L FI BRA C RE AN AP NZ CA PEL E CC LA I
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UN PASSATO DA RISCOPRIRE
INGHILTERRA UN SANTO AL TEMPO DEI VICHINGHI
MEDIOEVO NASCOSTO LA «CHIESUOLA» DI PIOVE DI SACCO IL NOVELLIERE COME RIMEDIARE A UNA GRAVIDANZA INDESIDERATA
BISMANTOVA CORREGGIO E IL CRISTO DANZANTE DOSSIER
L’INVENZIONE DELLA
Mens. Anno 28 numero 334 Novembre 2024 € 6,50 Poste Italiane Sped. in A.P. - D.L. 353/2003 conv. L. 46/2004, art. 1, c. 1, LO/MI.
PROSPETTIVA
UOMINI E SAPORI L’ORO NERO DELL’ETÀ DI MEZZO
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MEDIOEVO n. 334 NOVEMBRE 2024 SANT’EDMONDO CRISTO DANZANTE A BISMANTOVA PIOVE DI SACCO DOSSIER L’INVENZIONE DELLA PROSPETTIVA
EDIO VO M E
IN EDICOLA IL 5 NOVEMBRE 2024
SOMMARIO
Novembre 2024 34
ANTEPRIMA LA RELIQUIA DEL MESE Una «meschina» assai venerata di Federico Canaccini
5
IL MEDIOEVO IN PRIMA PAGINA Tre maestri per un capolavoro
6
MOSTRE La cupola delle meraviglie
10
APPUNTAMENTI L’Agenda del Mese
14
LUOGHI
STORIE
Veneto
EDMONDO Un santo al tempo dei Vichinghi
di Debora Gusson
di Gianna Baucero
Dossier
MEDIOEVO NASCOSTO
C’è un tesoro nella «chiesuola»
82
di Riccardo Montenegro
18
18
82 CALEIDOSCOPIO ARALDICA Cercasi podestà
di Niccolò Orsini De Marzo
ICONOGRAFIA
Danzando davanti al Purgatorio di Giuseppe Ligabue
34
COSTUME E SOCIETÀ IL NOVELLIERE DI GIOVANNI SERCAMBI/8 Un suffumigio portentoso di Corrado Occhipinti Confalonieri
90
STORIE, UOMINI E SAPORI L’oro nero del Medioevo
Pietra di Bismantova
44
IL MONDO IN PROSPETTIVA
di Sergio G. Grasso
QUANDO I SANTI PRENDEVANO LE ARMI I prodigiosi bastoni di due umili contadini
98
di Paolo Pinti
106
LIBRI Lo Scaffale
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MEDIOEVO n. 334 NOVEMBRE 2024
MEDIOEVO
IN EDICOLA IL 5 NOVEMBRE 2024
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MEDIOEVO Anno XXVIII, n. 334 - novembre 2024 Mensile culturale Registrazione al Tribunale di Milano n. 106 del 01/03/1997 Editore Timeline Publishing S.r.l. Via Angelo Poliziano, 76 - 00184 Roma tel. 06 86932068 – e-mail: info@timelinepublishing.it Direttore responsabile Andreas M. Steiner a.m.steiner@timelinepublishing.it Redazione Stefano Mammini s.mammini@timelinepublishing.it Lorella Cecilia (ricerca iconografica) l.cecilia@timelinepublishing.it Impaginazione Alessia Pozzato
Hanno collaborato a questo numero: Gianna Baucero è scrittrice. Federico Canaccini è dottore di ricerca in storia medievale. Francesco Colotta è giornalista. Sergio G. Grasso è giornalista specializzato in tradizioni enogastronomiche. Debora Gusson è studiosa di arte e storia. Riccardo Montenegro è architetto. Corrado Occhipinti Confalonieri è storico e scrittore. Giuseppe Ligabue è socio della Deputazione di Storia Patria per le Antiche Province Modenesi. Niccolò Orsini De Marzo è araldista. Paolo Pinti è studioso di oplologia. Illustrazioni e immagini: Shutterstock: copertina e pp. 18/19, 32, 32/33, 65, 66/67, 68/69, 70 (alto), 72-73, 98, 104 (basso) – Doc. red.: pp. 5, 26-27, 30, 37 (basso), 38/39, 47, 48/49, 54, 58/59, 61, 63, 64, 66, 69, 70 (basso), 70/71, 71, 74, 76-81, 86, 102/103 – Cortesia Friends of Florence: pp. 6, 8, 9 – Leonardo Rescic/ CNR/ISPC: p. 7 – Cortesia Studio Esseci: Lucio Rossi/ Foto R.C.R., Parma: pp. 10-12 – Mondadori Portfolio: AKG Images: pp. 20, 31, 44, 52, 99, 101; Album/British Library: p. 28; Historica Graphica Collection/Heritage Images: pp. 28/29; Electa/Sergio Anelli: p. 46; Album/ Prisma: pp. 51, 87; Album/Collection Jean Vigne/ Kharbine-Tapabor: pp. 52/53; Electa/Antonio Quattrone: p. 57; Archivio Quattrone/Antonio Quattrone: p. 60; Electa/Sergio Anelli-Cortesia MiC: p. 62; Album/ Collection IM/Kharbine-Tapabor: pp. 100/101; Album/ Collection Kharbine-Tapabor: pp. 104 (alto), 105 – Pierpont Morgan Library, New York: pp. 21, 22-25 – Cortesia degli autori: pp. 34-35, 39, 40-41, 82/83, 84-85, 88, 90-97, 106-110 – The Metropolitan Museum of Art, New York: p. 45 – Museu Nacional d’Art de Catalunya, Barcellona: pp. 50/51 – Patrizia Ferrandes: cartine alle pp. 33, 36 e 82. Riguardo alle illustrazioni, la redazione si è curata della relativa autorizzazione degli aventi diritto. Nel caso che questi siano stati irreperibili, si resta comunque a disposizione per regolare eventuali spettanze. Non si restituiscono materiali non richiesti dalla redazione.
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Prossimamente pavia
dossier
Alla scoperta delle cripte longobarde
Un Medioevo di veleni
costume e società
L’arte del tappeto
LA RELIQUIA DEL MESE di Federico Canaccini
NOVEMBRE
Una «meschina» assai venerata
I
l penultimo mese dell’anno si apre con la ricorrenza di Ognissanti tra i quali figura, naturalmente, anche Maria Maddalena, il cui culto godette sempre di grande popolarità, probabilmente per due motivi principali: l’essere stata la prima a vedere Cristo dopo la morte e l’avere riferito il fatto ai discepoli. Il ritratto della peccatrice, prostituta redenta dai lunghi capelli, è, in realtà, il risultato di una combinazione di episodi evangelici indipendenti. Si deve attendere il VI secolo perché prenda forma una simile immagine, alla quale, nel corso del 1200, fu aggiunto anche un altro tassello, quello di un’incredibile ricchezza. Le chiome fluenti, caratteristiche delle sue raffigurazioni, sono sparse in centinaia di chiese, che pretendono di possedere almeno uno dei capelli che ne facevano parte. San Bernardino da Siena giunse ad affermare che li avrebbe tinti di biondo per sedurre niente meno che Gesú, ma che poi, alla fine, li avrebbe usati per asciugarne i piedi, bagnati dalle sue stesse lacrime. Descritta da santa Caterina da Siena come «la piú meschina di tutte», la Maddalena assicurava perciò una grande speranza per molte donne di bassa condizione sociale. A differenza della Madonna, ascesa al cielo, della Madddalena si conservano numerosi frammenti del corpo, nonché alcuni oggetti particolarmente significativi. La sua folta capigliatura ha fornito centinaia di reliquie e un suo presunto pettine era esposto a Bath, in Inghilterra; a Roma, nella basilica di S. Giovanni al Laterano è conservato un frammento del suo cilicio, mentre a S. Croce in Gerusalemme era un tempo esposta la pietra su cui Gesú era seduto quando la perdonò. In Francia, nell’abbazia della Trinità di Vendôme, poi, si trova una delle reliquie piú incredibili del Medioevo: si tratta di un’ampollina che conterrebbe addirittura una lacrima versata da Cristo quando seppe della morte di Lazzaro. La lacrima fu raccolta da un angelo e consegnata alla Maddalena, affinché la conservasse appunto in un’ampolla, che poi, in un modo o nell’altro, giunse a Vendôme.
MEDIOEVO
novembre
Noli me tangere, affresco del Beato Angelico, che cosí ha immaginato l’episodio dell’apparizione di Gesú risorto a Maria Maddalena. 1440-1442. Firenze, Museo di San Marco. Ancora in Francia si contanto ben due corpi – uno a Saint-Maximin-la-Sainte-Baume e l’altro a Vézelay –, mentre la chiesa di Abbéville rivendicava il cranio della santa e Aix-en-Provence ne mostrava la mascella. Ma le spoglie della Maddalena giacerebbero anche a Roma, Costantinopoli e Senigallia. Di lei si conservano talmente tante reliquie che, messe insieme, darebbero vita a una sorta di Briareo, il mitico mostro dalle cento braccia: sono infatti almeno otto quelle attribuite alla santa...
5
il medioevo in
rima
agina
Tre maestri per un capolavoro RESTAURI • I dipinti murali della Cappella Brancacci, nella chiesa fiorentina di
S. Maria del Carmine, sono stati oggetto di un approfondito intervento. Un’opera di verifica e risanamento, accompagnata da indagini sul modus operandi degli artefici del magnifico ciclo affrescato: Masolino, Masaccio e Filippino Lippi
L
a nascita della chiesa fiorentina di S. Maria del Carmine si deve a un gruppo di frati giunti da Pisa, che, nel 1268, decisero di fondare un luogo di culto dedicato alla beata Vergine del Carmelo. La costruzione si protrasse a lungo, fin dopo la data della consacrazione (1422), e poté dirsi conclusa solo nel 1475. In questo quadro si colloca, sul finire del Trecento, la realizzazione della Cappella Brancacci, all’estremità del transetto destro della chiesa, voluta dalla famiglia di cui porta il nome. Piú tardi, nel 1423, il ricco mercante Felice Brancacci, commissionò l’esecuzione delle Storie di San Pietro – santo al quale era in origine intitolata la cappella – a Masolino e Masaccio. Gli affreschi rimasero però incompiuti e, dopo varie vicissitudini e traversie, furono finalmente ultimati da Filippino Lippi tra il 1481 e il 1483. Prese cosí forma, in maniera definitiva, uno dei complessi pittorici piú importanti del Quattrocento italiano, che tra il 2021 e il 2024 è stato oggetto di una importante campagna di indagini e di restauro.
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La necessità dell’intervento è emersa nel novembre 2020, quando è stata verificata la presenza del distacco di un piccolo frammento di pellicola pittorica dalla scena con la Disputa di Simon Mago dipinta da Filippino Lippi, in seguito alla quale si è reso necessario programmare un approfondimento sullo stato di conservazione generale del ciclo pittorico. Una prima analisi svolta ha confermato la presenza
Fasi dell’intervento condotto sui dipinti della Cappella Brancacci, nella chiesa fiorentina di S. Maria del Carmine.
novembre
MEDIOEVO
DOVE E QUANDO
Cappella Brancacci Firenze, chiesa di S. Maria del Carmine, piazza del Carmine 14 Orario lu-sa, 10,00-17,00; do, 13,00-17,00; martedí chiuso Info tel. 055 2382195; https://cultura.comune.fi.it
MEDIOEVO
novembre
La Cappella Brancacci al termine dell’intervento di restauro, che ha compreso indagini e studi sulla realizzazione dei dipinti da parte degli artisti coinvolti nell’impresa.
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delle criticità conservative rilevate, oltre a raggiungere importanti risultati nella storia «conservativa» della cappella. Fra queste ultime, si possono segnalare la conferma dell’efficacia delle metodologie impiegate nel restauro condotto negli anni Ottanta del secolo scorso e l’archiviazione dell’immenso patrimonio di informazioni acquisite con le campagne di indagine scientifiche condotte e la sua divulgazione attraverso un prototipo di una web App 3D per un’esperienza interattiva (da remoto e in presenza), finalizzata a migliorare l’accessibilità e a incrementare la percezione di autenticità e il senso di appartenenza del patrimonio, in particolare di tutto il contesto monumentale (http://brancaccipov.cnr.it ).
Sulle due pagine altre immagini dell’intervento di restauro, che ha permesso anche di approfondire la conoscenza dell’opera e di entrare nei momenti progettuali e costruttivi del ciclo di Masolino, Masaccio e Filippino Lippi.
di alcuni distacchi dell’intonaco pittorico e la conseguente esigenza di eseguire operazioni di pronto intervento necessarie per la stabilizzazione delle criticità conservative, nonché l’opportunità di sviluppare lo studio delle cause.
Tutela, conservazione e valorizzazione Nel maggio 2021 gli enti coinvolti nell’indagine sottoscrivevano un protocollo d’intesa finalizzato a coordinare tutte le fasi operative necessarie a garantire la tutela del bene, in cui si assegnavano alla Soprintendenza le operazioni di analisi, monitoraggio e programmazione delle attività, all’Opificio delle Pietre Dure la progettazione e l’esecuzione degli interventi e al Comune, consegnatario del bene, le attività di comunicazione e valorizzazione. Gli esiti della prima fase dei lavori, conclusasi nel giugno 2023, hanno consentito di stabilire le azioni necessarie per garantire la risoluzione
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novembre
MEDIOEVO
Gli interventi si sono conclusi nell’aprile 2024 con la conferma dei criteri adottati in sede di progetto, in termini di continuità con la storia conservativa pregressa. L’intervento di restauro si è fondato su un lavoro di conoscenza dell’opera, a partire dallo studio delle superfici, che ha permesso di entrare nei momenti progettuali e costruttivi del ciclo di Masolino, Masaccio e Filippino Lippi, e di comprendere le condizioni conservative per indirizzare e supportare le indagini diagnostiche in tutte loro fasi.
Gli interventi di manutenzione Le strategie di azione immaginate per il passaggio dal restauro alla programmazione di azioni manutentive periodiche e preventive hanno inoltre stimolato la sperimentazione, sulle superfici murali, di nuovi sistemi di pulitura superficiale e controllata a base di gel viscoelastici, con lo scopo di individuare un
MEDIOEVO
novembre
protocollo rispettoso delle condizioni stabilizzate della materia e del suo aspetto estetico oramai storicizzato e ancora funzionale. L’importante lavoro svolto in questi anni sulla Cappella Brancacci ha inoltre consentito di definire strategie per il monitoraggio futuro dell’integrità delle strutture e del deposito della polvere sulle superfici pulite finalizzate a sviluppare una conservazione preventiva dell’intero ciclo pittorico. L’intervento sui dipinti murali della Cappella Brancacci nella chiesa del Carmine di Firenze, sostenuto dalla Fondazione Friends of Florence e da Jay Pritzker Foundation, ha visto la sinergia fra il Servizio Belle Arti del Comune di Firenze, la Soprintendenza Archeologia Belle Arti e Paesaggio per la Città Metropolitana di Firenze e le province di Pistoia e Prato, l’Istituto di Scienze del Patrimonio Culturale del Consiglio Nazionale delle Ricerche CNR, l’Opificio delle Pietre Dure.
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ANTE PRIMA
La cupola meraviglie
delle
MOSTRE • Parma celebra i 500 anni dello splendido
ciclo affrescato dal Correggio nella basilica di S. Giovanni: proposto in una inedita visione ravvicinata, da mettere a confronto con l’altrettanto mirabile Camera della Badessa nel monastero di S. Paolo
In alto il Duomo di Parma, intitolato a santa Maria Assunta, affiancato dal Battistero. L’interno della cupola accoglie l’Assunzione della Vergine affrescata dal Correggio (al secolo, Antonio Allegri; vedi foto nella pagina accanto, in alto). In basso particolare degli affreschi realizzati dal Correggio per la cupola della basilica di S. Giovanni in una delle fotografie di Lucio Rossi.
S
della cupola e invitando, poi, a vivere un altro dei capolavori dell’artista, la Camera della Badessa nel monastero di S. Paolo. Cuore e principale novità del progetto è dunque l’installazione «Il Cielo per un istante in terra», generata dal progetto fotografico di Lucio Rossi. Che, all’interno del monumentale refettorio del monastero di S. Giovanni consente
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novembre
i chiama «Correggio 500» il progetto con il quale la città di Parma rende omaggio ad Antonio Allegri (1489 circa-1534) nella ricorrenza del mezzo millennio dalla conclusione della piú impegnativa tra le sue imprese d’artista: il ciclo di affreschi della grande cupola della basilica di S. Giovanni, nell’omonimo monastero benedettino nel cuore della città. Lo fa «calando» gli affreschi dal cielo
MEDIOEVO
di porsi vis a vis con le immagini della cupola del Correggio, conducendolo a scoprire ciò che da terra si perde nella spettacolare scenografia illusoria dell’insieme della cupola. Ammirando particolari e finezze che Allegri qui ha profuso nonostante sapesse che l’occhio dei fedeli non avrebbe mai potuto apprezzarle appieno. Non solo: di una porzione della cupola possono avere visione solo i monaci, perché rivolta verso il coro a loro riservato, opposto alla navata. Ed è la parte dedicata alla salita di san Giovanni, modello e monito per i monaci.
Alla scoperta di un monumento Lucio Rossi ha realizzato il perfetto fotopiano dell’intera cupola, riproposto nell’installazione. Precede le immagini di Rossi una sezione introduttiva di approfondimento storico e artistico
MEDIOEVO
novembre
e l’ingresso nell’installazione si inserisce nella piú ampia opportunità di scoprire uno dei piú importanti monumenti di Parma, il monastero di S. Giovanni, con i suoi
In alto Assunzione della Vergine, affresco del Correggio. 1526-1530. Parma, Duomo. Qui sopra particolare degli affreschi del Correggio nella Camera della Badessa, nel monastero di S. Paolo. 1519.
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ANTE PRIMA DOVE E QUANDO
«Il Cielo per un istante in terra» Parma, monastero di S. Giovanni fino al 31 gennaio 2025 Orario tutti i giorni, martedí escluso, 9,30-13,00 e 15,00-18,00 Camera della Badessa Parma, monastero di S. Paolo via Melloni 3 Orario lu-ve, 9,30-18,00; sa-do e festivi, 9,30-18,30; chiuso il martedí Info https://parmawelcome.it/
tre grandiosi chiostri e la biblioteca monastica, che conserva tesori di valore inestimabile.
Un lascito magnifico Da un monastero maschile, ancora attivo, si passa quindi a uno femminile, ormai musealizzato: quello di S. Paolo, con la celebre Camera della Badessa, altro magnifico lascito del Correggio ed espressione tra le piú affascinanti del Rinascimento maturo. «Correggio 500» offre inoltre la realtà aumentata di Hortus Conclusus 2.0: storia e sviluppo del Monastero di San Paolo: un’esperienza immersiva, un viaggio nel tempo che, partendo dalla Parma di epoca romana, arriva al nascere del monastero, al suo sviluppo, alla commissione al Correggio per la decorazione pittorica. Il dialogo tra la badessa Giovanna da Piacenza e l’artista introduce alle scelte dei temi
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In alto la basilica di S. Giovanni, la cui cupola accoglie gli affreschi del Correggio (vedi foto a p. 10, in basso). A destra la decorazione della seconda camera della badessa Giovanna da Piacenza nel monastero di S. Paolo, affrescata da Alessandro Araldi. 1514. evocati nella Camera. Attraverso un visore VR MetaQuest il visitatore può immergersi e muoversi all’interno dei paesaggi antichi, scoprirne gli sviluppi e vedere le connessioni fra i due monasteri dove l’opera del Correggio diventa
protagonista. La tecnologia immersiva grazie alla realtà virtuale permette, con gli appositi joystick, di navigare all’interno dei particolari dell’affresco scoprendo dettagli e caratteristiche altrimenti invisibili. (red.) novembre
MEDIOEVO
AGENDA DEL MESE
Mostre TOLOSA «CATARI». TOLOSA ALLA CROCIATA Musée Saint-Raymond e Convento dei Giacobini fino al 5 gennaio 2025
Il catarismo ha da tempo ampiamente superato i confini della Francia per diventare un vero e proprio fenomeno internazionale. Al quale Tolosa dedica un’esposizione di grande respiro, distribuita in due sedi: il Musée SaintRaymond e il convento dei Giacobini. I catari, la crociata, i castelli, l’Inquisizione, i roghi... sono molti i termini e le immagini associati alla crociata contro gli Albigesi (1209-1229), un episodio che, a Tolosa e in Occitania, ha tinto di nero buona parte della storia del XIII secolo: sconfitto dai crociati provenienti dal Nord, il Midi avrebbe perso la sua anima e la sua indipendenza a vantaggio dei re di Francia. Il progetto espositivo si sofferma da un
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a cura di Stefano Mammini
lato sugli eventi e sui colpi di scena che hanno caratterizzato la crociata contro gli Albigesi, intorno a figure emblematiche come Simone di Montfort, e dall’altro, sulla questione dell’eresia catara, senza trascurare i dibattiti che tuttora animano la comunità degli storici. Una ricostruzione che si avvale di oltre 300 oggetti, tra i quali spiccano il manoscritto della Canzone della crociata albigese (Canso de la Crozada) e il Trattato di Parigi che, nel 1229, sancí la sottomissione dei conti di Tolosa alla corona capetingia. info info saintraymond.toulouse.fr, jacobins.toulouse.fr ROMA LAUDATO SIE: NATURA E SCIENZA. L’EREDITÀ CULTURALE DI FRATE FRANCESCO Museo di Roma a Palazzo Braschi fino al 6 gennaio 2025
Nel 1225 Francesco di Assisi compose il Cantico di frate Sole o Cantico delle creature – tra i primi testi poetici in volgare italiano giunti a noi – e
in vista dell’ottavo centenario dell’evento il Museo di Roma a Palazzo Braschi propone un itinerario, costantemente accompagnato da una narrazione multimediale, attraverso 93 opere rare del Fondo antico della Biblioteca comunale di Assisi conservate presso il Sacro Convento. Il percorso espositivo, cadenzato dalle diverse sezioni, racconta la profonda dimensione filosofica e spirituale che da sempre guida l’Ordine francescano e, allo stesso tempo, ne illustra l’impegno intellettuale espressosi
nell’ambito della riflessione scientifica, come attestato dai numerosi trattati tramandati nei preziosi manoscritti esposti. È quindi possibile soffermarsi, seppur brevemente, sulla sintesi filosofico-teologica dei primi pensatori francescani, filosofi e teologi, sul tema della natura, fino a focalizzare l’attenzione sulla maniera nella quale le singole scienze, nei secoli, hanno portato a osservare il mondo e su come gli stessi francescani abbiano favorito questo sguardo. info tel. 060608 (attivo tutti i giorni, ore 9,00-19,00); www.museodiroma.it; www.museiincomune.it; www.laudatosie.com TRENTO CON SPADA E CROCE. LONGOBARDI A CIVEZZANO Castello del Buonconsiglio fino al 12 gennaio 2025
La storia dei Longobardi in Trentino viene narrata attraverso i capolavori rinvenuti nelle tombe della “principessa” e del “principe” di Civezzano, esposti assieme per la prima volta. Nata dalla collaborazione tra il Castello del Buonconsiglio e il Tiroler Landesmuseum Ferdinandeum di Innsbruck, la mostra offre l’occasione di riesaminare i dati storici e i materiali inediti custoditi nei depositi di entrambi i musei alla luce delle conoscenze incrementate grazie agli scavi condotti dalla Soprintendenza per i beni e le attività culturali, ma anche di approfondire tematiche emerse già nell’Ottocento con la nascita dell’archeologia “barbarica”. Ciò che venne ritrovato a Civezzano nell’Ottocento, quando il Trentino era parte dell’impero asburgico, è conservato al Ferdinandeum di Innsbruck; quanto rinvenuto novembre
MEDIOEVO
all’inizio del secolo successivo e acquistato dal museo imperiale di Vienna è invece giunto al Castello del Buonconsiglio, dopo l’istituzione del Museo trentino. L’esposizione unisce idealmente i due musei proprio nel momento in cui quello trentino festeggia il primo centenario della sua istituzione e il Ferdinandeum ha appena
concluso le celebrazioni del bicentenario. La ricerca parte dalla scoperta nella località piemontese di Testona, sul finire dell’Ottocento, di una necropoli i cui reperti furono attribuiti a popolazioni germaniche, oggetti che servirono a identificare quelli rinvenuti a Civezzano nella tomba “principesca” nel 1885. Dal museo di Innsbruck, ma anche dai musei reali di Torino, sono giunti a Trento reperti davvero straordinari, testimonianze rarissime di alte manifatture dei primi insediamenti longobardi in questi territori. info tel. 0461 233770; e-mail: info@buonconsiglio.it; www.buonconsiglio.it NEW YORK SIENA: LA GRANDE STAGIONE DELLA PITTURA, 1300–1350 The Metropolitan Museum of Art fino al 26 gennaio 2025
MEDIOEVO
novembre
Forte di oltre cento dipinti, sculture, oreficerie e tessuti, la rassegna – prima grande mostra mai dedicata alla pittura senese del Trecento negli USA – approfondisce un momento straordinario agli albori del Rinascimento italiano e il ruolo cardine svolto da artisti senesi come Duccio, Pietro e Ambrogio Lorenzetti e Simone Martini nella definizione della pittura occidentale. Nei decenni precedenti la catastrofica epidemia di peste attorno al 1350, Siena fu teatro di straordinarie innovazioni e attività artistiche. Per quanto spetti solitamente a Firenze la designazione di centro principale del Rinascimento, questa presentazione offre una rilettura dell’importanza di Siena, dalla profonda influenza di Duccio su una nuova generazione di pittori allo sviluppo di pale d’altare narrative, alla diffusione di stili artistici fuori dai confini italiani. Attingendo alle collezioni del Metropolitan e della National Gallery di Londra (dove l’esposizione
verrà riproposta dall’8 marzo al 22 giugno 2025), oltre che a prestiti di decine di enti internazionali, la mostra spazia da grandi opere realizzate per essere esposte al pubblico a oggetti intimi pensati per la devozione privata. Tra i capolavori che si possono ammirare, ricordiamo la Madonna Stoclet di Duccio, l’Annunciazione di Ambrogio Lorenzetti e riunificazioni storiche di fondamentali
complessi pittorici, come la predella posteriore della Maestà di Duccio e il Polittico Orsini di Simone Martini. info www.metmuseum.org FERRARA IL CINQUECENTO A FERRARA. MAZZOLINO, ORTOLANO, GAROFALO, DOSSO Palazzo dei Diamanti fino al 16 febbraio 2025
Tema portante dell’esposizione sono le vicende artistiche del
primo Cinquecento a Ferrara, dagli anni del passaggio di consegne da Ercole I d’Este al figlio Alfonso I (1505) fino alla morte di quest’ultimo (1534), committente raffinato e di grandi ambizioni, capace di rinnovare gli spazi privati della corte come quelli pubblici della città. La scomparsa della generazione di Cosmè Tura, Francesco del Cossa ed Ercole de’ Roberti aveva lasciato Ferrara alle prese con la difficile sfida di un ricambio di alto livello. Nel 1496 la scelta di ingaggiare Boccaccio Boccaccino indica la volontà di adottare un linguaggio piú moderno, addolcito e morbido.
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All’inizio del nuovo secolo si sviluppa cosí una nuova scuola, meno endemica e piú aperta agli scambi con altri centri, che ha come protagonisti Ludovico Mazzolino, Giovanni Battista Benvenuti detto Ortolano, Benvenuto Tisi detto Garofalo e Giovanni Luteri detto Dosso. Mentre Garofalo e Dosso sono noti al pubblico, e il loro percorso è stato approfondito in maniera organica in diverse occasioni espositive, per Mazzolino e Ortolano si tratta di un debutto assoluto, e quanto mai necessario per illustrare compiutamente e comprendere meglio il variegato panorama della pittura ferrarese dei primi decenni del XVI secolo. info tel. 0532 244949: e-mail: diamanti@comune.fe.it; www.palazzodiamanti.it
«vie» della Seta, come recita il titolo, un sistema di reti sovrapposte che collegavano comunità in tutta l’Asia, l’Africa e l’Europa, dal Giappone alla Gran Bretagna, dalla Scandinavia al Madagascar. Queste vie sono state utilizzate per millenni, ma l’esposizione si concentra su un periodo ben definito, compreso fra 500 e il 1000 d.C. Lungo il percorso, che si articola in sezioni geografiche, sono distribuiti oltre 300 oggetti e opere d’arte, frutto anche di importanti prestiti, e fra i quali spiccano un antico gruppo di pezzi degli scacchi e un monumentale dipinto murale dalla Sala degli Ambasciatori di Afrasiab (Samarcanda, Uzbekistan). info www.britishmuseum.org PARIGI
LILLA ESPERIENZA RAFFAELLO Palais des Beaux-arts fino al 17 febbraio 2025
Cuore del progetto espositivo sono i disegni che il pittore e collezionista Jean-Baptiste Wicar (1762-1834) lasciò in eredità a Lilla, sua città natale. Si tratta di una quarantina di fogli, molto raramente esposti a causa della loro fragilità, ai quali è stata affiancata una selezione di importanti dipinti, concessi in prestito da istituzioni prestigiose, quali il Museo del Louvre, la National Gallery di Londra e la Galleria Nazionale dell’Umbria di Perugia: un insieme che offre la possibilità di seguire il percorso artistico di Raffaello, dalle prime commissioni fino alla morte, che lo colse, prematuramente, nel 1520. Le opere grafiche del maestro urbinate facenti parte della collezione del Palais des Beaux-Arts – sottoposte a
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restauro in occasione della mostra – sono funzionali a illustrare il processo creativo dell’artista, in cui il disegno funge da punto di partenza per la composizione di dipinti, spesso di grande formato. Questa significativa scelta di materiali originali è integrata da filmati e apparati multimediali, fra i quali spicca la ricostruzione virtuale della Pala Baronci, smembrata e perzialmente perduta, alla quale Raffaello lavorò poco piú che diciassettenne. info https://pba.lille.fr/
pensiamo alla via della Seta. Ma la realtà va ben oltre, a cominciare dal fatto che, come racconta la nuova mostra del museo londinese, la storia dei commerci fra Oriente e Occidente fu scritta lungo molteplici percorsi, le
FAR PARLARE LE PIETRE. SCULTURE MEDIEVALI DI NOTRE-DAME Museo di Cluny-Museo nazionale del Medioevo fino al 16 marzo 2025 (dal 19 novembre)
Fin dalla sua creazione, il Museo di Cluny è stato il principale luogo di
LONDRA VIE DELLA SETA British Museum fino al 23 febbraio 2025
Carovane di cammelli che attraversano dune desertiche, mercanti che commerciano seta e spezie nei bazar. Sono queste le immagini che vengono alla mente quando novembre
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conservazione delle sculture della cattedrale parigina di Notre-Dame. Nella sala dedicata al monumento sono riuniti i frammenti scultorei piú significativi ritrovati nel 1977 sotto un palazzo, tra cui le famose teste dei re, che sono andati ad affiancare gli elementi architettonici ornamentali che già facevano parte della raccolta museale. Queste opere non erano state oggetto di studi, né di restauri da quasi quarant’anni e sono state invece riesaminate in occasione del progetto di ricostruzione di Notre-Dame avviato all’indomani del devastante incendio del 2019. Nel 2022 il Museo di Cluny ha quindi promosso un programma di studio e restauro di una selezione dei pezzi, realizzato in collaborazione con il Centro di ricerca e restauro dei musei francesi (C2RMF) e il Laboratorio di ricerca dei monumenti storici (LRMH). La mostra offre ora l’opportunità di fare luce sui materiali della
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La storia della cattedrale di Notre-Dame non è solo quella del suo celebre edificio, ma è anche quella dei libri, dei manoscritti e delle opere a stampa che servivano al culto o allo studio. Un patrimonio che, dal 1756, è conservato in gran parte nella Biblioteca nazionale di Francia, i cui fondi comprendono, in particolare,
documentario ai quali sono affiancati fogli miniati provenienti dalle collezioni dello stesso Museo di Cluny, registri capitolari che documentano la gestione dei libri della cattedrale, manoscritti e una pianta concessi in prestito dall’Archivio di Stato, nonché un manoscritto miniato proveniente dall’Archivio
circa 300 manoscritti. La mostra allestita al Museo di Cluny offre adesso un saggio eloquente della ricchezza di questa collezione, di cui è stata selezionata una quarantina di pezzi. Documenti di grande pregio e valore
storico dell’arcivescovado. Il percorso espositivo offre dunque una sintesi della ricchezza della vita intellettuale, artistica e religiosa di Notre-Dame durante il Medioevo. info www.musee-moyenage.fr
raccolta e, oltre alle opere normalmente esposte nella sala delle sculture di NotreDame, vengono presentati molti pezzi inediti, fra cui spiccano i frammenti di un tramezzo risalente al 1230 rinvenuti nel corso di un intervento di archeologia preventiva condotto dall’Inrap (Istituto Nazionale per la Ricerca Archeologica Preventiva) dalla primavera del 2022. Le sculture selezionate per la mostra – piú di 100 – permettono dunque di scoprire il ricco apparato decorativo originale, esterno e interno, della cattedrale parigina, nelle forme in cui si presentava prima degli interventi e delle distruzioni di epoca moderna. info www.musee-moyenage.fr PARIGI SFOGLIARE NOTRE-DAME. CAPOLAVORI DELLA BIBLIOTECA MEDIEVALE Museo di Cluny-Museo nazionale del Medioevo fino al 16 marzo 2025 (dal 19 novembre)
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Un santo al tempo dei
Vichinghi
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di Gianna Baucero
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Divenuto re quand’era ancora ragazzo, il futuro sant’Edmondo dovette fronteggiare ripetute incursioni dei Vichinghi, una delle quali, nell’869, fu per lui fatale. Amato e benvoluto in vita, all’indomani della morte divenne ancor piú popolare e i prodigiosi eventi che cominciarono a verificarsi sulla sua tomba gli valsero la santificazione, riconosciuta anche dalla Chiesa. Una vicenda affascinante, che oggi si può rivivere visitando la città che porta il suo nome, Bury St Edmunds, e gli altri luoghi legati alla parabola di un personaggio caro anche ai nemici contro i quali si era battuto I resti dell’abbazia di S. Edmondo a Bury St Edmunds, nel Suffolk (Inghilterra sud-orientale). Il grande complesso monastico cadde in abbandono nel 1539, per effetto delle disposizioni emanate dal re Enrico VIII.
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a vigilia di Natale del 1433 il giovane Enrico VI d’Inghilterra (regnante dal 1422 al 1461 e dal 1470 al 1471), ultimo sovrano della dinastia Lancaster, arrivò a Bury St Edmunds, nel Suffolk (Inghilterra sud-orientale), per soggiornare presso la prestigiosa abbazia benedettina locale, che era intitolata appunto a sant’Edmondo (Edmund). I monaci della comunità erano da sempre abituati ad accogliere personaggi importanti e persino sovrani, ma in quell’occasione furono forse sorpresi di apprendere che il re si sarebbe trattenuto sino alla primavera seguente. Al suo arrivo, il giovane re fu accolto da 500 cittadini in livrea rossa, dal suo confessore personale (che si chiamava William Alnwick ed era vescovo di Norwich) e dall’abate William Curteys, che guidava l’abbazia da quattro anni e sarebbe rimasto in carica sino al 1449. Benché comunicata con scarso preavviso, la visita fu organizzata alla perfezione: Curteys ne curò ogni dettaglio, ristrutturò la sua abitazione in meno di un mese per renderla degna del re, ma soprattutto accolse Enrico VI con calore e lo fece sentire a suo agio. Il sovrano aveva allora solo dodici anni (era nato il 6 dicembre 1421) e regnava da oltre undici. Il suo rapporto Miniature tratte da un manoscritto delle Lives of Saints Edmund and Fremond di John Lydgate. 1434-1439. Londra, British Library. In particolare, nell’immagine in alto, si riconosce la tomba di sant’Edmondo.
con l’abate si trasformò in una profonda amicizia, destinata a durare nel tempo e, ovviamente, a conferire prestigio alla comunità. Lo dimostra il fatto che tredici anni piú tardi, quando l’ormai venticinquenne Enrico fondò il King’s College di Cambridge (1446), la solenne messa inaugurale fu officiata proprio da Curteys.
Una degna celebrazione
Sul finire del suo soggiorno tra i monaci, il 23 aprile 1434, Enrico VI fu ammesso tra i membri della fraternità e solennizzò la sua ammissione prostrandosi davanti al sepolcro di sant’Edmondo, nella bella chiesa abbaziale intitolata al martire. Per commemorare degnamente l’evento, l’abate ordinò a uno scrittore di comporre un poema destinato al piccolo re. Nacque cosí Lives of
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Saints Edmund and Fremond (Vite dei santi Edmondo e Fremondo), che acquisí vasta popolarità. Il suo autore si chiamava John Lydgate ed era uno tra i poeti piú importanti del tempo, ma anche un monaco della comunità diretta da Curteys. Con tutta probabilità, la stesura dell’opera richiese circa dodici mesi e si concluse quando il sovrano aveva quattordici anni. Del testo completo esistono dodici manoscritti, uno dei quali è noto come Harley 2278 ed è conservato alla British Library di Londra. Si tratta di uno dei piú notevoli manoscritti illustrati contenenti componimenti poetici in Middle English sopravvissuti sino ai giorni nostri: è arricchito da ben 120 illustrazioni, che riflettono il gusto e lo stile del XV secolo. Data la qualità e la quantità delle illustrazioni, la renovembre
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Miniatura raffigurante la costruzione dell’abbazia di S. Edmondo, dalla Miscellany on the Life of St. Edmund. 1130 circa. New York, Pierpont Morgan Library.
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storie sant’edmondo Sulle due pagine altre miniature tratte dalla Miscellany on the Life of St. Edmund. 1130 circa. New York, Pierpont Morgan Library. In questa pagina si vedono le tipiche imbarcazioni dei Vichinghi che navigano verso le coste inglesi. Nella pagina accanto sono raffigurati un momento dell’assalto portato dagli incursori venuti dal Nord e sant’Edmondo bersagliato dalle frecce, con una evidente allusione al martirio di san Sebastiano.
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dazione del manoscritto dovette certamente richiedere un tempo considerevole e ovviamente fu realizzata dopo che Lydgate ebbe completato il poema. Il fatto che nel 1439 l’autore abbia cominciato a ricevere una pensione reale suggerisce che, a quella data, il dono destinato a Enrico VI fosse ormai stato consegnato.
Quasi come un reportage
Un altro importante manoscritto contenente la vita di sant’Edmondo corredata da un meraviglioso ciclo di illustrazioni è conservato presso la Pierpont Morgan Library di New York, dove è catalogato come MS.M.736. Risale al 1130 ed è intitolato Miscellany on the Life of St Edmund. Comprende 32 immagini a tutta pagina che precedono il testo e rispecchiano lo stile del tempo e colpisce per le figure umane allungate, i colori brillanti, le forme geometriche, i cavalieri in sella ai loro animali, le armi e le armature che ricordano l’età normanna. Sia i personaggi, sia le navi vichinghe sono simili a quelli che vediamo nel co-
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siddetto Arazzo di Bayeux: le barche hanno teste di drago e le chiese mostrano archi a tutto sesto e torri gemelle, come le chiese e le abbazie del tempo. Ma chi fu davvero sant’Edmondo? E in quale contesto trascorse la sua vita terrena? Per comprenderne la storia, dobbiamo tornare al IX secolo, quando l’Inghilterra era alle prese con le invasioni vichinghe. Edmondo, infatti, nacque intorno all’841, al tempo di re Æthelwulf (regnante dall’839 all’856), e ottenne la corona dell’East Anglia il giorno di Natale dell’855, all’età di quattordici anni. Era un uomo pacifico, profondamente religioso e devoto alla figura di Cristo. I territori sui quali regnava occupavano le aree che oggi chiamiamo Suffolk e Norfolk e una parte dei Fens, le terre d’acqua intorno a Ely. Era un reame piuttosto vasto, che si estendeva dall’East Cambridgeshire sino alla costa orientale, affacciandosi sul mare che separava l’Inghilterra dagli spietati pirati del Nord, che avrebbero segnato con il sangue il destino di Edmondo. Con tutta probabilità il sovrano incontrò i Vichinghi
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storie sant’edmondo per la prima volta nell’865, quando la sua East Anglia fu invasa da un’orda nemica di proporzioni immense, il Great Heathen Horde (o Great Heathen Army), cioè il Grande Esercito Pagano. Era un’armata spaventosa e ben organizzata, diversa dalle bande che da tempo insanguinavano le coste inglesi e irlandesi. Il suo scopo, infatti, non era quello di compiere una breve razzia per poi tornare al Nord con un ricco bottino, bensí quello di conquistare le Isole Britanniche e stabilirvisi definitivamente. La sua permanenza in East Anglia, tuttavia, nell’865 fu relativamente breve, forse perché re Edmondo versò un tributo in merci, denaro e cavalli. Gli stessi spietati Vichinghi, però, tornarono quattro anni piú tardi, dopo aver seminato morte e distruzione in Mercia e Northumbria e aver conquistato la città di York (866/867). Nell’autunno dell’869, infatti, le truppe di Ivarr Ragnarsson, detto Senz’ossa, raggiunsero di nuovo l’East Anglia, decise a conquistarla. Che cosa accadde esattamente a quel punto è difficile a dirsi, perché le fonti del tempo hanno tramandato versioni contrastanti, ma certamente re Edmondo fu catturato dai Vichinghi, torturato, e infine decapitato. Morí il 20 novembre 869. Poco dopo la sua scomparsa, intorno alla sua vicenda cominciarono a fiorire leggende. Si cominciò a dire che si era immolato per restare fedele alla fede cristiana o per salvare i suoi sudditi da un bagno di sangue e che sulla sua tomba avvenivano miracoli: la gente cominciò cosí a venerarlo come un santo e a un certo punto la Chiesa lo canonizzò. La data della canonizzazione non ci è nota, ma sappiamo che nell’Inghilterra del tardo 800 e del primo 900 furono coniate monete su cui erano incise le parole SAINT EDMUND, il che potrebbe indicare che in quel tempo il culto del re santo era già praticato. Tali monete probabilmente circolavano in East Anglia e nelle terre della Danelaw, cioè nel vasto territorio inglese controllato dagli invasori vichinghi: sono le uniche tracce concrete di Edmondo che siano state reperite in Inghilterra e provano che la figura del martire era cara anche ai Vichinghi. Con il tempo, Edmondo divenne famoso, entrò nel cuore della gente e suscitò l’interesse di vari scrittori,
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che verso la fine del X secolo, con l’intensificarsi delle azioni vichinghe in Inghilterra dopo un periodo di relativa calma, cominciarono a raccontarne la storia.
Il re e il monaco
Il primo e il piú completo resoconto della morte del re si intitola Passio Sancti Eadmundi e fu composto in latino dal monaco benedettino Abbone di Fleury. Abbone non era inglese (era di origini franco-fiamminghe e aveva studiato a Parigi, Reims e Orleans), ma scrisse la sua opera in Inghilterra, mentre insegnava presso l’abbazia di Ramsey, nel Cambridgeshire. Sappiamo che rimase in Gran Bretagna dal 985 al 987, durante il regno di Etelredo lo Sconsigliato (regnante dal 978 al 1013 e dal 1014 al 1016), quindi siamo in grado di far risalire la composizione della sua Passio proprio a quegli anni. L’arcivescovo di Canterbury era allora Dunstan: Abbone dedicò la sua opera proprio a quest’ultimo, che in un momento di commozione gli aveva raccontato la vicenda di Edmondo. Il prelato l’aveva scoperta grazie a un vecchio portatore di armi e ne era rimasto cosí colpito da averla tenuta nel cuore. Ad Abbone l’aveva riferita piangendo e il monaco ne era rimasto tanto impressionato da volerla trascrivere, affinché non fosse dimenticata. Nella Passio leggiamo che Edmondo era un re generoso, giusto e pio, le cui doti umane avevano suscitato la collera del demonio, inducendolo a ordinare ai Vichinghi di eliminare il re e sottomettere l’East Anglia. Cosí, secondo Abbone, nella regione arrivarono i fratelli Inguar e Hubba (cioè Ivarr Senz’ossa, e Ubbe, figli del terribile guerriero Ragnar Lothbrok), creature violente provenienti dalle barbare terre del Nord. Abbone considerava i Vichinghi spietati pirati pagani dediti alla devastazione, alla violenza sessuale, all’infanticidio e persino al cannibalismo e pensava che essi fossero cosí crudeli perché erano scandinavi. Attraverso la Passio scopriamo che, giunti in East Anglia, i Nordici inviarono a Edmondo un loro emissario con l’incarico di annunciare la presenza del loro «imbattibile sovrano, terrore della terra e del mare». Il messaggero ordinò a Edmondo di sottomettersi, ma egli si oppose, novembre
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Sulle due pagine ancora due miniature tratte dalla Miscellany on the Life of St. Edmund. 1130 circa. New York, Pierpont Morgan Library. Nella pagina accanto, il supplizio di sant’Edmondo, che viene decapitato; a sinistra, lo spirito di Edmondo, invocato da Canuto il Grande, che uccide Sweyn Barbaforcuta, re di Danimarca.
in nome del suo antico giuramento di piegarsi solo all’autorità di Dio e di non essere per il suo popolo un dominatore, bensí un benefattore.
Il martirio
A quel punto Senz’ossa ordinò che Edmondo fosse catturato, imprigionato e torturato, ma il re si ribellò. Quando capirono che neanche cosí si sarebbe arreso, i Vichinghi lo legarono a un albero, lo sommersero con una pioggia di frecce e infine lo decapitarono con un colpo di spada. Per tutta la durata del supplizio il futuro santo non smise di pregare. Lo fece fino all’ultimo istante di vita, anche quando la sua voce era ormai rotta e flebile, poco piú di un sospiro, e, chissà, forse anche mentre riceveva il colpo mortale. In segno di spregio per le tradizioni cristiane, gli invasori si appropriarono della sua testa e la nascosero in un bosco, cosí che gli Inglesi non potessero trovarla. I sudditi del defunto, però, non si rassegnarono a perderla e si avventurarono nello stesso bosco per trovarla. Mentre la cercavano, essi gridavano gli uni agli altri: «Dove sei?», «Dove sei?», «Dove sei?» per informarsi sulle rispettive posizioni. Per un po’ le loro parole rimbalzarono a vuoto nei vari punti del bosco, finché, d’un tratto, qualcuno rispose: «Qui», «Qui», «Qui», che nel latino di Abbone era «Hic», «Hic», «Hic». Ma chi aveva risposto cosí? Da dove proveniva quel suono? Non era stato un uomo, né una donna e neppure un’altra creatura vivente, bensí la testa mozzata di Edmondo, che quando fu trovata palpitava di vita, con la lingua ancora vibrante, come se avesse appena smesso di parlare. Le sorprese, però, non erano terminate: la testa era in compagnia di un grosso lupo grigio dall’aspetto mostruoso, che teneva il reperto tra le zampe, come a proteggerlo. Quando i cercatori
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prelevarono quel macabro tesoro e lo portarono al villaggio il lupo li seguí, mansueto e protettivo: se ne andò solo quando la testa fu sepolta accanto al corpo del re, come se a quel punto sentisse di aver completato con successo la sua missione. In seguito, sopra la tomba di Edmondo fu eretta una semplice cappella, che custodí il sonno del defunto per molto tempo. Con il passare degli anni, presso l’umile sepolcro cominciarono a verificarsi fenomeni meravigliosi, prodigi, miracoli e il luogo prese ad attirare molta gente. Cosí, intorno al 903, gli Inglesi decisero di traslare i resti del sovrano in un’al-
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I re in visita all’abbazia Canuto nel 1032 Edoardo il Confessore nel 1045 Guglielmo il Conquistatore Enrico I nel 1132 Enrico II nel 1174 Riccardo Cuor di Leone nel 1189 Giovanni Senzaterra nel 1201 e nel 1214 Enrico III nel 1251 e nel 1272 Edoardo I nel 1289 e nel 1296 La Regina Eleonora, moglie di re Edoardo I, nel 1289 Edoardo II nel 1326 Edoardo III Riccardo III nel 1383 Enrico VI per ben quattro volte: nel 1433, nel 1436, nel 1446 e nel 1448 Edoardo VI nel 1469 Enrico VII nel 1486
Lo stemma del Borough di St Edmunds. Si notino l’immagine del lupo che custodisce la testa di sant’Edmondo e il motto «Sacrarium Regis, Cunabula Legis» («Santuario del re, Culla della legge»).
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In alto un’altra veduta dei resti dell’abbazia di S. Edmondo a Bury St Edmunds.
tra località, dove costruirono una chiesa. Il posto si chiamava Beodricsworth (Abbone la chiama «Bedrices-gueord») ed era già caro alla corona dell’East Anglia, perché nel 637 re Sigeberto vi aveva fondato un monastero per ritirarvisi, rinunciando al trono (oggi Beodricsworth si chiama Bury St Edmunds). Quando il corpo di Edmondo venne traslato, ci si aspettava che fosse ormai decomposto: invece, secondo Abbone, al momento dell’esumazione esso appariva incorrotto e la testa era perfettamente saldata al corpo, anche se intorno al collo si notava una sottile piega rossa simile a un filo scarlatto. La fama di Edmondo ovviamente crebbe. Nei tempi che seguirono, una certa Oswen, una volta l’anno, nell’anniversario dell’Ultima Cena, apriva la tomba e tagliava le unghie del santo, che poi riponeva in un reliquiario sull’altare. «Ed esse – racconta Abbone – sono ancora là, perfettamente conservate e trattate con venerazione». Il ritratto dei Vichinghi tratteggiato da Abbone influenzò le generazioni future, che continuarono a lungo a spiegare le invasioni scandinave come un conflitto tra il Bene e il Male. Appare inoltre evidente come nella Passio il supplizio di Edmondo ricordi la crocifissione di Cristo e il martirio di san Sebastiano. L’opera divenne molto famosa e ispirò numerosi altri scrittori, salvando Edmondo e la sua tragica storia da un immeritato oblio. Tre delle immagini salienti della narrazione di Abbone, infine, cioè il povero re trafitto dalle frecce, il lupo grigio e la testa mozzata, divennero in seguito le cinovembre
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fre dell’iconografia di sant’Edmondo, come prova lo stemma di Bury St Edmunds, la città sviluppatasi sull’antica Beodricsworth.
Scultura in legno raffigurante il lupo che, secondo la leggenda, custodí la testa del re Edmondo per poi farla trovare ai suoi sudditi. Bury St Edmunds, cattedrale di St Edmundsbury.
Nasce l’abbazia
no Bury St Edmunds. La chiesa di Baldovino fu consacrata nel 1095. Il sepolcro di Edmondo trovò posto dietro l’altare maggiore e fu impreziosito da materiali pregiati: sfoglie d’oro, argento, pietre preziose, gioielli. Le dimensioni della nuova costruzione erano decisamente ragguardevoli: ben 154 m di lunghezza e 75 di larghezza (sulla facciata occidentale), che ne facevano una tra le piú imponenti chiese d’Inghilterra.
Qualche decennio dopo la morte di Edmondo, re Etelstano (regnante dal 924/5 al 939) affidò la chiesa di Beodricsworth e le spoglie mortali del martire a una comunità religiosa locale, per la quale, nel 1020, re Canuto il Grande (regnante dal 1016 al 1035) ottenne lo status di monastero benedettino. Quello stesso anno, infatti, il sovrano fece erigere a Beodricsworth una chiesa di pietra e vi assegnò 20 monaci, 13 dei quali venivano dall’abbazia di St Benet a Hulme (Norfolk) e 7 dalla celebre Ely. Nasceva cosí l’abbazia di S. Edmondo, che sarebbe diventata un importante centro di spiritualità, una famosa meta di pellegrinaggi e una delle cinque abbazie piú grandi e importanti d’Inghilterra. Nell’XI secolo quella comunità monastica acquisí un’enorme importanza grazie a Edoardo il Confessore (regnante dal 1042 al 1066), che le conferí la giurisdizione su circa un terzo della contea del Suffolk. In quel territorio, noto come Liberty of St Edmund, l’abate esercitava la sua autorità non solo in campo religioso, ma anche nelle questioni civili. All’abate, inoltre, spettava il privilegio di coniare monete e infatti all’interno del complesso monastico esisteva una zecca, che cessò di operare forse dopo una sanguinosa insurrezione popolare, nel 1327. Un anno prima della battaglia di Hastings (1066) i monaci di S. Edmondo elessero loro abate il medico personale del re Edoardo il Confessore, Baldovino di Saint-Denis, che in seguito sarebbe diventato anche il medico di Guglielmo il Conquistatore e del suo successore William Rufus. Il nuovo abate intraprese un ambizioso progetto di ampliamento del complesso, che si concluse oltre cento anni piú tardi con la costruzione di un’imponente chiesa abbaziale. Nello stesso anno in cui Baldovino arrivò all’abbazia (1065) la città cambiò il suo nome in St Edmundsbury, che significa «Fortezza di sant’Edmondo», perché la parola anglo-sassone «buhr» equivaleva, per l’appunto a «luogo fortificato». Non è chiaro quando il nome fu modificato nell’odier-
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Pellegrinaggi e distintivi
La fama di Edmondo e dei suoi miracoli cominciò a superare ben presto i confini locali, attirando frotte di visitatori. In breve l’abbazia divenne un luogo di pellegrinaggio, al quale affluiva ogni anno un enorme numero di fedeli, in cerca di conforto, aiuto e meditazione. I pellegrini venivano non solo dalle zone limitrofe, ma anche da molto lontano e persino dall’estero, affrontando viaggi che potevano durare mesi. Come la maggior parte dei santuari e delle mete di viaggi devozionali, l’abbazia di S. Edmondo rilasciava il distintivo del pellegrino. Esso mostrava una figura maschile legata a un albero e fiancheggiata da due arcieri intenti a trafiggerla con le loro frecce. È evidente che l’immagine rievocava il martirio di sant’Edmondo e si conformava alla narrazione di Abbone di Fleury. La presenza della tomba di re Edmondo e i legami con Etelstano, Canuto ed Edoardo il Confessore avvicinarono sempre di piú i Benedettini di S. Edmondo alla casa reale inglese, al punto che, da Guglielmo il Conquistatore in poi, tutti i sovrani medievali visitarono l’abbazia. Al tempo dei Plantageneti i due re piú legati al santuario furono Riccardo II (regnante dal 1377 al 1399) ed Enrico VI (regnante dal 1422 al 1461 e dal 1470 al 1471). Quest’ultimo, come già ricordato, portava nel cuore il ricordo di un lungo inverno trascorso all’ombra del chiostro, protetto dalla presenza affettuosa dell’abate Curteys. Vale la pena ricordare che durante la prigionia di Riccardo Cuor di Leone (rapito dal duca Leopoldo V d’Austria alla fine del 1192 e
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trattenuto dall’imperatore Enrico VI di Germania fino al febbraio del 1194), l’abate di S. Edmondo, Samson of Tottington, collaborò con la Corona inglese e, in particolare, con la regina Eleonora d’Aquitania per raccogliere fondi destinati al riscatto. Nel 1272, inoltre, la comunità ottenne da Enrico III il permesso di organizzare una fiera annuale nell’area chiamata Angel Hill (Collina dell’Angelo). La fiera divenne un appuntamento annuale molto importante e si sarebbe ripetuta per ben 600 anni. L’importanza dell’abbazia fu confermata nel 1446 e nel 1447, durante il travagliato regno di Enrico VI, quando la comunità monastica ospitò diverse sedute del Parlamento.
Aneliti di libertà
Ma l’evento piú sorprendente dal punto di vista storico e politico accadde nel 1214, quando, in palese conflitto con la Corona, una nutrita delegazione di baroni ribelli si riuní segretamente a Bury St Edmunds proprio in occasione dell’anniversario della morte del santo, il 20 novembre, per elaborare la Charter of Liberties (Carta delle Libertà). Erano gli anni del malgoverno di re Giovanni, il famoso Senzaterra, dei suoi abusi e delle sue lotte con l’aristocrazia, con il popolo e con il papato e la Charter of Liberties divenne un documento epocale, con il quale i firmatari puntavano a controllare e limitare i poteri del sovrano. Si trattava, com’è facile intuire, della «madre» di quella Magna Carta che sarebbe stata concessa un anno dopo nella celebre pianura di Runnymede. Dall’evento del 1214, pertanto, Bury St Edmunds è annoverata tra le tappe importanti della «strada verso la Magna Carta» e il suo nome compare nell’elenco degli avvenimenti topici che portarono alla
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In alto uno dei quattro manoscritti della Magna Carta, promulgata da Giovanni Senzaterra a Runnymede, nel 1215. Londra, British Library. A destra, sulle due pagine tavola ottocentesca raffigurante i baroni che, nel 1214, si riunirono in segreto a Bury St Edmunds per elaborare la Charter of Liberties (Carta delle Libertà).
concessione di quello che è considerato uno dei documenti piú importanti della storia. Ciò contribuisce a spiegare perché dal 1850 il motto del Borough di Bury St Edmunds è «Sacrarium Regis, Cunabula Legis», cioè «Santuario del re, Culla della legge». L’interesse della Corona per il santo andò aumentando durante tutto il Medioevo. Ne è una prova il nome di battesimo di diversi membri della famiglia reale, come il successore di Etelstano, Edmondo I (regnante dal 939 al 946), o Edmondo II Ironside (Fiancodifernovembre
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ro), che regnò solo dall’aprile al novembre del 1016, o, ancora, come il fratello minore di Edoardo I. Sant’Edmondo appare anche nel Dittico Wilton (Wilton Diptych) nel quale è raffigurato con i due santi venerati da Riccardo II (1377/1399), Giovanni Battista ed Edoardo il Confessore (il re d’Inghilterra canonizzato nel 1161). Nel celebre dipinto, oggi conservato presso la National Gallery di Londra, Edmondo regge una freccia, che ricorda e simboleggia il suo martirio. Re Riccardo era molto legato alla figura di Edmondo, e la sua devo-
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zione era talmente profonda che, a quanto si racconta, il giorno dell’incoronazione (16 luglio 1377) volle che tra i regalia ci fossero anche le pantofole del santo. Fondata da un re per rendere omaggio alla memoria di un altro re, visitata e protetta da molti sovrani e finanziata dalla Corona, per un crudele scherzo del destino l’abbazia di S. Edmondo fu distrutta proprio da un sovrano, Enrico VIII, il quale, nel 1539, devastò i monasteri inglesi e si accaní ferocemente contro le loro comunità e i tesori che esse custodivano. Essen-
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Il Dittico Wilton, tempera su tavola di un anonimo artista inglese o francese. 1395-1399. Londra, National Gallery. Nella valva di sinistra, il re Riccardo II viene presentato a Maria dai suoi santi protettori: Giovanni Battista, Edoardo il Confessore ed Edmondo, che impugna una delle frecce usate per il suo martirio.
le a varcare la soglia della chiesa abbaziale prima della devastazione. Oggi la donna riposa in un’altra chiesa, la St. Mary’s Church, che un tempo sorgeva entro la cinta muraria di S. Edmondo.
do una delle cinque abbazie piú ricche d’Inghilterra, S. Edmondo fu tra le ultime a essere colpita dalle truppe reali. I suoi begli edifici furono smantellati e il materiale cosí ottenuto fu usato per erigere altre costruzioni. Il furore iconoclasta dei soldati di Enrico VIII ovviamente non risparmiò il sepolcro del martire e il suo contenuto non fu mai piú ritrovato. Qualcuno sostiene che i resti del santo siano ancora sepolti tra le rovine dell’ex complesso monastico, ma per il momento non si hanno certezze. Paradossalmente, poco prima della Dissolution of the Monasteries (Scioglimento dei monasteri) perpetrata da Enrico VIII, nel 1533 l’abbazia accolse il funerale della sorella del sovrano, Maria Tudor, regina di Francia. Il suo corteo funebre fu l’ultima grande processione rea-
Chi legge di sant’Edmondo oggi può pensare che egli fosse solo un santo locale, perché in genere lo si indica come «sant’Edmondo dell’East Anglia» o come «sant’Edmondo di Bury», un po’ come accade con santa Etheldreda di Ely o con san Cutberto del Northumberland. In realtà, Edmondo non fu solo questo: la sua notorietà fu ben piú vasta del suo reame e per alcuni secoli egli fu il patrono dell’Inghilterra. Secondo lo storico Francis Young, l’immensa popolarità di Edmondo e il suo status di patrono del Paese vanno letti in relazione alle invasioni vichinghe, che continuarono a tormentare gli Inglesi per altri due secoli dopo la morte del santo e proseguirono persino dopo la conquista normanna. La storia di Edmondo, dunque, troverebbe forti consonanze nell’animo umano perché legata a temi come
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Una fortuna duratura
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Ritratto di Enrico VIII, da una raccolta di salmi. 1509-1546. Londra, British Libary.
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storie sant’edmondo A destra la chiesa di Ss. Pietro e Paolo a Lavenham. Nella pagina accanto il percorso della St Edmunds Way. In basso la torre normanna di Bury St Edmunds.
l’invasione nemica e la resistenza, che anche a distanza di secoli sono, purtroppo, sempre attuali. Per quanto possa sembrare assurdo, però, tra i primi a promuovere il culto del santo ci furono proprio gli invasori stranieri: il corpo di Edmondo fu traslato a Beodricsworth quando, probabilmente, l’East Anglia era ancora dominata dai Vichinghi. La grande abbazia benedettina che nacque dopo il 1020, inoltre, fu fondata da un re danese, Canuto il Grande, figlio del re di Danimarca Sweyn Barbaforcuta, che aveva invaso le coste inglesi nel 1013, proclamandosi re d’Inghilterra. Con Canuto il santuario si avviò a diventare uno dei piú ricchi e potenti del Paese e il re seppe usare la sua reale o presunta devozione a sant’Edmondo come un elemento di continuità delle tradizioni anglo-sassoni. Ma cos’altro spinse Canuto a sostenere quella comunità benedettina? Forse la paura? Vale la pena aggiungere che, secondo una leggenda, il popolo inglese, stanco della dominazione danese, nel 1014 aveva supplicato il santo di intervenire e lo spirito di Edmondo si era presentato a re Sweyn brandendo una grossa spada e uccidendolo con un colpo secco. Canuto temeva dunque di finire come il padre? A questa domanda difficilmente potremo trovare una risposta. Anche i Normanni, come i loro predecessori, rispettarono e protessero il culto di sant’Edmondo e furono benevoli con l’abbazia: era un modo per legittimare il loro dominio e non è un caso che la grande chiesa romanica voluta dall’abate Baldovino risalga alla fine dell’XI secolo, quando Guglielmo il Conquistatore (regnante dal 1066 al 1087) e il suo erede William II Rufus (regnante dal 1087 al 1100) governavano l’Inghilterra da circa un trentennio.
Patrono dei guerrieri
Sappiamo che per molto tempo la bandiera di sant’Edmondo, un drago bianco in campo rosso, fu portata in battaglia come simbolo dell’Inghilterra e che Riccardo I (regnante dal 1189-1199) considerava il martire come il patrono dei guerrieri e delle lotte contro gli infedeli: ne cercò la protezione per i suoi crociati inglesi, cosí come Edoardo I chiese in seguito l’aiuto di sant’Edmondo contro gli Scozzesi e i Gallesi. Cuor di Leone, inoltre, nei rari momenti trascorsi in Inghilterra, si recò a Bury St Edmunds e portò doni preziosi. Già durante il suo regno, però, la fama del protettore delle armate inglesi cominciò a incrinarsi, perché Riccardo I sconfisse i nemici in Terra Santa (1199) dopo aver visitato la tomba di san Giorgio a Lydda (oggi Lod,
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presso Tel Aviv, in Israele) e considerò la vittoria come sant’Edmondo continua a suscitare interesse. I luoghi un segno del favore di quel santo. Da quel giorno il soche ospitarono la sua parabola terrena conservano anvrano adottò proprio san Giorgio come suo protettore cora tracce del suo passaggio e profumano di storia e di personale e come patrono dell’esercito. grandi imprese. E chi voglia scoprirli troverà che, oltre Il vessillo di sant’Edmondo continuò per molto alla bella città di Bury St Edmunds, dove tutto partempo a essere portato in battaglia a protezione delle la del santo e ne ricorda il martirio, l’Inghilterra offreColcheste A120 A12 20 truppe inglesi, ma durante il regno di Edoardo I (re- anche una via di pellegrinaggio dedicata alla memoria Great Notley Cressing gnante dal 1272 al 1307) cominciò a essere affiancato di Edmondo: si chiama «saint Edmund Way» ed è un dalla bandiera di san Giorgio. La situazione cambiò itinerario di circa 80 miglia (pari a 128A12 km circa), che definitivamente quando, intorno alla metà del XIV va da Manningtree, sulla costa dell’Essex, e finisce a secolo, re Edoardo III fondò l’Ordine della GiarrettieBrandon, nel Suffolk, dopo aver attraversato scenari ra, affidando a san Giorgio il ruolo di patrono dell’ordi incomparabile bellezza, villaggi storici come Bures dine e protettore dell’Inghilterra. Dopo la battaglia di St.Mary (dove si dice che Edmondo sia stato incoroAgincourt (1415) il giorno dedicato al santo (23 aprinato), Long Melford, Lavenham e le città medievali di le) diventò una delle date piú importanti del calenSudbury, Bury St Edmunds e Thetford. dario inglese. La croce rossa in campo bianco (che per Nell’ultimo ventennio alcuni cittadini inglesi hanl’appunto simboleggia san Giorgio ed è la bandiera no cercato di restituire a Edmondo lo status di patrono inglese tuttora in uso) fu però utilizzata per rappre- dell’Inghilterra. Il progetto è fallito e san Giorgio consentare l’Inghilterra solo a partire dal regno di Enrico tinua a essere il protettore ufficiale del Paese, ma la VIII (1509-1547). figura di Edmondo non è stata dimenticata e il monaco Anche a distanza di quasi dodici secoli il nome di Abbone ne sarebbe orgoglioso. F
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Danzando davanti al
di Giuseppe Ligabue
Purgatorio Uno dei capolavori del Correggio è ambientato in un paesaggio nel quale è possibile riconoscere la presenza della Pietra di Bismantova, nell’Appennino reggiano. E la scelta di inserire nella scena questo celebre luogo dantesco è l’ennesima riprova della fortuna di cui la Divina Commedia godette già all’indomani della sua composizione
I I
l Museo del Prado di Madrid conserva un capolavoro di Antonio Allegri, detto il Correggio, intitolato Noli me tangere, che l’artista emiliano dipinse intorno al 1523, forse per i conti Ercolani di Bologna. Le vicende che lo hanno portato a Madrid si possono cosí riassumere: sappiamo che, sul finire del Cinquecento, il quadro si trovava a Roma, nella raccolta del cardinale Pietro Aldobrandini, collezionista d’arte che se n’era invaghito e che per averlo non aveva esitato a sborsare una cifra altissima. In seguito, passò a un altro cardinale d’origini bolognesi, Ludovico Ludovisi, nipote di papa Gregorio XV. Intorno ai primi anni Quaranta del Seicento, il principe Niccolò Ludovisi, trovandosi in difficoltà
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Miniatura ferrarese raffigurante i penitenti mentre salgono verso la porta del Purgatorio, da un codice della Divina Commedia. XV sec. Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana. L’immagine ricorda il sentiero che sale lungo le balze della Pietra di Bismantova.
finanziarie, si vide costretto a cedere al re di Spagna i migliori dipinti della sua collezione. Cosí il Noli me tangere arrivò a Madrid, nella galleria di Filippo IV, per poi essere definitivamente acquisito dal Museo del Prado, una delle piú importanti raccolte d’arte del mondo. In questo capolavoro il Correggio si impone sicuramente come
Nella pagina accanto Noli me tangere, olio su tela del Correggio (al secolo, Antonio Allegri). 1523-1524 circa. Madrid, Museo del Prado. Come l’autore spiega in queste pagine, il titolo assegnato all’opera, «Noli me tangere» («Non mi trattenere»), potrebbe non essere quello originale attribuito dal Correggio.
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iconografia pietra di bismantova uno dei piú grandi geni artistici di tutti i tempi, sia per la magnifica rappresentazione delle figure, sia per la straordinaria fusione umanistica dei personaggi con lo scenario retrostante, nonché per la profondità dei discorsi evangelici ed escatologici celati nei gesti sospesi del Cristo e della Maddalena. Va inoltre attentamente considerato il fatto che in quest’opera si evidenza pienamente l’altissimo contributo del Correggio al rinnovamento dell’arte sacra. Qui, infatti, viene superato con slancio il vecchio stilema della compresenza statica dei santi, dando cosí avvio a quelle nuove e autentiche «sacre conversazioni» che sempre piú saranno richieste e apprezzate con intima gioia ed entusiasmo spirituale dai fedeli. Il dipinto raffigura l’apparizione di Gesú a Maria Maddalena. I due personaggi sono immersi in un paesaggio boschivo, simile a un giardino fiabesco, lontano dai riflettori
nuovo. Oltre la scena in primo piano, si apre un paesaggio boscoso che prosegue fino all’orizzonte, chiuso da una linea di montagne. Il cielo, significativamente terso e luminoso, richiama il sorgere di un’alba nuova.
La strada per il Cielo
Il Risorto, che non ha un solo segno della crocifissione, in un movimento aggraziato che ricorda passi di danza, si rivela alla Maddalena. Il braccio sinistro è alzato e con l’indice della mano sembra indicare con gioia la strada per salire con lui in Cielo. La Maddalena, seduta a terra, guarda in alto, verso il Redentore che ha appena riconosciuto e, superato il primo momento di sorpresa, allarga le braccia in basso in segno di supplica. La veste che indossa è ricca e molto elaborata e i suoi lunghi capelli biondi sono sciolti sulle spalle. La donna ha le labbra aperte e un’espressione implorante. Sembrerebbe chiedere al
Mantova
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del mondo. Un luogo ben diverso da quello descritto nei vangeli. Dietro Cristo, ai piedi di un simbolico grande albero dai rami spezzati, sono appoggiate una vanga, una zappa e un cappello di paglia, strumenti allegorici utilizzati dal divino giardiniere per creare un mondo
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Signore: «Prendimi con te, insegnami la strada!». Gesú si rivolge a lei con dolcezza infinita. Il suo messaggio è chiaro: «Non mi trattenere. Io salgo al Padre mio e vostro. Se vuoi venire lassú con me devi prima pentirti sinceramente dei tuoi peccati». È bene qui ricordare che tutti e
Particolare ingrandito del Noli me tangere del Correggio (vedi foto in apertura, a p. 35): sono appena visibili a destra la bianca torre e a sinistra, in basso, l’eremo di Bismantova. Nella pagina accanto, in basso Castelnovo ne’ Monti, Reggio Emilia. Resti della torre matildica che sovrasta l’abitato.
quattro i Vangeli associano l’apparizione di Gesú alla Maddalena con la prima visita al sepolcro il giorno di Pasqua. La tradizione occidentale identifica questa donna con la peccatrice anonima che bagna con le sue lacrime e unge di profumo i piedi di Gesú (Lc 7,36-504) e con Maria, la sorella di Marta e di Lazzaro (Gv 11,1). Ma ecco qui di seguito il testo del Vangelo di Giovanni (20 11-18) considerato il piú completo su questo momento: «Maria invece stava all’esterno, vicino al sepolcro, e piangeva. Mentre piangeva, si chinò verso il sepolcro e vide due angeli in bianche vesti, seduti l’uno dalla parte del capo l’altro dei piedi, dove era stato posto il corpo di Gesú. Ed essi le dissero: “Donna, perché piangi?”. Rispose loro: “Hanno portato via il mio Signore e non so dove l’hanno posto”. Detto questo, si voltò indietro e vide Gesú, in piedi; ma non sapeva che fosse Gesú. Le disse Gesú: “Donna, perché piangi? Chi cerchi?”. novembre
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Ella, pensando che fosse il custode del giardino, gli disse: “Signore, se l’hai portato via tu, dimmi dove l’hai posto e io andrò a prenderlo”. Gesú le disse: “Maria!”. Ella si voltò e gli disse in ebraico: “Rabbuní!” – che significa: «Maestro!». Gesú le disse: “Non mi trattenere, perché non sono ancora salito al Padre; ma va’ dai miei fratelli e di’ loro: ‘Salgo al Padre mio e Padre vostro, Dio mio e Dio vostro’”. Maria di Màgdala andò ad annunciare ai discepoli: “Ho visto il Signore!” e ciò che le aveva detto».
Una scelta inedita
In questo dipinto il Correggio compie una vera rivoluzione. Un Salvatore che danzando anticipa alla Maddalena la gioia che troverà con Lui in Paradiso, non s’era mai visto. In relazione a ciò, chi scrive, tempo fa, ebbe modo di entrare in contatto con uno dei massimi esperti di storia dell’arte a livello mondiale, il professore spagnolo Antonio Ma-
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iconografia pietra di bismantova nuel Gonzalez Rodriguez, docente di teoria e metodologia della storia dell’arte alla Universidad Complutense di Madrid. Lo studioso madrileno confermò pienamente questa tesi, riconoscendo nei movimenti del Risorto la gestualità e i passi di una raffinata danza rinascimentale. Aggiunse che le indagini radiografiche da lui compiute proprio nel riquadro dei piedi di Gesú, rivelarono che il Correggio aveva in precedenza tratteggiato differenti posizioni dei piedi. Tutte queste posizioni però collimavano con le sequenze dei passi richiesti dalla danza, dimostrando che il pittore in precedenza aveva compiuto vari tentativi prima di raggiungere la definitiva perfezione dei movimenti. Va ricordato che nelle corti del Rinascimento la danza non era solo un passatempo elevato, ma una vera disciplina educativa, che mentre formava il corpo ne elevava lo spirito. La scelta del paesaggio alle spalle dei due non è casuale: il grande albero dietro al Salvatore, nel far memoria di quello paradisiaco (dal cui frutto viene la morte), richiama al-
tresí l’albero della croce, il cui frutto fu Cristo stesso, Signore della vita. Dietro la Maddalena si riconosce invece, la Pietra di Bismantova, la montagna del Purgatorio dantesco in cui il sommo poeta ha collocato la porta che consente ai peccatori, dopo un cammino di pentimento, di guadagnare finalmente la salvezza eterna e della quale chi scrive ha qui già piú volte trattato (vedi «Medioevo» nn. 306 e 313, luglio 2022 e febbraio 2023). Un altro simbolo di elevazione fortemente voluto dal Correggio, sicuramente frutto di una meditata e faticosa ricerca sui luoghi rappresentati.
La Pietra di Bismantova
L’importanza pittorica qui evidentemente assegnata alla Pietra di Bismantova è rilevante e merita di essere approfondita. Sul fatto che la montagna raffigurata sia proprio quella resa famosa da Dante non dovrebbero sussistere dubbi, per piú di un motivo: la forma della stessa, il sentiero circolare che porta alla sommità tabulare, la piccola costruzione alla sua base che richiama il suo eremo benedettino,
e infine, la bianca torre che appena si scorge dirimpetto, sull’altra parte della valle. È ciò che già nel Cinquecento restava del castello voluto da Matilde di Canossa quattro secoli prima e che ha dato il nome alla località: Castelnovo, per distinguerlo da quello vecchio, che sin dal tempo dell’occupazione romana sorgeva sulla spianata sommitale della Pietra. Il Correggio dipinge la Pietra di Bismantova in una dimensione esistenziale nuova, che interpreta la promessa evangelica «il creato sarà trasfigurato in cieli nuovi e terre nuove (2 Pietro 3,10-14; Gv. Ap. 21,1-4). Cosí anche l’antica torre è raffigurata in un nuovo aspetto: bianca ed elegante (si direbbe rinascimentale, come rinascimentali sono gli abiti della Maddalena), comunque una torre ben diversa da ciò che ancor possiamo vedere oggi arrivando a Castelnovo ne’ Monti. Per rispondere alla domanda sul perché il Correggio abbia voluto raffigurare la Pietra di Bismantova alle spalle della Maddalena dobbiamo ricordare che nel tempo in cui l’artista dipingeva, la Divina
Una veduta della Pietra di Bismantova, la montagna del Purgatorio dantesco.
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Centro assoluto Madonna in gloria fra i Santi Faustino e Giovita, tempera su legno di anonimo emiliano o lombardo legato alla corte estense di Ferrara (Benvenuto Tisi, detto il Garofalo?). Prima metà del XVI sec. Rubiera, (Reggio Emilia), pieve dei Ss. Faustino e Giovita. I due santi sono inseriti in un ambiente reale, con grande attenzione nella resa del paesaggio. La Pietra di Bismantova, montagna del Purgatorio, volutamente posta sopra il calice eucaristico al centro assoluto del dipinto, si pone come anello di congiunzione fra la terra e il cielo. Ciò denota la sufficiente conoscenza dell’artista sia della Divina Commedia di Dante – considerata allora quasi come un testo sacro –, sia dei luoghi ben rappresentati nel dipinto.
Commedia era addirittura assimilata a un testo sacro. L’Allegri, che si era formato nelle dotte corti emiliane e mantovane, doveva conoscere molto bene l’opera dantesca. Il poema, infatti, era spesso letto e commentato nelle piazze e molti ne conoscevano canti a memoria. Si
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iconografia pietra di bismantova Da leggere Giuseppe Adani, Correggio pittore universale, Silvana Editoriale 2007 Didascalia Giuseppe Ligabue e Clementina Santi, Dante a Bismantova, Viaggio alla aliquatur adi odis Montagna del Purgatorio, Corsiero Editore, Regio Emilia 2021 que vero ent qui Giuseppe Giovanelli, La devozione a Santa Maria Maddalena, La Libertà, doloreium conectu settimanale cattolico reggiano, 27 luglio 1996 rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
La Pietra di Bismantova al tramonto, vista da Pietradura (800 m circa), un caratteristico borgo montano a pochi chilometri da Castelnovo ne’ Monti. Da qui, verosimilmente, il Correggio avrebbe preso spunto per ritrarre la montagna del Purgatorio dantesco e l’intero paesaggio che fa da sfondo al dipinto. Nella pagina accanto, in alto la chiesetta di S. Maria Maddalena (1501 m) sul monte Ventasso (1727 m), alla quale è stato aggiunto un rifugio. Il monte dista pochi chilometri da Bismantova.
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Nella pagina accanto, in basso particolare del grande affresco che un tempo occupava l’intero catino absidale del santuario dell’Eremo di Bismantova, firmato Marco e soci 1422. In piedi, san Giovanni Battista e santa Maria Maddalena; in basso, il committente, forse identificabile con il frate eremita di Bismantova, che prega inginocchiato il Salvatore. Anche qui la Maddalena è raffigurata riccamente vestita, con i biondi e lunghi capelli sciolti sulle spalle. novembre
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Maddalena. L’esistenza di un antico romitorio di donne intitolato alla santa, quasi sotto la vetta del monte Ventasso, è documentato sin dai primi del Trecento. I fedeli vi giungevano in processione, dopo tre o piú ore di cammino. La croce astile in testa, poi gli stendardi delle confraternite, il clero in abiti liturgici; tutti procedevano al canto ripetuto delle litanie della Madonna, dei santi, del Miserére per ottenere il perdono dei propri peccati. Nel luglio del 2014 il già citato professore spagnolo Gozales Rodriguez venne personalmente a Castelnovo ne’ Monti nella speranza di poter individuare il luogo nel quale l’Allegri avrebbe potuto ritrarre il paesaggio alle spalle della narra, per esempio, che Pico della Mirandola (1463-1494), signore di un piccolo principato vicino a Correggio, riuscisse a recitare a memoria l’intera opera dantesca (composta di circa 4000 versi) e che, una volta terminata l’impresa, riuscisse a pronunciarla all’indietro, dall’ultima parola alla prima. Va inoltre ricordato che già Benvenuto da Imola, uno dei primi commentatori della Divina Commedia, a soli 50 anni dalla morte del grande poeta, affermava che Bismantova si identificava con la montagna del Purgatorio dantesco.
Santa Maria Maddalena
Anche l’accostamento Pietra di Bismantova-Santa Maria Maddalena (soggetto quest’ultimo molto amato dal Correggio) è sicuramente la maturazione di profonde riflessioni culturali che confermano quanto l’artista fosse cosciente e volonteroso nelle sue preparazioni, ma anche innamorato dei paesaggi e delle tradizioni locali. In merito bisogna tener presente che la devozione alla Maddalena è storicamente molto forte in tutto l’Appennino reggiano e particolarmente intorno alla Pietra di
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Bismantova. Ne è testimonianza l’esistenza di diversi luoghi di culto tutt’intorno a lei dedicati. Sul vicino monte Ventasso, per esempio, un’antichissima leggenda vuole che l’errabonda santa abbia lungamente sostato. Nell’antico calendario montanaro, la terza decade di luglio era tutta per santa Maria Maddalena. Pellegrinaggi, feste, fiere celebravano questa santa. Un’antica narrazione dialettale recitava che il Risorto, apparso alla donna, le avrebbe detto: «Maria Maddalena / io so ben donde la tua pena. / Perché tu non torni piú a peccare / sett’anni in un deserto devi stare». Cosí la leggenda vuole che la peccatrice resti sette anni in riva al mare, poi sette anni su di un monte, sette su un altro e un altro ancora, forse per dare credibilità alle tradizioni degli infiniti monti che avrebbero visto la Maddalena portare a compimento il suo grande pentimento. La lunga sequela terminava con «Maria Maddalena peccatrice, / sei del paradiso la piú felice, per la tua pena che è stata tanta / vieni beata nella gloria santa». Sembrerebbe proprio che al Correggio fosse nota la forte devozione che legava questi luoghi alla
Maddalena. Gli venne suggerito di recarsi nel vicino borgo di Pietradura, da dove, in effetti, si gode di una vista mozzafiato della Pietra di Bismantova e del suo circondario. È lo stesso paesaggio che il geniale artista ha poi inserito – trasfigurato e impregnato di densi significati – in quella straordinaria «sacra conversazione» tra la Maddalena e Gesú oggi conservata al Prado di Madrid, considerata uno dei capolavori piú importanti dell’arte mondiale di tutti i tempi.
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il novelliere di giovanni sercambi/8
Un suffumigio
portentoso
di Corrado Occhipinti Confalonieri
Rimasta orfana, la piccola Pippa viene adottata da Sandro e Nicolosa e tutto sembra andare nel migliore dei modi, soprattutto quando di lei si invaghisce un agiato mercante, destinato a prenderla in moglie. Prima delle nozze l’uomo deve però partire per lavoro e, in sua assenza, il padre adottivo non sa resistere alle grazie della promessa sposa e il trasporto amoroso si traduce in una gravidanza indesiderata: al che, per nasconderla, si farà ricorso alla singolare terapia prescritta dal dottor Lessio
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l viaggio della brigata dei Lucchesi in fuga dalla peste fa tappa ad Aversa, dove il gruppo si ferma per dormire. La mattina seguente il cammino riprende alla volta di Napoli, mentre il narratore (lo stesso Sercambi) racconta un nuovo exemplo per rinfrancare lo spirito. «Nella città di Siena fu un uomo di popolo, il quale di sue rendite vivea sansa far arte [senza lavorare] nomato Giorgio Aciai, avea una sua figliuola nomata Nicolosa, maritata a uno mercadante ricco nomato Sandro, e una figliuola piccola d’anni XII, chiamata per vessi [vezzosamente] la Pippa» e un figlio piccolo. Quando il padre di famiglia muore improvvisamente, Sandro e Nicolosa prendono in casa Pippa e il fratellino. Trascorso un anno, Nicolosa «avendo studiata la Pippa a ffarla bella, come le senese sanno fare, intanto che parea uno sole, avendo già XIII anni». Da questa battuta affiora il campanilismo del lucchese Sercambi, che punzecchia le donne senesi sulla loro abilità nell’acconciarsi. Nicolosa esce di casa con Pippa «e alla chieza un giorno di solennità conduttola tanto adorna che uno giovane ricco mercadante nomato Cione vedendola e domandan-
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do di chi fusse figliuola, li fu ditto chi ella era; Cione, che l’ha veduta, piacendoli e avendo sentito chi fu il padre e con cui dimorava [con chi abitava], essendone già innamorato subito pensò torla per moglie [di fidanzarsi]». Cione è piuttosto spavaldo e presuntuoso: «Io son ricco e di buone genti, ed ella non ha molto, posto che sia ben nata; nondimeno se io la chiegio io l’arò». Nicolosa e il marito Sandro sono ben contenti di quel matrimonio vantaggioso per Pippa e, alla presenza di un notaio e di un sacerdote, si procede allo scambio degli anelli, che nel Medioevo sanciva l’unione matrimoniale, a cui seguiva la cerimonia religiosa. Appena terminate le formalità di rito, si pone un problema, il novello sposo deve partire: «Io hoe mandato mie mercantie di veli, e anco n’ho [ne ho] IIII balle per mandare. Poi che ho preso donna io mi vo’ dilivrare [voglio liberarmi delle rimanenti mercanzie] e pertanto non v’incresca (…) perch’io stia almeno un anno a dilivrarmi e poi serò libero di potere in Siena fermo stare». Nicolosa e Sandro preferiscono che il matrimonio non venga consumato subito, perché la sposa «è alquanto tenerella», ovvero acerba. Nel Medioevo, nononovembre
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Ritratto di donna con uomo al davanzale, tempera su tavola di Filippo Lippi. 1440 circa. New York, The Metropolitan Museum of Art. Nella pagina accanto tondo in terracotta invetriata raffigurante un neonato in fasce, opera di Andrea della Robbia. 1487. Firenze, Ospedale degli Innocenti.
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Disegno di una donna incinta, da un codice del Tashrih-i badan-i insan (L’anatomia del corpo umano), un trattato redatto dal medico persiano Mansur ibn Faqih Ilyas. 1488. Bethesda, National Library of Medicine. Nella pagina accanto La Tentazione, olio su tela di Paris Bordon. 1550. Roma, Accademia Nazionale di San Luca.
stante i matrimoni venissero di solito combinati tra le rispettive famiglie, anche quando gli sposi erano bambini, si preferiva che il rapporto sessuale avvenisse quando la sposa era piú matura, cosí da poter affrontare un’eventuale maternità. Studi recenti hanno infatti dimostrato che, nella Toscana del Trecento, le donne affrontavano il loro primo parto intorno ai diciassette anni. E cosí Cione «colle suoi balle si mosse di Siena e andò oltramonti». All’epoca, gli imballi delle merci venivano contrassegnati con un marchio esclusivo del mercante, di solito le sue iniziali, in modo da poterli distinguere.
Di giorno in giorno piú bella
La sposina «rimane al governo di Sandro e della moglie. Madonna Nicolosa avea tanto piacere di veder maritata la sorella a tal mercadante, e piacer avea a vederla tanto bella che poghe volte si sarenno vedute spartite [separate]. E stando in tal maniera la Pippa, ogni dí le bellesse multiplicavano, intanto che uno giorno, essendo monna Nicolosa andata alla predica e lassata la Pippa in casa colla chiave rinchiusa, venne Sandro a casa; e avendo una chiave, non pensando che persona fusse in casa, aperse l’uscio. E andato su nella camera, trovò la Pippa che si specchiava ed era in una giubba di seta sottile». Sandro rimane colpito dalla sua bellezza, gli sembra una «perletta» e le chiede cosa sta facendo: «Io mi guardo e me stessa vaghegio [ammiro]» e si volta verso il cognato con ingenua sensualità. Sandro si avvicina allo specchio, l’abbraccia, la bacia e le sussurra parole dolci, «Pippa, col vizo rozato e tutta lustrante, niente dicea, ma di fiamme risprende [risplende] nel vizo. Sandro, che già era acecato, prese la Pippa e in su letto la puose, faccendole sentire quella dolcessa che prima l’avea preditta». La ragazza è estasiata: «Oh, quanto è perfetto uzare coll’uomo!» e promette al cognato di non rivelare a nessuno la loro tresca. In questo passaggio, notiamo una caratteristica ricorrente nelle novelle di Giovanni Sercambi: i protagonisti dei suoi racconti agiscono senza pensare alle conseguenze. Trascorsi pochi mesi, la giovane rivela a Sandro di essere incinta: «O Pippa, tieni celato questo fatto e io farò che tu ti sperderai [abortirai]: lassa fare a me». Assai preoccupato, Sandro si reca alla svelta dallo speziale «suo compare, dicendo il fallo commesso e come era seguito; che li piacesse di darli cosa che ella si sperdesse [abortisse]». Ricordiamo che nel Medioevo i farmacisti erano chiamati spetiarii (speziali), perché nelle loro botteghe vendevano anche erbe e spezie per vari usi: alimen-
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tare, estetico e igienico-sanitario. L’amico farmacista è contrario all’aborto: «Compare, cotesto non farei per la vita, ma io lo dirò al mio zio medico, maestro Lessio, che ci darà qualche buon riparo sensa che lla creatura si perda».
Cosa dirà la gente?
Sandro appare visibilmente turbato e ha paura dello scandalo che potrebbe scoppiare se la gente venisse a sapere del guaio che ha commesso: «Io ve ne prego, compare, però che [poiché] sarei l’uomo piú vituperato [infangato] di Siena». Il medico Lessio promette di aiutarlo e fornisce al futuro padre «certe polveri dicendo che quelle facesse alcuno fummo [suffumigio] alla faccia della fanciulla». Sandro obbedisce «e subito andatosene a casa e dato a Pippa quello che ’l maestro l’avea dato, Pippa, come cavestra [smaliziata], lo sulfimigio [suffumigio] alla faccia si fece. E come l’ebbe fatto, guardandosi in nello specchio si vidde tutta gialla diventata: di subito mettendo a malisia uno strido e gittatosi in su uno lettuccio, madonna Nicolosa sua sorella trasse allo strido [accorse al grido]». Vedendo la sorella in quelle condizioni, Nicolosa si spaventa e manda a chiamare Sandro: «Or non vedi come la Pippa è diventata, che quazi tra lle braccia m’è morta? Và tosto per uno medico». Pippa «infingendosi [fa-
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il novelliere di giovanni sercambi/8 Miniatura raffigurante un medico (al centro), tra uno speziale che pesta nel mortaio un preparato e un erbolaio che raccoglie piante officinali, da un codice de L’antidotaire di Bernard de Gordone. 1461. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
cendo finta]» recita la sua parte: «Per Dio, andate tosto [alla svelta], che io mi penso morire prima che siate tornato!». Sandro si precipita a chiamare il medico che in camera trova «la Pippa in collo [abbracciata] alla soro [sorella nel dialetto lucchese dell’epoca] e tastandoli il polso, poi guardandola nella faccia, fra sé medesimo disse: “Ben ha doperato la medicina”. E uscito di camera, chiamò monna Nicolosa dicendoli la Pippa aver una infermità la quale si chiama impregnatio molle». Quest’ultimo è un termine scherzoso, probabilmente ispirato a mola, un vocabolo utilizzato dal medico lucchese Jacopo di Coluccino (1373-1416) nel suo Memoriale per indicare «una massa di carne informe che si genera nell’utero in luogo del feto». Il dottor Lessio spiega che questa malattia è assai pericolosa, perché «di continuo le ’ngrosserà tutte le membra e massimamente il corpo», ma, aggiunge, «penso colle buone medicine, se lla natura di Pippa potrà sostenere a prendere il cibo e le medicine che io li farò fare, poterla campare». In questo passaggio, notiamo che il medico prescrive le medicine, ma non le prepara. Dopo la costituzione di Melfi del 1231 voluta dall’imperatore Federico II, i ruoli del medico e del farmacista erano ben definiti: i primi ordinavano i medicamenti e gli speziali li approntavano. Lessio si reca con Sandro alla bottega dello speziale «e di quine fè portare alcuno giulebbe cordiale [infuso d’erbe aromatiche] per conforto e alquanto confetto [confezioni medicinali dal sapore gradevole] dicendo che di quello di dí e di notte [Pippa] uzasse, con buoni capponi e galline, e alcuna volta un poco di castrone [pecora]».
Rapporti rischiosi
Nei mesi seguenti «ogni dí almeno una volta il medico venia per dimostrare alla moglie di Sandro il bianco per lo nero». Pippa arriva al settimo mese di gravidanza, continuando a ricorrere al trucco del suffumigio che la rende gialla di colorito e con Sandro «quando poteano l’arte uzavano [espressione scherzosa per indicare il rapporto sessuale]». Con la gravidanza avanzata, Sandro rivela al medico una sua preoccupazione: «maestro, la Pippa ha tanto grosso il corpo che mi pare alcuna volta in sul corpo li monto la creatura volere di fuora uscire. E pertanto io dubito [ho il dubbio] che nun fusse di quelle che a VII mesi parturisse; e però trovaste modo ad altro fatto [trovate un rimedio]». Da questo passaggio, possiamo intuire come il fenomeno dei bimbi nati settimini, probabilmente a seguito di nozze riparatrici, fosse una realtà già frequente in età medievale.
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Il medico si reca a casa di Nicolosa e di Sandro «là u’ trovò la Pippa col corpo grosso e lo volto giallo, fingendosi la Pippa star grave, monna Nicolosa sua suoro [sorella] dice: “O maestro, io sono stanca ad aver tanto governata Pippa che non [ne] posso piú; e però vorrei se ella dé morire che tosto si spacciasse [si sbrigasse], e se altre medicine ci sono a farla sana, l’adoperiate”». Il dottore capisce che la malattia di Pippa è diventata insostenibile per la sorella ormai esasperata e porta il marito in un’altra stanza, ma facendo in modo che Nicolosa possa origliare la conversazione: «O Sandro, io cognosco che lla malatia di Pippa è incurabile e per certo penso non poterne avere onore [guarirla], poi che io oggi l’ho veduta, me ne pare esser certo che il male che ella hae è un male che vo credendo si appicchi altrui addosso [è un male contagioso]. E pertanto ora ti dico che qui non vo’ venire ogni dí come ho fatto; e a te dico, se novembre
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hai cara la tua persona, non te li acosti se vuoi viver sano e sensa difetto. E perché déi amare la donna tua sopra tutte le cose, sere’ ben che ella ancora non vi s’acostasse, però che alle donne tal male piú tosto s’appicca che alli uomini», infine gli consiglia di portare la finta malata lontano, affidandola alle cure di persone di cui si possa fidare.
Una «malattia» contagiosa
Sandro «che s’è acorto che ’l maestro s’è aveduto che monna Nicolosa s’è posta in luogo che tutto ode, fingendosi [simulando]» risponde: «Maestro, io cognosco che voi dite vero che ’l male della Pippa è molto apiccicaticcio, ché da pochi dí in qua mi pare esser tutto contrafatto [alterato nei lineamenti], e anco ho veduto la mia dolce Nicolosa tutta smarrita per la malatia di Pippa. Ma io vi dico che io per me a lei non m’acosterò punto [non mi avvicinerò piú]; e spero che Nicolosa non la vorrà abandonare, e per questo
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dubito ch’ella non prenda lesione [danno] in nella persona come la Pippa, e non so che fare». Lessio sta al gioco: «Io sento che hai una possessione [ho sentito dire che hai una proprietà]». Sandro annuisce: «Sí assai presso a una mia sia [zia] la quale è tanto a noia a Nicolosa che non credo che Nicolosa volesse che la Pippa fusse al suo governo [andasse da lei] e altra non ho». Lessio gli ricorda: «Tu déi piú amare la donna che la sia [zia], però che [poiché] il vangelo dice: “Erite duo in una carne: e serà una moglie e uno marito in una carne”. E pertanto vogli piú che la sia [zia] pata [patisca] afflisione [afflizione]che la donna». Sandro risponde: «Or se la donna vi vorrà andare e non voglia che altri vi vada che farò?». Lessio lo tranquillizza: «Che? Arai tosto alle spalli [ti verrà subito dietro] chi ti darà una giovanetta con molti fiorini; e se tua donna s’elegerà il male [contrarrà la malattia], e non sia tua colpa, non sarai riputato se non buono,
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In alto facsimile di una miniatura degli inizi del XIII sec. raffigurante una donna che partorisce (l’originale è conservato presso la Österreichische Nationalbibliothek di Vienna). Nella pagina accanto scomparto di polittico raffigurante la nascita della Vergine e la presentazione di Maria al tempio, tempera su tavola del Maestro di Cinctorres. 1400 circa. Barcellona, Museu Nacional d’Art de Catalunya.
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E già t’ho trovato la Vessosa de’ Tolomei [antica famiglia senese], la quale è delle belle giovane di Siena». Il nome «Vessosa» allude alla grazia e all’eleganza della Tolomei. I due tornano da Nicolosa «tinta in nelle ciglia [con le sopracciglia aggrottate]» e pronta a dar battaglia: «O maestro, io vo’ sapere quello che della Pippa dé essere e non vo’ avere piú caro altri che me: ditemelo tosto». Il medico porta Nicolosa nella stanza di Pippa e le rivela che la malattia della giovane è contagiosa, sarebbe utile se andasse in isolamento; la giovane puerpera gli regge il gioco: «Io serei piú tosto contenta di crepare che lla
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A sinistra Madonna degli Innocenti, stendardo processionale dipinto a olio su tela attribuito a Domenico di Michelino. 1440. Firenze, Ospedale degli Innocenti.
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Miniatura raffigurante la celebrazione di un matrimonio, da un codice delle Decretali di Gregorio IX. XIV sec. Parigi, Bibliothèque Sainte-Geneviève.
conta tutta la vicenda alla zia che accoglie Pippa a braccia aperte e ogni tanto si reca a trovarle. Un mese piú tardi, Cione «tornò in Siena; e domandato della Pippa sua moglie, fuli ditto tutto e narrato. Cione, ch’è desideroso di vederla, disse che in villa volea andare». Sandro e il medico lo accompagnano a cavallo «avendo prima fatto asentire [avvertire] alla Pippa». La giovane moglie «maestra, fattosi il sofumigio, piú gialla che mai divenuta e grossa di VIII mesi, parea a vedere una itropica [idropica, gonfia per accumulo di liquidi]». Cione ha l’ordine di non avvicinarsi troppo al letto della finta malata e, uscito dalla stanza, chiede al medico se la malattia è curabile; Lessio risponde costernato: «Costei è a caso di morte». Prima di tornare a Siena, Sandro raccomanda alla zia «che quando la Pippa parturisse, facesse che uno bacino [una bacinella] si trovasse pieno di materia gialla. La sia di Sandro disse: “Lassate fare a me”. E avendo Cione sentito il pericolo d’acostarsi alla Pippa, piú non ebbe volontà di andare alla villa, sollecitando il maestro di buona cura».
Piccioni e confetti per la puerpera
mia cara suoro avesse male a l’unghia del piede». Senza neppure far intervenire il marito, Nicolosa prende la parola: «O Sandro, io ti dico che tu mandi la Pippa in villa [nella casa di campagna] e mandavi tua sia [da tua zia], che ogni poco che n’è aregato [che vuoi le si porti anche un piccolo dono] e tu dici: “Porta questo a mia sia”. E però, come le mandi il bene mandali ora la Pippa a servire». Sandro risponde: «Tu sai che io non vorrei che tu l’abandonassi per lo tempo arà da vivere, com’hai fatto fine a qui». Nicolosa è furibonda: «Or veggo che pogo m’ami che voresti io morissi e poi prenderesti Vessosa de’ Tolomei, cane che tu sei. Per certo io non v’andrò mai [alla casa di campagna]». Sandro naturalmente è d’accordo, rac-
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Terminati i nove mesi, Pippa partorisce un bambino che viene dato subito in adozione. Il medico avvisa invece i familiari che Pippa è in punto di morte, anche se non è vero, e li accompagna nella casa di campagna per l’estremo saluto. La zia comunica loro che quel giorno Pippa è stata malissimo e Lessio le chiede: «Che materia gettò quando l’accidente l’avvenne?». La zia «savia [saggia]» fa portare «uno bacino pieno di licore [liquido] giallo mescolato con mestruale materia». Il medico sostiene con autorevolezza: «Costei è campata, poi che tale materia li è uscita di corpo». Nicolosa annuisce: «Per certo maestro Lessio sempre lo disse che, se ella gittasse questa materia, Pippa era guarita». Il dottore «veduta questa materia, intraro in camera e tastato il polso» di Pippa dice che è finalmente guarita e «subito comandò che fusse nodrita di buoni capponi, pipioni [piccioni] e confessioni [confetti]». In molte opere pittoriche medievali si vede la Madonna che ha appena partorito distesa nel letto e rifocillata di buone cose, come in questo passaggio della novella. Per venti giorni Pippa «fue di capponi e buone lazagne e confessioni ristorata, intanto che parea proprio una roza gialla perché non ancora l’era divetato [andato via] il sofumigio». Cione desidera «di vedere quel bel vizo» della moglie e dice al medico: “Maestro, io veggo la Pippa esser in buon punto, salvo del colore; se quello cessasse vorre’ lei menare [vorrei portarla a casa per consumare il matrimonio]”». Lessio gli risponde che dopo aver curato il male maggiore può curare quello minore «e dato
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il novelliere di giovanni sercambi/8 Firenze. La «ruota» degli Esposti, ovvero il luogo dell’abbandono dei bambini, una finestra ferrata dell’Istituto degli Innocenti (in questo caso non c’era la struttura ruotante che avevano altri brefotrofi italiani) che fu chiusa il 30 giugno 1875.
alla Pippa alcuno unguento e acqua, in meno di tre dí Pippa fu colorita come roza [rosa]». Anche Sandro nota questo miglioramento repentino e commenta con Pippa: «Poi che tosto a marito andar ne déi, queste roze vo’ cogliere che sono sí vermiglie, poi che tante gialle n’ho colte», la giovane si dimostra ben contenta che la loro intimità continui anche adesso che il marito è tornato. Vedendo Pippa cosí bella, lo sposo non vede l’ora di far celebrare le nozze. Le chiede se si sente pronta e lei subito risponde: «Al vostro comando sono, né altro desidero». Viene fissata la data della cerimonia e si diramano gli inviti.
A tutto c’è rimedio...
Un’ultima preoccupazione attanaglia Sandro, che confida a Lessio: «Come faremo che Cione senta la Pippa vergine?». Il medico compiacente lo rassicura: «Questo serà assai piccolo peccato a far che paia vergine». Il medico «ordinato uno bagnuolo strettivo con alcuni soffumighi, la natura della Pippa restrinseno per modo che quando Cione
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l’ebbe menata in ne letto con lei intrato, venendo a fornire il matrimonio trovò Pippa esser sotto piú stretta che una donzella di X anni, dicendo: “Io non trovai una giovana che sí onesta fusse come la Pippa”. L’astuta sposa conferma: “E tu di’ il vero, marito mio”». I Lucchesi apprezzano molto la «dilettevole novella della Pippa» e si mettono a cena di buon umore: non fanno commenti, ma il titolo De dizonesto adulterio et bono consilio lascia intendere il fine moraleggiante dell’exemplo. Per Sercambi, l’adulterio mina il matrimonio, il sacramento alla base della società; per questo, il fine giustifica i mezzi per preservarlo: grazie al saggio consiglio dello speziale e all’aiuto del medico, il bambino si salva, l’onore di Pippa rimane intatto e il buon nome di Sandro non viene intaccato. E vissero tutti felici e contenti. F
NEL PROSSIMO NUMERO ● La vera amicizia novembre
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di Riccardo Montenegro
Il mondo in
PROSPETTIVA Rappresentare lo spazio è una sfida con la quale si sono cimentati artisti di ogni tempo. E l’obiettivo poté dirsi finalmente centrato soprattutto nel Quattrocento, quando le sperimentazioni e le intuizioni dei piú brillanti ingegni attivi nel campo dell’architettura e delle arti visive si tradussero nella capacità di padroneggiare senza incertezze la terza dimensione
Predica davanti a Onorio III, scena dal ciclo delle Storie francescane affrescato da Giotto nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290-1295 circa.
Dossier
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on la fine dell’impero romano, i canoni artistici e spaziali elaborati dal mondo classico si dissolvono mescolandosi a forme e culture nelle quali i principi delle proporzioni tra le parti e della simmetria, elementi fondanti l’idea del bello nell’estetica classica, sono sostituiti da un simbolismo di forte espressività, noncurante della verosimiglianza, delle proporzioni del corpo umano e del rapporto spaziale tra gli oggetti. Tuttavia, come in una sorta di compensazione, ciò che si stava perdendo in realismo, lo si guadagnò in immaginazione, in espressione poetica e valori simbolici (si pensi ai cicli cavallereschi e arturiani, ai resoconti di viaggi in terre remote e alle Mirabilia Urbis che descrivevano fantasiosamente, a uso dei pellegrini, i monumenti della Roma antica). Ma durante tutto il Trecento la cultura sviluppò lentamente un nuovo interesse nei confronti dell’età classica determinando, nel secolo successivo, una vera e propria riscoperta del pensiero antico e delle sue forme artistiche attraverso lo studio dei documenti e delle fonti letterarie. Una prima, fondamentale svolta si ebbe alla fine del XIII secolo, quando un gruppo di artisti d’avanguardia si rese conto che la tradizione bizantina aveva esaurito il suo corso e si mise in cerca di nuovi linguaggi espressivi. Alcuni di loro, per una fortunata combinazione, in quegli anni si ritrovarono ad Assisi, dove si stava completando la decorazione della Chiesa Superiore. Parliamo di Giotto, Cimabue, del cosiddetto Maestro di Isacco, Arnolfo di Cambio, che in quel cantiere manifestarono un fermento culturale unico dando vita a un vero e proprio laboratorio di ricerca, non soltanto stilistico ma anche metodologico, essendo tutti interessati alla realizzazione di una nuova concezione spaziale che Roberto Longhi riassumerà acutamente
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Sposalizio della Vergine, scena facente parte del ciclo con episodi della vita di Maria affrescato da Taddeo Gaddi nella Cappella Baroncelli, in S. Croce a Firenze. 1328-1330 circa. Per rappresentare la profondità dello spazio, l’artista usava un metodo consistente nel porre sul piano di proiezione lo spigolo dei parallelepipedi, mentre i lati erano posti obliquamente, a simulare la fuga prospettica.
con la definizione di «spaziosità». Ma non soltanto ad Assisi si cercò di superare le tradizionali formule bizantine; in luoghi diversi personalità di assoluto rilievo parteciparono a questo rinnovamento: da Pietro Cavallini a Duccio di Buoninsegna, da Pietro e Ambrogio Lorenzetti a Maso di Banco, da Simone Martini a Giusto de’ Menabuoi.
Metodi empirici
La «spaziosità» individuata da Longhi, che caratterizzava la pittura di Giotto e della maggior parte degli artisti del Trecento, veniva realizzata per mezzo di due metodi empirici: il primo consisteva nel rappresentare i volumi architettonici come parallelepipedi visti in posizione obliqua. Il sistema piú semplice prevedeva che le superfici anteriori e posteriori fossero parallele al piano di proiezione mentre quelle laterali, pur sempre parallele fra di loro, erano oblique, ottenendo un effetto simile alla scena teatrale: è quanto realizza, per la prima volta, il Maestro di Isacco con le sue Storie di Isacco (1290 circa) nella Chiesa Superiore di Assisi; quello piú complesso consisteva nel porre sul piano di proiezione lo spigolo dei parallelepipedi, mentre i lati erano posti obliquamente in modo da simulare la fuga prospettica: un bell’esempio di tale soluzione è offerto da Taddeo Gaddi nell’affresco Presentazione della Vergine (13281330) in S. Croce a Firenze. Il secondo metodo consisteva invece nel disporre uno, due o piú punti focali nella scena al fine di
creare una profondità suggestiva ma del tutto approssimativa, come nell’Annuncio ad Anna (13031305) dipinto da Giotto nella Cappella degli Scrovegni a Padova e nelle Nozze di Cana (1375-1376 circa) di Giusto de’ Menabuoi, che decora una parete del Battistero di Padova – realizzata settant’anni dopo quella di Giotto –, nel quale l’occhio del pittore, pur impreciso, riesce a creare un ambiente discretamente naturalistico. novembre
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La pittura tardo-gotica degli ultimi decenni del Trecento, pur cercando una soluzione alla rappresentazione tridimensionale, non riesce a codificare un metodo univoco che abbia una base scientifica; le esperienze dei pittori precedenti erano servite a produrre uno spazio sempre piú illusionistico, ma non tutti avevano la stessa capacità visiva e il risultato variava a seconda della personalità dell’artista. Anche se molti erano interessati a
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questo problema, quasi nessuno ne scriveva, e chi lo faceva usava ben poca chiarezza per essere di qualche utilità, come dimostra il brano che Cennino Cennini dedica all’argomento nel suo Libro dell’Arte.
Al passo coi tempi
Fu il rinnovato interesse per l’antico, che aveva già prodotto la rivoluzione spaziale di Giotto, a fornire la spinta e le motivazioni culturali che portarono a una diversa rap-
presentazione visiva, elaborata con regole certe e piú aderenti al volgere dei tempi; cosí, dalla empirica perspectiva naturalis o communis in uso presso i pittori medievali, si pervenne alla perspectiva artificialis quattrocentesca, studiata da Filippo Brunelleschi negli anni tra il XIV e il XV secolo, quando ancora lavorava come orefice e scultore ma già si interessava di architettura; non essendo un letterato, Filippo non scrisse un trattato sull’ar-
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Dossier Nozze di Cana, episodio facente parte del ciclo con Storie della Vita della Vergine e di Cristo affrescato da Giotto nella Cappella degli Scrovegni di Padova. 1303-1305.
gomento, fu soltanto nel 1435 che Leon Battista Alberti elaborò una vera e propria teoria prospettica inserendola nel Trattato della pittura. Gli interessi del Brunelleschi nei confronti della visione e della rappresentazione furono stimolati dal matematico Paolo dal Pozzo Toscanelli, che lo istruí sui fondamenti della matematica e della geometria e, nel 1420, lo aiutò a fare i calcoli per la cupola di S. Maria del Fiore. Quando Brunelleschi elaborò le regole della visione prospettica, basate sul punto di vista centrale da cui si dipartono le linee di fuga – definito dall’Alberti «razzo centrico» –, le verificò realizzando
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due vedute, ora perdute ma ben descritte dai contemporanei che ebbero modo di osservarle, raffiguranti il Battistero di S. Giovanni e piazza della Signoria a Firenze. Nel 1972 Roberto Rossellini descrisse con particolare efficacia l’ambiente culturale fiorentino dell’epoca e l’episodio brunelleschiano nel film televisivo L’età di Cosimo de’ Medici.
Opere allo specchio
La prima tavola doveva essere guardata attraverso un foro praticato nella parte centrale, ponendosi dietro il dipinto di fronte al quale era collocato uno specchio che ne rifletteva l’immagine; in tal modo
l’occhio dell’osservatore coincideva con quello dell’artista mentre una superficie d’argento specchiava il cielo con le nuvole in movimento. La seconda tavola, essendo piú grande della precedente, faceva a meno dello specchio ma anche in questa il cielo non era dipinto, il profilo superiore degli edifici era ritagliato lasciando, con maggiore realismo, che fosse il cielo vero a riempire la parte superiore della veduta prospettica. Queste tavole riscossero una grande notorietà, in particolar modo presso quegli artisti che cercavano di svincolarsi dalle tradizionali rappresentazioni medievali. Negli novembre
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anni successivi, dopo vari tentativi e discussioni (sono noti i rapporti tra i circoli matematici fiorentini e gli artisti d’avanguardia), apparvero le prime applicazioni figurative della prospettiva brunelleschiana: nelle formelle bronzee a bassorilievo, o «stiacciato», del fonte battesimale di Siena (1423-1427) di Donatello, delle quali Il banchetto di Erode è un esempio assai significativo; nella Trinità (1426 circa) di Masaccio in S. Maria Novella a Firenze, che conserva ancora le linee di fuga incise dal pittore sull’affresco nelle scene della predella dell’Annunciazione di Beato Angelico (1430 circa), conservata nel Museo diocesano di Cortona, che, secondo Giulio Carlo Argan (1909-1992), è la prima applicazione sistematica della prospettiva nella veduta; seguirono poi le opere di Masolino, Lorenzo Ghiberti, Filippo Lippi, Piero della Francesca. Nella seconda metà del secolo tale metodo era già diventato patrimonio comune di gran parte degli artisti europei.
Esaú respinto da Isacco, affresco attribuito al Maestro di Isacco nella Chiesa Superiore della basilica di S. Francesco ad Assisi. 1290 circa.
Al servizio dell’architettura
L’immediato successo che la prospettiva ebbe presso i pittori e gli scultori fiorentini non deve trarre in inganno sulle intenzioni del Brunelleschi che, infatti, non era interessato alla rappresentazione figurativa quando elaborò le regole prospettiche. Non essendo pittore, si limitò a riprodurre gli edifici disinteressandosi della parte piú pittorica delle tavolette – il cielo –, perché il suo scopo era la messa a punto di uno strumento di descrizione grafica e di controllo al servizio dell’architettura. Infatti, l’idea di utilizzare il cielo reale nei due lavori ci induce a pensare che volesse verificare, attraverso l’uso dello sky line, la forma degli edifici (l’impatto ambientale si direbbe oggi) nei confronti della città preesistente. Inoltre, lo specchio, che i pittori già utilizzavano per accertarsi
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il maestro di isacco
Assisi: palestra di mirabili artisti Tra i numerosi artisti che, sullo scorcio del XIII secolo, decorarono la basilica di Assisi, ve n’è uno che realizzò un dittico nel quale è già espressa, in modo maturo e autorevole, quella ritrovata spazialità che è alla base della ricerca prospettica degli artisti successivi, a cominciare dallo stesso Giotto. La sua identità non ci è nota ed è convenzionalmente indicato dagli storici dell’arte col nome che deriva dalle Storie di Isacco che egli dipinse nella basilica verso il 1290. Due sono le ipotesi correnti: la prima attribuisce l’opera al giovane Giotto, il quale, assimilando l’insegnamento di Arnolfo di Cambio, che stava realizzando sculture dal solido impianto spaziale e che allora era presente ad Assisi, traduce tali novità in pittura (salvo poi intraprendere una strada del tutto autonoma, come dimostrano gli affreschi realizzati in seguito nella stessa basilica). La seconda individua in Arnolfo l’anonimo Maestro di Isacco, malgrado non si conosca alcuna opera pittorica di suo pugno, anche se Giorgio Vasari ci riferisce che egli studiò pittura con Cimabue.
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Dossier Annunciazione, una delle scene del ciclo della Leggenda della Vera Croce affrescato da Piero della Francesca nella Cappella Bacci della basilica di S. Francesco ad Arezzo. 1452-1466. Nella pagina accanto, in alto Annunciazione, tempera su tavola di Ambrogio Lorenzetti. 1343. Siena, Pinacoteca Nazionale. Nel dipinto è utilizzato per la prima volta il punto di fuga prospettico, segnalato dalla convergenza delle piastrelle del pavimento e celato dietro una colonnina a rilievo. L’opera è detta anche Madonna dei Donzelli, perché per un certo periodo, nel Settecento, si conservò in una stanza accanto alla cucina dove mangiavano i donzelli del Comune di Siena. Nella pagina accanto, in basso Annunciazione, tempera su tavola del Beato Angelico. 1430-1436. Cortona, Museo diocesano.
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Annunciazioni a confronto
Colonnine e punti nascosti Nel 1343 Ambrogio Lorenzetti dipinse un’Annunciazione, ora conservata nella Pinacoteca di Siena, che mostra per la prima volta l’applicazione, ancora incerta per la verità, del punto di fuga prospettico. Le piastrelle del pavimento convergono verso un unico punto secondo una regolare griglia geometrica: tale punto appare celato dietro una colonnina a rilievo che, posta al centro del quadro, divide simmetricamente lo spazio riservato alle due figure. Ma la colonnina contraddice l’impianto prospettico del quadro, in quanto la sua origine in basso è in primo piano, mentre la parte superiore appare schiacciata sulla parete di fondo annullando la distanza alla quale la parete dovrebbe trovarsi. Un secolo piú tardi Piero della Francesca dipingerà ad Arezzo un’Annunciazione che mostra il medesimo impianto compositivo: anche qui le due figure sono separate da una
colonna, ma mentre Ambrogio se ne serve per attenuare la profondità ottenuta col pavimento, Piero ne utilizza la plasticità al fine di dare allo spazio una consistenza fisica assai realistica per l’epoca. dell’equilibrio delle composizioni, è per Brunelleschi un modo per controllare la simmetria, tipica della sua architettura e in seguito di quella di tutto il Rinascimento. Una simmetria che Filippo sottolineava con la limpida struttura grafica dei suoi elementi (cornici, lesene, modanature, archi, finestre, ecc.), spesso evidenziati anche cromaticamente rispetto alle pareti su cui erano collocati, come dimostrano molte sue opere fiorentine: l’Ospedale degli Innocenti, la Sacrestia vecchia di S. Lorenzo o la Cappella de’ Pazzi.
Un confronto razionale
Negli anni in cui realizzò le due tavole Brunelleschi si recò molte volte a Roma (anche in compagnia di Donatello), dove ebbe modo di studiare i monumenti della Città Eterna traendone ispirazione per elaborare i principi di una nuova architettura, nella quale il rapporto uomo-edificio fosse il risultato di un confronto razionale e non di una suggestiva emozione, come avveniva con l’architettura gotica.
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Dossier il disegno
A sinistra uno studio tratto dal manoscritto autografo del De prospectiva pingendi di Piero della Francesca, che fece dono dell’opera a Federico di Montefeltro. 1474-1475. Parma, Biblioteca Palatina. In basso pianta della torre e prospetto di un pinnacolo della cattedrale di NotreDame di Laon, da un album di disegni e di schizzi di Villard de Honnecourt. 1230 circa. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
Fra pittura e architettura Fino alla fine del XIII secolo le idee sulla percezione e la rappresentazione dello spazio nelle arti figurative rimasero pressoché ferme a quelle espresse da Euclide nel suo trattato sull’ottica. Anche l’architettura, benché proponesse con gli edifici gotici uno spazio innovativo e di grande audacia costruttiva, utilizzava per la progettazione e la produzione di disegni tecnici dei mezzi non dissimili da quelli utilizzati da Vitruvio e ancor prima da Callicrate e Ictino, gli architetti ai quali si deve il Partenone. Si elaboravano piante, prospetti e sezioni, si
I suoi edifici erano il risultato di un progetto in cui si giustapponevano il recupero degli ordini classici, proporzioni eleganti, simmetria, delicati decori a bassorilievo, spazi prospettici scanditi da elementi posti in primo piano e sullo sfondo, dove l’occhio dell’uomo riusciva a capire l’intera costruzione, che coincideva con l’occhio del progettista, con un solo sguardo.
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tracciavano vedute d’insieme frontali e a volo d’uccello; inoltre, un ruolo fondamentale veniva attribuito al modello dell’edificio, che poteva essere realizzato in scala ridotta o al vero, se alcuni elementi erano di particolare complessità, come avvenne con la lanterna della cupola di S. Maria del Fiore, che Brunelleschi fece costruire in legno e sistemare in loco per verificarne l’effetto. Per gli artisti figurativi invece, la definizione dello spazio non si esauriva nella costruzione geometrica, essendo fondamentale, nell’arte pittorica, l’uso del colore e il controllo della luce e delle ombre della scena, e nella scultura, i volumi e gli scorci che conferiscono evidenza plastica alle forme. Cosí scrive il Vasari: «Tanto piú merita lode, quanto ne’ tempi suoi era la maniera todesca in venerazione per tutta Italia, e dagli artefici vecchi esercitata, come in infiniti edifici si vede. Egli ritrovò le cornici antiche, e l’ordine toscano, corinzio, dorico et ionico alle primiere forme restituí». Questo nuovo modo di pensare e realizzare l’architettura – non va dimenticato l’interesse che egli
mostrò sempre per i problemi tecnici e costruttivi –, abbandonando la confusione creativa dei cantieri gotici, aveva bisogno di uno strumento grafico logico e comunicativo, come logico era lo spazio progettato. La prospettiva doveva offrire all’architetto – non piú empirico, sia pure geniale e polivalente, ma tecnico specializzato, provvisto di una cultura adeguata – uno strumento geometrico per un’architettura che si avviava a diventare scientifica, che Brunelleschi volle promossa ad arte liberale come la letteratura e la filosofia, fornita di metodi certi e regole oggettive.
Idee innovative
Un’oggettività pur sempre relativa, visto che a partire dal De re aedificatoria (1443-1445) dell’Alberti, i trattati sull’argomento si moltiplicarono: in essi alcuni dei maggiori architetti del Rinascimento espressero il loro punto di vista – sempre molto personale – in materia di proporzioni e articolazione del linguaggio architettonico; la diffusione di questi scritti contribuí in modo rilevante al successo in tutta Europa delle nuove idee sull’architettura. Attorno al modo di interpretare la prospettiva nell’ambito dell’arte figurativa si sono sviluppate nel tempo complesse discussioni che hanno coinvolto non solo artisti, storici dell’arte e studiosi di estetica ma anche psicologi, sociologi, matematici. Le questioni erano molte novembre
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La cupola di S. Maria del Fiore a Firenze, realizzata su progetto di Filippo Brunelleschi. 1420-1436.
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la prospettiva
Fra convenzioni e correzioni Stando alla geometria descrittiva, la prospettiva è un metodo scientifico che permette di rappresentare gli oggetti tridimensionali su una superficie bidimensionale piana, in modo che la visione diretta coincida con l’immagine prospettica; tuttavia, poiché l’occhio umano non proietta l’immagine su una superficie piana ma curva, l’oggettività della rappresentazione è in effetti solo convenzionale in quanto non rispondente alla realtà retinica. Cosa di cui il mondo classico si era accorto elaborando un sistema definito «prospettiva curva» o «sintetica» (nello stile dorico spesso le linee orizzontali erano corrette facendole curvare; stessa soluzione, ovviamente piú complessa si trova in certi affreschi pompeiani), utilizzata in qualche caso anche da alcuni pittori del Tre e Quattrocento, quali Giotto, Maso di Banco, Paolo Uccello e teorizzata, come riferisce Benvenuto Cellini, anche da Leonardo in un trattato sulla prospettiva andato perduto.
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e tutte di enorme importanza. Due di queste mettevano in dubbio il valore che da secoli si attribuiva alla visione prospettica: la prima riguardava la sua scientificità, ovvero se effettivamente la prospettiva fosse in grado di rappresentare oggettivamente la realtà cosí come viene percepita dall’occhio umano, visto che la proiezione oculare non avviene su una superficie piana ma curva. La seconda obiezione metteva in dubbio la sua superiorità, essendoci chi negava che i sistemi prospettici elaborati prima della scoperta brunelleschiana fossero davvero cosí imprecisi e primitivi (vista anche la scarsità dei documenti su cui tali affermazioni si basavano, in particolare riguardo al mondo classico). Secondo questi studiosi tutti i metodi di rappresentazione hanno pari dignità, in quanto nella novembre
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Sulle due pagine, da sinistra la Sacrestia Vecchia di S. Lorenzo (1420-1429) e la Cappella de’ Pazzi in S. Croce (1429-1443), a Firenze. Tutti gli edifici ideati da Filippo Brunelleschi erano il risultato di una sapiente giustapposizione di ordini classici, proporzioni eleganti, simmetria e delicati decori a bassorilievo.
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costruzione geometrica dello spazio figurativo sono rintracciabili quegli elementi e quelle categorie del pensiero che corrispondono al grado di conoscenza e di cultura che sono tipiche della società di una certa epoca.
Negare lo spazio
A tale proposito Erwin Panofsky (1892-1968) parlò di un percorso storicamente individuabile, che dallo spazio «discontinuo» della pittura antica giunge a quello «sistematico» del Rinascimento: nel mezzo vi sono tutte le straordinarie esperienze visive medievali. Seguendo una impostazione non evoluzionistica, tutte le rappresentazioni spaziali – anche quelle che paradossalmente negano lo spazio, com’è avvenuto per molta parte del Medioevo – contengono valori specifici e significativi che la cultura e l’arte, dal XIX secolo in poi, grazie anche alla psicanalisi, hanno riconosciuto e utilizzato: valori sociali, religiosi e psicologici che testimoniano quanto la realtà sfugga a una vera comprensione, e non è mai ciò che appare. Brunelleschi ha ragionevolmente realizzato la sua prospettiva centrale a partire dai sistemi preesistenti (si pensi al punto di fuga dei quadri di Lorenzetti), correggendoli e razionalizzandoli fino a dare allo spazio una costruzione matematica, permettendo quella svolta epocale che ha cambiato la visione artistica del mondo. Non a caso, quando egli era ancora in vita, molti riconobbero la portata storica della sua scoperta e della sua architettura, in particolare la cupola di S. Maria del Fiore, la cui straordinaria novità fu esaltata da Leon Battista Alberti con queste celebri parole: «Ampla da coprire chon sua ombra tucti e popoli toscani». Quando morí, a 69 anni, in S. Maria del Fiore – la «sua» chiesa – fu posta una lapide che lo celebrava «divino ingenio».
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RITORNO ALL’ANTICO La facciata della basilica fiorentina di S. Maria Novella, realizzata da Leon Battista Alberti. 1470 (ma al completamento definitivo dell’opera si pervenne solo nel 1920).
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opo la fase pionieristica – e rivoluzionaria – di Brunelleschi, il recupero della classicità trova in Leon Battista Alberti il suo fautore piú colto e geniale. Intellettuale di straordinarie capacità, i suoi vasti interessi – filosofici, scientifici e artistici – anticipano di qualche decennio il genio universale di Leonardo. Dopo aver frequentato l’ateneo di Padova, nel quale approfondí gli studi teologici, letterari, scientifici e astrologici, l’Alberti allargò i suoi interessi alle cose dell’arte e alla pratica dell’architettura; nel 1432 il suo stato di chierico lo portò a Roma dove ebbe modo di indagare sulle origini della città antica con uno studio archeologico dal titolo Descriptio urbis Romae (1435), redatto nello stesso anno del suo trattato Della pittura, nel quale espone le regole della rappresentazione prospettica.
Medaglia in bronzo con il ritratto di Leon Battista Alberti, opera di Matteo de’ Pasti. 1446-1450. Parigi, Petit Palais, Musée des Beaux-arts de la Ville de Paris.
s. maria novella
Simbolismo ermetico Uno dei tanti aspetti che confermano la continuità del passaggio tra Medioevo e Rinascimento è la commistione del religioso con le credenze magicoastrologiche. Malgrado le accese polemiche, il pensiero neoplatonico degli umanisti accettò la filosofia cosmologica, l’astrologia e la magia di cui erano intessuti i testi di Platone, Pitagora, Plotino, Giamblico come strumento di indagine positiva, aprendo la grande stagione della scienza sperimentale. Nel Quattrocento il recupero della cultura classica passava dunque attraverso il pensiero magico il quale, sia pure non negando i suoi rapporti con il paganesimo antico, era vissuto come un esercizio intellettuale in linea con la tradizione cristiana (distinguendo la magia naturalis, positiva, dalla magia nera, negativa) e con la centralità dell’uomo nel cosmo, come ben hanno messo in luce gli studi di Aby Warburg, Eugenio Garin, Francis Yates, Eugenio Battisti e altri. Ed è proprio una lettura cosmologica e astrologica che restituisce a molte opere una comprensione piú ampia, mettendo in luce un sottotesto non meno importante di quello visibile in superficie. La facciata di S. Maria Novella a Firenze di Leon Battista Alberti è uno degli esempi piú significativi del simbolismo ermetico quattrocentesco: dall’immagine solare inserita nel timpano, alle venti tarsie floreali che scandiscono la superficie del tempietto dell’attico, fino alle quindici tarsie stellari che decorano la fascia mediana della facciata. Tali simboli, sul cui significato non è possibile qui indagare, sono un evidente riferimento ai geroglifici egiziani che Alberti ben conosceva attraverso un testo di Herapollo, Hierogliphyca, portato a Firenze nel 1419, nel quale venivano descritte le divinità planetarie, il serpente come simbolo del cosmo, la stella a cinque punte simbolo della divinità, gli animali sacri, ecc.
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Dossier Il cortile di palazzo Medici Riccardi a Firenze, progettato da Michelozzo. 1444. In basso, a sinistra studio di proporzioni del corpo noto come Uomo vitruviano, disegno a punta metallica, penna e inchiostro, con tocchi di acquerello su carta bianca di Leonardo da Vinci. 1490 circa. Venezia, Gallerie dell’Accademia.
La contemporaneità dei due lavori non è casuale: infatti, lo studio analitico dei monumenti dell’antichità, fatto di misurazioni, confronti, ricostruzioni grafiche delle parti mancanti, vedute prospettiche, ecc., non ha soltanto finalità archeologiche, ma permette
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una comprensione nuova – di tipo «progettuale» – degli edifici antichi ai quali, come nella decifrazione di una lingua morta, vengono restituiti non solo il significato e il valore formale ma anche la logica sintattica e il processo compositivo; tali studi troveranno poi nel trattato De re aedificatoria (1443-45) la loro definitiva elaborazione.
Il cerchio nel quadrato
Alberti, inoltre, a differenza di Brunelleschi, desumerà dal repertorio tipologico antico una connotazione fortemente simbolica e cosmologica, che caratterizzerà molte delle sue opere architettoniche (si pensi all’arco trionfale riproposto nelle facciate del Tempio Malatestiano a Rimini e di S. Andrea a Mantova e al cerchio nel quadrato come matrice di proporzione e di bellezza). È a partire da tali esperienze che gli architetti che si sono posti nella scia dei due iniziatori – Michelozzo Michelozzi, Luciano Laurana, Bernando Rossellino, Filarete e altri – sono riusciti a elaborare un linguaggio nuovissimo, usando paradossalmente un vocabolario zeppo di parole antiche. L’architettura, dunque, parafrasando il titolo di un saggio dello storico della scienza, Alexandre
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Koyré (1892-1964), abbandona il mondo del pressappoco (ancorché estremamente creativo) del Medioevo per approdare all’universo della precisione matematica dell’Umanesimo. Un universo nel quale gli elementi lessicali dell’ar-
In alto la volta della Camera degli Sposi, affrescata da Andrea Mantegna nel Palazzo Ducale di Mantova. 1465-1474. In basso Città ideale, olio su tavola di anonimo artista dell’Italia Centrale. 1480-1490. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche.
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Dossier Pienza
La città «perfetta» Papa Pio II Piccolomini, del quale sono noti gli interessi in fatto di architettura (probabilmente sollecitati da Leon Battista Alberti che fu al suo seguito durante un viaggio del papa a Mantova), nel 1459 ordinò che il suo paese natale, l’antica Corsignano, che da allora assunse il nome di Pienza, fosse ristrutturato e destinato a sua residenza privata. Papa Piccolomini aveva le idee molto chiare, e nei suoi Commentari descrive minuziosamente i propositi edilizi che intende attuare: un intervento che, per la prima volta nel Quattrocento, viene realizzato a scala urbana. L’architetto a cui fu affidato l’incarico, Bernardo Rossellino, operò in piena sintonia con i desideri del pontefice. Il progetto prevedeva una piazza trapezoidale, posta al centro del paese; sul lato maggiore fece costruire la cattedrale in stile gotico, sulla destra il Palazzo Piccolomini in stile moderno, a sinistra il Palazzo Vescovile e di fronte il Palazzo Comunale. La forma trapezoidale della piazza (qui usata per la prima volta), che presenta una pavimentazione caratterizzata da un ampio quadrettato in travertino bianco, ha lo scopo di proporre all’osservatore visioni prospettiche diversificate in uno spazio altamente scenografico.
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Didascalia aliquatur adi odis que vero ent qui doloreium conectu rehendebis eatur tendamusam consent, perspiti conseque nis maxim eaquis earuntia cones apienda.
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A sinistra uno scorcio della piazza di Pienza, con, a sinistra, il Palazzo Comunale e, sulla destra, il Palazzo Vescovile. A destra, in basso uno scorcio del cortile della casa di Andrea Mantegna a Mantova. Nella pagina accanto, in basso una veduta aerea di Pienza.
La Casa del Mantegna
Una dimora simbolica Tra i seguaci di Leon Battista Alberti troviamo uno degli artisti piú importanti del Quattrocento: Andrea Mantegna. Egli fu tra i pochi pittori a trasformare il classicismo archeologico, al pari del suo maestro, in lingua viva, un ritorno all’antico privo di nostalgia ma vissuto nel presente. In tale ottica si colloca la sua celebre casa mantovana che nell’impianto riprende, reinventandola simbolicamente, la figura vitruviana dell’Uomo nel quadrato e nel cerchio: la casa, di due piani, ha la pianta quadrata, il cortile è un cerchio, e l’Uomo vitruviano è lui, Andrea Mantegna. Iniziata nel 1476 su un terreno donatogli dal marchese Ludovico Gonzaga dopo la decorazione della famosa Camera degli sposi, la costruzione della casa durò circa venti anni e il pittore poté abitarla soltanto dal 1496 al 1502, anno in cui fu costretto a venderla. È possibile che il progetto originale prevedesse un cortile coperto da una cupola forata da un «occhio» come quello che Andrea dipinse nella Camera degli sposi, tuttavia non tutti gli storici concordano sulla questione non essendoci in proposito documenti certi.
chitettura sono codificati da un sistema (i quattro ordini: dorico, ionico, corinzio e composito ai quali si aggiunge il toscano) che consente di comporre in modo razionale ogni singola parte.
Tre capolavori
La codificazione degli ordini architettonici e l’insistenza dei teorici a fondare misure e proporzioni sulla base del corpo umano non hanno tuttavia l’effetto di produrre un linguaggio uniforme; al contrario, i problemi progettuali sono risolti sempre con un alto
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grado di individualità, permettendo a ciascuno di esprimersi con assoluta libertà di sperimentazione anche affrontando la stessa tipologia, come avvenne a Firenze dove, nel giro di circa quindici anni, si produssero tre capolavori assoluti: Palazzo Pitti (1440) di Bru-
nelleschi, Palazzo Medici-Riccardi (1444) di Michelozzo e Palazzo Rucellai (1446) dell’Alberti. L’equilibrio estetico, il ritmo musicale degli elementi orizzontali e verticali, il rigore geometrico della struttura, l’armonia fra le parti hanno origine dal principio
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che il grande e il piccolo – corrispondenti al macrocosmo e microcosmo della filosofia cosmologica – hanno la stessa matrice concettuale e generativa, essendo, come i moderni frattali, diversi solo nella dimensione: «Percioche se la Città secondo la sentenza de’ Filosofi è una certa casa grande, e per l’opposito essa casa è una piccola Città; perche non direm noi, che i membri di essa son quasi Casipole, come è il Cortile, le Loggie, la Sala, il Portico e simili» (Alberti, De re aedificatoria).
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Con la normalizzazione dello spazio, gli elementi posti nella scatola prospettica sono cose «che occupano un luogo», dirà ancora l’Alberti. Essi non hanno piú un ruolo autonomo, essendo il loro valore espressivo subordinato al sistema progettuale nel quale sono inseriti, sicché la creatività degli artisti e degli artigiani, che nell’architettura gotica trovava il suo momento di maggior gloria e autonomia, viene fortemente ridimensionata e controllata dal pro-
gettista, unico artefice e responsabile della costruzione. Analogamente a quanto avviene nelle arti figurative, la funzione del fruitore in architettura cambia radicalmente. Infatti, se nel periodo gotico la molteplicità dei punti di vista e la sovrabbondanza di particolari di forte espressività permetteva all’osservatore la libertà di creare dei percorsi spaziali e una lettura visiva individuali, sia pure partecipi di un «comune sentire», con la prospettiva e il punto novembre
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Nella pagina accanto Orazione nell’orto, tempera su tavola di Andrea Mantegna. 1455-1456. Londra, National Gallery.
di vista unico – che coincideva con quello del progettista – l’edificio è pensato come un apparato spaziale «trasparente» nel quale non c’è quasi nulla da scoprire, essendo le forme sensibili mostrate chiaramente e rapportate sempre alla dimensione umana. Il processo conoscitivo è preordinato al punto che i percorsi, il ritmo degli elementi architettonici, le proporzioni tra le parti e la costruzione geometrica dell’impianto ne suggeriscono esplicitamente la lettura, rifiutando quella suggestione psicologica cui l’architettura gotica deve parte della sua originalità e del suo fascino. Nelle chiese, gli squarci luminosi e il pathos chiaroscurale lasciano il posto a una luminosità omogenea che evita programmaticamente l’enfasi; la vertiginosa altezza delle navate gotiche si trasforma classicamente in coperture piatte; nei palazzi, la rude semplicità medievale acquista un’aulica eleganza secondo le note indicazioni di Vitruvio: commoditas, firmitas, venustas.
Strade rettilinee e geometrie regolari
Tale processo di rinnovamento non riguarda soltanto gli edifici ma investe anche lo spazio urbano, che viene modificato per correggere la crescita spontanea della città medievale, e il suo rapporto con il territorio. Le strade vengono raddrizzate (tra i primi esempi risalenti agli inizi del Quattrocento, ricordiamo le strade fiorentine via Larga, ora via Cavour, e via Maggiore, ora via Maggio, mentre verso la metà del secolo il pontefice Niccolò V incaricò l’Alberti di ristrutturare il Borgo Pio nei pressi del Vaticano, compito che l’architetto risolse proponendo tre strade rettilinee parallele; dopo il 1471
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Sisto IV fece costruire la via Recta, oggi via de’ Coronari, la prima strada dritta di Roma). Le piazze assumono forme geometriche regolari e riconoscibili, in genere quadrangolari, come piazza Maggiore a Bologna (1400 circa), piazza dell’Annunziata (1421 circa) a Firenze progettata da Brunelleschi, considerato il primo intervento urbanistico programmato, piazza Duca Federico (1465 circa) a Urbino che, antistante il Palazzo Ducale, si presenta con i caratteri e le proporzioni di una corte interna. La città stessa è idealizzata: gli umanisti sono convinti che solo attraverso l’arte si potranno creare spazi urbani armonici e razionali nei quali sviluppare una vita civile, pacifica e operosa. Le tre famose prospettive, tutte anonime, che rappresentano altrettante città ideali, la prima conservata a Urbino nella Galleria Nazionale delle Marche, la seconda a Baltimora nella Walters Art Gallery, la terza, infine, a Berlino negli Staatliche Museen, sono eloquenti esempi di concettualità metafisica al pari delle vedute urbane che fanno da sfondo ad alcuni quadri di Piero della Francesca, Pietro Perugino e altri. L’umanista Leonardo Bruni immagina la città ideale composta da una serie di cerchi concentrici, idea analoga esprime l’Alberti quando scrive che la città va concepita «come a rinchiudere un circuito in un altro». Proposte queste che riecheggiano un brano del Libro sesto delle Leggi di Platone, nel quale il filosofo raccomanda di costruire la città attorno all’agorà e agli edifici pubblici con una serie di cerchi concentrici; la sua idea di astratta perfezione condizionò molto l’immaginario culturale del Quattrocento, tanto che Roma, Ferrara, Pavia e altre città erano a volte rappresentate simbolicamente all’interno di un cerchio. Anche se una città circolare non
fu mai realizzata, maggior fortuna ebbe lo schema poligonale – che trovò applicazione a Pienza (14591464), Cortemaggiore (14701481), Sarzana (1488), Ferrara (1492-1494), ecc. – attraversato da un tessuto viario solitamente a trama ortogonale, e se la città medievale non prevedeva una differenziazione tra le strade, quella quattrocentesca individua le principali e le secondarie: nelle prime troveranno sistemazione le attività piú ricche, nella seconda quelle meno nobili. Particolare cura andrà riservata alla strada principale: «È la strada dentro a la Città, oltre che è bisogna che ella sia lastricata, e pulita grandamente, diventerà molto bella se vi si faranno i portici fatti per tutto a un modo, e casamenti di qua e di là tutti tirati a un filo, e non alti piú l’uno che l’altro», scrive Alberti nel suo trattato di architettura.
Il ruolo del paesaggio
Infine, la maggiore integrazione che avviene tra tessuto urbano e territorio influenza nel corso del Quattrocento anche le arti; il paesaggio non è piú rappresentato come uno spazio vuoto e indifferenziato tra città e città (la scena con Guidoriccio da Fogliano dipinta nel 1328 da Simone Martini nel palazzo pubblico di Siena), la sua valorizzazione artistica, già iniziata nella seconda metà del Trecento con Altichiero (La decollazione di San Giorgio, 1385 circa, nell’Oratorio di S. Giorgio a Padova), acquista presto caratteri del tutto originali. Partecipe dell’armonia del mondo grazie alla ritrovata classicità, il paesaggio diviene un soggetto sempre piú interessante per i pittori, fino ad assumere, in opere come Orazione nell’orto (1456 circa), nella National Gallery di Londra, del Mantegna o nella Primavera (1478), nella Galleria degli Uffizi di Firenze, del Botticelli, il ruolo di comprimario assoluto nella rappresentazione.
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SPAZIO ITALIANO, OCCHIO FIAMMINGO
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ra il 1426 e il 1432, in Italia e nelle Fiandre, vengono realizzate due delle opere piú straordinarie del XV secolo, il cui nuovo linguaggio trasformerà radicalmente il modo di pensare e di fare la pittura. La Trinità di Masaccio (1425-1426; Firenze, S. Maria Novella) e l’Adorazione dell’agnello mistico (1432; Gand, S. Bavone) dei fratelli Hubert e Jan Van Eyck affrontano la rappresentazione dello spazio e la riproduzione della realtà con criteri opposti: il primo, utilizzando le regole della nuovissima prospettiva brunelleschiana, costruisce plasticamente lo spazio attraverso la luce e l’ombra, con figure private di ogni dettaglio e dalla statuaria solidità; i secondi, creano un universo brulicante di particolari realistici, immersi in una luce vivida che non si accontenta di mostrare, ma indaga ana-
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liticamente su ciascuno dei mille elementi che compongono il quadro, dove lo spazio è costruito come una sorta di vetrina nella quale disporre personaggi e cose.
Giochi di ombre
Nell’opera di Masaccio e in quella dei pittori toscani del suo tempo, l’ombra sulle varie figure è sempre prodotta da un’unica fonte luminosa che permea tutto lo spazio; in Van Eyck e nei suoi sodali fiamminghi (tutti operanti nei Paesi Bassi tra la Fiandra, la Vallonia e il bacino della Mosa), l’ombra appare invece circoscritta, schiacciata a ridosso delle cose e dei personaggi, con un effetto che riduce i rilievi e ricorda, anche per l’impietosità del tratto, le fotografie scattate con il flash. Per quanto vivido ed estremamente luminoso, lo spazio fiammingo non appare quasi mai
Adorazione dell’Agnello Mistico, pannello centrale dell’omonimo polittico, olio su tavola di Jan e Hubert Van Eyck. 1432. Gand, cattedrale di S. Bavone. Nella pagina accanto Trinità, affresco del Masaccio (al secolo, Tommaso Guidi). 1425-1426. Firenze, S. Maria Novella.
unitario, proprio perché esso non è che la somma di una infinità di spazi concepiti e illuminati singolarmente attorno alle figure e alle cose, con un processo mentale non troppo dissimile da quello della pittura due-trecentesca. A differenza dei pittori italiani, che utilizzarono la prospettiva brunelleschiana come un linguaggio creativo, coscienti della necessità di un recupero non solo formale ma ideologico del mondo classico, del quale tutti gli esponenti della cultura – letterati, pittori, scultori, architetti – si sentivano eredi e novembre
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Dossier
continuatori, i pittori d’Oltralpe, e con essi la cultura nordica nel suo insieme, con una architettura che rimarrà gotica per molto tempo ancora, non misero in discussione i loro predecessori, né furono inclini al recupero dell’antichità.
Un universo «pieno»
Pur apprezzando la capacità del metodo prospettico nel descrivere uno spazio riconoscibile, essi lo assimilarono per motivi del tutto funzionali piuttosto che come rinnovamento linguistico. Infatti, gli artisti fiamminghi non erano tanto interessati a esprimere la profondità degli ambienti e dei paesaggi, che comunque risolsero coloristicamente con l’uso di tonalità degradanti, quanto a realizzare un impianto visivo che permettesse loro di orchestrare meglio un universo concepito come «pieno», e giustificare la collocazione fisica in senso realistico di persone e cose. Un’operazione che non negava la precedente arte gotica, ma ne rappresentava un’evidente evoluzione. L’Adorazione dell’agnello mistico di Van Eyck ha uno schema pro-
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In alto L’Annunciazione, olio su tavola attribuito alla bottega di Rogier van der Weyden. 1435. Parigi, Museo del Louvre. A destra Santa Barbara, olio su tavola di un seguace del Maestro di Flémalle. 1438. Madrid, Museo del Prado.
la pittura a olio
Invenzioni e segreti Per secoli l’uso della pittura a olio è stato indicato come uno dei motivi che hanno consentito agli artisti fiamminghi di riprodurre la realtà fin nei minimi particolari, grazie alle velature e a una maggiore brillantezza dei colori. Anche se il Vasari attribuisce a Jan Van Eyck l’invenzione di questa tecnica, si è da tempo accertato che essa, pur essendo conosciuta fin dal XII secolo, era poco utilizzata perché l’olio di lino, che serviva a diluire il colore, si essiccava assai lentamente. È possibile che Van Eyck abbia invece sostituito l’olio di lino con l’essenza di trementina che permetteva un’essiccazione piú rapida; inoltre i restauri hanno dimostrato che spesso l’olio e la tempera erano usati nello stesso dipinto per ottenere particolari effetti cromatici. La tempera si otteneva mescolando i pigmenti con il tuorlo o la chiara d’uovo, che consentivano un rapido essiccamento del colore: la sua opacità non permetteva di stendere velature, né di cambiare le tonalità impiegate. Il colore a olio, al contrario, può essere modificato durante il lavoro (le velature determinano una vasta gamma di sfumature cromatiche) e, con l’uso di pennelli sottilissimi, consente di realizzare riflessi, trame sottili e particolari piccolissimi. Tra i primi ad adottare la pittura a olio, per altro molto ammirata in Italia, fu Antonello da Messina, il piú fiammingo dei pittori italiani, che apprese tale segreto durante una sua permanenza in Fiandra. Madonna col Bambino del cancelliere Rolin, olio su tavola di Jan van Eyck. Prima metà del XV sec. Parigi, Museo del Louvre.
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Dossier Italia e Fiandre a confronto
I due volti del ritratto La ritrattistica deve molto alla pittura fiamminga, per l’alto grado di verosimiglianza che essa ha saputo esprimere. La mano dell’artista è talmente abile che riproduce impietosamente rughe, nei, verruche, borse sotto gli occhi identificando nella somma di minuziosi particolari fisionomici, anche sgradevoli, una personalità, un carattere. Il disinteresse verso l’analisi psicologica del personaggio priva spesso gli sguardi di ogni emozione; al pari degli oggetti o dei paesaggi, anche il ritratto diventa una descrizione fenomenologica, indagata senza emozione. Al contrario, i ritratti italiani tendono all’interpretazione psicologica, la somiglianza del personaggio non si ottiene solo con i particolari del volto, l’effigie non mostra, esprime il carattere del raffigurato, concentrando negli occhi o nell’atteggiamento della bocca il segno distintivo di una personalità. Due concezioni contrapposte, che balzano agli occhi confrontando alcune opere: la grazia trattenuta della Principessa estense del Pisanello con l’astrattezza metafisica del Ritratto di Giovanni Arnolfini e di sua moglie di Jan Van Eyck, la distaccata consapevolezza del potere espressa dal Federico di Montefeltro di Piero della Francesca con l’attonita espressione del Ritratto di Giovanni da Candida di Hans Memling. In alto Ritratto di Giovanni Arnolfini e di sua moglie (particolare), olio su tavola di Jan van Eyck. 1434. Londra, National Gallery. A sinistra Flagellazione (particolare), tempera su tavola di Piero della Francesca. 1459-1460. Urbino, Galleria Nazionale delle Marche.
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spettico obiettivamente primitivo, paragonabile alle esperienze trecentesche di Pietro Lorenzetti o di Simone Martini (gli angeli in San Ludovico d’Angiò del 1317 sono disposti a raggiera come gli angeli dipinti dai Van Eyck) piú che a quelle dei pittori toscani del primo Quattrocento. In molte altre opere fiamminghe, l’impianto prospettico mostra spesso una veduta dall’alto con una profondità esasperata, gli oggetti e le figure in primo piano risultano perfettamente a fuoco come quelle minuscole sistemate sullo sfondo, un effetto simile alla profondità di campo che si ottiene nel cinema o in fotografia utilizzando gli obiettivi grandangolari; tra gli esempi che si possono fare basterà citare il Ritratto di Giovanni Arnolfini e di sua moglie (1434) di Van Eyck, l’Annunciazionovembre
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valore di una indagine fenomenologica. In ogni quadro viene mostrato, come in una sorta di enciclopedia del visibile, l’esistente nella sua espressione piú evidente: «Niente di meno di quel che esiste nel fenomeno dovrà apparire nell’immagine. Questa non deve essere una decurtazione, una riduzione interessata, non la cifra o il riassunto del fenomeno: ma quasi, l’immagine, dovrà potersi osservare, studiare, analizzare come il fenomeno stesso», ha scritto con penetrante lucidità Cesare Brandi (1906-1988). Se la pittura che si praticava a Firenze e a Siena era sintetica e scenograficamente illusionistica, quella fiamminga era analitica e descrittiva.
Influssi reciproci
Ritratto di una principessa estense, olio su tavola del Pisanello (al secolo, Antonio di Puccio Pisano). Secondo quarto del XV sec. Parigi, Museo del Louvre.
ne (1435) della bottega di Rogier Van der Weyden, la Santa Barbara (1438) di un seguace del Maestro di Flémalle. I pittori italiani fanno spesso la scelta opposta (rimanendo in campo fotografico è come se scegliessero il normale obiettivo da 50 mm, che offre una visione molto vicina a quella dell’occhio umano) ponendo la linea d’orizzonte
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in basso, con una visione da sotto in su, o nella parte mediana (Pala di Fiesole, di Beato Angelico, 1428, Battaglia di San Romano di Paolo Uccello, 1456, Flagellazione, di Piero della Francesca, 1459-1460). La complessità formale, la minuziosa rappresentazione delle cose che occupano lo spazio assumono, nella pittura fiamminga, il
Due concezioni, che pur opposte non si negarono reciproca ammirazione e influenze – testimoniate dalla presenza di opere fiamminghe in Italia e viceversa –; i Nordici si lasciarono suggestionare dalla grande abilità compositiva degli Italiani, mentre questi ultimi impararono a valorizzare nei loro dipinti l’ambiente e i piú piccoli particolari. Tracce evidenti di tale reciproco influsso si possono riscontrare, in Italia, nell’opera di Giovanni Bellini, Antonello da Messina, Andrea Mantegna, Carlo Crivelli, fino alla prospettiva atmosferica teorizzata da Leonardo. Nelle Fiandre guardarono all’Italia, tra gli altri, lo stesso Jan Van Eyck, Rogier Van der Weyden, Hugo Van der Goes, Hans Memling. L’occhio fiammingo, pur esaurendo presto la sua straordinaria stagione, non mancò di lasciare qualche eredità ai secoli successivi: ai puntigliosi pittori d’interni del Seicento olandese come Emanuel de Witte, Pieter Janssens ma anche al grande Jan Vermeer, senza dimenticare gli straordinari vedutisti veneziani del Settecento, come Canaletto e Bernardo Bellotto. V
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C’è un tesoro nella «chiesuola» Pieve di Cadore
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L’iconografia della Dormizione della Vergine è antica e radicata: definita nel mondo ortodosso con il termine greco koimesis, cioè sonno, indica come Maria, secondo i teologi, non sarebbe morta, ma si sarebbe profondamente addormentata e la sua anima sarebbe stata assunta in cielo, portata dagli angeli. L’evento è stato rappresentato da artisti di ogni tempo, fra i quali si annovera un seguace di Giotto a cui si deve il pregevole affresco conservato a Piove di Sacco, nel Padovano
Friuli-Venez ia G iul ia
di Debora Gusson
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In alto, sulle due pagine Dormitio Virginis (Dormizione della Vergine), affresco di un anonimo artista della cerchia giottesca. XIV sec. Piove di Sacco (Padova), chiesa di S. Maria dei Penitenti.
iamo a Piove di Sacco, cittadina che dista da Padova poco meno di venti chilometri. Una località che vanta una storia lunghissima, in un territorio abitato probabilmente già in epoca paleoveneta e il cui assetto a forma di quadrilatero, tuttora leggibile, si deve all’intervento dei Carraresi, signori di Padova, che completarono le fortificazioni cominciate anni prima e costruirono torrioni alle porte di accesso. Dal 1405 al 1797, sotto il dominio veneziano, Piove di Sacco fu il centro della podesteria che comprendeva il territorio della Saccisica. Il centro del paese è caratterizzato dalla trecentesca novembre
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Torre Carrarese, sopra la quale insiste la cella campanaria dell’adiacente duomo di S. Martino, piú volte ristrutturato e infine ricostruito alla fine dell’Ottocento. Accanto al duomo, sorge un piccolo edificio, chiamato «chiesuola»: quando il vescovo Gauslino, tra il 970 e il 975, eresse la chiesa dedicata a san Martino, esisteva già, in questo luogo, una edicola dedicata a santa Maria dei Penitenti; se ne ha notizia in un documento datato 853, ma è probabile che fosse ancora piú antica. Nel 1334, bisognoso di restauro, l’edificio venne ricostruito a spese dei fratelli Tommasino e Giacomo de Rosari, che donarono alla nuova cappella
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candelabri, crocifissi e tutto il necessario per adornarla. All’interno si trovava anche un magnifico polittico di Paolo Veneziano, ora visibile in sagrestia. Restaurata e ampliata nel 1616, la chiesa di S. Maria dei Penitenti venne nei secoli arricchita con un altare del Bonazza e altre opere; nel 1911 venne riedificata totalmente, e, nel 1960, fu accorciata e divisa con un solaio, cosí da ricavarne un altro piano.
Alla maniera di Giotto
L’unico ricordo del passato di questo piccolo edificio è un trecentesco affresco di scuola giottesca, inserito
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medioevo nascosto veneto nella cornice lignea seicentesca di un antico altare, che rappresenta una Dormitio Virginis (Dormizione della Vergine). L’autore, a oggi ignoto, viene appunto ascritto alla cerchia di Giotto, del quale conosceva sicuramente il lavoro della vicina Cappella degli Scrovegni. Vi sono infatti rimandi a un dipinto di tema analogo, sempre di autore sconosciuto, che si trova nella cappella, e anche alla pala della Dormitio dello stesso Giotto, ora esposta nella Gemäldegalerie di Berlino.
Nuove prospettive
Quest’ultima opera inserisce un nuovo concetto prospettico e, rispetto alle rappresentazioni precedenti, introduce alcune novità, come le figure chine sul corpo della Vergine: una soluzione che anticiperà atteggiamenti della pittura rinascimentale e che anche l’autore di Piove di Sacco adotta, seppur «timorosamente», nella sua opera. Si veda, a tal proposito, l’apostolo con le mani giunte in prossimità del volto della Vergine, confrontabile con una figura quasi identica della pala giottesca, o i personaggi inginocchiati in primo piano. L’affresco faceva presumibilmente parte di un ciclo dedicato alla vita di Maria che si snodava lungo In alto Avanzo del castello di Piove di Sacco, tavola tratta da Il territorio padovano illustrato di Andrea Gloria (Padova 1862). Padova, Archivio di Stato.
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le pareti dell’edificio sacro. La scena è divisa in due parti: in quella inferiore vi è la Vergine, distesa, attorniata dagli apostoli e da alcuni angeli oranti, mentre nella parte superiore è raffigurato Cristo, con la piccola anima di Maria tra le braccia, a cui numerosi angeli in volo rendono lode. L’intensità dei volti degli apostoli lascia trapelare il loro dolore: il phatos e la forza espressiva dei visi si contrappongono a particolari dalla resa quasi rozza, come le mani di alcuni personaggi, che risultano goffe e prive di movimento. Colore predominante dell’opera è l’azzurro: lo ritroviamo in alcune vesti, nelle decorazioni delle tuniche, nel manto della Vergine, e nel blu del cielo, a simboleggiare la dimensione divina scesa in terra, vincendo cosí la morte terrena.
Un tema di grande successo
L’iconografia del trapasso della Vergine è di ispirazione bizantina: la storia della sua morte è interamente apocrifa, ma questi testi furono cosí popolari che la diffusione e la rappresentazione dell’episodio fu vastissima. Lo schema iconografico della tradizione orientale voleva l’immagine della Madonna distesa, nota sopratA destra Dormitio Virginis, pannello centrale di un polittico di Paolo Veneziano. 1333. Vicenza, Musei Civici. In basso Dormitio Virginis, tempera e oro su tavola di Giotto. 1310 circa. Berlino, Gemäldegalerie.
tutto con il termine Koimesis («il sonno della morte»), tradotto poi dalla Chiesa latina in Dormitio. Tutte le rappresentazioni sono accomunate dalla figura della Vergine distesa, attorniata dai discepoli. Vicino a lei, il figlio Gesú tiene in mano un bambino in fasce: è la raffigurazione dell’anima pura di Maria. Alcune varianti presentano la Madonna coricata a letto, morente, con un cero in mano o addirittura inginocchiata, secondo una tradizione tedesca quattrocentesca, secondo la quale Maria sarebbe morta pregando, oppure seduta. Altre interpretazioni, derivanti sempre dal mondo germanico, la ritraggono in una scena piú intima, distesa su di un letto a baldacchino e sorretta da alcuni cuscini, attorniata dagli apostoli. Fra il XII e il XIII secolo si registrò un momento importante nel processo di rinnovamento dell’iconografia mariana, grazie all’attenzione per la vita di Maria promossa dagli Ordini Mendicanti, nati proprio in quegli anni. Questo rinnovato interesse fece sí che venissero promosse immagini di tipo trionfale nella rappresentazione dell’Assunzione e dell’Incoronazione, senza comunque dimenticare la Dormizione. Cosí, nel
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medioevo nascosto veneto XII secolo, il tema iconografico della morte e dell’Assunzione al cielo di Maria passarono da essere soggetto, a scene vere e proprie inserite nei cicli decorativi. In area veneta, la Dormitio Virginis era conosciuta e radicata grazie al rapporto di Venezia con il mondo bizantino, ma grazie anche ad alcuni artisti specializzati proprio in questa raffigurazione. Interessanti sono le pale trecentesche di Paolo Veneziano, realizzate secondo uno schema ormai classico, con Maria distesa su di un letto affiancato da candelabri, simboleggianti il Cristo, sia in riferimento al Salvatore come luce del mondo, sia in riferimento alla cera di cui sono fatti, in quanto gli autori medievali ritenevano che le api generassero verginalmente, proprio come Maria.
Un privilegio unico
L’assunzione rappresenta il culmine della vita terrena di Maria e la sua partecipazione alla gloria celeste, un privilegio unico concesso a lei come Madre di Dio. Questo evento è celebrato annualmente il 15 agosto, con la solennità dell’Assunzione, una delle festività piú importanti nel calendario liturgico cattolico, proclamaIn alto la Dormizione della Vergine raffigurata su una valva di trittico in avorio di produzione costantinopolitana. X-XI sec. Parigi, Museo di ClunyMuseo nazionale del Medioevo. A sinistra Assunzione della Vergine, affresco di Cimabue e aiuti. 1277-1283 circa. Assisi, basilica di S. Francesco, Chiesa Superiore.
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to dogma da Pio XII con la costituzione apostolica Munificentissimus Deus (vedi box a p. 88). La dottrina dell’Assunzione è strettamente legata al tema dell’Immacolata Concezione, nell’affermazione che Maria fu preservata dal peccato originale sin dal concepimento, e quindi non avrebbe dovuto subire la corruzione fisica della morte. La questione dell’assunzione della Vergine in cielo è un tema alquanto complesso: molti teologi manifestarono nei secoli non poche riserve, in quanto la glorificazione della Madonna, cosí come espressa nella liturgia, non doveva comportare anche l’assunzione del suo corpo. Solo nel XII secolo vennero promosse tesi teologiche a sostegno del concetto della glorificazione corporea di Maria, in particolar modo quando, nella Legenda Aurea, Jacopo da Varagine inserí la visione della Vergine trasportata in cielo, testimoniata della monaca benedettina Elisabetta di Schönau. Proprio grazie a questo tipo di lettura religiosa avvenne la diffusione del pensiero teologico e delle leggende attorno all’assunzione. Si passò dunque dalla sola rappresentazione della Dormitio all’inclusione della sua gloriosa ascensione al cielo. L’iconografia iniziò a rappresentare Maria sollevata al cielo, con un’aura di gloria, circondata da angeli e con gli apostoli o i fedeli testimoni dell’evento da terra.
Assunzione della Vergine, tempera su tavola di Masolino da Panicale (al secolo, Tommaso di Cristoforo Fini). 1428 circa. Napoli, Museo e Real Bosco di Capodimonte.
Modelli orientali
La prima rappresentazione dell’Assunzione sembra comparire su di un broccato dell’VIII secolo, nel tesoro della cattedrale di Sens (Francia), dove, sopra una fila di apostoli che portano croci, si trova la Vergine affiancata da due angeli, mentre altre due figure si trovano ai suoi piedi. Quest’immagine discende probabilmente dalla rappresentazione di tipo orientale dell’ascensione di Cristo, diffusasi a partire dal VI secolo. Nel corso del XII secolo l’Assunzione venne rappresentata piú frequentemente anche nella scultura e nelle vetrate e, oltre all’ormai diffusa iconografia con la mandorla, ricorrono altre immagini che si riferiscono specificatamente all’elevazione del corpo in cielo, nelle quali compare spesso san Tommaso, che tiene la cintola. Secondo la leggenda, Tommaso arrivò dopo la morte della Vergine, e ne ricevette la cintola come prova dell’ascensione delle sue spoglie mortali in cielo. Dal XIV secolo il dono della cintola diventò tema iconografico, come il motivo della tomba vuota. Per dare ulteriore prova dell’ascesa del corpo della Vergine, non è raro trovare rappresentazioni in cui gli angeli portano in cielo il corpo, trasportandolo con il sudario. In Italia fu Cimabue ad Assisi ad affiancare le scene della Dormizione e dell’Ascensione, introducendo Gesú che abbraccia affettuosamente la Madre all’interno di una mandorla, mentre il se-
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medioevo nascosto veneto la munificentissimus deus
Pio XII e il quarto dogma Negli anni precedenti la promulgazione della Munificentissimus Deus, la Chiesa cattolica stava riflettendo sulla possibilità di definire dogmaticamente l’assunzione di Maria. Sebbene la tradizione e la devozione di questo concetto fossero antiche, non esisteva un dogma ufficiale a riguardo. Papa Pio XII, consapevole della crescente richiesta tra i fedeli e dei teologi per una definizione solenne, avviò un processo di consultazione e riflessione. Cosí, nel
1946, istituí una commissione per esaminare la questione, includendo la consultazione dei vescovi di tutto il mondo e una serie di studi teologici. Era il 1° novembre 1950 quando Pio XII definí, davanti a quasi 700 000 persone, il dogma secondo il quale l’immacolata Madre di Dio, terminato il corso della vita terrena, fu assunta alla gloria celeste sia in anima che in corpo. Il documento raccoglieva tutti i passi biblici e le dichiarazioni di vari teologi e dottori della Chiesa a
supporto del dogma, racchiudendo tutti i quattro dogmi proclamati dalla Chiesa nel corso dei secoli: la Maternità Divina, tema promosso durante il Concilio di Efeso nel 431, secondo il quale essendo Cristo di duplice natura, umana e divina, sancisce conseguentemente come Maria sia Madre di Cristo e quindi di Dio; la Verginità perpetua (Concilio di Costantinopoli II, 553), l’Immacolata Concezione, proclamata con l’Ineffabilis Deus di Pio IX nel 1854, e la sua Assunzione in anima e corpo.
Assunta, olio su tavola di Tiziano. 1516-1518. Venezia, basilica di S. Maria Gloriosa dei Frari.
polcro dal quale esce il sudario, rimane vuoto. Con l’avvento del Rinascimento, l’iconografia dell’Assunzione della Vergine subí un’importante trasformazione. Influenzati dal rinnovato interesse per l’umanesimo e il naturalismo, gli artisti rinascimentali rappresentarono Maria in una forma piú idealizzata e umana, accentuando il dinamismo e la gloria dell’evento. Le figurazioni rinascimentali spesso mostrano Maria che ascende verso il cielo in un tripudio di luce e angeli, talvolta con Dio Padre in alto che l’accoglie. Una delle opere piú emblematiche di questo periodo è l’Assunta di Tiziano, realizzata tra il 1516 e il 1518 per la basilica di S. Maria Gloriosa dei Frari a Venezia. In quest’opera, Maria è rappresentata mentre ascende al cielo con una grandiosità senza precedenti, circondata da una moltitudine di angeli e con un’intensa espressione di estasi.
Da leggere Ferdinando Maggioni, La «Munificentissimus Deus» e i problemi teologici connessi, in AA.VV., Problemi e orientamenti di teologia dogmatica, Marzorati, Milano 1957, vol. II Luca Bellocchi, L’evoluzione del tema iconografico della Dormitio Virginis in ambito italiano, Annales. Series historia et sociologia, vol. 22 (2012); p. 65-76 Paolo Tieto, Il Duomo di Piove di Sacco, Millennio Nuovo di Piove di Sacco, 1980
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Cercasi podestà ARALDICA • Recentemente recuperata, una preziosa collezione di copertine dei
registri del Comune di Perugia documenta l’uso di affidare il governo cittadino a «forestieri» di nobile lignaggio. Nella speranza di preservarli dai condizionamenti che sarebbero altrimenti scaturiti da parentele e amicizie
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ello scorso giugno, la casa d’aste parigina Mirabaud-Mercier ha messo in vendita un’imponente collezione di copertine membranacee di registri di podestà e capitani del Popolo e altri magistrati del Comune di Perugia, databili fra il XIII e il XV secolo, e piú precisamente fra il 1282 e il 1493, studiati dal punto di vista araldico da uno storico del calibro di Laurent Hablot. Conoscendo i miei interessi, un amico antiquario – nel senso piú antico e nobile del termine, cioè di connoisseur e studioso –, l’architetto Alessandro Cesati (che non a caso ripete il nome da un medaglista rinascimentale…), ebbe la cortesia di segnalarmi tale vendita all’incanto. Data l’importanza del ritrovamento, mi affrettai a segnalarlo a una funzionaria della Soprintendenza Archivistica milanese, che si mise in contatto con i colleghi umbri, già al corrente della cosa. Ad aggiudicarsi questo notevole e irripetibile nucleo di materiale documentario – importante non solo dal punto di vista araldico, ma per una piú precisa ricostruzione delle vicende amministrative del capoluogo umbro in età medievale – è stata infine la Fondazione Perugia,
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assicurandone cosí il rientro nei luoghi d’origine. Secondo quanto riportato nella scheda del catalogo d’asta, tale massa documentaria sarebbe emigrata in tutta legittimità dal Bel Paese in seguito a vendita (sic!) da parte del medesimo Comune di Perugia nel 1853, allorché la città era ancora sotto la sovranità pontificia. Acquirente fu un librario e antiquario di origine tedesca, proprietario di una libreria in piazza di Spagna, a Roma, Josef
Spithöver (1813-1892): mentre una parte – quella offerta in asta – finí a Parigi nelle mani di un giurista e diplomatico francoperuviano di piú remote origini lodigiane, Louis Eugenio Albertini (1823-1880), da cui prende nome la collezione, un altro nucleo documentario tornò a Perugia, dove è conservato nel cosiddetto Fondo Fasano di Gardone, sequestrato quale «preda bellica» (sic!) a un cittadino tedesco ai tempi della prima guerra mondiale, e prende Stemma di un podestà di Perugia uscito dai Cima di Cingoli. Archivio Orsini De Marzo, Raccolta di pergamene perugine trecentesche, c. 11r. Alla certezza della casata non fa riscontro quella del personaggio in questione, che potrebbe essere forse Pagnone (1318) oppure Rinaldo (1322).
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nome dalla detta località, ove il tapino possedeva una villa, anch’essa espropriata. Altri nuclei di documenti della medesima provenienza finirono invece all’estero: 29 pergamene al Fitzwilliam Museum di Cambridge in seguito a un’asta Sotheby’s del 1919, 48 all’università californiana di Stanford, altre disperse sul mercato antiquario internazionale anche in epoca recente.
In alto stemma di Pagnone Cima di Cingoli, podestà di Perugia nel 1318, come raffigurato nel settecentesco Priorista di Perugia (p. 302), codice manoscritto conservato nell’Archivio Orsini De Marzo. A sinistra stemma di Rinaldo di Baligano Cima di Staffolo, podestà di Bologna nel 1343 e anche in precedenza, nel 1333, secondo il seicentesco Stemmario Bolognese Orsini De Marzo (Milano 2005, p. 32).
Meglio il giglio del grifo?
bensí scegliendoli fra membri di famiglie signorili o fra eminenti giuristi non (troppo) legati alle realtà locali, in modo che fossero – o questa era almeno l’intenzione – elementi super partes nel vortice delle lotte di fazione cittadine. Per lo studio di tale fenomeno, limitatamente all’età piú risalente, resta fondamentale l’opera in due densi volumi pubblicata nel 2000 dall’Istituto Storico Italiano per il Medio Evo nella collezione dell’École Française de Rome (268), coordinata da Jean-Claude Maire Vigueur: I podestà dell’Italia comunale. Reclutamento e circolazione degli ufficiali forestieri (fine XII sec.-metà XIV sec.). Per quanto concerne il capoluogo umbro, tratto da quest’ultima opera
In questo sconfortante panorama di dispersione di un irripetibile patrimonio documentario miracolosamente preservatosi integro dalla notte dei tempi fino alla metà dell’Ottocento, posso tuttavia in questa sede dare una ulteriore buona notizia: 12 copertine pergamenacee stemmate (di cui, non a caso, ben nove accampanti il capo angioino), una delle quali reca al verso tre segni di tabellionato, rilegate, credo, alla fine dell’Ottocento ovvero ai primi del Novecento in una medievalizzante quanto incongrua legatura in legno di pioppo (se non erro), decorata sui piatti del giglio fiorentino (forse ritenuto piú «sexy» sul mercato
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antiquario del grifo perugino?), si conservano ancora in Italia, nella mia collezione, e saranno oggetto di uno studio piú approfondito. Basti, per ora, pubblicarne qualcuna, per dare un’idea al lettore di ciò che la perdita del ben piú imponente nucleo in asta a Parigi avrebbe potuto significare per il patrimonio storico perugino, ma anche piú latamente italiano: è noto, infatti, come fosse saggio costume dei nostri maggiori in età comunale quello di andare a cercare i podestà non all’interno delle élites locali, a evitare evidenti conflitti d’interesse,
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CALEIDO SCOPIO Stemma con cimiero dei Cima di Cingoli, come raffigurato nel settecentesco manoscritto La Marca trionfante (c. 25r). Archivio Orsini De Marzo.
primo quarto di un inquartato d’argento e d’oro abbassato sotto un capo d’Angiò, è la famiglia dei Cima, di probabile origine longobarda e discendente – secondo Pompeo Litta Biumi (Famiglie celebri italiane: Cima di Cingoli) – da un Attone, vivente già nell’XI secolo, e che ebbe sede originaria e principale nel castello di Staffolo, nella Marca Anconetana.
Dalla parte del papato Costoro, livellari ed enfiteuti del monastero di San Vittore in Arcione e dotati di un cospicuo patrimonio fondiario anche allodiale, inurbatisi nella vicina Cingoli, presero presto parte al governo del neonato comune ove capitanarono la parte guelfa filopapale – a cui rimasero sempre fedeli – contro quella filoimperiale dei Mainetti, da cui subirono bandi e confische, ma sempre temporanei. Col tempo, anzi, nel Trecento, i Cima s’insignorirono prima di fatto, sotto il travestimento delle magistrature cittadine apicali
e disponibile on line sul portale Persée (www.persee.fr) è il saggio di Clara Cutini e Serena Balzani dal titolo Podestà e capitani del Popolo a Perugia e da Perugia (1199-1350), che si avvale intelligentemente del precedente, ponderoso studio di Vittorio Giorgetti, edito nel 1993 dal Centro Italiano di Studi sull’Alto Medioevo (CISAM) di Spoleto, Podestà, capitani del Popolo e loro ufficiali a Perugia (1195-1500). Fra le casate signorili a cui il «circuito podestarile» attingeva, rappresentata qui dall’arme parlante accampante la cima di palma nel
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A destra e nella pagina accanto stemmi di capitani del Popolo di Perugia usciti dai Leazzari di Bologna. Archivio Orsini De Marzo, Raccolta di pergamene perugine trecentesche (c. 3r. e c. 7r).
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Nella pagina accanto stemma della temibile seconda moglie di Giovanni Cima, Rengarda Brancaleoni di Casteldurante, come raffigurato nel settecentesco manoscritto La Marca trionfante (c. 31r). Archivio Orsini De Marzo. A destra stemma dei nobiles de Monte Melino-Montemellini perugini, donde uscí Anselmo, secondo marito di Rengarda Brancaleoni. Priorista di Perugia (p. 159), Archivio Orsini De Marzo. (analogamente a quanto avevano fatto per esempio i Torriani a Milano nel Duecento, fra gli altri…), poi con concessioni vicariali da parte della Santa Sede, di Cingoli: iniziando con Pagnone di Giovannuccio di Ruggero, già podestà a Perugia nel 1318: che gli vada attribuito lo stemma che decora una delle nostre copertine pergamenacee? Purtroppo, non vi sono, a differenza di altre pergamene, indicazioni manoscritte antiche, e non possiamo giudicare che dallo stile araldico, sicuramente trecentesco: ma cosí antico? Vediamo.
Un’identificazione difficile Da Rinaldo, fratello del sullodato Ruggero, discende infatti un omonimo nipote ex filio, Rinaldo di Baligano, il quale, prima di cadere probabilmente vittima della Peste Nera del 1348, fu similmente podestà di Perugia nel 1322, prima di divenirlo anche a Firenze (1332), Bologna (1333; avrebbe poi ricoperto ancora l’officio nel 1343) e Siena (1339): a una altezza cronologica assai vicina, per il capoluogo umbro, al podestariato del suddetto cugino Pagnone. A complicare l’identificazione piú precisa del titolare dello stemma de quo, si aggiungono poi due dei figli di Rinaldo: quello, probabilmente primogenito, che ripeteva il nome dell’avo Baligano, podestà di Perugia nel 1342 e anch’egli vittima della terribile epidemia del 1348, e il fratello Paolo, podestà di quel medesimo comune nel 1362,
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e per la verità molto ricercato, evidentemente, nel «circuito podestarile», se è vero che venne chiamato in seguito anche a Siena (1365), Firenze (1367), Bologna (1370) e Todi (1373), prima di chiudere i propri operosi giorni nel 1375; anche il di lui figlio Federico ne seguí le orme ed è documentato come podestà di Macerata nel 1392. Vediamo dunque come – al netto di eventuali omissioni delle tavole genealogiche del Litta, da cui continuo ad attingere –, e, soprattutto, se, sia possibile in teoria, dal punto di vista documentario, attribuire con certezza lo stemma di cui si tratta a uno in particolare fra i vari podestà summenzionati usciti dai Cima di Cingoli dalla fine del secondo decennio del Trecento al principio del settimo. Un elemento di confronto, tuttavia, mi lascia pensare che lo stemma sulla nostra copertina possa riferirsi, se non al piú illustre Pagnone di Giovannuccio, al cugino Rinaldo di Baligano: il primo,
come detto, podestà perugino del 1318, il secondo nel 1322. Se è infatti corretta, come credo, l’identificazione prospettata nel catalogo dell’asta di cui si tratta del titolare dello stemma decorante una delle undici copertine membranacee raggruppate nel lotto 526 e illustrata alla pagina 18 della brochure promozionale realizzata da Mirabaud-Mercier (ancora disponibile, al momento in cui scriviamo, all’indirizzo: www.mirabaud-mercier.com/ wp-content/uploads/2024/05/ Plaquette-Vente-ManuscritsMirabaud-Mercier-20.06.24_ compressed-3.pdf) con il bolognese Ugolino de Liaçariis (che in volgare suonerebbe Liazzari o meglio Leazzari: gentilizio che credo sorto da un patronimico cognominizzatosi e derivante da uno stipite recante probabilmente il piú raro personale Eleazaro, piuttosto che da un Lazzaro), documentato capitano del Popolo di Perugia per il semestre novembre
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CALEIDO SCOPIO Stemma con cimiero dei Cima della Scala, già Smeducci, che ne brisa gli smalti e aggiunge due cime di palma parlanti, come raffigurato nel settecentesco manoscritto La Marca trionfante (c. 14r), Archivio Orsini De Marzo. Nella pagina accanto stemma degli Smeducci di Sanseverino, come raffigurato nel settecentesco manoscritto La Marca trionfante (c. 6v). Archivio Orsini De Marzo. dei secoli, e forse di un pigmento meno resistente del bianco di piombo, per esempio?
Ci vorrebbe un esperto...
1319-aprile 1320, lo stile araldico di detto stemma ci conforta anche per una coeva datazione di quello appartenente alla mia piccola raccolta «travestita» dal giglio fiorentino, e invece perugina, evidentemente opera, se non della stessa identica mano – come sarei portato a ritenere –, senz’altro della medesima bottega pittorica. Curiosamente, nella mia stessa raccolta, che, come detto, riunisce 12 copertine membranacee, piú o meno riferibili al medesimo torno d’anni, e quindi all’incirca alla prima metà del Trecento, anno piú, anno meno, figura un altro esemplare recante uno stemma
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identificato da un precedente possessore della raccolta (credo novecentesco), che si curò di annotare il gentilizio del titolare a china, per quello dei Leazari. Quest’ultimo stemma si differenzia, tuttavia, per l’assenza del leone di verde, né di tale pigmento mi parrebbe a occhio nudo di trovare traccia: si tratterà di una brisura dell’arme succitata, ovvero dell’effetto di una disastrosa pulitura antiquariale che ha poi consigliato di eliminare del tutto il maestoso felino? Ovvero è stato il leone eliminato in quanto molto compromesso e non risarcibile – e forse identificabile? – per l’usura
Solo un approfondito esame delle vicende araldiche di questa antica famiglia felsinea – che credo peraltro scomparsa presto dalla scena –, potrebbe, ammessa e non concessa la presenza di documentazione archivistica e/o monumentale di confronto, risolvere il busillis: come diceva il grande storico dell’arte Federico Zeri, «bisognerebbe sentire un esperto»! Forse per quest’ultimo il problema sarebbe agevolmente risolvibile, mentre chi scrive deve per ora sospendere il giudizio. Per concludere, torniamo ora ai Cima di Cingoli con una curiosità... necrofila (!), prima di giungere all’epilogo a tinte non meno noir di questa casata signorile, degno di un feuilleton gotico: un figlio del celebre Pagnone, probabilmente il primogenito, chiamandosi come l’avo Giovannuccio, morto – forse anche lui a causa della Peste Nera – nel corso della podesteria affidatagli dal Comune di Ancona nel 1348, avendo ben meritato nella carica ricoperta fu «armato cavaliere nella sua bara», secondo quanto riferisce il Litta; se dal punto di vista giuridico temo che tale concessione onorifica non abbia legittimità alcuna, trattandosi di atto recettizio, ovvero richiedente l’assenso dell’investito di tale dignità, certamente essa testimoniava della stima della comunità amministrata, che volle novembre
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la salma del podestà deposta presso l’altare intitolato a santa Lucia nella locale Cattedrale. Un onore, quest’ultimo, meno effimero e di dubbio gusto, per tacere dei profili di legittimità accennati.
Una leggenda piú che nera Per restare nel macabro, una vera e propria Dark Lady sembra essere stata, nonostante gli alti natali, Rengarda Brancaleoni, figlia del consignore – coi fratelli – di Casteldurante (dal 1635 Urbania, in onore di Urbano VIII, che elevò in quell’anno il borgo al rango di città, ponendovi sede vescovile) Niccolò Filippo, seconda moglie di Giovanni Cima, ultimo vicario pontificio di Cingoli di sua Casa, morto nel giugno del 1422: secondo una leggenda nera – ma forse non priva di sostanza? – fatto avvelenare dalla suddetta consorte, o, ancor peggio, fatto assopire e poi sepolto vivo. Il figlio di primo letto del Cima, Giovanni Battista, nato nel 1392 a Giovanni da una Simonetti di Jesi, si vuole abbia anticipato il padre nel sepolcro nel 1407 sempre per le trame della matrigna. Ma, come dice il proverbio, «Dio li fa e poi li accoppia»: infatti, sempre secondo quanto narra il Litta, rimasta vedova, la nostra donna Rengarda si uní in matrimonio con un gentiluomo perugino di non inferiore lignaggio, e, se è vero ciò che si dice, di altrettanta crudeltà. Anselmo di Ranieri Montemellini, cugino del celebre condottiero Braccio Fortebracci signore di Montone, non avrebbe infatti esitato a liquidare – e non nel senso economico del termine… – i due maschi procreati dalla moglie Brancaleoni e dal defunto Cima, Benuttino e
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Lodovico, morti entrambi nel corso dell’inverno del 1423. Il movente del crimine? Le due sorelle degli sventurati, e ora ereditiere, Anfelisia e Ambrosina, avrebbero portato la roba in Casa Montemellini, accasate rispettivamente con Francesco di Ranieri e Cherubino di Ranieri di quella famiglia: a pensar male… Delle prime nozze di Giovanni Cima, tuttavia, restava ancora Francesca, sposa nel 1428 al conte Luigi degli Atti, figlio di Francesco e signore di Sassoferrato, di famiglia
anch’essa ben inserita nel «circuito podestarile» a cui si è accennato: se pure la coppia non ebbe prole, recuperata, dopo alterne vicende, almeno parte dei beni aviti, donna Francesca li lasciò testando il 30 dicembre del 1466 alla sua lontana cugina Elisabetta, figlia di Masio e nipote ex filio del suo bisavo Tanarello di Pagnone, che era andata nel 1399 in sposa a un membro di altra casata signorile
locale, Biagio di messer Bartolomeo Smeducci, vicario di Sanseverino per la Santa Sede. I figli della coppia, Bartolomeo e Masio come gli avi paterno e materno, furono poi eredi anche dell’ultimo maschio della casata, il cugino Masio – figlio del fratello della madre Giacomo Cima, stabilitosi a Osimo –, morto evidentemente senza prole: cosí questo ramo degli Smeducci di Sanseverino non si limitò ad aggiungere il cognome materno per successione femminile, rafforzata dalle eredità raccolte dagli ultimi dei Cima del ramo signorile, ma addirittura lo sostituí al proprio, prendendo a denominarsi, per evitare confusione con degli omonimi, Cima della Scala. Pompeo Litta conclude, tuttavia, che essi conservarono l’arme paterna degli Smeducci – una scala posta in banda, appunto –, limitandosi a brisarla con due cime di palma parlanti e mutando gli smalti aviti. A chiosa di quanto esposto, inviterei a meditare sull’elasticità, in epoca medievale, delle pratiche successorie cognominali e araldiche: e sulle insidie conseguenti che attendono al varco l’araldista e il genealogista che pretendano di affrontare, antistoricamente, lo studio delle vicende araldiche, genealogiche e successorie di casate che originano nella notte dei tempi, regno della consuetudine e dell’usurpazione, piuttosto che del diritto, con i regolamenti creati ex post a tavolino dalla non mai abbastanza esecrata Consulta Araldica del Regno d’Italia: buoni giusto per qualche bravo soldatino sabaudo, ottuso quanto basta. Niccolò Orsini De Marzo
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Storie, uomini e sapori
L’oro nero del Medioevo di Sergio G. Grasso
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essuna spezia ha avuto nella storia del mondo un’importanza paragonabile a quella del pepe. Nel nome del suo possesso e controllo sono sorti e caduti regni, si sono armati eserciti, ordinati conflitti, organizzate spedizioni, create imponenti reti commerciali, scandagliate strade e rotte verso l’ignoto. Il pepe è stato per secoli il prodotto naturale piú trafficato e remunerativo al mondo, giungendo a rappresentare in alcuni periodi del Medioevo fino all’80% delle transazioni in spezie. La sua storia iniziò migliaia di anni fa in India, dove si trovano ancora oggi le uniche piante selvatiche di pepe al mondo, probabilmente le stesse raccolte fin dalla preistoria per
scopi cultuali e terapeutici piú che alimentari. Si conoscono circa 2000 specie della famiglia botanica delle Piperacee (dal sanscrito «pippali»), ma in gran parte sono inadatte al consumo umano. Due specie furono addomesticate in tempi remotissimi: il Piper nigrum (pepe nero) che cresce nel Sud-Ovest dell’India, e il Piper longum (pepe lungo), originario del Nord-Est. Meno conosciuto in Occidente, il pepe lungo ha una forma lunga e sottile, che ricorda una minuscola pannocchia; piú piccante rispetto al nero, presenta una complessità aromatica maggiore, alla quale si associano note dolci con sentori di cannella e noce moscata. Nei testi ayurvedici indiani si
Nella pagina accanto miniatura raffigurante la raccolta e la lavorazione del pepe, da un codice dell’Adjâyeb al-makhlouqât va gharâyeb al-mowdjoudât (Le curiosità delle creature e le meraviglie degli esseri) di Tusi Salmani. 1388. Parigi, Bibliothèque nationale de France. In basso grani di pepe nero (Piper nigrum). magnificano le proprietà del piplamool (pepe lungo) che «provoca catarro e vento: essendo pungente e caldo [e] in grado di aumentare lo sperma»; non solo il frutto – che, in realtà, è un falso-frutto, creato dall’unione di molti piccolissimi frutti grandi come un seme di papavero –, ma anche il fusto, le radici e le foglie venivano (e vengono tuttora) utilizzati dalla medicina ayurvedica per il trattamento di numerosi disturbi.
Misterioso e prezioso In Grecia i grani di pepe (péperi e peperídes) giunsero probabilmente a bordo delle navi fenicie nel VI-V secolo a.C., circondati da un’aura di mistero, esotismo e preziosità. Secondo Erodoto, il commercio del pepe era affidato a carovane che partivano dall’India, attraversavano la penisola arabica e si dirigevano verso i porti dell’Egitto e delle coste siro-libanesi, dove veniva acquistato dai mercanti greci. Di pepe parlano Dioscoride e Ateneo di Naucrati, mentre alcuni autori della Commedia Nuova li trattano novembre
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come beni di lusso, strumenti per il pagamento delle imposte e, in quanto tali, soggetti a falsificazioni. Nel V secolo a.C. Ippocrate suggeriva di mescolare pepe nero, miele e aceto per contrastare i dolori mestruali; piú tardi, Teofrasto lo indicava come antidoto alla cicuta e garantiva che mescolato con aceto salvava la vita nei casi di soffocamento. L’uso culinario si affermò tra i Greci soprattutto nel IV secolo a.C., quando il pepe entrò nel confezionamento di polpette (isíkia), minestre (rhodonià lopàs,
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zuppa di rose), prodotti da forno (l’artolàganon, una sorta di ostia fatta con farina e miele) e veniva impiegato per aromatizzare vini speziati (myrínes) e mielati (oinòmeli).
Quasi onnipresente La popolarità del pepe a Roma crebbe quando l’Egitto divenne prefettura romana e il suo uso si diffuse rapidamente nelle province della Gallia e della Britannia. Il piper longum rientra tra gli ingredienti di ben 349 (su 469) preparazioni tramandateci dal ricettario attribuito ad Apicio,
che, peraltro, annovera vere e proprie salse piperatae, in cui il pepe veniva unito al garum, al silphium o al ligusticum. Non mancano le citazioni di molti scrittori latini (tra cui Columella, Marziale, Catone e Virgilio), ma risulta curioso il modo in cui ne parla Plinio il Vecchio, nel VII libro della Naturalis historia: «Piper longum? Lo vogliamo solo per la sua estrema piccantezza e andiamo fino in India a prenderlo! Chi è stato il primo a provarlo con il cibo? Chi era cosí ansioso di sviluppare un appetito che la fame [da sola] non avrebbe
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funzionato? Il pepe e lo zenzero crescono spontaneamente nei loro paesi d’origine, eppure lo paghiamo alla pari di oro e argento». In verità, se si escludono le classi meno abbienti, il prezzo del pepe nel I secolo non era del tutto proibitivo, come dimostra il listino prezzi tramandatoci anch’esso da Plinio: «Il pepe lungo si vende a 15 denari la libbra, il pepe bianco a 7 e il pepe nero a 4. È degno di nota che l’uso del pepe sia diventato cosí popolare, poiché nel caso di alcuni prodotti il loro sapore dolce è stato un’attrazione, e in altri il loro aspetto, ma il pepe non ha nulla che lo raccomandi né nel frutto né nella bacca». E aggiunge: «Non c’è anno in cui l’India non prosciughi l’impero
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romano di cinquanta milioni di sesterzi [oltre 100 milioni di euro di oggi]».
A dorso di cammello Strabone riporta che Roma inviava ogni anno 120 grandi navi in India cavalcando i monsoni del Golfo Arabico; il pepe veniva caricato nella città di Muziris (oggi nel Malabar), quindi i vascelli risalivano il Mar Rosso fino a Berenice poi il carico attraversava a dorso di cammello il deserto fino al Nilo e raggiungeva Alessandria, da dove veleggiava per Roma. Lí veniva stivato negli horrea piperataria, 3000 mq di magazzini per le spezie fatti costruire in età flavia da Domiziano tra i fori
imperiali e il porto dell’Emporium e sui quali, nel IV secolo, Massenzio edificò la sua imponente basilica. Anche i «barbari» impararono presto ad apprezzare il gusto e soprattutto il valore commerciale del pepe; non per nulla, quando Alarico, re dei Visigoti, decise di porre fine al sacco di Roma del 410, pretese un riscatto in oro, argento, tuniche di seta e pelli scarlatte, col sovrapprezzo di tremila libbre (una tonnellata) di pepe. Il piper nigrum iniziò a sostituire in Europa la piú costosa e piccante varietà longum nel Medioevo. Ancora oggi noi usiamo questo pepe a bacca rotonda che troviamo in quattro versioni: nero, cioè raccolto novembre
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Figurina Liebig in cui si immagina Alessandro Magno che introduce il pepe nei suoi domini. 1914. A destra il pepe nero in una tavola a colori tratta da un fascicolo del Botanical Magazine di Samuel Curtis. Londra, 1832.
prima della maturazione e lasciato asciugare al sole, oppure verde, conservato immaturo in salamoia, sottaceto o trattato con anidride solforosa. La stessa bacca, raccolta matura e privata della corteccia, produce il pepe bianco, mentre se lasciata ancora sulla pianta acquista un colore rosso, che mantiene, anche in questo caso, solo se messa in salamoia o sotto aceto.
Nelle narici del faraone Il piú antico esemplare di pepe nero giunto fino a noi fu deposto dagli imbalsamatori nelle narici della mummia di Ramesse II (morto nel 1213 a.C.); ciò fa supporre che nel Nuovo Regno la spezia godesse di
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una precisa reputazione, se non gastronomica, almeno sacralecultuale. Sulla provenienza di quel granello di pepe si ipotizza che sia giunto tra le mani degli imbalsamatori dalle stive delle navi che commerciavano con l’India e l’Arabia, forse proprio da quella «Terra di Punt» da cui si importavano prodotti esotici come l’incenso, la mirra e la cannella. Né il Papiro Ebers, né lo Smith sembrano menzionare il pepe tra le centinaia di erbe e spezie utilizzate all’epoca per fini magici, rituali o medicali; va tuttavia sottolineato che per molte delle sostanze rubricate nei due papiri non è stata ancora trovata una decifrazione univoca; resta il fatto che a oggi ignoriamo ogni altro uso del pepe nell’Antico Egitto, almeno fino all’epoca tardo-tolemaica. Su entrambe le specie, il longum e il nigrum, vi sono prove scritte di un fiorente commercio via terra dall’India alla provincia cinese del Sichuan nel II secolo a.C., cosí come è menzionato nelle storie della dinastia Han del III secolo a.C. e della dinastia Tang quattro secoli piú tardi. Inizialmente portato in Cina per scopi medicinali, in breve tempo trovò una sua precisa e notevole importanza come spezia alimentare. Non va dimenticato che per quasi mille anni dopo il crollo di Roma, il Mediterraneo poté accedere al pepe e ad altre spezie solo grazie agli intermediari arabi – veri padroni dei mercati internazionali fin dal VI secolo –, che accumulavano l’esotica (e per gli Europei ancora misteriosa) spezia indiana nei
porti del Levante per rivenderla ad armatori e mercanti che la portavano sui mercati europei. Gli stessi Veneziani, per quanto scaltri e privi di scrupoli commerciali, dipesero per secoli dai mercanti arabi (ma anche greci e persiani) per poter piazzare le «loro» spezie nelle corti, nei monasteri, nelle farmacie e nelle cucine d’Europa.
Al tempo delle crociate Durante i due secoli delle crociate, i cristiani che marciavano per Dio e per la gloria, quando non combattevano contro gli infedeli, facevano la conoscenza con i saponi di Aleppo e l’acqua di rose (gülab o giulebbe), provavano nuovi gusti, sperimentavano aromi e profumi mai sentiti prima, assaggiavano piacevoli miscugli di spezie come lo za’atar libanese, il baharat siriano, l’advieth persiano, senza mai dimenticare che al centro del loro interesse commerciale troneggiava comunque il pepe. Erano i secoli di maggior presenza di mercanti e marittimi arabi nelle terre che lo producevano, Malabar e Kerala in testa, governate dagli zamorin (samoodiri in lingua malayalam), che nel 1100 trasformarono Calcutta nella capitale mondiale del pepe. Quando Venezia noleggiava le proprie navi per il trasporto dei crociati fino ad Acri, Tiro o Ascalona, non tornava mai indietro a stive vuote, ma le riempiva con tutte le spezie che i loro agenti riuscivano ad ammassare in quei porti tra un carico e l’altro di soldati. Si è stimato che dalle coste libanesi alla volta di Rialto partissero nel
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CALEIDO SCOPIO XII secolo fino a 1000 tonnellate di pepe all’anno. Genova non fu da meno nel procacciarsi quell’«oro nero» che giungeva a Beirut, Tripoli e Alessandria, tanta era la bramosia del pepe in patria; basti pensare che nel 1101, quando i soldati di Caffaro di Rustico presero il porto di Cesarea, rifiutarono di essere pagati con lingotti o denaro e pretesero sacchetti di pepe. Cristiani ed Europei sapevano molto poco sull’origine del pepe. Pensavano che fosse originario dal regno del Presbyter Iohannes (Prete Gianni), un leggendario sovrano cristiano orientale che nei poemi del ciclo bretone è ricordato come custode del Santo Graal. Si riteneva che i suoi sudditi vagassero felici in un Eden terrestre pieno di foreste di pepe, tracannando vini pepati da calici di pietre preziose.
Miniatura raffigurante schiavi intenti al raccolto del pepe, dal manoscritto del Livre des merveilles (piú noto come Il Milione) di Marco Polo illustrato dal Maestro della Mazarine. 1410-1412. Parigi, Bibliothèque nationale de France.
Un frutto paradisiaco Gli Arabi avevano da lungo tempo fatto girare una dissuasiva leggenda sull’origine della nera spezia: giuravano che crescesse dietro enormi cascate d’acqua, in caverne nelle quali si annidavano serpenti velenosissimi, a loro volta protetti da draghi sputafuoco che si alimentavano della piccantissima spezia. Anche la stragrande maggioranza dei musulmani credeva che il pepe fosse un frutto di qualche paradiso o che fosse stato generato dalle lacrime versate da Adamo dopo che Dio lo aveva esiliato nello stesso fango con cui fu creato. I pochi Arabi che conoscevano il segreto chiamarono quella terra Malabar (unendo il vocabolo dravidico mala = montagna all’arabo barr = terra) ovvero «terra delle montagne». Fino al viaggio di Marco Polo (1271-1295), le conoscenze «cristiane» sull’Estremo Oriente in generale e sull’origine del pepe in particolare, si basavano su antiche fonti greche e romane. Il Veneziano fu il primo a riportare in Europa
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informazioni di prima mano sulla Cina e a riferire di «7459 isole» giacenti a est del «Mare di Chin»: «Non ce n’è una di quelle isole che non produca legni pregiati e odorosi come la lignaloe, sí, e anche meglio; e producono anche una grande varietà di spezie. Ad esempio, in quelle isole cresce il pepe bianco come la neve, cosí come il nero in grandi quantità. In effetti, le ricchezze di quelle isole sono qualcosa di meraviglioso, sia in oro che in pietre preziose, o in ogni sorta di spezie; ma sono cosí lontani dalla terraferma che è difficile raggiungerli». Marco raccontò a Rustichello da Pisa di un arcipelago che includeva le Filippine, l’isola di «Giava la Grande» e Sumatra, chiamata
«Giava la Minore»: «L’isola [Giava] è di straordinaria ricchezza, producendo pepe nero, noce moscata, nardo, galingale, cubebe, chiodi di garofano e tutti gli altri tipi di spezie». Nel Milione vengono descritte anche diverse isole e arcipelaghi nell’Oceano Indiano, come le Nicobare, le Andamane, Ceylon, fornendo un quadro della costa indiana piú completo e puntuale rispetto alle fonti antiche. Quanto alle Molucche e alle Isole di Banda, il primo europeo a segnalarne l’esistenza fu Poggio Bracciolini (1380-1459); la sua è una descrizione geograficamente imprecisa, che situa le due isole a quindici giorni di navigazione a est novembre
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di Giava e Sumatra: «E sono chiamate Sandai, in cui crescono noce moscata e macis; l’altro si chiama Bandan; questa è l’unica isola in cui crescono i chiodi di garofano, che vengono esportati nelle isole di Giava». Nel celebre mappamondo genovese del 1457 è raffigurata una nave a tre alberi nell’Oceano Indiano, vicino alla quale il cartografo pone una legenda che recita: «[queste navi sono] cariche in particolare di spezie e altri aromi, navigando piuttosto spesso verso la Mecca in Arabia, e commerciano con i mercanti occidentali attraverso uno scambio delle loro merci». Altre due legende sono riferite a Ceylon («produce cannella da alberi simili al nostro salice») e alla misteriosa
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Taprobana – poco piú che uno scoglio davanti alle coste dello Sri Lanka – dove «habbi abbondanza di pepe, canfora e molto oro».
Quantità esorbitanti Sempre dal Milione apprendiamo che nella Cina di Kubilai Khan il pepe era un componente importante della cucina e della medicina, e che il commercio del «pevere» aveva notevoli ricadute sul bilancio di molte province. Un funzionario della dogana di Hangzhou riferí al Veneziano che solo in quella città se ne consumavano 43 carri al giorno, ciascuno del peso di 223 libbre (101 kg) e che quel pepe proveniva da
Giava e Sumatra a bordo di giunche cinesi che ne trasportavano fino a 6000 ceste ciascuna. Durante la dinastia Sung (1271-1367), era consuetudine per i diplomatici dell’Asia meridionale portare tributi in pepe ai governanti cinesi. I cronisti inglesi e del Centro Europa del XII e XIII secolo hanno fatto spesso riferimento all’uso di pepe tra i ricchi e i benestanti. La sua rilevanza ostentatoria era tale che non solo se ne faceva smodato uso nelle cucine, ma vassoi colmi di spezie venivano portati tra i tavoli, per far sí che ogni ospite scegliesse come insaporire il suo piatto, peraltro già riccamente speziato. Attorno al 1180 a Londra era
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CALEIDO SCOPIO Tavola raffigurante la raccolta del pepe nella Guyana. Fine del XIX sec. In basso pepe nero in grani e macinato.
sorta la Guild (corporazione) dei London Pepperers, mercanti di pepe e altre droghe a cui re Enrico II Plantageneto aveva accordato licenza di fissare il prezzo, stabilire la purezza e verificare i pesi delle spezie nei mercati. Il cronista di corte di re Riccardo I d’Inghilterra riporta che, quando Guglielmo I di Scozia fu ospite del sovrano nel 1194, i servitori di palazzo ebbero l’ordine di fargli trovare ogni giorno nei suoi appartamenti 2 libbre del miglior pepe. A quell’epoca andava molto in voga tra i nobili d’oltremanica la lampreda cotta alla brace e servita letteralmente coperta da una spessa salsa pepata; ne era ghiottissimo re Enrico I, che nel 1135 morí dopo averne consumato un quantitativo esagerato. Ancora nel 1475, quando a Landshut si celebrarono le nozze
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tra Giorgio il Ricco, duca di Baviera, ed Edvige di Polonia, gli invitati al favoloso banchetto consumarono 386 libbre di pepe.
Sapori forti Si narra che Rosmunda, dopo essere stata costretta da Alboino a bere nel teschio paterno, cadesse in un tale stato depressivo da non mangiare per giorni. Il re longobardo chiese allora al cuoco di corte di risvegliare l’appetito della consorte; si dice riuscisse nell’intento grazie al
sapore deciso e travolgente di una salsa al pepe. Al di là della leggenda, l’Italia longobarda e franca amava i sapori «teutonici», forti, corroborati dal piccante della senape, del rafano e, ovviamente, del prezioso pepe. Lo testimoniano due salse medievali tuttora presenti nei ricettari padani: la pearà veronese, in cui il pepe nero si sposa a midollo di bue e pangrattato, e la peverada trevigiana, a base di fegatini di pollo, soppressa, acciughe, aglio e abbondante pepe, per farla, come scriveva Maestro Martino da Como, «tanto piú bella quanto piú nera». Quanto alla sauce poivrade francese, i nostri cugini d’Oltralpe la ritengono figlia legittima di Taillevent (13101395) capocuoco di re Carlo V di Francia, che certo aveva profonda conoscenza della letteratura «apiciana» in cui compaiono innumerevoli piperatae. Gli studiosi hanno a lungo dibattuto sul motivo per cui il pepe sia diventato straordinariamente «necessario» nella cucina medievale; sicuramente non per mascherare il sapore di carni guaste o addirittura in decomposizione, visto che il prezzo di pochi grani di pepe superava quello di qualche libbra di carne, ma anche perché quasi tutti gli statuti annonari e gli ordinamenti corporativi, tra il XII e il XV secolo, proibivano a beccai e macellatori di vendere carni, lardi e grassi con piú di due giorni dall’abbattimento degli animali. Circa
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la proprietà conservante del pepe, va rimarcato come il suo effetto sarebbe stato ben inferiore (e molto piú dispendioso) rispetto alle comuni pratiche di salagione o affumicatura. Si potrebbe pensare che l’utilizzo di cibi molto speziati sia stato alimentato dalle teorie mediche di Ippocrate e Galeno, dagli scritti di Celso o dai dettami del Regimen Sanitatis di Salerno, ma non abbiamo motivo di credere che i commensali medievali si attenessero a diete sane piú di quanto non si faccia oggi.
Un’offerta insoddisfacente Il 20 maggio 1498 Vasco da Gama sbarcò a Calcutta, determinato a ottenere tutto il pepe che poteva trovare. Lo guidava un illustre navigatore yemenita o omanita, Ahmad al-Najdi, che quella rotta conosceva molto bene per averla percorsa piú volte coi mercanti arabi. L’ammiraglio fu accolto con grandi onori dallo zamorin (Samutiri Manavikraman Rajá), al quale prima decantò la grandezza e la potenza del re del Portogallo e poi offrí dieci cappelli, quattro collane di corallo, sei bacinelle di stagno, una scatola di zucchero, due barili d’olio e altrettanti di miele, in cambio di un cospicuo carico di pepe. Il governatore rifiutò pacatamente il baratto, aggiungendo che anche il piú povero dei mercanti della Mecca gli pagava il suo pepe cento volte tanto in lingotti d’oro. All’uomo che per primo aveva collegato via mare l’Oriente e l’Occidente non rimase che salpare da Calcutta portando con sé solo il piccolo campionario di pepe e spezie che aveva potuto acquistare con i pochi oggetti preziosi di cui disponeva. Riuscí tuttavia a far firmare dal Rajà un trattato commerciale che garantiva ai Portoghesi il diritto di acquistare pepe e spezie indiane dagli zamorin a un prezzo vantaggioso per entrambi. Finiva cosí il monopolio musulmano sulle spezie e, per
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logica conseguenza, anche quello dei mercanti veneziani. Il mercato del pepe rimase sostenuto in Europa fino alla metà del XVII secolo, poi andò declinando a causa dell’apertura di nuove rotte commerciali su cui viaggiavano caffè, cacao, tabacco e aromi che trasmettevano un piú «moderno» senso di privilegio ed esclusività. Se l’abbondante offerta di spezie sul mercato ne aveva fatto crollare i prezzi, il gusto del piccante era ora alla portata di tutti grazie all’adattabilità del peperoncino portato dalle Americhe e splendidamente adattatosi al clima mediterraneo. Quanto al pepe in grani che si trova nei nostri supermercati – quello già macinato non merita nemmeno
La raccolta del pepe in una tavola realizzata per l’opera L’histoire, la vie, les moeurs et la curiosité (1927) di John Grand-Carteret e ispirata a una incisione originale del XVI sec. uno sguardo... – la stragrande maggioranza delle boccettine e delle buste contiene un prodotto quasi sempre di bassa qualità, con grani piccoli e semivuoti, di colore non uniforme, talvolta vecchi di anni, dall’aroma debole, privo di note distintive al di fuori di una monotona e grossolana piccantezza. E allora, visto che cinquanta grammi di ottimo pepe costano meno di un pacchetto di sigarette, perché negarsi un Sarawak, un Talamanca, un Kampot o un Lampong degni di un re?
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Quando i santi prendevano le armi
I prodigiosi bastoni di due umili contadini di Paolo Pinti
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riginario probabilmente di Montefalco (Perugia), san Fortunato visse tra il IV e il V secolo e fu presbitero a Turrita, località vicina alla sua città natale a Montefalco, nella chiesa di S. Maria. Ne parliamo per due ragioni: la prima è naturalmente la presenza di un’arma nelle sue raffigurazioni e la seconda perché fu un santo che aveva sempre lavorato come contadino, una circostanza decisamente rara, se non rarissima. La leggenda della sua vita è opera del longobardo Audelao ed è lui a raccontare che un giorno Fortunato, mentre zappava la terra, rinvenne due vecchie monete, senza apparente valore, ma le raccolse e le mise in tasca. Nel rincasare, incontrò un povero e gli volle donare queste monete, giacché altro non aveva. Alla luce del tramonto le due monete brillarono come oro, ma Fortunato, temendo di incorrere in quello che riteneva il peggiore peccato del mondo, l’avarizia, le mise entrambe nella mano del povero e proseguí il cammino. Lo si ritiene morto nel 390 circa e i fedeli, da sempre colpiti dalla sua umiltà, raccolsero la «verga» con la quale guidava i buoi al pascolo: questa prese vita, mettendo radici,
rami e foglie e trasformandosi in un leccio frondoso. Racconti locali vogliono che l’albero, ormai quasi secco, fu sradicato dalla neve e dal vento nel 1870; al suo posto ne fu piantato un altro, ancora esistente. Alcuni anni dopo la morte del santo, il magister militum (in pratica un generale dell’esercito romano) Severo, civis Martanus, a seguito di una grazia ricevuta, fece costruire una basilica in suo onore, un chilometro a sud di Montefalco, in località Turri (da non confondere con Turrita), che il vescovo spoletino Spes consacrò l’8 agosto 422, e nella quale venne deposto il corpo del santo.
Una verga multiuso L’iconografia di Fortunato lo vuole in abiti sacerdotali, mentre tiene in mano un libro e la famosa verga fiorita. E proprio di questa ci occupiamo, perché non si tratta di una semplice verga, come quella spesso associata a san Giuseppe, bensí di uno stimulare, cioè di un’asta di legno o di canna dolce, lunga un paio di metri, fornita a un’estremità di una cuspide acuminata in ferro e, dalla parte opposta, di una sorta di spatola/ raschietto, piuttosto robusta, di
forma grosso modo trapezoidale, atta a raschiare la terra attaccata all’aratro. Era questo un attrezzo agricolo utilizzato da chi guidava bovini o aratri, utile per pungere e incitare gli animali, come poteva farsi con la frusta, ma anche per pulire l’aratro. Una pratica evocata anche da Giosuè Carducci, nella poesia Il bove, quando dice: «Ei t’esorta e ti punge, e tu co’l lento / Giro de pazienti occhi rispondi», alludendo, appunto, allo stimulare. Si trattava in sostanza di uno strumento di tortura, al pari degli sproni per il cavallo, ma qui c’interessa l’altra estremità, quella che somiglia a un raschietto, chiamata rella, rosella o rascella, ma anche ralla, un termine derivato dal latino rallum, che, a sua volta, discende da radulum, dal verbo radere, cioè raschiare. Ma perché occuparsi di un attrezzo agricolo in uno spazio dedicato a santi aventi a che fare con le armi? La risposta è semplice: lo stimulare veniva considerato come un’arma impropria, che non poteva essere portata senza giustificato motivo, sotto pena di pesanti sanzioni. Una prescrizione che tuttora si può incontrare nell’art. 4, comma 2, della Legge n. 110 del 18/04/75.
Nella pagina accanto Madonna in trono con il Bambino e i Santi Antonio di Padova, Bernardino da Siena, Francesco d’Assisi, Fortunato, Ludovico da Tolosa e Severo, dipinto su tavola di Francesco Melanzio. 1498, Montefalco, Pinacoteca Civica. Il santo col mantello rosa tiene in mano un’asta terminante in basso con una ralla di ferro mentre in alto – dove in origine era fissata una punta in ferro – c’è un alberello fronzuto. A destra il particolare della ralla all’estremità dell’asta di Fortunato.
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In alto Madonna in trono con Santi Sebastiano, Fortunato, Severo e Chiara da Montefalco, polittico, dipinto su tavola di Francesco Melanzio. 1488. Montefalco, Pinacoteca Civica. Anche qui il santo impugna lo stimulare, con la ralla in ferro nella parte inferiore e con quella superiore trasformata in alberello. La norma prevede che: «Senza giustificato motivo, non possono portarsi, fuori della propria abitazione o delle appartenenze di essa, bastoni muniti di puntale acuminato, strumenti da punta o da taglio atti a offendere, mazze, tubi, catene, fionde, bulloni, sfere metalliche, nonché qualsiasi altro strumento non considerato espressamente come arma da punta o da taglio, chiaramente utilizzabile, per le circostanze di tempo e di luogo, per l’offesa alla
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A sinistra particolare della ralla, qui molto svasata.
persona». In parole povere, uno stimulare sarebbe anche oggi uno strumento «atto a offendere», conosciuto anche come «arma impropria». Non è difficile intuire
quali possono essere (e sono davvero) le conseguenze aberranti di tale normativa: se, per esempio, sto andando a fare un picnic a base di salame e ho con me un novembre
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coltello, non ci sono problemi, perché, nel caso di un controllo di polizia, posso facilmente dimostrare il «giustificato motivo» (affettare il salame). Al ritorno, però, dopo aver consumato il salame, il possesso del coltello può essere ritenuto ingiustificato e si rischia una condanna penale (la denuncia è sicura).
Eccezioni alla regola Questa assurdità non è nuova, ma è figlia di leggi vecchie di secoli. Lo studioso Raoul Paciaroni, riferisce, per esempio, che a San Severino Marche (Macerata), agli inizi del Quattrocento, molti contadini che tornavano in città dai campi, portando con sé il falcione, attrezzo squisitamente agricolo, utilizzato per tagliare cespugli e altro, erano stati denunciati per tale motivo: la cosa era talmente illogica e priva di senso che vi furono molte proteste e il problema fu portato al Consiglio Generale, che, nella seduta del 18 luglio 1428, chiarí che tali attrezzi potevano essere portati anche al ritorno verso casa. Poiché l’articolo della vigente legge italiana sopra riportato prevede espressamente, fra gli altri, i bastoni muniti di puntale acuminato, non c’è alcun dubbio che il porto dello stimulare verrebbe vietato, senza giustificato motivo: cioè, senza buoi da condurre. La scomparsa dei bovini dalle nostre campagne comporterebbe, quindi, l’illiceità di tale porto, ma, fortunatamente, è venuta parimenti meno la necessità di usare lo stimulare. Secoli fa, in verità, un lungo bastone (forse sarebbe piú corretto parlare di «asta») munito di una cuspide di ferro appuntita costituiva il valido
Miracolo di sant’Isidoro (particolare), olio su tela di Giulio Lazzarelli. 1645 circa. San Severino Marche, chiesa di S. Maria del Glorioso. Lo stimulare ha la ralla all’estremità inferiore e un pungolo in alto (non compreso in questa riproduzione).
Punte in ferro, sicuramente destinate a munire l’estremità di un’asta di legno, come quella di uno stimulare. Con tale elemento si pungolava la parte posteriore dei buoi, per incitarli allo sforzo. L’altra estremità era munita di una sorta di raschietto, detto ralla, per mezzo del quale si puliva l’aratro dalla terra che vi rimaneva attaccata. San Severino Marche, Collezione privata.
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succedaneo di una lancia (piú esattamente, di uno spiedo da fante) e poteva essere utilizzato in occasione di scontri, come accadde, anche in questo caso, a San Severino Marche, il 17 giugno 1471, quando si difesero dai nemici «huomini e gente armata et huomini che stavano a lavorare con li stombulari», altro modo di chiamare gli stimulari.
Il dettato degli Statuti È bene rilevare che anche la parte non aguzza, la ralla, veniva presa in considerazione dalle leggi dell’epoca come ferro comunque atto a offendere e, come tale, è menzionato, per esempio, nello Statuto di Serrapetrona (Macerata) del 1473, nel quale si elenca fra le armi la «rascella ferrata», cioè la ralla. Altrettanto vale per lo Statuto di Castignano (Ascoli Piceno) del 1580, in cui si elenca fra le armi vietate la «rallam ferratam». Lo stimulare entra insomma di diritto nel campo delle armi, anche se «improprie» e merita d’essere qui trattato, oltre che
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CALEIDO SCOPIO In basso xilografia realizzata per un’edizione dell’opera di Pietro de’ Crescenzi De Agricultura, stampata a Venezia nel 1495. Pur nella essenzialità della raffigurazione, è ben riconoscibile lo stimulare, provvisto di ralla e pungolo.
Isidoro stava soffrendo una terribile sete, ma il santo ne ebbe pietà e con lo stimulare, servendosi della ralla, toccò il terreno e ne fece scaturire una sorgente, sentenziando: «Quando Iddio volesse, qui ci sarebbe acqua». Ed è in questa scena che i pittori lo raffigurano.
Una canonizzazione tardiva Il 15 maggio 1130 Isidoro morí e divenne subito oggetto di venerazione, con tanto di edificazione di chiese, ma senza che venisse canonizzato: cosa alla quale provvide il papa Gregorio solo il 25 maggio 1622, elevandolo agli altari insieme addirittura a Filippo Neri, Teresa d’Avila, Ignazio di Loyola e Francesco Saverio. A dimostrazione
In alto ralle in ferro. San Severino Marche, Collezione privata. Si vede bene la gorbia (la parte nella quale veniva infilato il bastone/manico, a volte di canna dolce) fatta «a cartoccio», come quella delle armi in asta. È ben visibile anche il foro nel quale passava un chiodo per fissare il ferro al manico. per la vicenda di san Fortunato, anche per sant’Isidoro: in entrambi i casi, infatti, l’attrezzo diviene protagonista assoluto della storia e non è un mero richiamo simbolico. Questo atipico e raro attributo accomuna Fortunato e Isidoro, lontani nel tempo se non geograficamente, a testimonianza del loro umile lavoro nei campi, ma anche di miracoli che coinvolgono lo stimulare. Dopo avere riassunto le gesta di Fortunato, ecco dunque un breve profilo di sant’Isidoro Agricola (1070 o 1080-1130), noto anche come Isidoro l’Agricoltore (Isidro Labrador in spagnolo) e che, come il primo, lavorò sempre la terra, da umile agricoltore. Quando gli Almoravidi conquistarono Madrid, si trasferí a Torrelaguna e qui sposò Maria Toribia, che fu beatificata nel 1697. Il personaggio è legato a tre miracoli
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in particolare: il primo è quello del salvataggio di un bambino caduto in un pozzo, effettuato facendone salire le acque; il secondo vede gli angeli arare un terreno al posto di Isidoro, in modo che questi potesse pregare liberamente. Il terzo, il piú conosciuto, è quello che vede protagonista lo stimulare, anzi la ralla: in un periodo di grave siccità, tutte le fonti e le sorgenti si erano inaridite, cosí che il padrone di
di quanto elevata fosse la considerazione di cui godeva questo umile santo, oggi praticamente sconosciuto. Per le riproduzioni fotografiche dei dipinti nei quali compaiono sant’Isidoro e gli strumenti agricoli ci si è avvalsi dell’importante e approfondita opera di Raoul Paciaroni Un’arma dei bifolchi e dei contadini sanseverinati (Tipolitografia C. Bellabarba, San Severino Marche 2010). novembre
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Lo scaffale Brunetto Latini Il Tesoretto
a cura di Giorgio Inglese,
Carocci editore, Roma, 202 pp.
21,00 euro ISBN 978-88-290-2714-9 www.carocci.it
Già curatore di edizioni critiche del Principe di Machiavelli e della Commedia dantesca, Giorgio Inglese si cimenta qui con il Tesoretto di Brunetto Latini, che questi scrisse con ogni probabilità all’indomani della
battaglia di Montaperti (1260) e che, rimasto incompiuto, fu concepito sulla falsariga del Trésor, composto dall’autore durante l’esilio in terra francese. L’edizione vera e propria del testo – che conta quasi tremila settenari – si basa sul riesame di cinque codici manoscritti dell’opera ed è preceduta da un profilo biografico di Latini e dalle note critiche al Tesoretto,
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unite all’illustrazione del metodo adottato nella stesura di questa sua nuova edizione. Apparati che permettono di calarsi nel complesso contesto storico e culturale in seno al quale l’opera prese forma e aiutano a dettagliare la vicenda umana e professionale di uno dei personaggi di maggior spicco del Duecento italiano. Brunetto Latini, infatti, fu riconosciuto come insigne maestro di retorica già dai contemporanei – emblematiche, a riguardo, le parole scelte per il suo necrologio da Giovanni Villani –, ma, per esempio, fu anche coinvolto nelle convulse lotte fra guelfi e ghibellini. La rilettura del Tesoretto offre dunque la visione in filigrana di un mondo dai confini assai piú vasti di quelli della sola letteratura. Stefano Mammini Juanita Feros Ruys Demoni nel Medioevo traduzione di Marcello
Grifò, Officina di Studi Medievali, palermo 190 pp., ill. col. e b/n
16,50 euro ISBN 978-88-6485-170-9 www.officinastudimedievali.it
Pubblicato per la prima volta nel 2017, giunge
in traduzione italiana il saggio nel quale la storica del Medioevo Juanita Feros Ruys ha scelto di esplorare il mondo dei demoni. E lo fa ripercorrendo oltre millecinquecento anni di storia delle diaboliche creature, a cominciare dalle interpretazioni dottrinali messe a punto nei secoli del primo cristianesimo. Cuore della trattazione è dunque il millennio medievale, epoca nel corso della quale il diavolo e i suoi accoliti furono presenze costanti, spesso incombenti, nell’immaginario collettivo e nella vita di ogni giorno, anche per via delle parole di fuoco con le quali i predicatori mettevano in guardia i credenti dalle tentazioni e da peccato. Visioni del mondo giocate sull’inevitabile contrasto fra il Bene e il Male e alle quali erano dunque funzionali le creature
demoniache. Come l’autrice non manca di ricordare, la lotta al maligno, pur animata da nobili e pie intenzioni, si trasformò nel prologo a una delle pagine nere della storia medievale (ma non soltanto): quella della caccia alle streghe, delle cui vittime si riconobbe solo a posteriori la natura tutt’altro che diabolica. Ma, del resto, i demoni hanno sempre esercitato suggestioni e paure e non è difficile vedere nel quadro storico proposto dal volume l’origine di fenomeni che connotano anche la società contemporanea. S. M.
sono i corzetti, «una pasta – come scrive l’autrice – dalla storia plurisecolare, contesa e incredibilmente ingarbugliata». Gli ingredienti, è il caso di dire, ci sono dunque tutti per destare curiosità e dedicarsi alla lettura del libro, che si apre risalendo all’epoca di Federico II di Svevia, quando, nel Liber de coquina, s’incontra la prima ricetta a oggi nota dei crosetis. Dalla corte dello
Chiara Parente I corzetti
Edizioni Epoké, Novi Ligure (Alessandria), 116 pp.
16,00 euro ISBN 978-88-31327-91-6 https://edizioniepoke.it
Firma ben nota ai lettori di «Medioevo», Chiara Parente ha dato alle stampe un volumetto che offre l’ennesima conferma di quanto anche le tradizioni culinarie, al di là di mode o recuperi piú o meno filologici, siano una delle molteplici espressioni della cultura. Protagonisti della trattazione
stupor mundi prende dunque le mosse un viaggio avvincente e divertente, nel quale Parente alterna le notazioni storiche alla trascrizione di ricette di cui i corzetti sono protagonisti. Notizie a cui si affianca la costante descrizione delle varianti regionali di questa pasta, che, dovette godere di un notevole successo e che merita senz’altro di tornare in auge. S. M. novembre
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TURCHIA
civiltà dell’anatolia guida ai musei archeologici
Nei confini della moderna Turchia è conservato un patrimonio archeologico di eccezionale ricchezza, esito di una frequentazione cominciata in età preistorica, molti millenni prima dell’era cristiana. Sono dunque innumerevoli le testimonianze che ancora oggi si possono vedere, in località i cui nomi, fin dall’antichità, divennero noti a tutti, trasformandosi in sinonimi di leggenda, come Troia o Efeso. E quasi ovunque, accanto agli scavi, ai resti imponenti di edifici civili e religiosi, a teatri o a poderose fortificazioni, sorgono musei che custodiscono opere d’arte e reperti recuperati a seguito di esplorazioni avviate ormai da oltre un secolo. Collezioni a cui si uniscono le grandi raccolte nazionali, come quelle di Istanbul e Ankara, grazie alle quali si può ripercorrere l’intera vicenda delle molte civiltà succedutesi in terra anatolica. Storie avvincenti, che fanno da filo conduttore del nuovo Speciale di Archeo, pensato per accompagnare il lettore alla scoperta di un palinsesto davvero ricco ed estremamente variegato, nel quale si spazia dagli insediamenti stratificati delle prime comunità urbane agli eleganti mosaici di Zeugma, dalle strabilianti manifatture in bronzo rinvenute nelle tombe di Alaçahöyük agli enigmatici monoliti di Göbeklitepe... Tasselli di un mosaico di culture che hanno giocato ruoli di primo piano nella storia del mondo antico.
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