevoli condizioni, il generale bizantino salpò dalla Sicilia ai primi di settembre del 533, attraccando a Caput Vada (l’attuale Ras Kapoudia, in Tunisia)

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e facendo sbarcare un esercito di 10 000 fanti e 5000 cavalieri 200 km a sud di Capo Bon, tra Thapsus e Taparura. Una volta edificato un accampamento fortificato, Belisario inviò nelle città molti messaggeri con l’annuncio che l’esercito non era sbarcato per punire la popolazione, ma solo per catturare il sedicente re Gelimero e giustiziarlo. La strategia funzionò e Belisario condusse le sue truppe, marciando indisturbato lungo la via basolata che attraversava l’Africa costiera, collegando le antiche province di Bizacena, Numidia, Tripolitania e Mauritania: primo obiettivo era prendere Cartagine. Belisario inviò il conte Giovanni in avanscoperta, con un contingente di 300 cavalieri: 600 cavalieri foederati di origine unna proteggevano il fianco sinistro dell’armata principale, mentre il fianco destro era coperto dalla flotta, che fiancheggiava la marcia delle truppe. Il conte dicembre

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belisario

L’uomo forte di Giustiniano Sulle origini di Belisario le opinioni divergono: c’è chi lo vuole oriundo della Tracia, chi addirittura germanico. Sarebbe infatti nato a Germana nella Dacia Mediterranea (oggi Sapareva Banja, in Bulgaria), da una famiglia di Traci romanizzati. La sua biografia è ricavabile dagli scritti del suo segretario, lo storico Procopio di Cesarea, che fu anche suo consigliere. La principale opera di Procopio è infatti dedicata alla Storia delle guerre di Giustiniano, il quale inviò Belisario, già membro del gruppo di guardie del magister militum, contro Persiani, Vandali e Goti, per recuperare il controllo sul Mediterraneo e fortificare i confini dell’impero dopo le trasformazioni seguite all’arrivo dei barbari. Il generale combatté contro il regno persiano (529-530), da cui rientrò per reprimere la rivolta di Nika («Vinci!»), esplosa nel 532 contro le pesanti tasse imposte da Giustiniano. Dopo molti scontri l’imperatore fu deposto e i rivoltosi elessero Ipazio. Nonostante il caos, Giustiniano e Teodora rimasero in città e proprio le truppe guidate da Belisario e Mundo ricacciarono nell’ippodromo i facinorosi, che furono giustiziati. Una volta riportato l’ordine, il generale poté partire per una nuova spedizione: fu impegnato nella guerra contro i Vandali che piegò nel giro di due anni (533-534), ponendo fine al loro regno. Forte del successo, Belisario si coprí di gloria e Giustiniano lo inviò sul fronte italico, con la speranza di recuperare Roma e la Penisola, che da decenni era sotto il dominio ostrogoto. Belisario ottenne rapidi successi, ma poi la resistenza gotica si rivelò piú dura del previsto: dopo ben sei anni di campagne (535-540), il generale fu costretto a tornare sul fronte mesopotamico, per poi riprendere la lotta contro i Goti nel 544. Dopo altri cinque anni di guerra con alterne vittorie, Belisario fu sostituito nel 551 dal generale Narsete, il quale, con una campagna di soli tre anni, pose fine al regno ostrogoto, uccidendo l’ultimo re, Teia. L’astro di Belisario, nel frattempo, si era ormai eclissato. Nel Medioevo, a partire dal 1100, ebbe un certo successo una leggenda – smentita però da molti storici – secondo la quale Giustiniano lo avrebbe fatto addirittura accecare, con un’accusa di tradimento, riducendolo in miseria a chiedere l’elemosina per le vie della capitale. Nonostante i successi ottenuti, l’anziano generale venne messo da parte, al punto che divenne quasi proverbiale evocare il nome di Belisario quando si voleva condannare l’ingratitudine di un sovrano nei confronti di un proprio fedele servitore.

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Giovanni giunse in località Ad decimum il 13 settembre del 532: appena 10 miglia lo separavano da Cartagine. Alla notizia dell’approssimarsi dei Bizantini, l’usurpatore Gelimero passò a fil di spada Ilderico e i suoi parenti piú prossimi, preparandosi alla battaglia: ordinò a suo fratello Ammato di attaccare – con il contingente di stanza in Cartagine – la carovana bizantina, assalendo l’avanguardia del conte Giovanni, mentre lui stesso avrebbe attaccato dalle retrovie col grosso dell’esercito vandalo. Infine, il nipote Gibamundo avrebbe dovuto operare una manovra di accerchiamento e, scendendo dalle colline, attaccare sul fianco sinistro i Bizantini in marcia. Il piano era ben architettato, ma per funzionare, avrebbe richiesto il perfetto coordinamento fra tre colonne, cosa quasi impossibile, se consideriamo le distanze e la difficoltà di comunicazione tra i reparti. Lo stesso 13 settembre, infatti, Ammato lasciò Cartagine per andare incontro al nemico, ben prima che Gelimero e Gibamundo fossero in posizione. L’attacco fu cosí neutralizzato, Ammato venne ferito mortalmente e i suoi uomini, presi dal panico, si diedero ben presto alla fuga. Ignari dell’accaduto, i soldati guidati da Gibamundo si riversarono a seguire l’attacco frontale, e furono cosí annientati dalla colonna unna.

Gelimero sospende le operazioni

Restava l’armata vandala guidata da Gelimero in persona, che aveva condotto le proprie truppe per le colline, con l’obiettivo di spuntare alle spalle del nemico: anziché trovare davanti a sé la retroguardia, come aveva immaginato, il re vandalo si scontrò direttamente con il fronte dell’esercito bizantino, se non altro sguarnito della colonna del conte Giovanni, che già si era dato

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battaglie tricameron al saccheggio di Cartagine. L’azione di Gelimero stava avendo successo e i Bizantini venivano ricacciati sempre piú indietro, quando – secondo la tradizione – il re vandalo ricevette la notizia della morte del fratello: Gelimero fermò le proprie truppe e non fece proseguire l’inseguimento del nemico, che forse gli avrebbe dato la vittoria, per dare degna sepoltura ad Ammato. Belisario ne approfittò per raggruppare le proprie milizie, riordinarle e contrattaccare, avendo finalmente ragione dei Vandali, e ottenendo l’accesso in Cartagine. Il 15 settembre Belisario entrava in città, mentre Gelimero inviava una richiesta di soccorso all’altro fratello, Zazo, a capo della flotta di stanza in Sardegna. La sconfitta avrebbe significato la perdita definitiva del regno vandalo in Africa, inaugurato nel 429 dall’intraprendente Genserico. Forte delle milizie condotte dal fratello, Gelimero marciò contro Cartagine, che nel frattempo i Bizantini avevano preparato per resistere a un assedio. Quando giunse a circa 18 miglia dalla città, presso il piccolo villaggio di Tricameron, il re ordinò al

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I Vandali

Dal Nord Europa all’Africa Il popolo che diciamo vandalo, era composto da diverse tribú germaniche situate oltre il Danubio. Tacito, ne La Germania, opera databile al I secolo d.C., li poneva oltre il limes, sulla riva meridionale del Baltico, assieme ai Marsi, ai Gambrivi e agli Suebi. Venivano distinti tra Lacringi, Silingi e Asdingi, stanziati sul corso superiore del fiume Meno e in Pannonia dove, tra il III e il IV secolo, dovettero convertirsi all’arianesimo. Paolo Diacono, invece, nella sua Storia dei Longobardi, composta nel IX secolo, ci informa che, verso il IV secolo, dopo una migrazione dei Longobardi dalla Scandinavia alla Scoringia (Polonia), i Vandali guerreggiavano con i popoli vicini. Paolo Diacono scrive infatti che «partiti dalla Scandinavia, i Winili, sotto la guida di Ibore e Aione, giunti in una zona chiamata Scoringa, vi si fermarono per

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ostrogoto aveva costruito il suo solido dominio anche grazie ad abili alleanze e a un’altrettanto accorta politica matrimoniale con altri re barbari. A destra, al centro la situazione all’indomani dei successi riportati da Giustiniano contro i Vandali (533-534) e nella guerra greco-gotica (535-553).

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Nella pagina accanto mosaico raffigurante un cavaliere vandalo, da Cartagine. V-VI sec. Londra, British Museum. L’abbigliamento, di fattura tipicamente germanica, suggerisce che si tratti di un membro dell’aristocrazia. A destra, in alto l’assetto geopolitico dell’Europa alla morte di Teodorico. Il sovrano

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alcuni anni. A quel tempo Ambri e Assi, condottieri dei Vandali, incalzano con la guerra tutte le province vicine. Imbaldanziti dalle molte vittorie, inviano messaggeri ai Winili: che paghino i tributi ai Vandali o si preparino alla guerra». Forse nel 406, i gruppi piú riottosi di queste tribú, avrebbero attraversato il Reno poco lontano da Magonza, guidati da Gunderico e, dopo aver raso al suolo la città, avrebbero invaso la Gallia assieme a Suebi e Alani. Dopo tre anni di marce e saccheggi, li ritroviamo già presso i Pirenei, superati i quali, indussero l’imperatore d’Occidente a chiedere aiuto ai piú fidati Visigoti contro di loro. Negli anni seguenti il popolo vandalo fu impegnato in Spagna a fronteggiare le tribú barbare rivali, i possidenti romano-ispanici e le truppe visigote filo-romane, che li avrebbero rintuzzati nel Sud della penisola iberica. Nel 420 i Vandali riportano un’importante vittoria contro l’esercito goto-romano capitanato da Castino, assicurandosi il dominio sui porti della Spagna meridionale. Dopo aver assunto costruttori di navi locali, i Vandali iniziarono a praticare la navigazione «arte a loro precedentemente sconosciuta», raggiungendo ben presto le Baleari, nonché la Mauritania. E fu verso le terre oltre lo stretto di Gibilterra che il nuovo re Genserico volse le attenzioni dei Vandali, avendo compreso che la convivenza con i Visigoti in Spagna non sarebbe stata né facile, né pacifica. Nel 429 l’intero popolo vandalo, ammontante a 50 000 uomini circa, di cui almeno 15 000 armati, attraversò i pochi chilometri dello stretto di Gibilterra, riversandosi in Mauritania, dove la resistenza bizantina si sciolse come neve al sole: nasceva il regno dei Vandali. Nel 442 tutta l’Africa romana, sino alla Tripolitania, era sottomessa all’intraprendente Genserico, che costrinse l’imperatore Valentiniano III a riconoscere i Vandali come foederati. La flotta vandala dominò il Mediterraneo per piú di un secolo, giungendo – nel 455 – persino a saccheggiare Roma. Sotto Cartagine ricadevano la Sicilia, la Sardegna, la Corsica e le Baleari. Solo Belisario, nel 534, riuscí a piegare il temibile popolo vandalo il cui nome, ancora oggi, evoca scorrerie e devastazioni.

Sicilia Cartagine

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I RE VANDALI (ANNI DI REGNO) A destra moneta in argento del re vandalo Gelimero. Zecca di Cartagine, 530 circa.

Godigisel ?-406 Gunderico 406-428 Genserico 428-477 Unerico 477-484

Gutemondo 484-496 Trasamondo 496-523 Ilderico 523-530 Gelimero 530-534

Denario in argento di Ilderico. 525-530.

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battaglie tricameron LE FASI DELLA BATTAGLIA B

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A. La cavalleria vandala di Gelimero muove dal proprio campo fortificato (1) e si scontra con un reparto guidato dal conte Giovanni (2) che sta preparando il proprio pasto. Inspiegabilmente, Gelimero lascia che il nemico possa riorganizzarsi e montare a cavallo, mentre Giovanni invia un messaggero a Belisario chiedendo rinforzi (3). C. Il conte Giovanni ordina la carica, superando il torrentello che divide gli schieramenti (1). I Vandali respingono gli assalitori, obbligandoli a tornare sulle proprie posizioni di partenza (2). I Bizantini si raggruppano e si preparano a un secondo assalto. Belisario raggiunge il campo di battaglia con un reparto di cavalleria (3), contando sul fatto che la fanteria bizantina lo raggiunga al piú presto.

B. Il conte Giovanni divide le proprie forze in tre divisioni e Gelimero imita la mossa, affidando il comando del centro dello schieramento vandalo a Zazo. Inoltre, ordina ai suoi di deporre archi e frecce e di prepararsi al combattimento con la spada. D

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D. Dopo aver riunito nuovi rinforzi, il conte Giovanni lancia un terzo attacco (1). Zazo viene ucciso nella mischia (2) e il centro dei Vandali batte in ritirata (3). F. I Bizantini accerchiano il campo nemico (1) e Gelimero, in preda al panico, abbandona la propria posizione (2) e la cavalleria vandala lo segue (3), mentre i Bizantini irrompono nell’accampamento e lo devastano, abbandonando qualsiasi disposizione tattica. E la rotta dei Vandali salva Belisario da un contrattacco che avrebbe facilmente avuto la meglio. F

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E. Raggiunto il cuore dell’azione, Belisario ordina alle due divisioni che gli restano di attaccare a fondo (1). Lo schieramento vandalo comincia a sgretolarsi al centro e cerca rifugio nel proprio campo fortificato (2), seguito da vicino dalla cavalleria unna (3). Belisario ordina di interrompere l’inseguimento per attendere l’arrivo della fanteria bizantina (4) prima di attaccare le posizioni dei Vandali.

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Incisione ottocentesca raffigurante il re vandalo Gelimero che si prostra davanti all’imperatore Giustiniano, dopo essersi arreso all’indomani delle sconfitte subite per mano di Belisario.

proprio esercito di accamparsi: inviò soldati al capo unno, sapendo di loro attriti col generale bizantino, e gli offrí un’enorme ricompensa se avessero tradito in battaglia Belisario. Il giovane stratega venne però a sapere dell’abboccamento e offrí ancor di piú, pur di mantenere salda la fedeltà degli Unni che, a giochi fatti, non vennero meno alla parola data. Si era ormai prossimi a combattere la battaglia decisiva, quella che avrebbe stabilito la supremazia sul ricchissimo territorio dell’Africa, uno dei granai dell’impero. Fu probabilmente l’episodio intercorso tra Unni e Vandali che indusse Belisario a decidere di prendere l’iniziativa, temendo eventuali defezioni tra le proprie fila. Nonostante le truppe nemiche contassero un numero di uomini tre volte superiore, lo stratega bizantino preferí attaccare subito: si era ormai giunti alla metà di dicembre, e per Belisario temporeggiare avrebbe significato correre inutili rischi. Gelimero era riuscito a mettere in piedi un’armata poderosa, composta perlopiú da cavalieri, forte di 50 000 uomini circa. Belisario inviò il conte Giovanni a capo di un corpo di cavalleria di 4500 uomini, seguendolo il giorno successivo con la propria fanteria e un corpo di 500 cavalieri di riserva, che fece accampare poco lontano dai carriaggi di Gelimero.

Una scelta inspiegabile

L’indomani la giornata ebbe inizio in modo inaspettato: verso l’ora di pranzo Gelimero fece muovere le sue truppe, dirigendosi contro gli uomini del conte Giovanni, impegnati nel preparare il proprio pasto. Anziché cogliere l’occasione di un attacco a sorpresa, Gelimero lasciò inspiegabilmente che gli avversari montassero a cavallo, confidando forse troppo nella propria evidente superiorità numerica. Il conte Giovanni ebbe cosí il tempo di suddividere le proprie truppe in tre corpi, mentre un corriere attraversava il deserto per allertare Belisario dell’imminente battaglia: lo stratega mosse immediatamente la propria cavalleria, ordinando alla fanteria di raggiungerlo a marce forzate. Gelimero fece altrettanto, dividendo le proprie schiere in tre corpi, affidando il comando di quello centrale al fratello Zazo e ordinando ai soldati di mettere mano alla spada, dimenticando per una volta arco e frecce. La battaglia cominciò quando un piccolo contingente di cavalieri scelti al comando di Giovanni attraversò un ruscello che separava i contendenti e caricò il corpo guidato da Zazo per essere rapidamente ricacciato per due volte. Al terzo tentativo, il conte Giovanni ottenne finalmente qualche risultato in piú, forte di tutti i lancieri e della sua guardia del corpo:

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nella mischia, infatti, moriva lo stesso Zazo. Giunto sul campo, Belisario poté constatare le difficoltà in cui ormai versava il centro nemico e ordinò alle due ali di cavalleria rimaste di caricare a fondo, mentre lui stesso raggiungeva il conte Giovanni. Privo del centro, l’esercito vandalo iniziò a sbandare, incalzato dai cavalieri unni: quando il panico prese il sopravvento, i Vandali si diressero verso l’accampamento, in cerca di scampo. Lo stesso Gelimero aveva preso la via della fuga. La vittoria aveva arriso a Belisario che però frenò i propri uomini dall’inseguire il nemico, finché non giunsero le truppe appiedate. Arrivati i fanti, Belisario circondò il campo nemico e, mentre Gelimero fuggiva nel caos, i suoi uomini si lasciarono andare al saccheggio, perdendo coesione e forza offensiva: fu una fortuna per Belisario che l’enorme esercito di Gelimero si fosse ormai disgregato, perché, stando a Procopio di Cesarea, se i Vandali avessero contrattaccato, i Bizantini avrebbero certamente subito una cocente sconfitta. Ci vollero ancora tre mesi perché Gelimero, braccato dai nemici, cadesse nelle mani di Belisario: i suoi Vandali, sconfitti, vennero inquadrati come foederati nel nuovo esercito imperiale della provincia d’Africa, mentre l’ultimo re vandalo fu condotto in trionfo a Bisanzio, per finire i suoi giorni prigioniero in una regione interna dell’Asia Minore. F

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Quel dorato

di Federico Giannini

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La tecnica del «fondo oro», cosí caratterizzante la pittura italiana a cavallo tra il Tre e il Quattrocento, non fu solo l’esito di una scelta d’ordine estetico. Rappresentò, invece, un importante veicolo di significati simbolici. E tali da prolungare, fino alle soglie dell’età umanistica, sentimenti ed espressività religiose d’impronta bizantina

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n dipinto su tavola dell’artista fiorentino Ventura di Moro, databile attorno al 1425, è attualmente in mostra a Milano presso la Galleria Salamon. L’opera ci propone una scena esemplare della società del Basso Medioevo ed è per questo motivo a noi preziosa innanzitutto come documento. Vi è la Vergine con in grembo il Bambino, seduta su un trono dalle forme gotiche; a lei si rivolgono, genuflessi in preghiera, un padre col suo figliolo ancora fanciullo; piú indietro li accompagna, scortandoli, sant’Antonio Abate, descritto insieme al consueto maialino nero (vedi foto a p. 46). A rendere questo dipinto paradigmatico di una fase storica concorrono, tuttavia, soprattutto i dettagli: il trono della Vergine, con i pinnacoli e la cuspide triangolare, riecheggia un modello illustre a Firenze, qual era il Tabernacolo marmoreo della chiesa di Orsanmichele, realizzato da Andrea Orcagna alla metà del Trecento e divenuto da subito modello di eleganza nella rappresentazione di troni e strutture a edicola nella pittura fiorentina coeva.

La lunetta centrale dell’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano, raffigurante l’arrivo del corteo a Gerusalemme. 1423. Firenze, Gallerie degli Uffizi (per la descrizione e la riproduzione completa dell’opera, vedi alle pp. 48-49).

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Il culto di sant’Antonio, l’anacoreta egiziano vissuto tra il III e il IV secolo e noto come il fondatore del monachesimo cristiano, era propagato grazie alle opere assistenziali dell’ordine dei Canonici regolari di sant’Antonio di Vienne, un’istituzione monastico-militare confermata da Onorio III con la bolla del 1218 e che da allora si segnalava nelle città per l’assistenza ai malati negli ospedali, soprattutto in un’epoca segnata dal potere distruttivo delle pestilenze; qui, tuttavia, Antonio abate non veste l’abito degli Antoniani bensí quello dei Benedettini e, considerati i rapporti conflittuali tra i due ordini, impegnati in una secolare contesa dal momento dell’approvazione della Regola dei Canonici di Vienne, non si tratta di una circostanza trascurabile.

L’abito del fanciullo

Il dettaglio che risulta però decisivo per la comprensione storica di questo dipinto è che il fanciullo, accompagnato dal padre e prostrato ai piedi della Vergine, indossa lo stesso abito benedettino di sant’Antonio; il padre invece veste l’abito buono: una giornea color porpora che ne mette in risalto la ricchezza e il prestigio sociale. La differenza tra l’abbigliamento delle due figure suggerisce che il dipinto possa essere un ex voto, commissionato dal padre per l’inizio del noviziato del fanciullo che, verosimilmente, si qualifica come figlio cadetto. Nel Medioevo l’indivisibilità dei patrimoni familiari, che erano trasmessi dal padre al figlio primogenito, poneva il problema del sostentamento dei cadetti, spesso avviati alla carriera militare o alla vita monastica, per non costituire una minaccia agli averi del fratello maggiore. L’avvio al noviziato avveniva solitamente in tenera età ed era un momento particolarmente significativo nella vita di una famiglia, che, per preservare il patrimonio, si separava dai figli ancora fanciulli. Il

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Nella pagina accanto Madonna col Bambino in Trono con sant’Antonio Abate e due Donatori in Preghiera, tempera su tavola con fondo oro di Ventura di Moro. 1425-1430. Firenze, Già Collezione Charles Henry Coster.

dipinto quindi valeva al contempo come ex voto – il committente si fa raffigurare inginocchiato davanti alla Vergine per chiedere la protezione del suo nato da cui si dovrà per forza di cose allontanare –, ma anche come immagine da inserire in un ipotetico album dei ricordi, con oggetti o immagini a rievocare i momenti piú importanti della storia della famiglia. La presenza di sant’Antonio alle loro spalle si giustifica col fatto che si trattava molto verosimilmente del santo eponimo del bambino, a cui il padre indirizzava, al pari della Madonna, le preghiere per il proprio nato. La forma del trono della Madonna, cosí come l’abbigliamento del committente rimandano a modelli fiorentini e certificano l’appartenenza del dipinto a questa tradizione. Ma i richiami alla città e alla vita secolare si fermano qui: le figure si stagliano su un fondo in cui l’unica nota ambientale è la sottile linea di delimitazione fra terra e cielo, entrambi marcati dalla stesura della foglia d’oro per quasi tutta la superficie della tavola. In pratica, dunque, il momento di vita familiare viene trasposto in una sorta di sogno celeste; l’autorappresentazione della di-

Crocifisso dipinto attribuito a un ignoto artista toscano. 1150 circa. Pisa, chiesa di S. Frediano.

nastia supera la contingenza storica, che avrebbe presupposto un’ambientazione nelle vie della città, e si pone fuori dal tempo, quasi che il dipinto attestasse la certezza di padre e figlio di ritrovarsi nella gloria del paradiso, oltre i limiti angusti della realtà terrena.

Nature distinte

La tecnica del «fondo oro», che ebbe la maggiore fioritura nella pittura italiana tra il XIII e i primi decenni del XV secolo, in estrema sintesi mirava proprio a trasporre immagini di forme umane in un altro contesto, che trascendesse la verità dell’ambientazione per introdurre le figure nell’universo illusorio delle icone e piú in generale della religiosità di marca bizantina. Il fondo oro testimonierà dunque la persistenza, fin dentro la civiltà umanistica, dell’impostazione religiosa medievale, che vede natura umana e natura divina ben distanti tra loro, sebbene sincretizzate dalla figura miracolosa del Salvatore. Il fondo oro quindi è la tecnica che tra la fine del Trecento e la prima metà del Quattrocento, nei fogli dei codici miniati ovvero sui paliotti d’altare, meglio rappresenta quel fondamentale passaggio, già no-

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Palla Strozzi

Banchiere e mecenate Secondo il catasto fiorentino del 1427, l’uomo piú ricco della città era Palla di Onofrio Strozzi (13721462), proprietario del maggiore banco di Firenze ed erede di una dinastia che aveva accumulato un’enorme fortuna a partire dall’inizio del Trecento. Palla era un fine umanista, istruito nelle lettere latine e greche, amante dei codici antichi e grande mecenate d’arte. Ma era soprattutto personaggio di primo piano nella vita pubblica fiorentina, alleato di Rinaldo degli Albizzi ed espressione dunque dell’antica oligarchia, che deteneva il potere da oltre un secolo. Nel periodo in cui piccole e grandi corti in tutta Europa commissionavano opere che esaltavano la gloria dinastica delle famiglie regnanti, al punto che l’arte tardogotica viene comunemente indicata come arte «cortese», Palla comincia a coltivare il desiderio di essere rappresentato come una sorta di signore di Firenze, finanziatore delle imprese militari della Repubblica e patrono delle arti. Nel 1419, all’età di 48 anni, e dopo la morte del padre, decide dunque di predisporre la sepoltura della famiglia nella cappella gentilizia piú grande di Firenze, che fece edificare su progetto di Lorenzo Ghiberti, annessa al transetto della basilica di S. Trinita. Chiamò dunque, a eseguire la pala d’altare della cappella, il piú grande pittore italiano dell’epoca, Gentile da Fabriano, già attivo in Lombardia e a Venezia. L’Adorazione dei Magi, opera completata nel 1423, venne pagata a Gentile l’enorme somma di 150 fiorini, la piú alta mai erogata a un artista fino a quel punto. Il motivo non era solo il valore pittorico della pala, quanto piuttosto la quantità d’oro usata sia sulla tavola che sulla cornice. Gentile non si limitò a utilizzare il metallo prezioso negli abiti dei protagonisti o per i paramenti dei cavalli, ma talvolta dipinse direttamente sulla lamina per evidenziare la componente materica delle stoffe e la luminosità degli incarnati. In questa meravigliosa tavola, oggi conservata agli Uffizi, punto culminante del gotico internazionale in Italia, lo stesso Palla volle essere rappresentato: il suo ritratto compare frontale, accanto a quello del figlio Lorenzo, alle spalle del re piú giovane, a guidare idealmente il corteo che si snoda lungo tutta l’opera. Adorazione dei Magi, tempera su tavola con fondo oro di Gentile da Fabriano. 1423. Firenze, Gallerie degli Uffizi. L’opera è nota anche come Pala Strozzi.

to nelle pagine degli storici, come l’«Autunno del Medioevo». Nel I secolo d.C. Plinio il Vecchio, nella sua Naturalis Historia, lamentava il fatto che alla sua epoca fosse stata quasi totalmente dismessa la pittura su tavola, a vantaggio dell’affresco che richiedeva una preparazione piú sommaria. Eppure nella tarda classicità e poi nella tradizione bizantina non scomparve mai l’abitudine a dipin-

Particolare dell’Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano nel quale sono ritratti il committente dell’opera, Palla Strozzi, e suo figlio Lorenzo.

gere su supporti di legno. Sulle tavole si realizzavano infatti le icone, immagini di Cristo e della Vergine – piú avanti anche dei santi – desunte dai modelli rispettivamente del Mandylion di Edessa e della Madonna Odigitria («che indica la via») di Costantinopoli (distrutta dagli Ottomani nel 1453). Proprio l’immagine della Madonna, già conservata in S. Sofia, divenne capofila di una tradizione iconografica

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mostre fondi oro i cui primi documenti erano tutti attribuiti dalla devozione alla mano miracolosa di san Luca, primo pittore cristiano, unico artista cui secondo i testi spettò il privilegio di ritrarre Maria. Alcune di queste tavole, naturalmente celebri, come la cosiddetta Salus Populi Romani della basilica di S. Maria Maggiore a Roma o la Madonna del Conforto di S. Francesca Romana, in quanto opere di appurata provenienza orientale, rappresentano i momenti inaugurali piú significativi del rapporto millenario tra Roma e Bisanzio. Le tavole su cui venivano raffigurate le icone erano quasi sempre dorate, di modo che i colori risultassero piú luminosi e l’indole complessiva piú diradata e astratta. Il supporto dorato (la doratura non era applicata solo sulle tavole, ma anche sulle tele di lino) diven-

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ne una consuetudine nella pittura bizantina, e come tale venne trasmessa in Italia, nella fase in cui, all’inizio del XII secolo, anche nella Penisola, tornò in auge la pittura su supporti mobili.

Echi bizantini

Le antiche Croci conservate nella chiesa di S. Frediano a Pisa (vedi foto a p. 46) e nel monastero di Santa Maria a Rosano presso Firenze (ma il medesimo discorso vale per tante altre opere della stessa tipologia), entrambe databili entro il 1150, presentano una doratura uniforme su tutta la superficie, che si palesa con maggiore evidenza nelle cartelle laterali – rispetto al busto del Salvatore – con Scene cristologiche, dipinte con uno stile luminoso, che mutua i caratteri dalla miniatura bizantina della medesima fase.

Non stupisce, dunque, che la doratura delle tavole diventi argomento centrale della pittura pure nella trattatistica di tipo «tecnico» a partire dal famoso ricettario De diversis artibus del monaco tedesco Teofilo, una sorta di enciclopedia del sapere tecnico delle arti del XII secolo; Teofilo enunciava gli stratagemmi usati da vetrai, orefici e intagliatori di perle, ma, soprattutto, dedica il primo dei tre libri che costituiscono l’opera specificatamente alla pittura e alla miniatura. In quelle pagine venivano enunciate per la prima volta le regole della preparazione della tavola «a colla a spicchi», usata appunto nelle Croci della stessa epoca: la tavola veniva levigata e poi impregnata con vari strati di gesso e colla animale (ottenuta mettendo a bagnomaria il cascame della pelle di cervo e coniglio; gli spicchi

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erano appunto i ritagli del pellame) sui quali si applicava direttamente la lamina d’oro, senza l’utilizzo del bolo. Quest’ultimo, un’argilla rossa sciolta in acqua e bianco d’uovo, era pure prescritto nella trattatistica antica, e la rinuncia a esso nella doratura da parte di Teofilo bene indicava lo svilimento delle tecniche usate nelle arti a ridosso dell’anno Mille. Due secoli e mezzo piú tardi, allo scadere del Trecento, il pittore fiorentino Cennino Cennini attesta, con il suo Libro dell’arte, i progressi che si erano succeduti nel Basso Medioevo nella definizione delle tecniche: in particolare, alla doratura delle tavole sono dedicati dodici capitoli (dal 132 al 143). Cennini era stato allievo del pittore Agnolo Gaddi, figlio di Taddeo, a sua volta il piú longevo fra i discepoli di Giotto: con la consapevolezza dunque

In alto Il sogno di Innocenzo III, scena dal ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa. A sinistra Polittico di Badia, tempera su tavola di Giotto. 1300-1301. Firenze, Gallerie degli Uffzi. Scomparto centrale: Madonna col Bambino; elementi laterali, da sinistra: Santi Nicola di Bari, Giovanni Evangelista, Pietro e Benedetto; tondo della cuspide centrale: Cristo benedicente; tondi delle cuspidi laterali: Angeli.

di trovarsi, alla fine del secolo, a descrivere l’eccellenza di una tradizione che aveva attraversato tutto il Trecento, Cennini si dilunga nell’esporre il procedimento, a partire dalla scelta del legno (a suo dire era preferibile usare il pioppo o il tiglio). Dopo la levigatura e la copertura con strati di gesso caldo e colla, la tavola veniva rivestita di una tela grezza, sulla quale erano apposte ancora mani di gesso. A questo punto si procedeva a realizzare il disegno, a grafite o carboncino. Particolare attenzione veviva riservata ai nimbi o in generale alle zone in cui l’oro doveva essere trattato a punzo-

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mostre fondi oro l’arte dopo la peste del 1348

Una pittura fatta di auree simbologie Il libro di Meillard Meiss Painting in Florence and Siena after the Black Death, pubblicato nel 1951 e tradotto in italiano nel 1982 (Pittura a Firenze e Siena dopo la morte nera, Einaudi, Torino), propone uno dei punti di vista storicamente piú fortunati nelle ricerche sulla pittura italiana della seconda metà del Trecento. La tesi dello studioso – che fa partire la sua indagine da un’opera chiave come il polittico di Andrea di Cione (detto l’Orcagna), realizzato per la Cappella Strozzi nella chiesa fiorentina di S. Maria Novella –, è che la Peste Nera, con il suo carico apocalittico di morte e devastazione – si calcola che in Europa perse la vita circa il 30% dell’intera popolazione – avesse fatto maturare negli artisti la consapevolezza della necessità di sperimentare «nuove forme e nuovi contenuti». La razionalità dello spazio della pittura di Giotto presupponeva un’intrinseca fiducia nel senso di misura, e, di conseguenza, nelle scienze matematiche che rendevano possibile il calcolo prospettico. Quando la fiducia nelle possibilità umane viene meno – per l’impotenza nel non riuscire minimamente a contrastare il contagio – l’arte torna a una rappresentazione iconica e frontale della divinità, cui gli uomini rivolgono le

suppliche. Andrea e Nardo di Cione a Firenze diventano gli interpreti piú significativi di questo passaggio: nelle loro opere, come la famosa Pentecoste già sull’altar maggiore della chiesa dei Ss. Apostoli (foto in basso), l’oro su cui i personaggi raffigurati risultano giustapposti, occorre ad aumentare il senso di ieraticità e distanza rispetto all’osservatore. Le figure degli apostoli, che circondano a mandorla quella della Vergine, perdono il loro carattere individuale e storico, per assumere invece la consistenza di simboli della devozione. E il fondo dorato, lungi dal rappresentare un elemento decorativo, è invece la chiave di volta per la migrazione ideale della scena in un universo lontano dalle sventure umane.


ne o inciso. Si procedeva quindi alla stesura del bolo e poi alla «soffiatura» dell’oro, apposto in sottilissime foglie della grandezza di 8 cm circa in punta di pennello. La foglia veniva poi lavorata grazie a un brunitore, un pennello particolare che aveva come terminazione una sottile pietra d’agata. Una volta applicato il fondo – spesso limitato, considerato il costo, alle parti senza figure – si procedeva alla stesura del colore e a eventuali lavorazioni a rilievo o a punzone della lamina. La lunga lavorazione dunque, al pari del metallo prezioso, nobilitava le opere e metteva in risalto la ricchezza e il fasto della committenza. Ma se da un lato la fortuna di questa tecnica può essere ricondotta a un indubbio movente storico sociale, vi è anche una profonda e radicata ragione poetica a contraddistinguere la diffusione capillare del fondo oro, che, negli ultimi due secoli del Medioevo, diventa l’emblema dell’immaginario religioso nell’arte occidentale. Gli ultimi secoli del Medioevo

fanno registrare l’affermazione del ceto borghese cittadino e la nascita di un sistema bancario, con la progressiva emancipazione dell’usura da attività criminale a mestiere socialmente riconosciuto.

Per la salvezza dell’anima

L’usura restava un peccato capitale, ma in un contesto religioso in cui spesso si ricorreva alla vendita delle indulgenze, investire parte del patrimonio per il finanziamento di opere che esaltassero la gloria di Dio, di Maria e dei santi, poteva essere considerato un ottimo salvacondotto per l’anima. Le pale a fondo oro commissionate dai cittadini piú illustri, spesso per addobbare la propria

cappella funeraria – e l’esempio piú autorevole in questo senso resta la celebre Adorazione dei Magi di Gentile da Fabriano, voluta da Palla di Onofrio Strozzi (vedi alle pp. 48-49) – assolvevano quindi a una doppia funzione: da un lato erano significative della ricchezza e del prestigio del committente e dunque valevano come sponsor palese della sua autorevolezza nel contesto delle istituzioni cittadine. D’altro canto erano commissioni finalizzate alla salvezza dell’anima, opere congegnate per essere collocate sul sepolcro del patrocinatore e che quindi dovevano idealmente preservarne la memoria e le spoglie fino al giorno del giudizio. Da un lato, dunque, le prezio-

A sinistra Pentecoste, tempera e oro su tavola di Andrea Orcagna e del fratello Jacopo di Cione. 1362-1365. Firenze, Galleria dell’Accademia. A destra Madonna col Bambino fra i santi Francesco, Lorenzo, Girolamo e Giovanni Battista, tempera su tavola a fondo oro di Mariotto di Nardo. 1421-1424. Milano, Collezione privata.

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mostre fondi oro se tavole erano emblemi sociali completamente inseriti nel loro tempo; dall’altro erano fenomeni di resistenza del sentimento religioso medievale, ancora poco in sintonia con le dinamiche antropocentriche della società all’inizio del Rinascimento. Questa apparente incoerenza, che in realtà si scioglie in una mirabile sintonia d’intenti, si ripropone anche dal punto di vista stilistico e, piú in generale, nella concezione

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Madonna della Misericordia, tempera su tavola di Piero della Francesca. 1445-1462. Sansepolcro, Museo Civico.

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estetica prevalente nei secoli presi qui in esame. Alla fine del Duecento Giotto, sui ponteggi di Assisi, mostra come le scene dipinte potessero essere ambientate in contesti perfettamente reali e abitabili: la camera da letto in cui Isacco morente dà la sua benedizione a Giacobbe o la loggia in cui dorme Innocenzo III, sorvegliato da due servitori meditabondi, mentre in sogno gli appare Francesco a sorreggere la chiesa in rovina

(vedi foto a p. 51), sono spazi resi perfettamente in prospettiva, lontani da qualsiasi illusione incorporea di marca bizantina. Come sentenziò Cennini Giotto «rimutò l’arte del dipingere di greco in latino e ridusse al moderno». Il che, in altre parole, significava ricondurre la pittura all’hic et nunc dell’arte classica, sottraendola all’etereo mondo delle rappresentazioni orientali, che miravano sempre al simbolo e mai alla materia.

Visioni paradisiache

Le ambientazioni misurabili delle prospettive di Giotto tuttavia erano forse un passaggio troppo ardito per una civiltà intellettuale che si sarebbe riconosciuta come umanistica solo un secolo piú tardi. Ecco dunque che le pale a fondo oro occorrevano per ricondurre la terza dimensione dei chiaroscuri giotteschi in un universo formale accettabile per l’impostazione religiosa medievale, ancora fondata sostanzialmente sul disprezzo della vita terrena. Se le figure della Vergine o dei santi – come quelle realizzate da Giotto nel polittico della Badia Fiorentina (vedi foto alle pp. 50/51) – prendevano vita attraverso la volumetria, appariva rassicurante ritagliarle dal contesto e giustapporle a uno sfondo uniforme, tanto piú se questo assumeva l’aspetto di un’aurea visione paradisiaca. A ricondurre poi l’umore del popolo, in quasi tutte le città d’Europa, verso uno spiritualismo di carattere retrospettivo, era occorsa la tragedia della peste. Com’è stato giustamente riconosciuto da Millard Meiss, nemmeno l’arte risultò immune da questo vero e proprio passaggio

apocalittico (vedi box a p. 52). Del «qui e ora» delle ambientazioni di Giotto rimase la memoria, come di un passato felice e irrimediabilmente perduto. Nelle opere della seconda metà del secolo, emerge un’impostazione ieratica, quasi da novelle icone, impreziosita da un uso calligrafico della linea di contorno. Quasi inconsapevolmente, l’impostazione morale della nuova pittura stava generando una nuova estetica, basata su un principio di eleganza che la cultura del gotico internazionale avrebbe poi nutrito della descrizione minuta della realtà e della natura. Fu il sentimento della forma della civiltà dell’Umanesimo, l’alta consapevolezza prospettica di Piero della Francesca e Andrea Mantegna a determinare la progressiva fine della pratica di dipingere su fondo oro. Attraverso la matematica e l’indagine sull’antico, i pittori si erano riappropriati della vita terrena e avevano aderito all’antropocentrismo della filosofia dei tempi nuovi. Eppure lo stesso Piero, in una commissione tradizionale per il suo borgo natio, come il Polittico della Misericordia di Sansepolcro, mostra come il fondo oro potesse benissimo essere adottato pure in un’opera compiutamente rinascimentale, esaltando ancor di piú la sua intelligenza cromatica (vedi foto in queste pagine). Antico e nuovo in sintesi potevano continuare a procedere all’unisono: e la grande arte italiana, fino alla metà del Quattrocento, offre la chiara testimonianza di questo assunto.

Dove e quando «Tabula picta. Dipinti tra Tardogotico e Rinascimento» Milano, Galleria Salamon fino al 1° febbraio 2019 Info tel. 02 76024638; e-mail: info@ salamongallery.com; https://salamongallery.com

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L’arte delle antiche chiese di Furio Cappelli

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on questo primo articolo di una nuova serie, intitolata all’«arte delle antiche chiese», inizia un percorso che si sviluppa lungo tutta l’Italia medievale e le cui tappe corrisponderanno ad altrettanti tesori dell’architettura sacra. A volte saranno coinvolti episodi particolarmente noti, ma, nella maggior parte dei casi, verrà dato spazio a mete che, nonostante la loro importanza, sono spesso escluse dagli itinerari turistici tradizionali. Proprio osservando i casi «minori», si mette bene a fuoco la pervasività delle eccellenze storico-artistiche italiane e quando ci si trova di fronte a una chiesa «fuori dai riflettori», ma con un’illustre patina di storia, di cultura e di fede, si può accedere lentamente a uno spazio denso di significati, senza essere «frastornati» dall’eccezionalità e dalla fama di un grande monumento-simbolo. Iniziamo da due chiese piemontesi che rivelano con originalità l’ingegno creativo e l’orgoglio di realtà storiche di alto profilo. Da un lato, a Casale Monferrato, la comunità civica si forma proprio intorno a S. Evasio, un solenne santuario che aspira al ruolo di cattedrale (e tale diventerà, ma solo nel XV secolo). Dall’altro lato, a Vercelli, la basilica di S. Andrea individua un polo religioso e culturale che compete con l’antica e prestigiosa cattedrale di S. Eusebio. In questo caso agisce in primo piano un committente di gran pregio, il cardinale Guala Bicchieri, ambasciatore e giurisperito di levatura europea. Sorte in epoche diverse, ma accomunate dallo schema generale della facciata, le due chiese si affidano allo spirito e alla forma di quegli stili che saranno i protagonisti del nostro itinerario: il romanico (a Casale Monferrato) e il gotico (a 56

Casale Monferrato (Alessandria). Uno scorcio dell’atrio della cattedrale di S. Evasio (XII sec.), la cui prima fondazione viene attribuita al re longobardo Liutprando, nell’VIII sec.

Vercelli). Tuttavia, senza essere legati a queste «etichette», cercheremo volta per volta di indagare le caratteristiche specifiche di ogni edificio, storiche e artistiche, guidando il lettore lungo un percorso lineare ma attento, che può fare senz’altro da supporto a una visita dal vivo. Ciascun articolo si presenta cosí come il capitolo di una guida tematica, con un inquadramento generale e la messa a fuoco dei dettagli piú significativi, e ogni meta comporrà il tassello di un discorso complessivo. Sia pure in modo sintetico e con le inevitabili selezioni, si presenterà un quadro della ricchezza e della complessità dell’arte sacra del Medioevo italiano, specchio e simbolo di una società e di una cultura irripetibili. dicembre

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arte delle antiche chiese/1

CASALE MONFERRATO S. EVASIO

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sia

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a chiesa intitolata al vescovo Evasio è innanzitutUna donazione a favore di S. Evasio, concessa nel to il suo santuario, il luogo in cui sono venerate maggio 974 dal vescovo Igone di Vercelli, testimonia che le sue spoglie, oggi custodite in si era formato tutt’intorno un centro una fastosa cappella neoclassica, risaabitato. Alcuni anni dopo, nel 988, lente agli anni 1763-1808. Secondo la una nuova donazione attribuisce alversione altomedievale della sua vita, la chiesa la qualifica di capopieve. Si Evasio da Benevento, vescovo di Asti, trattava cioè di una chiesa gestita da era stato ucciso proprio a Casale, nel un gruppo di canonici, che amminiVII o nell’VIII secolo, dagli «eretici» stravano il battesimo e provvedevano Biella Novara di confessione ariana. Il suo corpo fu alla cura delle anime su un’ampia cirMilano Vercelli sepolto presso un’antica chiesa dedicoscrizione. S. Evasio era inoltre a capo cata a san Lorenzo, laddove il re Liutdi una serie di chiese simili sparse nel Torino Casale Monferrato prando (712-744) avrebbe fondato la territorio. Il centro abitato si chiamava prima cattedrale casalese. Il legame Casalis Sancti Evasii, una denominaCarmagnola Asti Alessandria con il re longobardo, autentico o legzione che manifestava chiaramente il Bra gendario che fosse, fu tenuto a lungo ruolo identitario dell’edificio sacro. Cuneo in grande considerazione. Un altoriPapa Pasquale II (1099-1118) Mondoví MAR lievo con Liutprando era presente in provvide a riformare il capitolo dei LIGURE facciata almeno sin dal XVI secolo, e canonici di S. Evasio secondo un orfino al XVII secolo si teneva tutt’indinamento di tipo monastico. A tal torno alla chiesa, il 1° febbraio, una solenne processione fine l’imperatore Federico Barbarossa si interessò perannuale in suo onore, nella ricorrenza della morte. sonalmente alla costruzione di un chiostro che sorgeva

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Nella pagina accanto la facciata a capanna, con ampie integrazioni ottocentesche, che riflette l’impianto a cinque navate dell’interno. In basso Crocifisso del tipo «Cristo trionfante». Legno rivestito in lamine d’argento, rame dorato, vetro e cristallo di rocca. Scuola lombarda, XII sec.

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In alto planimetria della chiesa di S. Evasio: 1. atrio; 2. cappella di S. Evasio con le reliquie del santo vescovo e martire; 3. Crocifisso romanico; 4. altare con fronte scultoreo di età medievale; 5. ambone con Agnus Dei in pietra proveniente dalla facciata; 6. deambulatorio con mosaici pavimentali romanici; 7. torre campanaria; 8. sagrestia.

sul lato sinistro della chiesa. Casale si trovava in quel momento sotto il marchesato di Monferrato, e, di fianco al signore della zona, rimase fedele agli Svevi. Lo stesso papa, il 4 gennaio 1107, provvide alla solenne consacrazione della nuova chiesa, la cui struttura a cinque navate rispondeva a un bisogno di magnificenza. Da un lato si voleva ottenere una sede episcopale, dall’altro si voleva dare slancio all’immagine della stessa città, in modo da renderla piú competitiva nei riguardi di Vercelli.

Una lunga rivalità

Frattanto sorgevano le magistrature comunali e Casale acquisiva sempre piú una chiara fisionomia. Questa fase di sviluppo subí però una grave battuta di arresto nel 1215, quando l’adesione di Casale al partito filoim-

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arte delle antiche chiese/1 Legatura in argento sbalzato, cesellato e dorato del Codice A, Codex Vercellensis Evangeliorum, attribuita a una bottega lombarda. Metà del X sec. Vercelli, Museo del Tesoro del Duomo. Il piatto anteriore (molto danneggiato; nella pagina accanto) presenta Cristo in mandorla; sul piatto posteriore, sant’Eusebio, in vesti vescovili.

periale e la sua lunga rivalità con Vercelli determinarono un attacco della Lega lombarda. La città venne devastata, e anche la chiesa fu danneggiata. Nel 1474 Casale divenne capitale del Monferrato e ottenne finalmente la sede episcopale. S. Evasio, già cattedrale in pectore, giunse cosí alla sua agognata qualifica ufficiale, ma i suoi fasti si erano già conclusi. Nel Settecento, l’interno della chiesa si presentava con una veste decorativa in linea con i gusti del tempo, mentre la facciata era in gran parte nascosta da un caseggiato che fungeva anche da protezione della struttura. Le case dei canonici, infatti, facevano corpo con due contrafforti che garantivano stabilità al fronte della chiesa. Nel corso dell’Ottocento si susseguirono discussioni e progetti sul recupero della cattedrale, che per giunta versava in pessime condizioni conservative. Il primo architetto coinvolto non esitò a proporre la demolizione e la ricostruzione dell’edificio in stile neoclassico. Il progetto fu preso in considerazione, finché il risoluto intervento del filosofo Antonio Rosmini (1797-1855) non evitò lo scempio. Nel 1857 fu infine coinvolto il conte Edoardo Arborio Mella (18081884), che mise in atto un restauro secondo criteri oggi inaccettabili, con una totale riconfigurazione dell’interno. S. Evasio si trasformò in una cattedrale neomedievale, ma conservò intatto il suo meraviglioso atrio. Un lavoro di altissimo impegno, con una sottofondazione della facciata e l’applicazione di tiranti in acciaio, permise la demolizione del caseggiato frontale.

La visita

La visita di S. Evasio richiede un’avvertenza: le vicende del restauro ottocentesco l’hanno infatti trasformata in una chiesa ampiamente ricomposta, se non ricostruita, senza poterne riproporre l’autentico assetto medievale. Al primo impatto, la stessa facciata si mostra necessariamente «reinventata» dopo che era stata liberata dai corpi edilizi che le si erano addossati. Ma ciò nulla toglie

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all’importanza del monumento e all’eccezionalità delle numerose componenti originali rimaste. Tra gli elementi antichi in evidenza si segnalano tre torri campanarie. Una, massiccia e imponente, sorge presso il transetto, sul lato meridionale. La parte basale, che si può riferire all’assetto romanico della chiesa, sarebbe fondata sulla torre di vedetta ceduta a suo tempo dal re Liutprando. Le altre due torri, molto esili, gemelle e simmetriche, ospitano le scale di collegamento alla tridicembre

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ci salienti), secondo un concetto generale che si ritrova, per esempio, a S. Michele di Pavia o nel duomo di Parma. Cinque enormi arconi ripartiscono la parete in lungo e in largo, annunciando con orgoglio la rara presenza di un corrispondente numero di navate.

Quasi come una seconda chiesa

buna interna, e delimitano la facciata secondo uno stile oltralpino, molto diffuso tra le chiese di rappresentanza. Si tratta di uno schema che in area lombarda era stato reinventato in varie forme, acquisendo una spiccata originalità. In questo caso, per esempio, le torri, quasi senza volume, si limitano a chiudere la superficie della parete, che si espande tra di loro con gioiosa solennità. Si tratta infatti di un largo prospetto trionfale, suddiviso in piú ordini di finestre e coronato a capanna (con due sempli-

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Le grandi intenzioni profuse si leggono ancor meglio non appena varcato l’ingresso. Si accede cosí al fiore all’occhiello dell’intero edificio. Si tratta di un vasto atrio o vestibolo, che compone uno spazio a sé, quasi fosse una chiesa anteposta e addossata a una chiesa piú vasta e diversamente articolata, con una propria facciata interna. Due arconi longitudinali e due arconi trasversali si slanciano sull’enorme «piazza» coperta centrale, lasciandola libera dall’ingombro di qualsiasi pilastro. Intrecciandosi tra di loro, essi compongono sul soffitto nove comparti quadrati, tra i quali spicca la volta a crociera centrale, dalla quale domina il bassorilievo culminante dell’Agnus Dei, figura di Cristo. Gli stessi comparti del soffitto, disegnando due direttrici ortogonali che si distinguono con l’uso della volta a botte, alludono alla croce del Salvatore. Su tre lati, su un piano superiore, corre una tribuna che rende ancor piú solenne questo ambiente cosí particolare. Proprio su quella fascia si nota che le finestre di affaccio hanno una decorazione scultorea particolarmente raffinata. E tutta la struttura, con la sua piacevole policromia – data dall’alternanza della pietra e del mattone –, dà un grande senso di ricercatezza anche nei dettagli puramente edilizi. Ma qual era la funzione di un ambiente cosí particolare? I soli documenti disponibili, piuttosto recenti rispetto all’epoca di costruzione, permettono solo di vedervi una certa concentrazione di tombe. Potrebbe essersi trattato di un camposanto monumentale, ma non si escludono altre funzioni, anche di carattere prettamente laico. Qui si potevano svolgere adunanze popolari, assemblee, letture di editti, e vi potevano operare giudici e notai. Talvolta, infatti, queste attività erano associate proprio agli spazi liminari delle chiese, dove le ossa dei defunti facevano da sacro supporto al mondo dei vivi. I recenti restauri (1999-2001), permettendo di leggere con attenzione tutta la struttura, hanno consentito di riferirla nella sua interezza alla fase romanica del XII secolo, escludendo modifiche e ricostruzioni successive

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arte delle antiche chiese/1

al 1215. L’utilizzo dei grandi archi che si intersecano nel soffitto, ha fatto poi pensare a influssi orientali, visto che soluzioni del genere si riscontrano per esempio in Armenia, ma è piú verosimile che si tratti di un’ardita sperimentazione condotta dalle maestranze padane sulla base di un bagaglio già consolidato di esperienze.

Ampiezza e nobiltà

Dopo la «folgorazione» dell’atrio, l’ingresso in chiesa può suscitare una certa delusione, poiché emerge subito una discontinuità potente, ma l’aula mostra comunque un carattere di ampiezza e di nobiltà che si ricollega all’assetto e all’intenzione originali, nonostante una struttura e una veste decorativa di fattura ottocentesca, peraltro misurata e non priva di eleganza. E suscita comunque meraviglia e soggezione l’enorme crocifisso che campeggia sull’altar maggiore. Si tratta di un Cristo trionfante (dagli occhi ben aperti e rivolti al fedele) realizzato in lamina d’argento sbalzato applicata su un supporto ligneo (XII secolo). Non appartiene alla chiesa sin dalle origini, perché fu rubato dai Casale-

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Frammento di mosaico pavimentale che decorava il presbiterio raffigurante una scena di duello. XII sec.

si durante una fortunata spedizione piratesca condotta ai danni di Alessandria nel 1403, per il recupero delle reliquie di sant’Evasio. Si tratta di un raro esempio di oreficeria romanica che si ricollega agli analoghi esemplari di Vercelli (duomo) e di Pavia (S. Michele). Merita infine una visita l’esposizione dei resti del raffinato mosaico pavimentale che decorava in origine il presbiterio (XII secolo). I riquadri superstiti sono in mostra lungo un corridoio (deambulatorio), situato alle spalle dell’abside, con ingresso su via Liutprando. Narrazioni basate sull’Antico Testamento (come l’episodio di Giona inghiottito dal grande pesce) erano corredate da un’ampia fioritura di immagini favolistiche e simboliche, insieme a scene di combattimento, scene circensi, di caccia e di pesca. Spicca uno splendido duello alla spada, mentre l’immagine di un pescatore si segnala per la didascalia in volgare: Qua l’è l’arca de san Vax («Qua si trova l’arca di sant’Evasio»). dicembre

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VERCELLI S. ANDREA

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a storia della chiesa di S. Andrea è legata a doppio filo con la biografia del suo committente, il cardinale vercellese Guala Bicchieri. Il presule si distinse in varie missioni diplomatiche, dove mise a frutto notevoli competenze come esperto di diritto, e conseguí probabilmente una formazione in ambito giuridico presso lo Studio generale di Bologna. Ricevuta la nomina cardinalizia da papa Innocenzo III nel 1205, si recò in Francia per un’importante ambasceria nel 1208. Lo scopo della missione era duplice: sul fronte religioso, si mirava alla predicazione della crociata e alla riforma della Chiesa; sul fronte politico, si doveva risolvere lo spinoso problema del divorzio che il re Filippo Augusto cercava di ottenere sin dal 1193 da Ingeborga di Danimarca. Il papa teneva molto alla questione perché, se il re capetingio si fosse pacificato con lui, sarebbe stata possibile la sua partecipazione alla crociata. Ma nei primi mesi del 1209 Filippo Augusto invitava l’ambasciatore a ripartire. Il 22 marzo 1215, Ugo, vescovo di Vercelli, concede a Guala la chiesa originaria di S. Andrea, fuori le mura, in modo che il cardinale possa stabilirvi una comunità

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Vercelli, basilica di S. Andrea. La lunetta del portale sinistro nella quale è inserito il gruppo scultoreo (rielaborato nel XIX sec.) che raffigura il cardinale Bicchieri nell’atto di offrire la chiesa al Cristo benedicente, seduto in trono.

di canonici regolari. L’anno successivo, Guala riceve dal papa l’incarico di un’importante legazione in Inghilterra, che lo terrà impegnato per molto tempo. Luigi VIII, figlio di Filippo Augusto, intendeva salire al trono di Londra, spodestando il sovrano plantageneto Giovanni Senza Terra, e aveva a tale scopo organizzato una spedizione militare, potendo contare, sull’isola, su un’ampia schiera di baroni ribelli.

Il sigillo del cardinale

Il 19 ottobre 1216, a seguito della morte di Giovanni Senza Terra, Guala assume la reggenza del trono inglese insieme ad altri incaricati, tra i quali il valoroso cavaliere Guglielmo il Maresciallo, conte di Pembroke. L’11 novembre successivo, al termine dell’assemblea di Bristol, Guala appone il suo sigillo, insieme a quello

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In alto la facciata della chiesa di S. Andrea, il cui schema a due torri si ritrova in S. Evasio di Casale. A sinistra pianta della chiesa: 1. tomba dell’abate Tommaso Gallo (†1247); 2. coro ligneo cinquecentesco; 3. crocifisso ligneo policromo (XV-XVI sec.); 4. sagrestia; 5. chiostro. A destra il chiostro, con arcate scandite da gruppi di quattro colonnine. dicembre

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di Guglielmo, per corroborare la ratifica di gran parte della Magna Charta accordata dall’appena incoronato re Enrico III, che ha solo nove anni. Dopo lunghe vicende diplomatiche e militari, il 5 settembre 1217, su un’isola del Tamigi, vengono stabilite le norme del trattato di Lambeth. A tal fine, Luigi VIII si reca a parlamentare con Guala in persona e con il consiglio di reggenza di Enrico III. Il 28 settembre, finalmente, Luigi si imbarca a Dover e fa ritorno in Francia. Il legato pontificio assiste alla sua partenza. L’impegno di Guala per la pace fu particolarmente apprezzato dal sovrano inglese, tanto che l’8 novembre 1217 Enrico in persona donò a S. Andrea di Vercelli i beni della chiesa di S. Andrea di Chersterton, che rimase sotto la giurisdizione dell’abbazia piemontese fino al XV secolo. Nel 1218, dopo aver ottenuto l’esonero dalla missione da parte di papa Onorio III, Guala approda in Francia e trascorre buona parte del mese di dicembre presso l’abbazia parigina di S. Vittore, con una comunità di canonici che segue la regola di sant’Agostino. Si tratta di un centro teologico di primo piano, che suscita sul cardinale una grande attrattiva. Subito dopo, nel gennaio 1219, Guala è presente a Vercelli insieme ad alcuni canonici della stessa abbazia di S. Vittore. Tra questi figura il valente teologo Tommaso Gallo (noto anche come Tommaso di Vercelli o Tommaso di S. Vittore, 1200-1246 circa). Guala, infatti, ha deciso di ricostruire la chiesa e di affidare la guida del cenobio annesso proprio ai monaci vittorini. Tommaso diventerà il primo abate di S. Andrea e, alla metà del XIV secolo, gli sarà dedicato un complesso monumento funebre nel transetto destro della chiesa, tuttora conservato.

La prima pietra

Il 19 febbraio 1219 si compie la posa della prima pietra e il 24 gennaio 1224 papa Onorio III concede la protezione apostolica su S. Andrea, e permette ai monaci vittorini di detenere i beni che Guala ha conferito loro a Vercelli e in quattro località del territorio. Il 22 luglio 1225 Guala è legato papale all’assemblea di San Germano, durante la quale Federico II si impegna nuovamente per la crociata (fissando la data dell’agosto 1227) e acconsente alle proprie nozze con Isabella di Brienne, figlia di Giovanni, re di Gerusalemme. Mentre Vercelli aderisce alla Lega lombarda, nel gennaio 1226 Guala sollecita l’abate Tommaso Gallo affinché richieda a Federico la protezione imperiale su S. Andrea, che viene concessa nello stesso anno. Il 2 maggio 1226 Guala dà incarico al maestro Pietro di Bourges di condurre alla chiesa di S. Andrea, giunta a compimento, alcuni paramenti sacri di pregio e due candelabri di Limoges. I preziosi doni di manifattura oltralpina fanno da complemento a un’architettura che si rifà chiaramente ai grandi modelli del gotico francese.

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arte delle antiche chiese/1 Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.

Da leggere Romualdo Pastè, Federico Arborio Mella, L’Abbazia di S. Andrea di Vercelli, Vercelli 1907; disponibile on line su Archive.org Cosimo Damiano Fonseca, Guala Bicchieri, in Dizionario biografico degli italiani, Fondazione Treccani, Roma 1968; disponibile anche on line su Treccani.it Sandro Chierici, Duilio Citi, Il Piemonte, la Val d’Aosta e la Liguria, Jaca Book, Milano 1979; pp. 133-143 Attilio Castelli, Roggero Dionigi, Il Duomo di

Casale Monferrato, Fondazione Sant’Evasio, Casale Monferrato 2001 Fulvio Cervini, L’atrio del duomo di Sant’Evasio a Casale Monferrato: prospettive di ricerca dopo il restauro, in Arturo Carlo Quintavalle (a cura di), Medioevo: arte lombarda, Electa, Milano 2004; pp. 170-188 Martina Schilling, La chiesa abbaziale di Sant’Andrea a Vercelli: tradizione lombarda e gotico francese, in Medioevo: arte lombarda cit.; pp. 189-198

Il 29 maggio 1227 il cardinale fa testamento e lascia i suoi beni, tra cui una vasta biblioteca (118 codici), alla stessa S. Andrea. Muore il giorno seguente a Roma, e viene sepolto in S. Giovanni in Laterano. Le sue ossa, in seguito, vennero traslate proprio a S. Andrea di Vercelli e raccolte in un prezioso scrigno di arte limosina che il cardinale stesso adoperava, forse per riporre gli arredi liturgici della cappella personale di cui disponeva nell’Urbe. Il baule, con lavorazioni in rame dorato e smalto, si trova attualmente a Torino, presso il Museo Civico di Arte Antica di Palazzo Madama.

La visita

Il cardinale Bicchieri è raffigurato nella lunetta del portale sinistro della facciata di S. Andrea. Il gruppo scultoreo, rielaborato nel XIX secolo, lo mostra nell’atto di

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A sinistra una veduta dell’interno della chiesa, fra le cui particolarità vi è la forma rettangolare dell’abside centrale.

offrire la basilica al Cristo benedicente, seduto in trono con lo sguardo rivolto allo spettatore. La lunga epigrafe di corredo ravvisa proprio nella basilica la «creatura» generata dal Bicchieri, come se egli avesse messo al mondo un figlio. E come il figlio riflette il padre, cosí la basilica è una diretta emanazione del cardinale. Nella lunetta del portale centrale si rievoca la crocifissione del santo titolare della chiesa. L’apostolo Andrea appare come una chiara immagine di Cristo, e, sull’archivolto, è sormontato dall’angelo che reca la sua anima in cielo, nel mezzo di un paradisiaco tralcio fiorito. Ai lati del santo si contrappongono due personaggi rievocati nell’epigrafe sottostante. A destra appare il miscredente caduto «nelle insidie del demonio», ossia il proconsole Egea, che dispone il supplizio per mano di due sgherri. A sinistra, con due fedeli al seguito, fa da dicembre

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La lunetta del portale centrale, con la crocifissione di sant’Andrea. L’apostolo è sormontato dall’angelo che reca la sua anima in cielo; ai suoi lati si contrappongono (a destra) il proconsole Egea, che dispone il supplizio per mano di due sgherri, e (a sinistra), con due fedeli al seguito, una devota matrona che si premura poi di seppellire l’apostolo.

pendant una devota matrona piegata dal dolore, e che si premura poi di seppellire degnamente l’apostolo. Lo stile e la tecnica delle lunette, ma anche la forma dei portali, con le loro profonde strombature, hanno suggerito in passato un aggancio con il battistero di Parma (1196-1216), con una conseguente attribuzione della basilica vercellese all’architetto e scultore Benedetto Antelami. Ora, però, anche se si ammette il forte influsso della maniera antelamica nei decori e nelle figure delle lunette, si tende a escludere un diretto intervento del maestro. Inoltre, lo stile raffinatissimo dei portali è molto piú articolato rispetto a Parma, e ha un carattere tutto particolare, che si esprime nel motivo della colonnina monolitica completamente staccata dal fondo e nella raffinata cesellatura dei capitelli. A Vercelli, insomma, i modelli del gotico oltralpino, in particolar modo borgognone, erano stati recepiti in modo molto piú sostanzioso. Ma proprio la stupenda facciata della basilica, con la sua forte dominante del marmo grigio-verde, si ricollega con forza alla tradizione padana. Si presenta infatti come un’ampia quinta coronata a capanna, distesa tra due esili campanili, secondo lo schema già osservato a Casale. L’utilizzo stesso del laterizio su larga parte della chiesa si riaggancia bene alle norme edilizie che erano già in voga nel romanico locale. Per il resto, tuttavia, la basilica offre una tessitura davvero moderna, compatta e omogenea, testimoniando una delle piú complete, precoci e organiche espressioni del gotico internazionale in Italia. Vi si compie infatti una felice sintesi tra il gotico razionale dei Cister-

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censi e il gotico sontuoso delle cattedrali, con un effetto generale di rigore e di raffinata cura dei dettagli, sia decorativi che costruttivi. Basta varcare l’ingresso, infatti, per essere immediatamente rapiti da un ambiente che comunica un senso di solennità e di raccoglimento al tempo stesso, come si addice a una realtà che primeggia nella cultura teologica cosí come nella vita monastica e nell’accoglienza dei poveri e dei malati.

Rigorosamente elegante

Il rigore si manifesta bene, per esempio, nella scelta della forma rettangolare per l’abside centrale. Il fasto, sia pure con misura e con discrezione, emerge dalla presenza di una torre di crociera sull’altar maggiore, con una struttura interna ravvivata da una loggetta di spirito classico, simile a quella che percorre la facciata. L’aspetto ornamentale emerge poi dai capitelli sobri ma eleganti, dalla policromia delle pareti, che gioca sull’alternanza tra parti intonacate (neutre o dipinte a fregi) e parti a vista (in mattone e in pietra). Le volte, al culmine, mostrano talvolta un bassorilievo figurato, secondo un uso già incontrato a Casale in età romanica. Questi medaglioni sono l’unica presenza figurativa originale di tutto l’interno. Il complesso è arricchito da una massiccia torre campanaria che affianca il transetto, sul fianco destro, mentre sul lato opposto si sviluppa l’edificio monastico, con molte parti originali ancora osservabili. Tutt’intorno all’ampio chiostro, rimaneggiato ma con la sua teoria di colonne a gruppi di quattro ancora intatta, si possono ancora leggere la sala capitolare e il parlatorio. F

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di Sergio Raveggi e Andrea Barlucchi

I MEDICI Firenze siamo noi Nella cittĂ del giglio la famiglia Medici costruĂ­ le proprie fortune, arrivando a reggerne le sorti per ben tre secoli. Ma chi furono gli artefici e quali i segreti di questa irresistibile ascesa? Ritratto di Lorenzo il Magnifico, olio su tavola di Luigi Fiammingo. 1550. Firenze, Museo degli Argenti. Sullo sfondo si nota uno scorcio della Firenze rinascimentale.


Dossier

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el gennaio 1374 Filigno dei Medici decide di dare inizio a un libro di memorie. Il testo sarà quasi tutto dedicato ad appunti di genere patrimoniale (compravendite, divisioni di beni, importi dotali, diritti di patronato), ma nella premessa, come spiegazione all’impellenza di scrivere, c’è una riflessione sulla propria stirpe che ha toni preoccupati: siamo stati una grande famiglia, rispettata e temuta, ma il futuro è incerto e i presagi sono foschi, tra «battaglie cittadinesche», morti per peste, la carenza che ormai abbiamo di uomini di valore. Nel 1429, invece, secondo il racconto di Giovanni Cavalcanti, il morente Giovanni di Bicci dei Medici si accomiata dai figli Cosimo e Lorenzo con l’orgoglio di chi può dispensare un patrimonio larghissimo e sagge regole di comportamento politico: fate in modo di essere sempre graditi ai buoni cittadini e a tutto il popolo, che hanno considerato costantemente i Medici un riferimento sicuro (addirittura la «tramontana stella»); e se non vi allontanerete dai comportamenti dei vostri predecessori il popolo sarà sempre propenso a elargirvi cariche politiche. Come si vede, da Filigno a Giovanni, in mezzo secolo tutto sembra cambiato: si è passati dal timore di perdere alla consapevolezza di essere vincenti. In effetti in quest’arco di tempo a Firenze molto è avvenuto: il tumulto dei Ciompi, la caduta del regime dei governi a forte impronta popolare, la nuova dominazione di un ristretto numero di famiglie, prima fra tutte quella degli Albizzi – che hanno imposto dal 1382 un regime oligarchico –, esili, epidemie e guerre, fallimenti e nuove fortuFirenze, Palazzo Medici Riccardi, Cappella dei Magi. Il segmento terminale della processione, guidato da Gaspare: alle sue spalle vi sono personaggi noti, tra cui vari membri della famiglia Medici e Benozzo Gozzoli, l’artista fiorentino che realizzò le pitture nel 1459.

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Dossier ne private. Tra questi marosi alcuni membri della famiglia Medici, e in particolare il ramo di Averardo, detto Bicci, hanno saputo navigare con perizia; e ora si intravedono davvero i presupposti per un approdo mai riuscito a nessuno a Firenze, cioè imporsi come dinastia egemone. Le mosse decisive devono comunque essere ancora tutte compiute. Almeno dalla metà del XII secolo i Medici si segnalarono a Firenze come cittadini di rilievo. Piú tardi terranno a gloriarsi di essere stati in antico nobili del contado originari del Mugello, il che è evenienza in qualche misura plausibile, ma non provata. È invece certo che, pur non risultando far parte in senso stretto del ceto consolare, hanno già in quei tempi importanti parentele, la comproprietà di una torre e il patronato di una chiesa nel centro cittadino.

Mercanti e popolani

Se una partecipazione politica in ruoli di rilievo non è visibile prima della metà del Duecento, va detto che le notizie precedenti ci sono pervenute in modo tanto frammentario da non permettere giudizi netti. La fisionomia dei Medici pare comunque quella di mercanti e popolani e infatti accedono a incarichi di governo durante il «Primo Popolo»; uno di loro, nel 1260 è ufficiale dei balestrieri dell’esercito guelfo a Montaperti e però, dopo la sconfitta militare e il drastico cambiamento di regime, un altro siede nel consiglio ghibellino, cosicché non deve stupire se i danni inferti ai loro beni dalle rappresaglie dei vincitori sono assai limitati. L’ambigua coloritura guelfa diviene invece piú accesa all’instaurarsi del regime legato a Carlo d’Angiò nel 1267 e da allora la scelta di campo è definitiva, come per quasi tutti a Firenze. Piú di altri magari paiono essere propugnatori di un guelfismo intransigente e aggressivo, come provano le lagnanze del ghibellino Strinati, che, all’inizio del Trecen-

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to, denunzia nelle proprie memorie quanto i Medici approfittino di ogni occasione per vessarli e depredarli senza pietà, «peggio che i Saracini in Acri», e ancora come è dimostrato dalla scelta di schierarsi con la fazione dei Neri e qualche anno dopo dall’aperto appoggio ai tentativi eversivi di Corso Donati, il maggiore esponente del radicalismo guelfo. Nella prima metà del Trecento la casata dei Medici è estesa in vari rami e spesso chiamata a rivestire incarichi pubblici; non è tra le piú eminenti, ma, diciamo, immediatamente alle spalle delle cinque o sei famiglie di primo piano. Nelle congiure e nella sollevazione per abbattere la signoria del Duca d’Atene (1343) hanno un ruolo importante, anche perché un loro congiunto è stato giustiziato dal despota. Piú volte negli anni seguenti, evidentemente scontenti degli spazi politici loro

In alto la casa torre degli Albizzi, nel centro storico di Firenze, costruita nel XIII sec. e rimaneggiata in epoca tardo-medievale. A destra Firenze, Palazzo Vecchio. La Cacciata del Duca di Atene, affresco dell’Orcagna (al secolo Andrea di Cione di Arcangelo) che raffigura l’allontanamento a furor di popolo del nobile di origine francese Gualtieri VI da Brienne, meglio conosciuto, appunto, come Duca d’Atene. 1343-1349.


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Dossier Araldica

Sotto il segno di un... enigma Con la dissoluzione del sistema feudale ha inizio, dal XII secolo, quel fenomeno di «inurbamento» che vedrà le città riempirsi non solo di nobiltà feudale, ma anche di famiglie di minor rango, comunque facoltose che, arricchendosi ulteriormente attraverso l’attività di commercianti o, come i Medici, di banchieri, contrasteranno e conquisteranno il potere. Lo stemma perderà ben presto il legame col territorio, che aveva caratterizzato gli scudi di antica nobiltà feudale, per divenire simbolo della famiglia, legato al nome e alla discendenza; e, dunque, non essendo piú vincolato alla proprietà terriera, chiunque può, con poche limitazioni, scegliersi lo stemma che vuole. A questo punto, è naturale che anche i Medici, come tutte le altre famiglie di oscure origini, ma fattesi ricche e potenti, desiderino adottare un «segno distintivo» con cui adornare non solo i loro palazzi e le loro tombe, ma anche abiti, suppellettili e stoviglie. Il passaggio da distintivo di nobiltà a segno di possesso, a firma, a griffe è rapidissimo. Tuttavia, se a volte è possibile ricostruire le origini e le motivazioni degli stemmi di famiglie feudali, cosí non è per quelli liberamente scelti; non è infatti noto il motivo per cui la predilezione dei Medici sia caduta su uno scudo «d’oro alle sei palle rosse poste tre, due, uno» (anche se ne esistono varianti con diverso numero e disposizione, mai con diversi smalti); possiamo quindi raccogliere solo le tradizioni o formulare le ipotesi. Si è ritenuto per molto tempo che le «palle» medicee (semisfere sporgenti dallo scudo) fossero la rappresentazione di «pillole», e questo in base alla consuetudine molto diffusa di assumere quale simbolo un oggetto o un colore che richiamasse o facesse diretto riferimento al nome, le cosiddette «armi parlanti», per cui la famiglia Rossi ha uno scudo completamente rosso, i

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Lo stemma dei Medici, impresso nella Sagrestia Vecchia della basilica di S. Lorenzo a Firenze.

Galletti un gallo e cosí via. In questo caso le pillole come riferimento al medico. Si è anche ipotizzato che quei sei «oggetti» non fossero palle, né pillole, bensí monete, basandosi sul fatto, storicamente certo, che i Medici, essendo iscritti all’Arte del Cambio e avendo praticato l’attività di banchieri, avessero voluto ricordare nello stemma sia la loro Arte, sia l’origine della loro fortuna e per questo abbiano adottato il simbolo dell’Arte del Cambio «di rosso seminato di bisanti d’oro», invertendone gli smalti. Un’ulteriore ipotesi, basata sulla tecnica costruttiva degli scudi, vede in quelle sei sporgenze le borchie di rinforzo o la parte esterna delle ferrature che sorreggevano le cinghie e l’impugnatura. Ma, se non è certa l’origine dello stemma, lo è invece la sua versione successiva, quando finalmente Piero de’ Medici, nel 1465, potrà nobilitare il proprio scudo e portarlo alla stregua delle antiche famiglie nobiliari mostrando un «privilegio» di tutto rispetto: la concessione da parte del re di Francia Luigi IX di potersi fregiare, in memoria della grandezza del padre Cosimo, dello «scudetto di Francia», un piccolo scudo azzurro con tre fiordalisi d’oro da porre nella parte piú nobile dello scudo. E Piero lo farà con gran gioia. Da allora lo stemma dei Medici si presenterà con la palla rossa in alto sostituita da una palla azzurra caricata dai tre fiordalisi. Finalmente, con i quattro papi della famiglia Medici, Leone X (Giovanni 1513-21), Clemente VII (Giulio 1523-24), Pio IV (Giovanni Angelo 1559-65) e Leone XI (Alessandro, pontefice solo per pochi mesi nel 1605) l’arma potrà fregiarsi anche del triregno e delle chiavi. Massimo D. Papi dicembre

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attribuiti, sono invischiati in sobillazioni e congiure e nel clima settario fiorentino del secondo Trecento la famiglia si divide tra fautori degli Albizzi e fautori dei Ricci. Tornano di nuovo in primo piano nell’immediato antefatto del Tumulto dei Ciompi, quando Salvestro, eletto Gonfaloniere, dichiara intollerabile che «il popolo fusse da pochi potenti oppresso», come scrive Machiavelli, con l’intento, si capisce, di cavalcare il crescente malcontento a proprio vantaggio, ma la situazione gli sfugge di mano, essendosi ormai innescata una rivolta incontrollabile.

L’accortezza di Giovanni

Con maggior cautela si muove, a partire dall’inizio del Quattrocento, Giovanni di Bicci, esponente di un ramo familiare fino ad allora secondario, che al crescente successo economico aggiunge un’ascesa politica progressiva, iniziata in età matura, basata sulla ricerca del consenso in particolare negli ambienti degli artigiani minori e condotta senza destare sospetti tra i membri del partito degli Albizzi, al quale non appartiene, ma con il quale convive senza

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scontri, ottenendo una quantità di cariche politiche di primo piano. Fedele al testamento politico del padre, Cosimo, prendendo in mano le redini della famiglia, si muove con una buona dose di mercantile understatement. In una fase in cui il regime oligarchico mostra segni di usura, è attento ad attirare a sé il favore popolare e a trasformare il gruppo dei propri seguaci in un partito, dissimulando però i piani con l’impegno negli affari, con soggiorni all’estero, con la passione per gli studi classici, con lunghe permanenze nelle sue proprietà rurali. Infine Rinaldo degli Albizzi si rende conto del pericolo e, grazie alla connivenza del collegio di governo da lui manovrato, lo fa arrestare nel settembre 1433. L’accusa di cospirazione contro la Repubblica dovrebbe prevedere la pena di morte (e peraltro pare anche si cercasse piú sbrigativamente di eliminare il prigioniero con il veleno), ma Cosimo, corrompendo prima i guardiani e poi chi doveva giudicarlo, riesce a ottenere l’incolumità e la condanna a dieci anni di esilio, in ciò aiutato non poco dalle (segue a p. 78)

In alto Ritorno di Cosimo il Vecchio dall’esilio, affresco di Giorgio Vasari. 1556-1558. Firenze, Palazzo Vecchio. In basso ritratto di Giovanni di Bicci de’ Medici, olio su stagno del Bronzino (al secolo Agnolo di Cosimo). 1565-1569. Firenze, Gallerie degli Uffizi.

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Dalle origini al Magnifico Giambuono

Chiarissimo (viveva nel 1201)

Bonagiunta (ricordato nel 1221)

Filippo Averardo (viveva nel 1280) Averardo Gonfaloniere nel 1314 Salvestro detto Chiarissimo sposa Lisa Donati Averardo detto Bicci (viveva alla metà del sec. XIV) Giovanni di Bicci (1360-1429) Gonfaloniere nel 1421 Lorenzo (1395-1440) Sposa Ginevra Cavalcanti

Cosimo il Vecchio (1389-1464) Signore di Firenze dal 1434 Sposa Lucrezia Tornabuoni Piero (1414 o 1416-1469) Signore di Firenze dal 1464 Sposa Contessina de’ Bardi Lorenzo il Magnifico (1449-1492) Signore di Firenze dal 1469 Sposa nel 1469 Clarice Orsini (1453-1488)

Giovanni (1421-1463) Sposa Maria Ginevra degli Albizzi

Giovanni (1428?-1492) (f.nat.) Arciprete

Giuliano (1453-1478) Assassinato durante la congiura dei Pazzi

In alto, a sinistra busto raffigurante Piero di Cosimo de’ Medici, padre di Lorenzo il Magnifico, realizzato dallo scultore Mino da Fiesole. 1453. Firenze, Museo Nazionale del Bargello. In alto a destra ritratto di Lucrezia Tornabuoni, poetessa e

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Bianca sposa Guglielmo de’ Pazzi

Nannina (†1493) sposa nel 1466 Bernardo Rucellai

Maria (f.nat.) sposa Leonetto Rossi

madre di Lorenzo il Magnifico, attribuito al Ghirlandaio (al secolo Domenico Bigordi). 1475. Washington, National Gallery of Art. Nella pagina accanto ritratto di Lorenzo il Magnifico, tempera su tavola di Giorgio Vasari. 1533-1534. Firenze, Gallerie degli Uffizi.

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Dossier cosimo, maestro d’ironia

«Meglio una città guasta che perduta» Nella sua biografia di Cosimo, Vespasiano da Bisticci assegna al protagonista delle fortune medicee larghissime virtú. Molte doti senza dubbio doveva averle. Ma per i tempi e la città in cui viveva è probabile che contribuisse non poco ad accrescere la sua popolarità anche la fama di cui godeva, non di eloquenza, ma di fulminante ironia, del resto in consonanza con l’effigie presente nei suoi ritratti, con quel volto un po’ grifagno e le labbra mosse in una piega sarcastica. Di lui si tramandano molte frasi proverbiali che, per quanto aneddotiche, contribuiscono a gettare piú luce sulla sua personalità. A chi deprecava l’alto tasso di corruzione, al quale egli per dominare Firenze aveva ampiamente contribuito, pare rispondesse: «Meglio una città guasta che perduta»; a Rinaldo degli Albizzi che dall’esilio gli mandò a dire: «Guarda che la gallina cova», Cosimo replicò: «Cova male fuori dal nido»; e similmente ad altri ribelli esuli dei quali gli era stato recapitato il minaccioso messaggio «Noi non dormiamo», fece pervenire la risposta: «Lo so bene, sono stato io a cavarvi il sonno». Sprezzante, convinto che l’uomo di potere spesso non debba permettersi scrupoli etici («gli Stati non si tengono coi paternostri») era comunque anche autoironico. Poco prima di morire, alla moglie che gli chiedeva perché tenesse gli occhi chiusi, pare rispondesse: «Per avvezzarli». pressioni in suo favore fatte dall’amica Venezia. E a Venezia sconta un anno di esilio, manovrando da lontano per accrescere le tensioni in patria e il risentimento popolare contro gli Albizzi, fino a sovvertire gli equilibri politici a Firenze, cosicché già nel settembre 1434, in virtú dell’entrata in carica di un governo a lui favorevole, Cosimo può tornare da trionfatore mentre l’esilio è ora comminato a Rinaldo degli Albizzi e a una settantina di suoi partigiani. Da allora Cosimo diventa l’arbitro della vita politica fiorentina, pur rifuggendo da investiture ufficiali e ricoprendo un numero molto limitato di incarichi pubblici. Il suo predominio rappresenta un tipico esempio di signoria larvata. Il sistema elettorale fiorentino era divenuto tra la fine Trecento e il primo Quattrocento di un’estrema complessità, architettata per evitare pressioni e frodi e invece tale da lasciare notevoli poteri discrezionali a chi veniva designato a decidere i

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tempi e le cariche dei cittadini scrutinati come meritevoli di ricoprire i maggiori uffici.

Trame e finzioni

Da privato cittadino, Cosimo riesce a dirigere queste pratiche elettorali in modo tale che gli eletti, almeno in maggioranza, appartengano alla schiera dei suoi fautori. Per garantirsi il predominio trama spesso in maniera molto pesante, ma con geniale accortezza evita ogni stravolgimento costituzionale, non ferendo cosí la tradizionale sensibilità repubblicana dei concittadini e si astiene, sia pure attraverso una finzione a tutti evidente, da frequenti e scomode esposizioni in primo piano. Il potere economico, la rete clientelare che si è costruito, le strette relazioni che ha all’estero con le maggiori potenze a cominciare dal papato, i gesti di calcolata munificenza che gli procurano la gratitudine degli intellettuali e della plebe rendono difficilmente attaccabile la sua po-

Ritratto di Cosimo il Vecchio, olio su tavola del Pontormo (al secolo Jacopo Carucci). 1519-1520. Firenze, Gallerie degli Uffizi.

sizione, malgrado molti agguerriti oppositori cerchino di contrastarlo. In questo modo domina la città per un trentennio, superando anche alcune fasi critiche nelle quali fa ricorso non solo alla sua indiscutibile sagacia politica, ma anche alla forza: come nel 1458, anche in questo caso comunque delegando all’incombenza di forzare le regole istituzionali l’alleato Luca Pitti. Nel 1464, quando muore, il cordoglio è grande e il governo cittadino gli conferisce poco dopo il titolo di pater patriae, fino ad allora mai concesso. Il ruolo di Cosimo, per quanto cosí informale, passerà come per successione dinastica al figlio Piero il Gottoso, fino al 1469, e quindi al nipote Lorenzo il Magnifico, fino al 1492, e al di lui figlio Piero per altri due anni. Poi Firenze tornerà repubblicana per una breve e convulsa stagione, in attesa che i Medici se ne insignoriscano di nuovo, questa volta con un titolo ufficiale, per circa due secoli. Sergio Raveggi dicembre

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SIGNORI DELLA FINANZA

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ella sua monumentale rassegna sulle Famiglie celebri d’Italia, composta nella prima metà dell’Ottocento, il conte Pompeo Litta (1781-1852) non nasconde il suo «ribrezzo» a trattare della stirpe dei Medici, cui addossava la colpa di aver chiamato in Italia gli Spagnoli; ma piú di questo, al nobiluomo piemontese, tutto intento a magnificare i quarti di nobiltà della dinastia sabauda, dispiacevano le origini plebee di una famiglia che pure aveva raggiunto innegabile potenza e fama sovranazionale. E dobbiamo dire che i Medici, quando la documentazione comincia a farsi consistente, ci appaiono proprio vestiti di quei panni borghesi che allora, nell’Italia dei Comuni, andavano per la maggiore. Soltanto in epoca granducale gli eruditi di corte provarono a coniare dal nulla fantastiche genealogie, fra le quali degna di menzione è quella che vede il capostipite Averardo, nientemeno che comandan-

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te nell’esercito di Carlo Magno alla conquista dell’Italia, uccidere in singolar tenzone il gigante Mugello: le palle nell’arme medicea non sarebbero altro che i «bozzi» lasciati dalla mazza ferrata dell’omaccione sullo scudo di Averardo. Notevole in questo esercizio di erudizione il tentativo di mettere in collegamento la famiglia con la vallata del Mugello, dove essa deteneva un consistente patrimonio fondiario e da dove si diceva provenisse.

Le origini incerte

Gli storici moderni, per la verità, hanno avanzato qualche dubbio sulla tradizione delle origini mugellane della famiglia: niente di esplicito lo prova, abbiamo solo la certezza di consistenti investimenti fondiari in questa zona – in sintonia del resto con le pratiche della ricca borghesia mercantile che usava reinvestire nella terra i capitali guadagnati col commercio –, ma nulla piú. La documentazione piú remo-

La villa di Cafaggiolo, che fu proprietà dei Medici dal XIV sec., in una lunetta dipinta da Giusto Utens nella villa medesima, situata presso Barberino di Mugello (Firenze). 1599-1602.

ta attesta la presenza dei Medici in città fin dalla seconda metà del XII secolo: essi possedevano una torre nel quartiere del Mercato Vecchio (oggi piazza della Repubblica), in consorteria con il vetusto lignaggio dei Sizi. Può apparire strano, per l’epoca, il connubio di una famiglia borghese come i Medici con una schiatta di solida nobiltà come i Sizi: le torri cittadine, intorno alle quali si raccoglievano in sodalizi politico-economici le principali schiatte, appartenevano in genere a consorterie aristocratiche. Siamo di fronte a un’eccezione nella quale l’antica nobiltà non aveva avuto remore a legarsi con i nuovi guadagni della mercatura: questo ci dice però che i Medici, già alla fine del XII secolo, dovevano

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Dossier aver ammassato una fortuna tale da far cadere i pregiudizi di rango imperanti anche in epoca comunale. Ma da dove proveniva questa ricchezza, quali erano le fonti di entrata e le attività che occupavano questi primi Medici? Su tale punto la documentazione è minima. Qualcosa comunque si può dire, soprattutto per il Duecento. Balza subito agli occhi l’attività creditizia, che sarà nel Quattrocento il mezzo con cui i Medici acquisteranno fama, ricchezza e potere in Europa. Precoce appare dunque il coinvolgimento delle prime generazioni in operazioni di prestito, che tra l’altro hanno per clienti schiatte di alto rango come i conti Guidi e istituzioni religiose potenti come il monastero di Camaldoli. A quest’epoca però finanza e banca non erano funzioni distinte e separate dalla mercatura, ma ogni compagnia commerciale di livello appena discreto praticava, di conserva, una certa attività di prestito. Non siamo però in grado di definire quale fosse per i Medici il ramo di attività commerciale principale.

Fiorino d’oro con, al dritto, il giglio e, al rovescio, san Giovanni Battista, patrono di Firenze. XV sec. Firenze, Museo Nazionale del Bargello.

Come una pestilenza

Ai primi del Trecento, comunque, il loro nome compare nei registri di matricole dell’Arte del Cambio, con una propria compagnia bancaria. I proventi delle loro lucrose attività venivano reinvestiti nell’acquisto di terreni agricoli, soprattutto nel Mugello, come già detto. Il ritmo di tali investimenti doveva apparire frenetico, se la tradizione popolare accredita l’immagine dei Medici come quella di rapaci incettatori di patrimoni, secondo quanto traspare da una novella del Sacchetti, in cui un contadino mugellano si lamenta con Francesco de’ Medici, anziano della casata, dei violenti tentativi di uno di loro per prendergli una vigna, paragonandolo a una pestilenza.

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Nella pagina accanto particolare delle Storie di San Matteo, affrescate da Niccolò di Pietro Gerini, raffigurante due banchieri. XIV-XV secolo. Prato, chiesa di S. Francesco.

La novella disegna una famiglia compatta, con il membro anziano che prende decisioni per tutti, ma in realtà i numerosi rami della casata erano autonomi, soprattutto nelle scelte economiche. Cosí i vari «banchi» medicei (cioè le diverse compagnie dedite al cambio e al prestito) vivono fortune diversificate, e accanto a grossi successi notiamo anche situazioni di crisi e fallimenti. Il ramo di Bonagiunta, per esempio, appare in difficoltà fin dalla prima metà del Trecento e si estinguerà anche come famiglia nel secolo successivo, mentre il banco e la discendenza di Averardo godranno di crescente fortuna, creando filiali in mezza Italia e in Francia. Compattezza e solidarietà interna non sono dunque tratti caratteristici della nostra famiglia. Facile sarebbe imputare alla litigiosità e alle divisioni familiari lo scarso successo della casata intorno alla metà del secolo, ma è piú opportuno inquadrare il fatto nella congiuntura sfavorevole che precede la Peste Nera, con i fallimenti a catena delle principali banche fiorentine. L’epidemia si accanisce contro i Medici, le cui fila sono falcidiate al punto che ci vorranno diversi decenni perché le fortune familiari si risollevino. Alla fine del secolo, comunque, Vieri di Cambio de’ Medici è uno degli uomini piú ricchi di Firenze, avendo accumulato un’ingente fortuna con un’accorta attività creditizia e sapienti investimenti fondiari. Nella sua compagnia bancaria, con filiali anche fuori della Penisola, compie un lungo apprendistato Giovanni di Bicci – del ramo detto «di Cafaggiolo» dal nome della località dove piú concentrava i suoi possedimenti – che sarà il vero fondatore del banco Medici e della potenza economica della casata. Partito come semplidicembre

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ce commesso, egli sale tutta la scala gerarchica fino a divenire socio e a rilevare l’impresa alla morte di Vieri. Sotto la sua guida il banco decolla come impresa internazionale. Come per altre compagnie bancarie medievali, furono anche i rapporti privilegiati con la sede apostolica a stimolare la crescita dell’azienda.

La diversificazione

Oltre a costituire filiali nelle principali piazze italiane e straniere, Giovanni investí parte degli utili nell’industria, aprendo a nome del figlio due botteghe di produzione di panni lana, settore molto sviluppato a Firenze. L’operazione va vista come una semplice diversificazione di attività, non essendo assolutamente paragonabili gli utili dell’industria

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Gli istituti di credito

A ciascuno il suo banco Sull’attività creditizia in età medievale si fa spesso confusione, definendo tutti gli operatori del settore «usurai». Ma gli uomini del tempo sapevano ben distinguere le situazioni. Esistevano tre diversi istituti di credito, denominati banchi: il banco di pegno (a Firenze chiamato anche «a pannello» a causa del drappo rosso che veniva posto sulla porta), il banco a minuto e quello grosso. Il primo era semplicemente un’agenzia di piccolo prestito su pegno, alla quale si poteva adattare senza

discussioni il termine spregiativo di «impresa usuraia». Per esercitare il loro mestiere, i titolari dovevano pagare una multa, che altro non era se non una forma di tassazione. Il banco a minuto e quello grosso invece erano attività creditizie piú che dignitose, esercitate su scala diversa perlopiú da grandi mercanti, talvolta di livello internazionale. Definire i vari Bonsignori, Bardi, Peruzzi e per ultimi i Medici come usurai non appare quindi giustificato, se non altro per una questione di proporzioni.

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A sinistra Firenze, Palazzo Vecchio, Sala della Gualdrappa. Affresco di Giovanni Stradano che raffigura scene di vita quotidiana nella piazza di Mercato Vecchio, l’odierna piazza della Repubblica, nel XVI sec.

le compagnie bancarie

Un assetto societario di tipo moderno Fino alla metà del Trecento le grandi compagnie bancarie italiane erano società a responsabilità illimitata e solidale: erano cioè formate da soci, ognuno dei quali deteneva un certo numero di quote di capitale. Cosí funzionavano, per esempio, le compagnie dei Bardi e dei Peruzzi, fino al loro disastroso crollo, avvenuto poco prima della Peste Nera. Tale sistema appare molto accentrato, e per di piú aveva il limite di coinvolgere l’intera attività nei destini di una sola delle varie filiali. Nella seconda metà del Trecento fu messo a punto un diverso modo di strutturare l’impresa: il titolare stabiliva con ogni direttore di filiale lontana una diversa società, con un proprio capitale e una propria contabilità, in modo da ridurre al minimo i rischi. Il banco Medici andò oltre: al vertice non c’era una persona, ma una compagnia-madre, che controllava le filiali costituite da compagnie subordinate. Infine, compare presso di loro per la prima volta la figura del direttore generale. Il tutto somiglia a una moderna holding company. Particolare di un’edizione della pianta di Firenze realizzata su disegno di Stefano Buonsignori 1584-1594. In evidenza, l’area del ghetto e l’adiacente piazza del Mercato Vecchio.

con quelli ottenuti per mezzo della banca. L’insieme delle sue attività produceva profitti colossali e, nel 1427, quando a Firenze fu stabilito il catasto, Giovanni risultò il secondo contribuente del fisco, superato solo da Palla di Nofri Strozzi. Ma la documentazione privata ha svelato agli storici una realtà poco edificante, cioè le dimensioni impressionanti dell’evasione fiscale perpetrata dal banco Medici: dietro un reddito dichiarato di circa 81 000 fiorini stavano, ben coperti, 180 000 fiorini d’oro. Il suo erede, il primogenito Cosimo, accrebbe ulteriormente le ricchezze familiari per coronare, con la conquista effettiva del potere, quella che fino ad allora era stata solo una supremazia economica; senza voler sminuire i suoi meriti, bisogna però riconoscere che almeno parte del titolo di Pater patriae con il quale fu glorificato gli era stata guadagnata dal padre. Andrea Barlucchi

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QUELLI DI S. LORENZO

«P

arenti, amici e vicini»: nella Firenze quattrocentesca, queste tre categorie di persone rappresentano invariabilmente l’orizzonte dei rapporti sociali di ogni famiglia mercantile di rango appena un po’ elevato. In qualunque libro di ricordanze familiari ritroviamo questa triade, e per suo tramite si possono delineare i contorni, lo status e lo schieramento politico di una casata, al punto che l’argomento è divenuto oggetto di un ricco filone di studi. Il primo termine, «famiglia», non si riferisce al nucleo parentale stretto, come lo concepiamo oggi, ma coinvolge tutto il parentado, anche quello acquisito per linea materna, a formare un insieme di persone di cui ci si può istintivamente fidare, senza bisogno (in genere) di mettere per scritto niente. In italiano moderno, per definire simili raggruppamenti appaiono piú appropriate espressioni come «casata», «lignaggio» e «schiatta». Il termine «amici» invece delinea un gruppo piú ristretto, nato sulla base di affinità elettive ma soprattutto di comuni interessi economici e politici; nei confronti di questi è necessario usare certe attenzioni di etichetta e particolari favori nella vita pubblica, per alimentare un rapporto, alla fin fine, sempre fondato sull’utile reciproco. Per comprendere l’importanza del concetto di «vicinanza» dobbiamo calarci nella realtà di una città medievale, nella quale le famiglie imparentate fra loro abitano in case strette l’una accanto all’altra, raggruppate in suddivisioni ecclesiastiche (parrocchie) e amministrative (quartieri, rioni) ben

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La Galleria degli Specchi, situata al primo piano di Palazzo Medici Riccardi a Firenze, con il ciclo di affreschi realizzato dal pittore napoletano Luca Giordano tra il 1682 e il 1685 che ne orna la volta: nella parte centrale, spicca Giove e l’Apoteosi dei Medici, che vede protagonisti alcuni componenti della potente famiglia fiorentina.



Dossier A sinistra Il Mercato Vecchio di Firenze, olio su tela di Giuseppe Moricci. XIX sec. Firenze, Galleria d’Arte Moderna di Palazzo Pitti. In basso la facciata del duecentesco Palazzo dell’Arte della Lana, a Firenze.

definite e coerenti. I confinanti non possono fare a meno di stabilire solidarietà elementari fra loro, solidarietà che, col tempo, possono diventare anche amicizie e vere e proprie parentele per tramite di matrimoni. Si viene cosí a creare una rete intricatissima di rapporti che dà il tono – si può dire – a un determinato quartiere. Anche i Medici, prima di diventare i signori di Firenze, hanno vissuto questa particolare dimensione, e la rete dei loro legami parentali e sociali era vasta in rapporto alla grandezza della casata. Il loro trasloco da un quartiere all’altro, avvenuto all’incirca alla metà del XIV secolo, ebbe quindi ripercussioni non indifferenti sull’assetto insediativo e urbanistico di una bella fetta della città.

Nel cuore della città

Le originarie abitazioni dei Medici in Firenze si trovavano nel cuore commerciale dell’abitato, intorno al margine nord-orientale della piazza del Mercato Vecchio, all’incirca dove oggi sorge l’Hotel Savoy (sul retro dell’albergo corre una viuzza dal nome significativo di «via de’ Medici»). Come già accennato, qui essi detenevano, insieme all’aristocratica stirpe dei Sizi, una torre in consorteria. Quando la loro attività bancaria crebbe di dimensioni, vennero aperti uffici, costituiti da due botteghe adiacenti, all’angolo tra via Porta Rossa e via dell’Arte della Lana presso il Mercato Nuovo, e questa sede rimase a lungo in loro possesso. Nel 1349 gli antenati di Cosimo de’ Medici si trasferirono da queste zone centrali in via Larga (oggi Cavour), all’epoca un’arteria di recente apertura che conduceva verso i quartieri periferici da poco inglobati nell’ultima cerchia di mura. La recente epidemia di peste aveva liberato grandi spazi abitativi, e i Medici ritennero conveniente investire in immobili in questa area di nuova urbanizzazione. Gran parte

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della casata si trasferí dunque in via Larga e nelle strade adiacenti, tutte facenti parte amministrativamente del gonfalone del Leon d’Oro, parrocchia di S. Lorenzo. Questo divenne per i secoli seguenti il «quartier generale» della famiglia, dove si addensavano le residenze dei satelliti («amici e vicini») che la seguirono nello spostamento. Si trattava in massima parte di «gente nuova», inurbata non prima del XIV secolo, senza antenati conosciuti, che si affacciava per la prima volta sulla grande ribalta cittadina degli affari e della politica. Costoro trovavano nel casato mediceo l’unico interlocutore, tra quelli che componevano l’oligarchia mercantesca al potere, disposto ad ascoltarli e a intrattenere rapporti stabili. In primo luogo c’erano gli affari: i Medici associavano nelle loro compagnie famiglie di rango inferiore, purché dotate di capitali da impiegare, e talvolta si servivano anche dei loro promettenti rampolli nella gestione delle diverse filiali.

Alleati fedeli

È il caso dei Martelli, famiglia discendente da un maniscalco del quartiere di San Giovanni nella prima metà del Trecento. Fra i piú devoti alla causa medicea, costoro si erano elevati di rango grazie a lucrosi matrimoni ma soprattutto grazie al rapporto esclusivo con i Medici, sia in affari che in politica. Antonio Martelli aveva rappresentato Cosimo di fronte al governo fiorentino al momento di trattare il suo ritorno dall’esilio veneziano. Altra famiglia di questo genere era quella dei Ginori, anch’essi cresciuti nella seconda metà del Trecento all’ombra dei Medici e giunti a un rispettabile livello di ricchezza economica, tale da metterli in grado di negoziare matrimoni con lignaggi ben piú antichi quali gli Albizzi e i Cavalcanti. La loro fede medicea era a tutta prova, e Piero Ginori era stato l’unico cittadino che aveva osato

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In alto affresco di Giorgio Vasari raffigurante Filippo Brunelleschi che presenta a Cosimo il Vecchio un modello della basilica di S. Lorenzo. 1556-1558. Firenze, Palazzo Vecchio. A destra la basilica di S. Lorenzo in un’illustrazione del Codice Rustici. XV sec.

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Dossier In basso lo stemma dei Martelli, un grifone d’oro in campo rosso, attribuito a Donatello, posto sullo scalone di Palazzo Martelli.

A sinistra Firenze. La torre dei Mannelli, su Ponte Vecchio, sopravvissuta alla demolizione prevista dal tracciato del Corridoio Vasariano, percorso di collegamento tra Palazzo Vecchio e Palazzo Pitti, progettato nel XVI sec. Nella pagina accanto particolare della facciata di Palazzo Medici Riccardi, opera dell’architetto toscano Michelozzo di Bartolomeo Michelozzi.

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contestare apertamente l’arresto di Cosimo nel 1433. Anche i Pucci, artigiani ancora agli inizi del XV secolo, facevano parte di questa clientela; le loro fortune crebbero enormemente quando Puccio Pucci svolse il ruolo di braccio destro di Cosimo nella condotta del partito, che fu perciò sarcasticamente definito il «partito dei puccini». Altre famiglie di gente nuova elevate di rango grazie al rapporto con i Medici furono gli Orlandini e i Masi, come i Ciai e i Della Casa che provenivano dal Mugello, il centro di potere mediceo nel contado. Naturalmente c’erano anche eccezioni a questo schema, come per esempio la tradizionale alleanza dei Medici con un ramo dei Bardi, ricchissimi finanzieri che fornivano personale qualificato per la banca. Altra storica casata di rango magnatizio legata ai Medici era quella dei Tornaquinci; alcuni rami di essa si erano fatti «di popolo», ripudiando le proprie prerogative di classe e adottando i cognomi piú «democratici» di Tornabuoni e Popoleschi.

Alleanze matrimoniali

Un’oculata politica matrimoniale completava la coesione interna del gruppo: oltre un quarto delle famiglie che possiamo qualificare come filo-medicee agli inizi del Quattrocento aveva intessuto con i Medici legami di tipo matrimoniale. Qualcuno si è preso anche la briga di contarli e ha evidenziato per i primi tre decenni del XV secolo 22 sposalizi dettati da questa logica. A un certo momento quelli che erano considerati i quattro caporioni del partito mediceo – Alamanno Salviati, Antonio di Salvestro Serristori, Giannozzo di Stoldo Gianfigliazzi e Francesco di Simone Tornabuoni – risultavano tutti imparentati con la nostra casata, essendo i primi tre generi di Averardo di Cosimo de’ Medici, mentre la nipote del quarto ne aveva sposato il figlio Giuliano. Una stirpe di gran

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Palazzo Medici Riccardi/1

Ambizioso, ma non smodato Narra Giorgio Vasari nelle sue Vite che Cosimo il Vecchio aveva commissionato in un primo momento al Brunelleschi il progetto della nuova grande residenza familiare in via Larga ma, dopo averlo esaminato, lo aveva ritenuto eccessivamente fastoso e quindi non consono alla sua posizione di semplice cittadino (questa almeno era l’immagine che voleva accreditare). In effetti il progetto brunelleschiano, stando alle descrizioni pervenuteci, doveva apparire veramente grandioso: il palazzo avrebbe dovuto volgere la facciata verso la cattedrale di S. Lorenzo e occupare tutto lo spazio abitativo fino a via Martelli, mentre sull’area coperta dal palazzo poi effettivamente realizzato avrebbe dovuto trovare posto una piazza. L’edificio dunque si sarebbe trovato tra due piazze e di fronte a una basilica, in una posizione che ricordava in maniera evidente quella dei vescovadi o dei palazzi comunali. Troppo per un privato cittadino. Cosimo dunque ripiegò sulle piú rassicuranti forme proposte da Michelozzo, che pure concepí un edificio destinato a inaugurare il particolare stile architettonico fiorentino.

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palazzo medici riccardi/2

Una dimora che fece scuola Il Palazzo Medici, oggi Medici Riccardi, iniziato nel 1444 e terminato circa nel 1460, era in origine abbastanza diverso da come lo vediamo attualmente. Innanzitutto, la facciata su via Larga contava solo dieci finestre, bifore a tutto sesto, nei due piani superiori; al pianterreno si aprivano due portoni asimmetrici rispetto alle file di finestre soprastanti. All’angolo con via Gori c’era una loggia a due arcate, come si può vedere nel dipinto di Francesco Granacci raffigurante l’Arrivo di Carlo VIII al palazzo mediceo, che venne chiusa per motivi di sicurezza nel 1517 e sostituita con due finestre «inginocchiate», su modello di Michelangelo. Di proporzioni piú armoniche tra larghezza e altezza rispetto a oggi, l’edificio offriva il primo esempio di palazzo signorile fiorentino, imitato nel 1458 da Palazzo Pitti e nel 1489 da Palazzo Strozzi. Le maggiori ristrutturazioni, come l’ampliamento a diciassette finestre, avvennero nella seconda metà del XVII secolo, quando la proprietà passò alla famiglia Riccardi. Il cortile interno di Palazzo Medici Riccardi. Residenza del ramo principale dei Medici nel Medioevo e nel Rinascimento, l’edificio venne acquistato dai Riccardi nel 1655.

nome emarginata dall’oligarchia (e che quindi aveva interesse a stabilire con i Medici relazioni di alleanza) era quella degli Acciaiuoli: ecco dunque che intorno al 1420 Vieri di Cambio de’ Medici impalma la figlia di Donato Acciaiuoli. Il trasferimento delle residenze medicee dal Mercato Vecchio a via Larga nel gonfalone del Leon d’oro provocò alla lunga una sorta di esodo in quella direzione delle famiglie che costituivano la loro clientela. In un primo tempo le case dei Medici si allinearono tutte sulla via Larga, inframmezzate a quelle dei Ginori. I Martelli si concentrarono sulla via che da loro prende oggi il nome, giungendo a occupare tutto l’isolato fino a piazza San Lorenzo, dove avevano botteghe e una locanda che davano in affitto. Sempre sulla piazza presero dimora alcune famiglie Orlandini e Pucci, mentre i piú facoltosi Ginori occuparono tutta la cantonata all’inizio della via che oggi porta il loro nome. Tutto ciò fe-

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ce di San Lorenzo, e in special modo dell’area del gonfalone del Leon d’oro, il quartier generale mediceo; per le famiglie di modesta condizione che già da tempo abitavano la zona fu quasi naturale accostarsi a questi nuovi potenti vicini, per cui si venne a creare un’area della città monopolizzata dai Medici e dal loro clan. Essi si accollarono di buon grado il patronato della basilica di S. Lorenzo, che fu ampliata e abbellita a loro spese, sempre in un’ottica di accaparramento del favore popolare. Quando Cosimo decise la costruzione del Palazzo Medici ci fu uno scambio di proprietà con i Ginori, che volentieri cedettero le loro case per consentire al nuovo edificio, simbolo della grandezza dei loro patroni, di estendere comodamente il proprio giardino fino alla piazza san Lorenzo. L’attività edilizia iniziata dai Medici venne portata avanti dalle famiglie loro collegate, e alla lunga impresse un’impronta indelebile al quartiere: tra Quattro e Cinquecento anche i Martelli, i Ginori e i Della Stufa si cimentarono nella costruzione di splendidi palazzi, che ancora oggi abbelliscono le vie intorno a S. Lorenzo. V Andrea Barlucchi

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QuarantatrĂŠ scene di vita

di Corrado Occhipinti Confalonieri

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Negli anni Sessanta del Trecento, il conte Stefano Porro decide di innalzare, a Lentate sul Seveso, un oratorio intitolato a santo Stefano. E per celebrare degnamente il protomartire commissiona un grandioso ciclo affrescato. Che illustra l’intera vita del santo, intrecciandola con le vicende familiari del nobile committente

Tutte le immagini che corredano l’articolo si riferiscono all’oratorio di S. Stefano a Lentate sul Seveso (Monza-Brianza). La chiesa sorse fra il 1369 e il 1375 per volontà del nobile lombardo Stefano Porro e il ciclo affrescato con le storie del protomartire è opera di allievi giotteschi. Santo Stefano è appena venuto al mondo e un’ancella porta a sua madre una pietanza con la quale ristorarsi. Il neonato è stato però rapito dal demonio e sostituito nella culla con un piccolo diavolo, riconoscibile dalle corna. Nel pannello successivo, due monaci vedono in cielo i due diavoli che hanno preso il piccolo Stefano e, pregando, li convincono ad abbandonarlo nella propria chiesa.

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L L’

oratorio di Lentate sul Seveso (Monza-Brianza) dedicato a santo Stefano protomartire venne costruito fra il 1369 e il 1375 per volontà di Stefano Porro, erede di una delle piú antiche dinastie lombarde risalente al XII secolo. Molto vicino alla signoria viscontea di Bernabò e di Galeazzo II, Porro, in qualità di loro ambasciatore, viaggiò molto e, nel 1367, a Praga, poté ammirare le cappelle dell’imperatore. Partecipò alla pax fra i Visconti e Carlo IV e doveva aver ricoperto un ruolo importante nella vicenda perché l’imperatore lo fece conte palatino, accordandogli un privilegio che gli consentiva di nominare notai e giudici ordinari, oltre a riconoscere figli illegittimi. Stefano aveva la passione per i codici miniati e in particolare ammirava il Libro d’Ore di Bianca di Savoia (moglie di Galeazzo II), caratterizzato da grandi miniature che ispirarono i vasti pannelli del ciclo affrescato di Lentate. Per i contenuti, il conte attinse agli Atti degli Apostoli, al Codice lombardo – una miscellanea di storie e di leggende sull’infanzia del santo – e alla Leggenda aurea, in cui viene narrata la fase post mortem. Per quanto riguarda la storia di santo Stefano, quello di Lentate

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SVIZZERA

Bormio

Chiavenna

TRENTINO ALTO ADIGE

Novate Mezzola

Trento

Meraggio

Como Lecco Varese

Lentate sul Seveso Bergamo Monza Brescia Novara Milano Lonato del Garda Pavia

Cremona

VENETO

Verona

Mantova

Meda

Piacenza Alessandria PIEMONTE

EMILIA-ROMAGNA Parma

Reggio nell’Emilia Modena

Una veduta dell’oratorio di S. Stefano, voluto dal nobile Stefano Porro, che fu uomo di fiducia di Bernabò e Galeazzo II Visconti.

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A sinistra l’affresco raffigurante il Cristo che emerge dal sepolcro rinvenuto nella lunetta che sormonta l’ingresso dell’oratorio grazie agli interventi di restauro. In basso il conte Stefano Porro offre un modellino dell’oratorio a santo Stefano.

diventa cosí il piú importante ciclo d’Italia e forse uno dei piú completi, perché illustra la sua vita dal concepimento fino alla traslazione delle reliquie. Non è un caso che Stefano Porro si chiami cosí e neppure che voglia dedicare un ciclo di affreschi con ben quarantatré scene alla vita del santo: il motivo è quello di ribadire il suo amore e la sua volontà di espiazione, per motivi che esamineremo piú avanti.

Una vita in due registri

Come accade anche oggi, nella società trecentesca le immagini erano un importante veicolo d’informazione e osservare queste figure costituiva un grande privilegio per conoscere la leggenda del primo martire cristiano. I riquadri sono disposti su due registri: in quello superiore troviamo la vita terrena del santo mentre in quello inferiore la vicenda ultraterrena. Per dare maggiore rilevanza all’ultima scena, il ricongiungimento a Roma delle salme di san Lorenzo e di santo Stefano, questa è stata separata dalle altre e posta a sinistra dell’abside, sotto il Giudizio Universale. Gli affreschi devono essere letti dando le spalle all’altare e si inizia da sinistra, come accade anche per la storia di san Francesco nella Basilica Superiore di Assisi. Il racconto inizia con i genitori di Stefano seduti su una panca di legno, in una stanza il cui soffitto è decorato con un cielo di stelle. Sopra si scorge il blu del firmamento. Fino ad allora sono senza figli, una grave onta per gli Ebrei. L’uomo ha appena ricevuto dalla moglie l’annuncio della gravidanza tardiva. Ha le dita alzate,

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medioevo nascosto lombardia A sinistra i genitori di Stefano. L’uomo ha ricevuto dalla moglie l’annuncio della gravidanza tardiva e ha le dita alzate, segno della parola: probabilmente sta ringraziando Dio per il dono tanto atteso. Nella pagina accanto santo Stefano impegnato nella disputa con gli ellenisti e poi al cospetto del sommo Sacerdote del Sinedrio. In basso una veduta del ciclo affrescato, che si articola in quarantatré episodi.

segno della parola: probabilmente sta ringraziando Dio per il dono tanto atteso. La donna indossa un lussuoso abito con ricami blu su sfondo rosso, dal tipico scollo quadrato secondo la moda trecentesca. Porta un’elaborata acconciatura, dove la treccia intorno al capo è ornata da una fascia con smerlature.

Il neonato rapito...

Il demonio però rapisce il neonato Stefano e lo sostituisce nella culla con un piccolo diavolo, riconoscibile perché nell’immagine ha le corna. I particolari realistici sono numerosi: si vedono distintamente un drappo verde alle pareti, le venature del legno, la piccola vasca per il bagnetto, le pantofole della puerpera assistita da un’ancella. Due monaci vestiti di verde, però, vedono in cielo i due diavoli che hanno rapito il piccolo Stefano e con le preghiere li convincono ad abbandonarlo nella loro chiesa. I religiosi lo crescono, lo fanno battezzare e gli impartiscono un’educazione cattolica. Stefano con un libro aperto a metà sulle ginocchia ascolta attentamente la spiegazione di uno dei due monaci, identificabile dalla mano destra con l’indice alzato. Stefano viene ordinato diacono e, dopo qualche anno, decide di partire alla ricerca dei suoi genitori. I due religiosi sono ormai anziani, lo si comprende dalla barba grigia, e all’ingresso del monastero benedicono il giovane, vestito da pellegrino, pronto a partire. Dopo

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aver percorso molta strada, giunge davanti a una città fortificata e incontra un uomo e una donna. Si tratta proprio dei suoi genitori, riconoscibili perché indossano vesti simili a quelle del primo riquadro, che però non sanno di avere di fronte a loro il vero figlio.

...e il diavolo scacciato

Il ragazzo, che dovrebbe avere circa quattordici anni, gli chiede riparo per la notte, ma la coppia risponde che non può ospitarlo a causa della deformità del loro figliolo, che non cresce. Stefano insiste e lo portano a casa dove, sotto lo sguardo incredulo dei genitori, smaschera il diavolo impostore, lo solleva dalla culla e gli ordina di allontanarsi. Nel Medioevo lo «scambiatino» era un bimbo che non si sviluppava perché barattato con un piccolo demonio. Nella speranza che il diavolo riportasse quello trafugato, veniva sottoposto a crudeli riti, abbandonato o fatto morire. Esiste un’iconografia anche cruenta di questo episodio della leggenda, dove il piccolo diavolo impostore viene addirittura gettato in un fuoco purificatorio (vedi anche «Medioevo» n. 250, novembre 2017). Le strette fasciature intorno al neonato che vediamo nelle immagini servivano a proteggere quelle che erano considerate le sue fragili ossa, proprio per evitare che crescesse deforme. Il racconto prosegue con Stefano che racconta la sua storia ai genitori inginocchiati davanti a lui: non rimar-

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rà per sempre con loro, perché ha già deciso di partire alla volta di Gerusalemme per unirsi agli apostoli. Assistendo alla loro disperazione perché devono separarsi di nuovo, Stefano li rassicura, dicendo loro che sapranno della sua morte se vedranno il vino trasformarsi in sangue. I genitori accettano la decisione di Stefano e la madre incrocia le braccia al petto, gesto di umile sottomissione, mentre il padre gli stringe virilmente la mano in segno di saluto. Giunto a Gerusalemme qualche tempo dopo la Pentecoste, viene accolto da san Pietro e dagli altri apostoli. Assiste a un comizio durante il quale gli Ebrei di lingua greca – gli ellenisti – si lamentano perché durante la distribuzione del pane gli altri Ebrei escludono le loro vedove. San Pietro presenta alle vedove Stefano che rivolge un braccio protettivo verso di loro. Sale allora su un palco e predica i principi del Vangelo a un pubblico pagano attento: donne dai lussuosi abiti sgargianti, uomini con il turbante e vedove. Nelle dispute con gli ellenisti, Stefano prevale e questi, assistendo al gran numero di convertiti, lo accusano di aver pronunciato parole blasfeme contro Mosè e contro Dio. Proprio mentre sta impartendo la benedizione a due uomini inginocchiati di fronte a lui, viene arrestato dagli armigeri, mentre alla scena assistono alcune don-

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In alto la lapidazione di santo Stefano, il cui corpo viene abbandonato in aperta campagna e due leoni sembrano vegliarlo. A destra il vino nel bicchiere del padre di Stefano si trasforma in sangue, segno che il figlio è venuto a morte.

ne e un malato in barella, che aspetta la grazia. Condotto al tribunale del Sinedrio, il sommo Sacerdote lo scruta pensoso con le mani sulle ginocchia, segno del potere, mentre Stefano si difende dalle accuse di aver spergiurato contro il Tempio e contro la legge.

Condannato a morte

Al cospetto del Sacerdote e di un manipolo di falsi testimoni Stefano si difende da queste diffamazioni. Indica con le mani il numero sette dei passi biblici citati nel suo lungo discorso ma ha già il volto tramutato in tratti angelici perché destinato al martirio. Gli accusatori, molto irritati, cacciano il santo dalla città, ma non lo crocefiggono, bensí lo linciano, perché, secondo la Leggenda aurea, nel 33 o 34 d.C. la Palestina non era sotto il dominio romano e quindi applicano la legge ebraica della lapidazione. Tali esecuzioni capitali dovevano dunque essere iniziate dai testimoni che, per essere piú agidicembre

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li nello scagliare le pietre, si toglievano i mantelli. Alla scena del massacro assiste Saulo, il futuro san Paolo di Tarso, che indossa un turbante, segno che non è ancora convertito, con ai piedi i mantelli dei torturatori. L’altro personaggio è Robone, che impugna una bacchetta, segno del comando. Nell’angolo a destra si vede Gesú che benedice il protomartire. La notte, il corpo di Stefano viene abbandonato nella campagna in una località sconosciuta. Ci sono due leoni con gli occhi spalancati, segno dell’attenzione, che non osano toccarlo anzi sembra quasi veglino su di lui, mentre un angelo in cielo sostiene un lenzuolo che avvolge l’anima del santo. Il racconto si interrompe con un flash back. Di fronte a una tavola imbandita, i genitori di Stefano apprendono della morte del figlio. Il padre infatti solleva un bicchiere in cui il vino si è trasformato in sangue, mentre la madre si solleva in piedi e grida sconvolta. Alla scena assiste un servitore – lo si capisce perché ha le braccia

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conserte –, che alcuni studiosi ritengono somigli al committente degli affreschi, Stefano Porro. Se si confronta l’immagine con quella di un altro dipinto dell’oratorio in cui il conte è raffigurato nell’atto di offrire un modellino della cappella a santo Stefano, si notano tratti somatici simili. Non possiamo tuttavia esserne certi, perché in quel tempo non si dava importanza alle somiglianze e difficilmente un uomo di alto rango si identificava in un servo. La prossimità ai Porro la si nota però dal dettaglio della tovaglia bianca in pizzo che richiama Cantú, una cittadina vicino a Lentate, famosa per i suoi ricamatori. La rappresentazione ha anche un significato apologetico: il vino tramutato in sangue dà enfasi alla disputa di Stefano contro i pagani e rappresenta la vittoria del cristianesimo. Il racconto prosegue con il recupero del corpo del santo da parte del difensore degli apostoli, Gamaliele il fariseo, che, assieme a due aiutanti, gli dà sepoltura a

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medioevo nascosto lombardia A sinistra il corpo di santo Stefano viene portato a Gerusalemme per essere sepolto. Nella pagina accanto Il senatore di Costantinopoli, Alessandro, chiede al vescovo Giovanni di poter costruire a Gerusalemme un oratorio nel quale collocare le reliquie del santo. In basso la morte del senatore Alessandro, vegliato dalla moglie, Giuliana, che si dispera.

Captar Gahamal, a nord di Gerusalemme. Trascorrono alcuni secoli, secondo la Leggenda siamo al 3 dicembre 415, e Gamaliele, ormai anziano, con la barba grigia, appare in sogno a un prete di nome Luciano. Il protettore degli apostoli gli indica dove il santo è sepolto, perché è necessario portare le reliquie in un luogo degno, dove possano essere venerate. Il prete mostra a Giovanni, vescovo di Gerusalemme, il luogo della sepoltura. Entrambi si recano nel punto indicato da Gamaiele e qui

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due inservienti muniti di zappa scavano la terra finché non riesumano l’arca che contiene il cadavere. Quattro uomini traslano il corpo di Stefano nella città santa per porlo dentro un’arca presso la chiesa di Sion. Durante il trasporto due storpi si inginocchiano al loro passaggio, chiedendo la grazia al santo. Il senatore di Costantinopoli, Alessandro, chiede al vescovo Giovanni di poter costruire a Gerusalemme un oratorio nel quale collocare le reliquie del santo. Alessandro è riccamente vestito, con una mantellina di pelliccia. Alla scena assistono due prelati e due eleganti paggi che attendono ordini, riconoscibili per le braccia incrociate. La tradizione narra invece che fu l’imperatrice Elia Eudocia, nel 460 d.C., a far costruire a nord della città santa, sul luogo della lapidazione, la basilica dedicata a santo Stefano. Il 2 agosto la Chiesa latina festeggia il ritrovamento delle reliquie, mentre il giorno dopo quella greca celebra la traslazione. La festa principale, già dal V secolo, è fissata il 26 dicembre, dopo il giorno natale di Gesú. Il conte Porro dà rilevanza al senatore anziché all’imperatrice per sottolineare il potere politico di Roma, che dicembre

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medioevo nascosto lombardia il ciclo affrescato

Echi giotteschi Tutte le pareti dell’oratorio di S. Stefano a Lentate sul Seveso sono affrescate da allievi giotteschi e si mostrano oggi in buone condizioni di conservazione grazie all’intervento di restauro condotto nel 2008. Oltre al Giudizio Universale, risulta di particolare interesse la scena della Crocefissione, di sorprendente realismo. I centurioni sulla destra sono dipinti con i costumi del XIV secolo, cosí come le bardature dei cavalli. A sinistra, Maria sviene alla vista del figlio sulla croce, sorretta dalle altre due Marie, mentre Maddalena è sotto la croce. La scena è simile a quella della Crocefissione dipinta da Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova. Il dolore manifesto di Maria è un’innovazione che la Chiesa ha inutilmente provato a inibire, perché in contrasto con l’evangelico dolore composto della Vergine in piedi sotto la croce. Si nota sul corpo del Cristo una striscia grigia, perché si era formata una crepa dovuta allo scivolamento

verso il basso dell’oratorio, a causa dei lavori stradali e della ferrovia. Per questo motivo i restauratori hanno staccato l’affresco dall’intonaco e lo hanno spostato a sinistra, in modo che il viso non fosse compromesso: ecco perché il braccio destro sembra piú lungo e il corpo piú largo. La sbarra di ferro orizzontale che attraversa l’affresco serve proprio a mantenere in sicurezza l’opera. A sinistra, troviamo il sepolcro dei Porro su cui vigilano due mastini viscontei, con al collare la scritta «Stef», in segno di fedeltà alla signoria milanese. Scopriamo che Stefano era devoto alla moglie Caterina Figini e sulla lapide troviamo incise queste sue parole: «Anno del Signore 1369 (…) Qui volle e scelse il sepolcro, ove con la moglie cara e con i figli potesse rimanere dopo la propria morte. La moglie era nata da nobile sangue, il suo nome fu Caterina e fu di bellezza insigne né la sua virtú fu inferiore all’avvenenza del corpo».

deriva anche dalla sua gloria antica. In un grande letto il senatore Alessandro muore; sulla sinistra, la moglie Giuliana ha una mano poggiata alla guancia, segno della disperazione, mentre a destra una seconda donna che piange è consolata da una terza. Al centro un sacerdote officia i sacramenti. Il corpo del senatore viene deposto in un’arca con il coperchio e sistemata nell’oratorio a fianco di quella di santo Stefano. Giuliana vuole tornare a Costantinopoli e chiede al vescovo Cirillo di poter portare con sé la salma del marito. Il vescovo acconsente, ma Giuliana sbaglia sepolcro e porta via quello di Stefano. Solo durante il viaggio su una piccola imbarcazione si accorge dell’errore, sotto gli occhi stupiti di due soli rematori. Sono scortati da due angeli che li fanno arrivare sani e salvi nella capitale dell’impero d’Oriente. Le preziose reliquie di Stefano vengono caricate su di un carro trascinato dai buoi fino a quando gli animali si fermano davanti alla chiesa di S. Lorenzo, nonostante i due bovari con le verghe in mano li spingano inutilmente. Il vescovo interpreta allora

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Mentre i santi Lorenzo e Stefano riposano nella basilica romana a loro dedicata, le spoglie del conte Porro e della sua famiglia sono sparite: quando fu aperta la tomba all’interno della cappella venne trovata vuota.

come segno divino la sosta davanti a quel luogo sacro e ordina che il corpo di Stefano venga portato all’interno dove lo benedice con un ramo di ulivo mentre un gruppo di chierici gli reggono il messale.

A patti col demonio

L’imperatore Teodosio II (408-450) ha una figlia, Licinia Eudocia, che è posseduta dal demonio. Le ordina allora di andare a visitare le reliquie di Stefano, con la speranza che attraverso questo contatto possa essere liberata. Ma il diavolo gli fa sapere che avrebbe lasciato il corpo di Eudocia solo se le spoglie del santo fossero state trasferite a Roma. Nel riquadro si vede l’imperatore con la moglie, Elia Eudocia, che chiede con il dito alzato ai due rappresentanti del popolo il permesso per il trasferimento. Licinia Eudocia giace ai piedi della madre anche se l’intonaco si è staccato e l’immagine è quasi perduta. Dopo un’animata discussione, i delegati dei cittadini di Costantinopoli danno l’assenso, ma in cambio chiedono le reliquie di san Lorenzo, custodite nella città eterna. dicembre

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In alto il corpo di santo Stefano viene sepolto a Roma e san Lorenzo si aggrappa al bordo della tomba per fargli spazio. A sinistra la Crocifissione, dominata dalla monumentale figura del Cristo che pende dalla croce.

Le reliquie di Stefano partono alla volta di Roma per l’ultimo viaggio con a bordo il vescovo, i chierici e due emissari del popolo. All’arrivo, la nave viene accolta dalla folla festante e da un vescovo benedicente. Il santo viene posto vicino a san Lorenzo, che nell’immagine si sposta aggrappandosi al bordo della tomba per fare spazio al nuovo arrivato. Licinia Eudocia tocca la testa di Stefano e il contatto con la reliquia fa fuggire il demonio che la possedeva. I due emissari che avrebbero dovuto portare i resti di Lorenzo a Costantinopoli rimangono pietrificati. L’avvenimento costituisce un segno divino che sancisce l’unità fra Costantinopoli e Roma e il primato di quest’ultima: i due santi, simbolo del Sacro Romano Impero d’Oriente e d’Occidente, vogliono rimanere insieme. Alla scena assistono sulla sinistra la madre dell’indemoniata e il padre Teodosio II, con una corona d’alloro in testa (in mano ha il bastone del comando). Dalle fattezze dell’imperatore si dovrebbe trattare in realtà di Carlo IV di Boemia che, nel 1368, l’anno prima dell’inizio dei lavori per la cappella, era sceso in Italia per firmare a Modena la pace con i Visconti. Durante il suo soggiorno aveva confermato Stefano Porro conte palatino, riaffermando cosí il suo prestigio politico e diplomatico. Il messaggio del primato di Roma riveste anche un altro significato: Stefano Porro è favorevole alla fine della «cattività avignonese», che durerà fino al 1377 e a un ritorno del papa nella santa sede.

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La lunga rappresentazione della storia di santo Stefano è voluta dal conte come potente dimostrazione di fede. Nel 1252 Albertino Porro, un congiunto di Stefano, fu accusato dell’assassinio di san Pietro da Verona, un predicatore domenicano a capo della Santa Inquisizione, che nel 1251 aveva scoperto un nucleo di eretici catari presso le nobili famiglie milanesi. I catari rappresentavano un nemico fortemente combattuto dal papato perché non ne riconoscevano l’autorità e le contrapponevano un’altra Chiesa con una propria gerarchia. I suoi adepti, fra l’altro, rifiutavano i sacramenti, erano pacifisti e vegetariani, non credevano nel matrimonio e neppure nella procreazione. I Porro, in realtà, non erano eretici, ma Pietro da Verona rappresentava l’inquisizione di una Chiesa piú interessata al potere temporale che a quello spirituale e Albertino, in qualità di nobile ghibellino, avrebbe aderito alla congiura per motivi d’interesse politico. L’assassino riesce a fuggire e di lui non se ne saprà piú nulla, salvando cosí l’onore della famiglia Porro che qualche anno dopo, nel censimento del 1277 voluto da Ottone Visconti, compare ancora come una delle piú importanti casate nobiliari milanesi. Il sospetto di eresia però continua a incombere sulla famiglia. Stefano Porro per ribadire la sua distanza da questo gravissimo peccato, commesso da un suo stretto parente, decide di ribadire la sua fedeltà alla Chiesa facendo erigere la cappella. F

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Viterbo e la cometa di Halley PALEOGRAFIA • La breve postilla

contenuta in un manoscritto viterbese custodisce, in realtà, una notizia di straordinario interesse: quelle poche righe, infatti, ricordano il passaggio dell’astro chiomato nell’anno 1066

«N

essuno è cosí tardo e ottuso e chino a terra da non rialzarsi e volgersi con tutto il suo spirito verso le cose divine, soprattutto quando dal cielo ha brillato qualche insolito prodigio»: cosí scrive Lucio Anneo Seneca (4 a.C.-65 d.C) in apertura del VII libro delle Naturales Quaestiones. Tra i vari fenomeni celesti il passaggio di una cometa, leggiadra e maestosa creatura del firmamento, è da sempre stato considerato momento degno della massima attenzione, e la sua osservazione spunto di presagi e oroscopi di ogni sorta. Tra le differenti comete, quella di Halley (vedi box a p. 107), che torna ciclicamente ogni 76 anni a solcare la volta stellata sopra la Terra, ha una rinomanza del tutto eccezionale. Come non ricordare della pascoliana «stella randagia, astro disperso, / che forse cerchi, nel tuo folle andare, / la porta onde fuggir dall’universo!» (Giovanni Pascoli, Ode alla cometa di Halley, vv. 1-3) e il suo passaggio del 12 a.C., riportato nelle Sacre Scritture a sottolineare proprio la nascita del Redentore in Betlemme, attimo

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La pagina del ms 36 con la notizia del passaggio della cometa di Halley nel 1066. Viterbo, Centro di Documenatazione Diocesano. magistralmente immortalato nella padovana Cappella degli Scrovegni nell’episodio dell’Adorazione dei Magi.

Un evento mirabile L’affresco giottesco è a sua volta rimando a un altro passaggio piú recente della cometa, il XXI, quello del 1301, evento cosí mirabile da essere ricordato da Giovanni Villani (1280-1348) nella Nuova Cronica (Lib. I, cap. XLVIII), nel Convivio dantesco (Trattato II, cap. XIII) e del quale un labile sentore si percepisce in una terzina del XXVI canto del Paradiso (vv. 10-12): «Cosí Beatrice; e quelle anime liete / si fero spere sopra fissi poli, / fiammando, volte, a guisa di comete». Tra le svariate registrazioni, descrizioni piú o meno attinenti o fantasiose del suo incessante peregrinare, una testimonianza,

Padova, Cappella degli Scrovegni. Adorazione dei Magi, particolare delle Storie di Cristo, affrescate da Giotto tra il 1303 e il 1305. Nel cielo si staglia la stella, qui rappresentata con la chioma, forse per influenza dell’apparizione, nel 1301, della cometa di Halley. scoperta fortuitamente nel 1910, anno del suo penultimo avvistamento (XXIX passaggio), ma ben presto purtroppo nuovamente ritornata nell’oblio, è conservata all’interno di un manoscritto di modeste dimensioni della cattedrale di S. Lorenzo a Viterbo, una piccola postilla, di appena sei righe, nascosta tra i fogli di un codice teologico, costituito da due parti distinte: Instructiones patrum ad clericos regulares (ff. 1r-95v) e Sancti Gregori Magni Homeliae super Ezechielem (96r-133v), dicembre

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e rilegate insieme in un unico volume nel XIV secolo. «Anno ab incarnatione Domini Nostri MLXVI nonus aprilis apparuit stella cometas», cosí principia l’annotazione apposta a f. 95v del sopra menzionato ms 36, conservato presso il Centro di Documentazione Diocesano di Viterbo, chiosa leggibile appena sopra l’Exiplicit al Liber Regula Canonicorum.

Un testo coerente e omogeneo A una prima analisi delle caratteristiche grafiche, decorative e di mise-en-page del foglio si desume, immediatamente, come il testo,

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riferibile all’evento astronomico del 1066, risulti del tutto coerente e omogeneo con il progetto editoriale dell’esemplare di frammento dell’Ordo canonicorum, approvato dal Concilio di Aquisgrana (1063), databile, come evidente dalla tipologia scrittoria di transizione tra la minuscola e la gotica rotunda, tra la fine dell’XI secolo e gli inizi del XII. Pertanto il passo risulterebbe copiato da uno sconosciuto scriptor da un antigrafo piú risalente (post quem 1063-ante quem 1066), oggi disperso. Esemplare in cui, tra l’ultima linea di scrittura della Regula e l’indicazione del suddetto termine, del suo Explicit,

era rimasto uno spazio bianco, uno spazio anepigrafo, e ove ex abrupto era stata incastonata da un certo Amminuno, probabile testimone oculare, la circostanziata memoria del passaggio della cometa del 1066.

L’errore del copista Il fatto che il testo, ora a nostra disposizione, sia frutto di copia e non l’archetipo del 1066, s’intuisce altresí da un banale errore di trascrizione del posteriore copista, errore che interessa il numerale XV, posto nella terza linea di scrittura, da intendersi piuttosto come XII. Infatti in tal modo si riesce facilmente a sanare dicembre

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A sinistra particolare della tela ricamata (piú nota come «arazzo») di Bayeux raffigurante alcuni astrologi che annunciano l’apparizione di una cometa come presagio nefasto. XI sec. Bayeux, Musée de la Tapisserie. A destra ritratto di Edmund Halley, olio su tela di Richard Phillips. XVIII sec. Londra, National Portrait Gallery. In basso Melancolia I, incisione di Albrecht Dürer. 1514. New York, The Metropolitan Museum of Art. Sullo sfondo, appare la cometa, qui intesa come sovvertitrice del disegno aristotelico dell’universo e dei suoi principi logici.

Una vita col naso all’insú La cometa di Halley deve il suo nome a Sir Edmund Halley (1656-1742), astronomo inglese che la osservò nel 1682. Egli confrontò l’orbita della cometa con quella di altre, osservate nel 1531 e nel 1607, scoprendo che erano simili. Pertanto ipotizzò che si trattasse del medesimo oggetto, che si ripresentava a intervalli regolari di 76 anni. Nel 1720 succedette a John Flamsteed nella carica di astronomo reale presso l’osservatorio di Greenwich e si dedicò per diciotto anni a continuate osservazioni lunari, giungendo a determinare l’accelerazione della Luna. Dopo la sua morte, nel 1758, la cometa fu effettivamente osservata secondo quanto l’astronomo aveva predetto, e cosí fu denominata «di Halley» in suo onore.

la minima aporia di datazione presente all’interno dell’attuale nota, circa l’inizio della permanenza della cometa. Errore altrimenti corregibile in modo assai piú macchinoso interpretando, con una lectio difficilior, i termini nonus aprilis, inizio del fenomeno, non come il 9 aprile del calendario gregoriano, ma come un’imprecisione, rispetto al piú corretto nonis aprilis, cioè le none di aprile del calendario giuliano, identificabile oggi con il giorno 5 aprile. Stando perciò a un’esatta interpretazione della cronaca viterbese circa l’evento astronomico, la cometa dalla fumante coda

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CALEIDO SCOPIO apparirebbe a oriente il mattino del 9 di aprile (nonus mensis aprilis), sostando per 12 giorni, pertanto fino al 21 aprile (usque ad XIII calende maj), per comparire quindi a occidente la sera del 24 aprile (VIII calende maj), oscurando con la sua luce la Luna e fiammeggiando nel cielo fino al 1 di giugno (calendae iuni). La descrizione dello sconosciuto astronomo risulta inappuntabile per proprietà di linguaggio e cosí scientificamente accurata dal punto di vista osservativo, che i dati inerenti la comparsa della stella nel cielo, prima a oriente, poi a occidente, la sua permanenza nella volta celeste, combaciano perfettamente con le testimonianze cinesi riguardo il medesimo avvistamento.

Fino ai primi di giugno Anche la durata della visibilità del fenomeno fino alle calende di Maggio, è del tutto comparabile con le osservazioni bizantine presenti nell’Epitomae Historiarum (Vol. II, lib. XVIII) di Joànnes Zonaràs (10741130), ove si afferma che l’astro fosse visibile per circa 40 giorni, fino ai primi giorni di giugno, o con quelle degli Annali cinesi riportati da Antonie Guabil (1689-1759) ne l’Histoire de l’astronomie chinoise, ove si precisa infatti, come la cometa fu vista fino al 7 di giugno, rendendo non degno di credito quanto affermato dai molteplici e discordanti testimoni occidentali, raccolti da Alexandre Guy Pingré (1711-1796) ne La Cometographie ou Traite Historique et Theorique des Cometes, ove, invece, il fenomeno viene variamente registrato come o visibile solo per un giorno, o qualche giorno, o ancora per una settimana, o infine per quattordici giorni, se non genericamente a lungo. Proprio le indicazioni calendariali fanno sí che la postilla viterbese appaia come il piú precoce e puntuale avvistamento in Occidente del diciassettesimo passaggio

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Ravenna, basilica di S. Apollinare Nuovo. Mosaico parietale raffigurante l’Adorazione dei Magi. 561-568. La stella, che secondo il racconto dell’evangelista Matteo, avrebbe guidato il viaggio dei tre spaienti, è qui raffigurata in modo insolito, poiché se ne distinguono non una, ma due, inscritte l’una nell’altra, entrambe a otto punte.

della cometa di Halley, fino a oggi variamente e approssimativamente indicato durante la Settimana Santa, nel giorno di Pasqua (16 aprile), o genericamente nel mese di aprile del 1066, secondo quanto affermato, per esempio, dalla Chronica Majora di Mattheus Parisiensis (12001259) o nel Chronicon di Romualdo Salernitano (1110-1181).

Timore reverenziale Veramente degno di nota risulta, inoltre, il constatare nel testimone della cattedrale la totale assenza di ogni interpretazione mistica o profetica, legata a nefasti presagi, mirabilia, o divine manifestazioni, elementi quest’ultimi che appaiono quasi sempre in maniera inscindibile nelle cronache inerenti

il passaggio di una cometa, celando il reverenziale timore che essa incuteva. Timore derivante dal fatto che fosse indentificata, fin dall’età piú remota, quale malvagia entità proprio per la sua imprevedibilità, per il suo misterioso errare che «rende confusa la volta celeste», come affermato fin dal Talmud, quale perturbatrice degli elementi, delle uniformi ruotanti sfere, garanzia di stabilità e di ordine, sovvertitrice dell’imperturbabile cristallino aristotelico disegno dell’universo e i suoi logici principi (De Occulta Philosopia), e citata proprio in tale veste sullo sfondo di Melancolia I di Albrecht Dürer (1471-1528). Né è registrato o collegato alcun riferimento a eventi luttuosi, come quelli invece presenti nelle Anglo dicembre

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Il racconto evangelico Con queste parole, nel Vangelo secondo Matteo, viene narrato il viaggio dei Magi verso Betlemme, guidato dalla cometa: «Gesú nacque a Betlemme di Giudea, al tempo del re Erode. Alcuni Magi giunsero da Oriente a Gerusalemme e domandavano: “Dov’è il re dei Giudei che è nato? Abbiamo visto sorgere la sua stella, e siamo venuti per adorarlo”. All’udire queste parole, il re Erode restò turbato e con lui tutta Gerusalemme. Riuniti tutti i sommi sacerdoti e gli scribi del popolo, s’informava da loro sul luogo in cui doveva nascere il Messia. Gli risposero: “A Betlemme di Giudea, perché cosí è scritto per mezzo del profeta: E tu, Betlemme, terra di Giuda, non sei davvero il piú piccolo capoluogo di Giuda: da te uscirà infatti un capo che pascerà il mio popolo, Israele”. Allora Erode, chiamati segretamente i Magi, si fece dire con esattezza da loro il tempo in cui era apparsa la stella e li inviò a Betlemme esortandoli: “Andate e informatevi accuratamente del bambino e, quando l’avrete trovato, fatemelo sapere, perché anch’io venga ad adorarlo”. Udite le parole del re, essi partirono. Ed ecco la stella, che avevano visto nel suo sorgere, li precedeva, finché giunse e si fermò sopra il luogo dove si trovava il bambino. Al vedere la stella, essi provarono una grandissima gioia. Entrati nella casa, videro il bambino con Maria sua madre, e prostratisi lo adorarono. Poi aprirono i loro scrigni e gli offrirono in dono oro, incenso e mirra. Avvertiti poi in sogno di non tornare da Erode, per un’altra strada fecero ritorno al loro Paese» (da Matteo, II, 1-12). è angelo mortifero, nunzio della scomparsa del fratello del sovrano Aureliano Ambrosio (457-533).

Sangue, latte e poi la stella

Saxon Chronicles, ove la stella barbata viene messa in stretta relazione da una parte con la morte di re Edward, e dall’altra con la conquista normanna delle isole britanniche, come altresí illustrato in modo assai pregnante nella narratione continua del cosiddetto arazzo di Bayeux (1070-1080). Qui, infatti, la stella, additata da alcuni curiosi indicati dalla didascalia Isti mirant stella appare sopra il trono dell’impaurito traditore Harold, segno divino di stigma per i suoi peccati e quelli del suo popolo. Immagine, quest’ultima, che viene ricalcata e ripresa all’interno dell’Historia Regum Britanniae di Goffredo di Monmouth (110-1155) nella descrizione che Mago Merlino fa dell’apparizione della stella a re Uther, ove ancora una volta la cometa

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Ritornando a porre l’attenzione su Viterbo, stando alle cronache, il ms 36 della cattedrale non è in realtà l’unica menzione ove la cometa di Halley si leghi intimamente alla città e alla sua storia. Volendo ricostruirne un breve esemplificativo excursus diacronico, ciò è verificabile per esempio con il XII passaggio dell’anno 607, ove la stella per Paolo Diacono (720-799, Historia Longobardorum, lib. IV, 2) risulta essere un monito per la conquista longobarda della terra di Tuscia, o ancora nel 704 dove secondo l’Almanacco perpetuo «a Viterbo piovve sangue e latte e poi si vidde una gran cometa», descrizione questa, che suggestivamente sembra letteralmente e visivamente ricalcare l’episodio raffigurato nelle Cronache di Lucerna (1513) di Diebold Schilling il Giovane (14601515), ove si intravede sotto una macabra cortina di sangue e latte,

illuminata dalla luce straniante di due comete, il profilo di una città in rovina. Anche il decesso di Urbano IV (1261-1264), al secolo Jacques Pantaléon, fondatore dello Studium viterbiensis, risulta ancora una volta preannuciato da un simile evento celeste: una cometa sosta nel cielo per tre mesi, per poi scomparire il 2 ottobre 1264, giorno della dipartita del pontefice. Infine nel giugno del 1465, in pieno Umanesimo, lo stesso Niccolò della Tuccia (1400-1473) riporta, all’interno della Cronaca di Viterbo, l’autobiografico avvistamento di una stella commata, senza però metterla in corrispondenza con alcun avvenimento mirabolante: si trattava del XXIII passaggio di Halley. Secoli sono passati, da quando la mano di Amminuno ha lasciato l’indelebile traccia della sua personale esperienza con la cometa, ma immutato rimane il nostro sentimento di meraviglia verso questi sassi cosmici, semplicissimi sassi cosmici, ma al tempo stesso spettacolari ed enigmatici corpi minori del Sistema Solare. Luca Salvatelli

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La scuola che ha studiato se stessa LIBRI • Uno dei piú noti istituti scolastici di Bergamo

ha una storia plurisecolare, che comincia nel Quattrocento, con la fondazione di un monastero...

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l Liceo Classico Statale Paolo Sarpi di Bergamo vanta oltre due secoli di storia, ma molte delle strutture che tuttora lo ospitano hanno origini ancor piú antiche: l’istituto infatti, assunse le forme attuali alla metà dell’Ottocento, quando ne venne portata a termine la costruzione, inglobando parte del quattrocentesco monastero di Rosate. È una storia affine a quella delle numerose scuole che in molte città d’Italia hanno sede in edifici storici, ma a fare la

differenza è, in questo caso, la scelta di indagare a fondo la vicenda, compiuta e sviluppata da un gruppo di alunni del Sarpi fra il 2016 e il 2017, dalla quale, dopo una mostra allestita nei locali della scuola stessa, ha ora preso forma questo volume. Coordinati da vari tutor, i ragazzi hanno dunque esaminato tutti gli aspetti della vicenda, conducendo ricerche d’archivio e indagini bibliografiche mirate a ricostruire nel dettaglio la storia dell’istituto e, soprattutto, a rintracciare

Manuela Barani, Francesca Buonincontri, Angelo Colleoni, Luigi Corsetti, Melania Licini La storia sotto l’intonaco Dal monastero di Rosate al Liceo Classico Paolo Sarpi Lubrina Bramani Editore, Bergamo, 160 pp., ill. col. + 1 DVD 30,00 euro ISBN 978-88-7766-658-1 il patrimonio di opere d’arte che l’antico monastero doveva possedere e che andò disperso all’indomani della sua soppressione, nel 1810. Anche se, fra i pochi superstiti di quel patrimonio, il Liceo Sarpi può tuttora vantare due dipinti murali di pregio: una Vergine annunciata databile alla metà del XV secolo e un’Ultima Cena che, proprio grazie alle ricerche condotte, si è ora proposto di attribuire a Marco Olmo, pittore bergamasco attivo

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Nella pagina accanto altarolo ligneo attribuito a una bottega bergamasca. Fine del XV sec. Milano, Quadreria Arcivescovile. A sinistra Disegno della città et borghi di Bergamo. 1626. Venezia, Archivio di Stato. In evidenza, l’area del monastero di Rosate.

nella prima metà del XVIII secolo. Entrambe le opere sono state strappate, ma dovevano in origine appartenere, rispettivamente, alla chiesa di S. Maria di Rosate, annessa al monastero, e a un’aula del pianterreno dell’edificio conventuale.

Confronti convincenti In particolare, l’affresco della Vergine annunciata, seppure mutilo, ha permesso di istituire confronti convincenti con dipinti e miniature del medesimo ambito cronologico e, in particolare, ha suggerito l’ipotesi che il suo autore, a oggi sconosciuto, si fosse ispirato al Banchetto di Erode dipinto che Masolino da Panicale dipinse a Castiglione Olona per il Battistero della locale Collegiata. Molto ampia e approfondita è stata anche l’analisi storica dell’edificio, che si è basata sulla ricognizione sistematica delle risorse

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cartografiche a oggi note e sulla ricostruzione della sua vicenda architettonica, che ha portato a nuove e piú puntuali letture del complesso, come nel caso del settore in cui oggi ha sede la palestra della scuola, che coincide in larga parte con la chiesa dell’antico monastero.

Qui sotto Vergine annunciata, affresco di maestro lombardo. Metà del XV sec. Bergamo, Liceo Sarpi, Aula magna. In basso legatura in cuoio della Concessione d’acqua al monastero di Rosate. 1505. Bergamo, Biblioteca Civica A. Mai, Archivi Storici comunali.

Fra i risultati piú lusinghieri del progetto merita d’essere segnalato anche il «recupero» di un altarolo ligneo quattrocentesco, oggi conservato presso la Quadreria Arcivescovile di Milano. Opera di una bottega bergamasca, il manufatto è descritto in un inventario stilato nel 1811 e figura fra i beni allora selezionati per la Regia Pinacoteca. Negli anni successivi se ne perdono le tracce, fino a che, nel 1896, viene appunto acquisito dalla Quadreria Arcivescovile. Nel frattempo, però, la sua origine viene dimenticata o confusa, tanto che l’altarolo viene indicato come proveniente dal «Monastero Agostiniano di Rosate», Comune in provincia di Milano. Ed è merito della storica dell’arte Emanuela Daffra, che ha partecipato al progetto del Liceo Sarpi, l’averne riconosciuto la reale origine. Stefano Mammini

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CALEIDO SCOPIO

Lo scaffale Maria Paola Zanoboni Povertà femminile nel Medioevo Istantanee di vita quotidiana Editoriale Jouvence, Milano, 92 pp., ill. col.

10,00 euro ISBN 978-88-7801-636-1 www.jouvence.it

Autrice con la quale i lettori di «Medioevo» hanno ormai una consolidata consuetudine, Maria Paola Zanoboni sceglie un tema decisamente attuale per questo suo nuovo libro: la povertà. Restringendo però la sua analisi a un

ambito ben specifico, cioè quello femminile. Come si può leggere nelle pagine introduttive, non è facile individuare notizie precise e circostanziate sul fenomeno e, di conseguenza, le fonti disponibili sono in molti casi di tipo letterario, ma ciò non ha impedito alla studiosa di mettere

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a fuoco i termini essenziali della questione. Fra tutti, spicca senza dubbio, la capacità delle donne di far fronte a rovesci di varia natura: soprattutto nelle città, le piú sfortunate – come per esempio le vedove, che si vedono private del sostentamento garantito dal salario del perduto marito – sanno comunque industriarsi e sperimentano una sorta di «indigenza sostenibile». Nelle campagne la situazione era ben peggiore, soprattutto per le braccianti e per quante, pur di trovare un’occupazione, si spostavano da un luogo all’altro in cerca di un ingaggio. Ecco dunque sfilare una triste rassegna di donne uccise dalla fame, dal freddo o che muoiono di morte violenta, probabili vittime di una guerra fra ultimi combattuta senza esclusione di colpi. Sembra di percepire, in generale, una sostanziale accettazione della povertà, che per molte donne altro non era, come scrive Zanoboni, «una delle molteplici sfaccettature del multiforme prisma della vita».

Maria Concetta Salemi Mangiare nel Medioevo Alimentazione e cultura gastronomica nell’età di Mezzo

Sarnus-Edizioni Polistampa, Firenze, 148 pp., ill. col.

15,00 euro ISBN 978-88-563-0242-4 www.polistampa.it

Il volume si inserisce nella scia di una produzione letteraria che va facendosi sempre piú ricca, nella consapevolezza, ormai acquisita e condivisa, che l’alimentazione costituisca una cartina al tornasole particolarmente efficace dei diversi momenti storici e delle culture che in essi si sono succedute. Come scrive l’autrice nell’Introduzione, per il Medioevo subentrano tuttavia alcuni ostacoli, derivanti soprattutto dall’assenza di fonti documentarie esaurienti almeno fino a tutto il Duecento. A un’analisi sistematica sfuggono, dunque, i secoli compresi fra la tarda antichità e gli esordi dell’età di Mezzo. Una lacuna che viene però colmata dalla documentazione riferibile alle epoche successive, che permettono di ricostruire un quadro attendibile e dettagliato degli usi

alimentari. Nella prima parte del volume, Salemi ripercorre tutte le tappe del consumo dei cibi, senza però limitarsi alla sola produzione e lavorazione, ma allargando lo sguardo, per esempio, anche ai risvolti «ideologici», come nel caso dei dettami imposti dalla religione oppure a quelle che venivano all’epoca considerate le regole del galateo. Scorrendo le pagine finali, si può passare dalla teoria alla pratica e sperimentare le ricette riportate dall’autrice, che permettono di imbandire un vero e proprio banchetto medievale, dagli aperitivi ai dolci.

DALL’ESTERO Naissance de la sculpture gothique Les éditions Rmn-Grand Palais, Parigi, 272 pp., ill. col. e b/n

39,00 euro ISBN: 978-2-7118-7077-6 www.rmngp.fr

Pubblicato a corredo della mostra omonima, presentata al Museo di Cluny di Parigi, il volume approfondisce i temi del progetto espositivo e ne sviluppa l’assunto, ovvero quello di dimostrare quanto cruciale sia stato il ventennio che ha visto nascere gli apparati scultorei delle grandi cattedrali di Saint-Denis, Parigi e Chartres. Oltre alla descrizione dei materiali selezionati

per l’esposizione, è stato cosí riunito un ricco corpus di contributi specialistici, che sviluppano tutti gli aspetti del fenomeno, soffermandosi sia sugli aspetti stilistici, sia sulle caratteristiche tecniche delle varie realizzazioni. E merita d’essere sottolineata la qualità del corredo iconografico, forte di riproduzioni davvero fedeli delle opere in mostra. (a cura di Stefano Mammini) dicembre

MEDIOEVO


Languidi canti e danze vorticose MUSICA • Dobbiamo

all’ensemble svizzero Le Miroir de Musique, egregiamente diretto da Baptiste Romain, un viaggio alla scoperta delle straordinarie potenzialità della viella, strumento simbolo del Medioevo MEDIOEVO

dicembre

T

ra le piú interessanti proposte della discografia medievale recente, questa dell’etichetta Ricercare, dedicata alla viella ad arco, offre un ascolto di brani in cui lo strumento, e i suoi parenti piú stretti, si mettono in bella mostra in un viaggio alla scoperta di sonorità tanto antiche quanto affascinanti. Strumento ad arco a forma ellittica e con cassa piatta, suonato con archetto, la viella si diffuse nel mondo occidentale già dal X secolo,

grazie anche ai proficui scambi con il mondo arabo, dove era diffuso uno strumento simile, il rebab. Le varianti che della viella si andarono diffondendo in Occidente nel tardo Medioevo sono molteplici; nel Nord celtico, per esempio, si diffuse il crwth (crotta), inizialmente usato come strumento a corde pizzicate e, successivamente, con archetto. Altre varianti piú recenti sono la vihuela spagnola che, nel XV secolo, darà origina alla tradizione della viola da braccio, antesignana della viola da gamba, destinata ad avere enorme successo soprattutto nel corso del XVII secolo. Nell’antologia In seculum viellatoris questi strumenti, presentati come solisti ovvero in accompagnamento alle voci e/o ad altri strumenti della tradizione medievale – come l’arpa, le percussioni, il liuto e la

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CALEIDO SCOPIO In Seculum Viellatoris The medieval vielle Le Miroir de Musique, dir. Baptiste Romain Ricercar (RIC 388), 1 CD www.outhere-music.com Miniature nelle quali è ben riconoscibile la viella, dal Troparium di Auch (a sinistra) e dal Roman de Fauvel (in basso). Parigi, Bibliothèque nationale de France. cornamusa –, danno vita a un ricco campionario di generi e stili, in cui si predilige la musica profana, benché teorici del Duecento come Geronimo di Moravia (XIII secolo) e Jean de Grouchy (XVI secolo) testimonino la presenza di questi strumenti anche in contesti liturgici nell’accompagnamento di musiche monodiche o polifoniche.

Un genere tramandato oralmente Tra le musiche presentate, vi sono brani d’origine provenzale duecentesca, come quelli di Perdigon e di altri autori anonimi, in cui la linea melodica viene talvolta affidata al canto con accompagnamento oppure alla viella, permettendo ancor piú di apprezzare appieno le peculiarità di questo strumento.

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Una presenza importante nell’antologia è rappresentata da alcune estampide, un genere di danza che conobbe enorme diffusione nelle corti del Basso Medioevo; un genere tramandatosi perlopiú oralmente, benché la sua presenza in alcuni codici del XIV e XV secolo ne abbia permesso il recupero e l’esecuzione in tempi moderni. Brani che rivelano un grande senso ritmico, basati su ritornelli, i cui modelli hanno costituito fonte di ispirazione per numerose improvvisazioni e rielaborazioni strumentali. Ai ritmi travolgenti delle estampide, fa da contraltare il brano devozionale Ar ne kuthe ich

sorghe, contraffatto di un testo latino, Planctus ante nescia, di Godefroy de Saint-Victor (XIII secolo), qui presentato con l’accompagnamento della crotta. Oltre a vari brani anonimi del XIII e XIV secolo, l’antologia propone anche due composizioni dei celebri compositori Johannes Ciconia (1370-1412), di cui ascoltiamo O rosa bella, interpretata da due vielle e liuto, e Guillaume Dufay (1397 circa-1474) con La belle se siet au pié de la tour, per canto con accompagnamento di due vielle. A guidarci in questi piacevoli ascolti sono i componenti dell’ensemble svizzero Le Miroir de Musique, formato da giovani per lo piú provenienti dalla celebre Schola Cantorum Basiliensis di Basilea. Diretti egregiamente da Baptiste Romain, i sei strumentisti e i quattro cantanti si cimentano in questo repertorio con grande eleganza e maestria, offrendo un’interpretazione appassionata, che ricrea in maniera convincente il contesto di queste musiche, spaziando dalle languide atmosfere dei canti trobadorici sino ad arrivare ai vorticosi ritmi di danza delle estampide. Franco Bruni dicembre

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